Incontro con Marta

Sono le 22 di un lunedì sera, anzi del lunedì sera prima di Natale, attendo Marta mentre preparo due calici di Valpolicella, dopo queste giornate intense in profumeria, è più che meritato. Marta, con il suo ciuffo colorato e lo sguardo vivace, sembra che non conosca il significato della parola “stanchezza”, entra in casa con il suo solito entusiasmo. Il cane le abbaia, il freddo pungente le è rimasto incollato addosso. Prendo il quaderno e la biro e ci accomodiamo. Iniziamo con un brindisi a noi. La ringrazio per avermi concesso questa serata, quest’intervista a cui tengo particolarmente. Marta, che passa le giornate insieme a me tra profumi, creme e prodotti di bellezza, in realtà inizia il suo lungo percorso come criminologa e contemporaneamente, sostenuta da una continua instancabile formazione, si occupa anche di uno sportello antiviolenza. Stasera, insieme, proviamo a scoperchiare questo “vaso di Pandora” come ama definirlo lei. 

Logo AIED (dal sito Web)

L’associazione per cui lavora è la AIED (Associazione Italiana Educazione Demografica), che ha sede a Roma, e nasce nel lontano 10 ottobre 1953 ad opera di un gruppo di giornalisti, scienziati e uomini di cultura, di diversa estrazione politica, ma con una comune ispirazione laica e democratica. 

Sul sito ufficiale dell’AIED (www.aied-roma.it) tra gli obiettivi posti troviamo:

• diffondere il concetto ed il costume della procreazione libera e responsabile;

• promuovere e sostenere iniziative rivolte a migliorare la qualità della vita ed a tutelare la salute della persona umana, a livello sia individuale che collettivo;

• combattere ogni discriminazione tra uomo e donna nel lavoro, nella famiglia, nella società, ed ogni forma di violenza sessuale e di violenza sui minori, fornendo assistenza e tutela -anche legale- alle persone che ne siano vittime;

• promuovere e realizzare attività di formazione e di aggiornamento professionale sulle tematiche dell’educazione sessuale del personale docente delle Scuole e degli Istituti di istruzione di ogni ordine e grado, promuovendo altresì corsi di educazione sessuale per alunni e genitori.

La AIED si occupa inoltre di vari progetti nelle scuole primarie, come il riconoscimento delle emozioni, l’educazione affettiva, il riconoscimento dell’altro (empatia). Progetti che secondo Marta andrebbero fatti ovunque. 

Immagine dal Web


Marta, tu fai un secondo “lavoro” bellissimo, e sono davvero contenta di poterne finalmente parlare con te. Lavori già da parecchi anni presso lo sportello antiviolenza dell’AIED, a Novara, l’unico centro antiviolenza dell’associazione.  Raccontami come funziona.

È principalmente uno sportello d’ascolto, che lavora in sinergia con il CAV (Centro Anti Violenza) gestito dal comune, a cui compete poi l’effettiva messa in protezione delle donne, perché banalmente è l’unico che ha i fondi per farlo. All’AIED arriva solo una piccolissima parte dei soldi stanziati dalla regione e naturalmente non sono mai sufficienti. Noi siamo 5 operatrici di sportello, di cui una assistente sociale (l’unica retribuita) e due psicologhe. Abbiamo un telefono, al quale siamo reperibili tutto il giorno, che teniamo a turno, mentre siamo raggiungibili fisicamente il lunedì dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 18 e giovedì dalle 9 alle 12, solitamente su appuntamento. 

C’è inoltre un numero nazionale, il 1522, che dà alle donne i riferimenti della zona, che può attivare comunità o gli alloggi del comune. Per quanto riguarda noi, la donna ci contatta e noi ci occupiamo di ascoltare le sue necessità per fare poi una valutazione sulla gravità della situazione e stabilire un piano per andare in contro alle sue esigenze e problematiche. Chiediamo alle nostre assistite quali siano le loro aspettative in merito a questi incontri, se vogliono mettere sé stesse e i figli al sicuro, se vogliono separarsi, o solo essere ascoltate. Si può poi continuare ad offrire uno spazio di ascolto, un aiuto psicologico o un aiuto legale, naturalmente gratuiti. In alcune occasioni riusciamo a creare un gruppo di auto mutuo aiuto, in cui le donne si confrontano e si supportano vicendevolmente, mediate dalla psicologa. In casi gravi, ci si rivolge alle forze dell’ordine, agli assistenti sociali o al CAV, che si attiva per la messa in protezione, attraverso alberghi momentanei, comunità o alloggi. 

Spesso vengono familiari o amiche a richiedere il nostro aiuto, ma abbiamo bisogno che sia la vittima a contattarci, altrimenti abbiamo le mani legate. Solo in caso di minori possiamo pensare di fare una segnalazione immediata agli assistenti sociali, che hanno poi la facoltà di intervenire. 

