Un’auto-intervista, questo l’appuntamento per il numero presente di Condivisione Democratica, ma da buona “condividente” decisamente democratica, risponderò solo brevemente ad un paio di domande che abbiamo ricevuto al mio filo diretto, per poi passare ad un’intervista che mi è capitato di fare in un luogo particolare. Le due cose sono in realtà strettamente collegate. Dunque la prima domanda:
“Loretta, ho letto della battaglia che stai portando avanti riguardo l’ingiusta detenzione di tuo figlio Giacomo. Poi leggendo altre notizie precedenti apprendo del tuo attivismo contro il razzismo. Tuo figlio è di colore, nessuno hai mai posto l’attenzione su questo fattore, la parola carcere collegata a uomo nero? Scusa se in un momento di tuo grande dolore sono stato così diretto, Marco.”
Sappi che mi ero effettivamente posta la questione ma, con mio estremo stupore e soddisfazione, forse ci sono meno italioti di quanto non appaia. No Marco, anche ospite in tv o in varie interviste, nessuno si è soffermato sull’etnia di Giacomo, che sottolineo, è mio figlio biologico, molto molto italiano, addirittura partorito in casa! Per fortuna quindi, non mi son dovuta dedicare a spiegare cose ovvie, come quella che spesso in una famiglia due fratelli sono come il giorno e la notte, di qualunque colore sia la loro pelle, e le strade che possono prendere spesso divergono di molto, come nel caso dell’altro mio figlio che si sta per laureare. Il valore umano del fratello meno “conforme” è paradossalmente a volte, più variegato e riccamente complesso, da cui deriva un percorso di vita più accidentato.
“Loretta Rossi Stuart, sei consapevole che senza il tuo cognome non avresti avuto nessuna risonanza rispetto all’ingiustizia che sta subendo tuo figlio? Ti comprendo come madre ma il vostro mondo patinato mi sembra troppo lontano, Stefania.”
Stefania cara, ti rispondo con le parole di una signora disperata che dopo avermi visto in una trasmissione, mi ha scritto:
“Buona sera, io mi chiamo………, mi ha colpito la sua storia, vorrei u informazione in merito a mio nipote M………, (ha 22 anni) che ha lo stesso problema di bipolarismo, (disturbo di personalità e psicosi) in pratica lui fumava marijuana, che ha scatenato queste crisi, attualmente è ricoverato in psichiatria. Il problema è quando uscirà dall’ospedale, ci vuole una struttura idonea, e mia sorella non lo vuole più in casa, non so cosa fare!!! Si potrebbe lottare insieme per ottenere queste strutture idonee, per curarli, mi faccia sapere, anche solo un consiglio grazie, ha tutta la mia stima”.
Stefania, il poco che sto cercando di fare, ovvero attirare l’attenzione sulla problematica che va dalle droghe, alle comunità, alle strutture psichiatriche e, a volte, arriva a toccare il carcere, si, lo sto facendo a favore di altre persone, non solo per mio figlio. Il mezzo e il come non importa, so solo che ci vuole un grande coraggio e altrettanto desiderio di un mondo migliore. Il 12 novembre a Roma, presso la Fondazione Don Di Liegro, si svolgerà il convegno “Io combatto- dalla comunità alla r.e.m.s. passando per il carcere-Il viaggio di una madre nel buio delle istituzioni”.
Verrà proiettato un breve docu film sull’esperienza di Giacomo, girato da me con mezzi artigianali. Ma è un documento che vuole sensibilizzare le istituzioni su qualcosa che va portato avanti: l’importante riforma che ha portato alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, ma che deve procedere col suo iter, risolvendo il problema della mancanza di strutture e confusione di competenze.
