Eredità fotografiche tra luci e ombre

Viviamo nell’epoca delle quarantene, dell’isolamento, dove il tempo sembra fermarsi e le finestre di casa sembra che sviluppino le grate in totale autonomia. Rischi di essere travolto da un senso immenso di noia o di essere assordato dal rumore dei tuoi pensieri, i tuoi veri pensieri, senza l’alibi dell’organizzazione dell’inutile e frenetica routine. Questa insolita esperienza prevede l’attraversamento di varie fasi, capitanate in maniera universalmente riconosciuta dalla fase rappresentata dall’autocommiserazione alienante sui social, seguita a ruota dall’accoppiata vincente netflix e schifezze (o comfort food se vi sentite raffinati) e che poi si dirama a seconda delle personalità e dello stile di vita. Io ho scelto il pacchetto lettura distratta, scrittura e tuffo rovesciato con doppio avvitamento nella nostalgia, che prevede il tentativo di riordinare le foto sull’hard disk. 689 miliardi di foto su 76 terabyte che ti danno quel  vago senso di vertigine. Ti arrendi prima ancora di aver movimentato anche un solo file, ma non puoi resistere alla tentazione di buttarci un occhio. Ed eccole lì, le tue emozioni, tutte le persone che sei stata in questa folle vita, tutte le persone che hai incontrato e quei posti che “wow, ma ci sono stato davvero?”. Il fidanzatino del liceo, “oddio, ma come eravamo vestiti?!?”. 

(Immagine di Lele Bissoli)

Le sbronze con le amiche, tuo marito (meno stempiato) che abbraccia una che ha approssimativamente la tua faccia, ma senza rughe, con qualche chilo in meno. La foto di te, che dormi abbracciata al cuscino di un hotel in Francia, con il sole del mattino che ti accarezza il viso. Il tuo cane, che era appena un cucciolo. Quei volti raggianti, immortalati prima di un bacio o prima di fare l’amore. La risata di un amico che non c’è più (pugnalata inaspettata in mezzo alle scapole). E poi ci sono le foto della tua infanzia, testimonianza ineluttabile che tutti ne abbiamo avuta una, e ti sembra ancora di sentire l’artificiale senso di protezione e sicurezza della tua famiglia, che pur non essendo quella della mulino bianco, sapeva sorreggerti in qualche modo, prima che tu ti armassi e preparassi le ali per spiccare il volo.  Ci sono le foto del cibo, che hai scattato compulsivamente in ogni ristorante in cui sei stato, con la complicità dell’amica invasata con Instagram o lo scherno di chi questo sport non lo pratica. E poi tra queste immagini ci sono anche le foto delle foto dei nonni, rigorosamente in bianco e nero. 

Tre o quattro foto, quante ne bastavano una volta a racchiudere tutta la storia di una vita. 

(Immagine di Lele Bissoli)

Siamo intorno agli anni ’50, loro giovani, innamorati e incredibilmente rigidi, in una posa probabilmente infinita, due statue scolpite nella pietra, come se stessero facendo la cosa più solenne della vita, quello che noi facciamo più e più volte al giorno. Abbiamo un’evoluzione della fotografia, da evento grandioso, concesso ben poche volte nella vita, ed eseguito rigorosamente da un professionista, a istantanee pronte a cogliere qualsiasi frammento della quotidianità e renderlo instagrammabile. Spesso questi due estremi condividono il manierismo, che da eccesso di emozione si è trasformato in disperata ostentazione. Capita che ci sia un po’ di finzione dietro ad una foto. Ma non sempre. Le foto che preferisco infatti sono quelle che non pubblico, quelle che faccio quando mi perdo in qualche posto, quelle dove il soggetto è venuto male perché stava ridendo troppo, quelle dove l’emozione non è patinata, ma grottescamente reale. Dietro ad ogni foto, in ogni caso c’è una storia, un vissuto, un’eredità di emozioni, che riceviamo o tramandiamo. Questo ha la capacità di congelare la bellezza, metterla al riparo dal tempo e farcela ripescare all’occorrenza. Una buona fotografia è come una vita vissuta bene, la ricerca della luce perfetta e un sapiente utilizzo delle ombre. È basata sull’aprire la mente alla bellezza, in tutte le sue manifestazioni. Questo in qualche modo richiama l’arte, la sua capacità di colpire dritto all’anima e di ribellarsi al tempo, alla mutevolezza e all’entropia. È il nostro spicchietto di immortalità. 

E se si parla di arte fotografica, non posso non pensare a Suzanne Stein, fotografa americana di professione e supereroina di vocazione. Il suo potere è mettere poesia nelle immagini più devastanti che una mente possa immaginare, il degrado della società americana, il lato oscuro del sogno americano. Suzanne trasforma in arte quello che gli umani abitualmente non accettano nemmeno nel loro campo visivo, i suoi soggetti sono quelli che non vuoi vedere, ma che esistono e che hanno bisogno che gli venga restituita una dignità. Uno dei suoi principali campi d’azione è Skid Row, quartiere losangelino, (da cui prende il nome di un noto gruppo musicale degli anni ’80), che segna in maniera prepotente il confine di Downtown, la zona centrale dedicata agli uffici.

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Tra questi due quartieri esiste una specie di varco spazio temporale, tra uomini e donne d’affari, nei loro completi fatti su misura e lo scenario post-apocalittico degli ultimi, degli abbandonati, degli emarginati, di chi è stato masticato con gusto e sputato a terra, come un pezzo di gomma insapore. Chi ha visitato bene Los Angeles sa di cosa sto parlando. Interi marciapiedi occupati da senza tetto, approssimativamente cinquemila anime, tra cui reduci di guerra, persone con handicap fisici, tossicodipendenti. Anime abbandonate da una società abilista e spietata, per la quale il valore di una persona è calcolato in base alla sua produttività. Addentrarsi in questo folle mondo non è facile ed è pericoloso, ma con grande determinazione e pazienza, ma soprattutto con grande umanità Suzanne ci è riuscita, riportando alla luce del mondo storie di vite importanti, né più né meno della nostra. Testimonianza di un’eredità sociale malsana, assordante grido di aiuto, non lanciato dalla fotografa, né dai suoi soggetti, ma dalle nostre coscienze di spettatori. La fotografia è un potente mezzo, le immagini sono come freccette conficcate nel cervello, questa è l’istantanea dell’eredità ricevuta, che non deve necessariamente essere l’ereditarietà che lasceremo noi.