L’associazione è di per sé un consultorio, questo ci permette di auto-sovvenzionarci, in parte, ma anche di mantenere un profilo basso (non c’è scritto da nessuna parte che lì si trovi uno sportello antiviolenza). Questo consente alla donna di recarsi da noi in tutta tranquillità, anche nel caso venisse “controllata” dal marito/compagno. 

L’obiettivo principale per tutto il tempo in cui abbiamo in carico una donna vittima di violenza è, una volta garantita la messa in sicurezza, il suo EMPOWERMENT, ovvero la conquista della consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni, sia nell’ambito delle relazioni personali sia in quello della vita politica e sociale.

(Immagine dal Web)


Cos’è davvero la violenza sulle donne? Quando si pensa a questo si pensano a clamorosi fatti di cronaca, a donne picchiate, a ossa rotte e occhi neri.

Per spiegarlo con “leggerezza” diciamo, consiglio sempre di vedere il film “TI DO I MIEI OCCHI” di Iciar Bollain perché te lo fa capire prima attraverso le emozioni e poi sul piano razionale. E credo sia importante. Eliminare i pregiudizi per capire a fondo. 

La donna subisce violenza quando le viene esercitato potere, controllo, prevaricazione, quando viene agito l’annullamento della persona con superamento dei limiti e quando vi è squilibrio delle posizioni. La violenza domestica è ogni tipo di violenza fisica, psichica, economica e sessuale all’interno di una relazione affettiva attuale o passata. La violenza psicologica, il ricatto emotivo, le intimidazioni sono forme di violenza altrettanto pericolose della violenza fisica, perché minano l’autostima, l’identità, la personalità della vittima.  È un’azione reiterata nel tempo che porta la vittima ad una condizione di instabilità emotiva e mentale. Si basa su tecniche, spesso inconsce ma ben precise, di oppressione, privazione di potere, isolamento del partner da altri legami significativi e supportivi, costante svalutazione, derisione, gelosia, minacce ripetute di abbandono e annullamento. Si arriva a creare un vero e proprio clima di terrore (correlato ad un’alta percentuale di suicidi). La vittima cade gradualmente in una spirale di violenza che parte dall’intimidazione e dal controllo, si evolve nella svalorizzazione e nella segregazione, fino all’aggressione fisica e sessuale, per poi avere la riappacificazione (chiamata anche luna di miele) spesso innescata dalla minaccia della vittima di andarsene, e che passa inevitabilmente attraverso il ricatto dei figli. Si chiama ciclo della violenza perché ha una natura ripetitiva, in cui la fase ‘luna di miele” dura sempre meno perché il maltrattante teme l’abbandono, ed in effetti, è il miglior momento per la vittima per chiedere aiuto . 

Agita prevalentemente dagli uomini, è una delle più frequenti violazioni dei diritti umani presente in tutti i paesi, culture, etnie, classi sociali, livelli culturali e di reddito e fasce di età. Dal 20% al 50% delle donne ha subìto una qualche forma di violenza da parte di qualcuno dei componenti della cerchia familiare. Troppo spesso la violenza domestica non viene denunciata né documentata per diversi motivi, tra cui le convinzioni culturali, la paura delle ritorsioni, ma anche a causa di operatori non adeguatamente formati per registrare i dati in maniera conforme.

Chi si rivolge al vostro sportello? Qual è il profilo della donna vittima di violenza? E quale è il profilo del maltrattante? Quanta consapevolezza c’è dietro a ciascun ruolo? 

Allo sportello si rivolge una media annuale di 60 donne, quasi tutte del novarese. Hanno un’età media compresa tra i 45 e i 50 anni, di etnie diverse e che arrivano da contesti culturali ed economici molto diversi. Ci arrivano donne italiane come donne straniere, in egual misura e quasi tutte hanno figli. In comune hanno tanti anni di isolamento, denigrazione e sensi di colpa. La vittima vive in uno stato di tensione costante perché quello che all’inizio poteva sembrare l’uomo perfetto si trasforma in un trappola fatta di violenza inaspettata, perpetrata da colui che ha scelto la vittima come compagna di vita e sostiene di amarla.