Ma veniamo all’intervista che mi è capitata di fare in attesa di del colloquio con mio figlio avvenuta, dicevo, in un luogo particolare, nel carcere di Rebibbia: precisamente mi trovavo nella sala d’attesa del penitenziario, che ogni giorno ospita centinaia di visitatori, coloro che danno sostegno a chi è dentro. Sono soprattutto donne, di ogni estrazione sociale, dalla gitana alla signora curata e forse snob, che si trova però fianco a fianco con la popolazione più variegata e spesso denigrata. Viene a compiersi l’opera di una sorta di livella là dentro, e siamo tutti uguali, con storie e drammi su cui a volte si riesce a sorridere insieme. Dunque, mi trovo in attesa da ore, come sempre, e noto un ragazzo africano dal viso luminoso: mi sorride furbetto, dopo avermi colta a scattare furtivamente qualche foto col cellulare, alla sala piena di umanità e degrado. Allora vado da lui e gli dico “visto che mi hai beccata questo punto posso farti una foto fatta bene? Sai, devo scrivere un articolo, così poi mi dici come mai sei qui e mi parli un po’ di te…”. Ci sediamo e lo ascolto, non serve che gli faccia alcuna domanda ad Amadou, 26enne del Senegal, bel ragazzo, intelligente ed educatissimo. Inevitabile che si innesti in me un retropensiero, mentre ascolto la sua storia: una sorta di silenzioso confronto con mio figlio, poco più giovane, poco più chiaro di pelle, poco più alto, ma bello come Amadou e pieno di potenziale come lui. Solo che Amadou non ha perso la sua direzione, ha ben chiaro il suo obbiettivo e mi racconta: “Io sono in Italia da 4 anni, dopo essere atterrato su questo suolo ho pensato solo a lavorare. Non mi interessa uscire, andare a ballare, vedere ragazze. Io voglio aprire una mia attività nella mia terra, io appena ho i soldi necessari me ne torno in Senegal. Avevo ingranato bene col lavoro, ho lavorato in negozi importanti come uomo della sicurezza, ho fatto il modello e sono sempre stato affidabile, ma da quando Salvini ha gettato ombre su di noi, così in modo indiscriminato, solo perché abbiamo la pelle scura, le cose sono cambiate, è diventato più difficile trovare lavoro” mi mostra i suoi documenti, mi spiega dove abita, e poi mi sorprende nel descrivere la figura di Salvini e di chi segue la sua visione: “è solo questione di ignoranza, nel senso specifico del termine, lui ignora che l’umanità è sempre emigrata e sempre lo farà, ignora che quasi nessuno di noi vorrebbe fermarsi in Italia, ignora che per esempio a Marsiglia , e faccio un esempio di una città qualunque che non sia preistorica, per strada difficilmente trovi dei francesi, perché lì c’è il mondo intero! Loro, i Salviniani, hanno paura di perdere l’identità ma ignorano che coì restano indietro, risultano essere un popolo arretrato.”
Amadou si tira su una manica, si tocca il braccio e continua:” Io del colore di questa, sono orgoglioso e non lo cambierei per nessuna cifra al mondo, e se capita l’ignorante che dopo avermi dato la mano se la pulisce, io ho solo pena per questa persona.” Poi mi parla della droga, di come si dia per scontato che siano i neri a commerciarla. Lui mi spiega.” Si, per la strada, si, la manovalanza, ma hai sentito di africani che la portano da fuori? O che gestiscono tutto? Una stretta minoranza! No, sono gli italiani che li arruolano e li sfruttano. Dicono che in galera è pieno di stranieri, senti ora all’altoparlante quando ci chiamano per entrare al colloquio, su dieci quanti cognomi sono stranieri?” Io rispondo la verità, e ci avevo fatto caso anche io :” Vero Amadou, su dieci nomi forse due, ma anche dentro, nell’area comune di africani ne vedo pochissimi…”Dicendogli poi che io sono un attivista per l’uguaglianza e faccio parte di “Mamme per la pelle”, continuo ad indagare e chiedo:” ma tuo cugino che è dentro, mi hai detto perché vendeva borse per la strada, ha subito che tu sappia atti di razzismi in carcere, perché mio figlio mi dice che non succede”. Amadou mi spiega :”No dentro sono tutti fratelli, tuti uguali, devi rispettare certe regole ma c’è solidarietà”. Lo abbraccio, questo ragazzone che così giovane ha le idee così chiare e che più volte mi ripete: ”Io voglio guadagnare onestamente e tornamene in Africa”. E lì mi viene quasi da piangere perché penso a quanto sia possa essere dura per loro visto che lo è perfino per noi italiani, inseriti, ambientati, con le nostre conoscenze etc, e ugualmente in tanti stiamo a spasso o alla deriva. Penso che tanti di loro nelle condizioni disagiate in cui versano, a maggior ragione dopo il decreto Salvini e la chiusura dei centri di accoglienza, beh, penso che molti di loro hanno una gran forza e dignità, altri non hanno alternative, e altri ovviamene non hanno una rettitudine, così come una fetta della popolazione di qualsiasi etnia. Penso che dovremmo avere comprensione e basta, senza neanche dover risalire alle cause scatenanti ovvero al colonialismo di cui siamo responsabili.
Vado dentro, un ora a chiacchierare con mio figlio, che nell’area comune saluta a destra e a sinistra, c’è chi mi stringe la mano complimentandosi per la mia battaglia e chi fa la ramanzina a mio figlio e, guarda caso è un africano di mezza età con lo sguardo saggio e il fare gentile! Questa la sua raccomandazione a Giacomo che ha l’età dei suoi figli:” Mi raccomando, prima le parole, chiedi con gentilezza, nel caso reputi che stai subendo un’ingiustizia. Se le parole non funzionano passa ai fatti, ma che siano fatti ponderati. Prova con la comunicazione, impara prima a dialogare e vedrai che sarai ascoltato!
Saggezza africana in un giorno di ordinario colloquio a Rebibbia.