La vittima sperimenta negli anni un crescente senso di inadeguatezza e di disorientamento, che non le permette di fronteggiare in maniera congrua i maltrattamenti, né di sottrarsi alla minaccia di violenza perpetrata costantemente dal partner. La teoria dell’attaccamento di Bowlby e gli approfondimenti sulle funzioni metacognitive contribuiscono a chiarire come la spirale, di cui abbiamo parlato prima, diventi stabile nel tempo e come le emozioni disfunzionali non regolate, tipo la rabbia e la paura, costituiscano i denominatori comuni nei legami di coppia violenti, a prescindere dalla storia di vita e dalle caratteristiche dei partner. La spirale della violenza è dominata dal senso di impotenza della vittima rispetto alla possibilità di modificare la situazione e di uscirne. La teoria dell’attaccamento evidenzia quanto la relazione violenta sia caratterizzata dal fatto che le vittime si sentano spesso legate ai loro partner abusanti. Sono le stesse situazioni di pericolo e paura ad attivare paradossalmente il sistema di attaccamento creando legami forti, anche quando la figura dell’attaccamento è la fonte stessa di minaccia. La vittima sente di non poter ricevere un trattamento migliore in altre relazioni e finisce per incolparsi dell’abuso subìto. Si crea una dipendenza che genera ansia nei confronti della separazione. C’è una grande difficoltà che non viene mai percepita dall’esterno. Molto spesso neanche i genitori o gli amici sono consapevoli di ciò che accade nell’ambito familiare della vittima. E quando c’è un tentativo di richiesta di aiuto spesso viene preso sottogamba, sminuito o addirittura la vittima rischia di essere accusata di essere “eccessiva”. Purtroppo le evidenze italiane parlano di una quota significativa di violenza familiare che resta in ombra, che non viene denunciata alle autorità e non conduce ad una richiesta di aiuto. Un fattore importante da considerare è la prevenzione : la possibilità di individuare il rischio di violenza nelle relazioni di coppia è nevralgica in quanto il fenomeno sta rappresentando una vera e propria emergenza sociale. 

Lo scopo principale dei maltrattanti è il totale controllo della donna. La violenza nasce da emozioni disregolate , carenza nella capacità di mentalizzazione e sintonizzazione. Le radici della distruttività vanno cercate nel fallimento della funzione difensiva dell’aggressività e nella fragilità del sé,  che può dar luogo a comportamenti violenti verso le parti vissute come minacciose. Ne deriva una perdita della capacità riflessiva, ovvero che considera l’altro come persona in grado di provare effettivo dolore o sofferenza psichica e/o fisica. In questa condizione il controllo degli impulsi aggressivi, che deriva in buona parte dallo sviluppo di capacità empatiche e di identificazione, viene annullato. 

Da questo puoi facilmente dedurre quanto in realtà manchi la consapevolezza in entrambi i casi.

Esiste un centro a Torino, che si chiama “Il Cerchio Degli Uomini” che offre una sorta di prevenzione della violenza domestica, ma come puoi immaginare l’affluenza è nettamente inferiore rispetto al corrispettivo femminile. E la partecipazione è assolutamente volontaria. Quando invece bisognerebbe fare molta più prevenzione, partendo soprattutto da alcune categorie sociali, prettamente maschili e che sono in possesso di potere e armi. La sensibilizzazione e l’educazione alle emozioni fin dall’infanzia sono strumenti fondamentali in questa battaglia. 

Prima hai detto che quasi tutte le donne che si rivolgono allo sportello hanno figli. So bene che questo è l’argomento che più ci sta a cuore. Nell’immaginario collettivo i figli sono quella cosa che va accudita e protetta dai mali del Mondo. Come crescono questi bambini? 

Nel caso dei bambini si parla di violenza assistita intra-familiare, che è l’esperienza di qualunque forma di maltrattamento (fisico, verbale, economico, sessuale) subita da una figura affettivamente significativa (genitori, fratelli, nonni…). Può essere diretta, e vedere il bambino presente agli episodi di violenza, o indiretta, in cui il bambino ne percepisce gli effetti attraverso i segni fisici o comportamentali (paura, ansia, panico). I bambini, nel vedere i genitori, o le figure di riferimento, da cui dipendono, provano disorientamento e paura. Perché hanno, da una parte, una figura minacciosa e violenta e dall’altra disperata, impotente e spaventata. Questi bambini non impareranno a gestire le loro emozioni in maniera corretta, penseranno che sia normale subire minacce, violenza e disprezzo e dunque diventare a loro volta adulti violenti o al contrario sottomessi. Impareranno a minimizzare la propria sofferenza perché sentono di non poter chiedere aiuto ai genitori. 

Per analizzare questo dobbiamo pensare prima a tutte le conseguenze negative che la donna deve affrontare: traumatizzazione cronica, sindrome da stress post traumatico e la compromissione delle capacità di accudimento della prole e di attenzione ai loro bisogni. 

E, sebbene le madri si preoccupino sempre che i figli non si accorgano delle violenze, vengono giocate da numerose emozioni negative, come sensi di colpa, vergogna, rabbia, paura, umore depresso, innescando in un secondo momento meccanismi di distacco dal proprio sentire, e diventando, anche con i figli insensibili, estraniate dagli altri e disinteressate. Vivono però in uno stato fisiologico di costante vigilanza e allerta e sono ipersensibili ai segnali di pericolo, rischiando di sviluppare reazioni di rabbia a fronte di stimoli lievi.

Un attaccamento sano con il caregiver è importante per lo sviluppo delle capacità fisiche e mentali dei figli. Determina la fiducia negli altri, regola le proprie emozioni, permette di interagire in maniera adeguata con il mondo  e permette di prendere consapevolezza del proprio valore come individui. In situazioni di violenza domestica, le figure di attaccamento sono instabili, imprevedibili o addirittura minacciose. Il bambino sente che non può fare affidamento su di esse, che dipende, per la sopravvivenza, da figure che sono una minaccia per la sua salute mentale e fisica e non ha modo di sottrarsene. Sviluppano strategie mentali intense per superare il paradosso e la paura costante.  

Durante la crescita si può sviluppare una sintomatologia più o meno grave, che comprende disregolazione delle emozioni (incapacità di tollerare, modulare o superare emozioni negative come paura, rabbia e vergogna), problemi nella regolazione delle funzioni corporee (disturbi del sonno e dell’alimentazione, iperreattività o bassa reattività agli stimoli circostanti e difficoltà di adattamento ai cambiamenti, sintomi dissociativi e bassa consapevolezza del proprio corpo, problemi somatici (mal di testa), difficoltà nel riconoscere e descrivere le emozioni (soprattutto in età adolescenziale), ridotto controllo degli impulsi, mancanza di attenzione, condotte aggressive, costante stato di allerta (ma ridotta capacità di identificare correttamente ed evitare il pericolo), comportamenti di autoconsolazione o autolesionismo, disturbi nella percezione del sé e nelle relazioni ( sentimenti di vergogna cronici, odio verso se stessi, sfiducia, diffidenza e timore verso gli altri e tendenza all’isolamento sociale). Sì possono addirittura avere regressioni a precedenti stati di sviluppo.

Non fatico ad immaginare le difficoltà a cui andate in contro in questa vostra missione, dalla mancanza di risorse, alla burocrazia, all’aspetto umano ed emotivo, con chi si presenta allo sportello e con chi non dà il giusto valore al vostro lavoro. Ci va sicuramente una grande motivazione per andare avanti, considerando anche che il ritorno economico è inesistente nella maggior parte dei casi, dato che parliamo di volontariato, e assolutamente inadeguato come lavoro remunerato. 

È un lavoro frustrante in effetti, con rare, ma importanti soddisfazioni. Ti ritrovi a fare i salti mortali tra raccolte fondi e burocrazia, e dopo tanta fatica, noi e queste donne ci vediamo sbattere pure delle porte in faccia. Affrontare processi infiniti. Aspettare l’intervento degli assistenti sociali che sono oberati di lavoro e ai quali manca la specificità necessaria. Non dico niente di nuovo quando sottolineo l’importanza di snellire alcune procedure. Alle volte è di vitale importanza. Pensa ad una donna, che dipende economicamente dal marito, come la maggior parte delle donne vittime di violenza, che ha bisogno di una consulenza legale per sporgere denuncia contro il marito e deve prima andare a fare l’ISEE. Laddove è possibile infatti cerchiamo di indirizzarle verso la separazioni civile, sempre sostenute da una consulenza legale gratuita, perché attraverso la denuncia e i processi si inizia un percorso troppo lungo e complicato, soprattutto per un soggetto fragile. Non molto tempo fa si è rivolta a noi una giovane donna del Congo, che doveva divorziare dal marito e che aveva ancora le carte del matrimonio nel suo villaggio, custodite dal “santone”. Nel mentre lei era in Italia, a vivere in una casa con i bambini e il marito chiuso a chiave in una camera, che le lasciava il frigo vuoto, non le dava soldi per comprare cibo o pannolini per i bambini. Per risolvere situazioni così, devi poterti affidare a tutta una serie di servizi che devono funzionare. 


25 novembre, La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ne vogliamo parlare? 

Sarebbe un evento meraviglioso, se si facesse meno politica e si pensasse in modo più pratico e propositivo. Per esperienza personale ti posso dire che è davvero inconcludente. Che poi parlarne possa essere una campagna di sensibilizzazione va bene, ma le organizzazioni che si occupano davvero di difendere e sostenere le donne, con migliaia di volontarie, hanno bisogno di fondi, di aiuti concreti, di una gestione più oculata del soldi , che spesso vengono fatti figurare in cose inesistenti. C’è bisogno di formazione, sia sul campo, sia per essere più efficienti nel presentare richiesta per i fondi Europei (conoscere i bandi, poter presentare dei progetti ben strutturati, utilizzare poi i fondi in maniera ottimale).