Il dovere morale della Memoria
Il 27 Gennaio è svolta la Giornata della Memoria. Ho scritto questo articolo mentre mancavano pochi giorni al triste ricordo e le preparazioni erano ancora in atto. Sui social network iniziavano ad apparire i primi post con delle immagine evocative, nelle scuole si iniziavano a preparare delle ore nelle quali saranno stati ospiti i – pochissimi superstiti – o le loro testimonianze sarebbero state proiettate ai ragazzi.
E’ un nostro dovere civile ricordare quello che è effettivamente successo, quello che è stata una macchia nera per l’umanità. Un’assoluta mancanza di valore morale e di valore civile che sono non su una fazione politica, non su un popolo, ma sul mondo intero, sul genere umano: non una colpa da espiare, ma un monito per ricordare che tipo atrocità può perpetrare l’uomo sull’uomo.
Prima di tutto cosa ricordiamo?
Il 27 gennaio del 1945, il Maresciallo Ivan Konev e la sua 60ª Armata delle truppe sovietiche impegnate sul “1º Fronte ucraino” scoprirono per primi il campo di concentramento nazista vicino alla città polacca di Oświęcim (in tedesco Auschwitz).
Non era il primo campo di prigionia e il primo campo di concentramento dedicato alla “Soluzione Finale” liberato – 6 mesi prima era stato liberato il campo di Majdanek e anche i campi di Belzec, Sobibor e Treblinka che erano stati smantellati nel 1943 dai nazisti – ma la scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente, per la prima volta, al mondo intero l’orrore del genocidio nazista.
Anche Auschwitz era stato abbandonato dai nazisti, scappati freneticamente circa dieci giorni prima portando con loro tutti i prigionieri sani in quella che fu una “Marcia della Morte”, visto che molti prigionieri morirono durante la marcia stessa.
L’ONU – Organizzazione delle Nazioni Unite – il 1° Novembre 2005 scelse questa data per ricordare la Shoah, lo sterminio del popolo ebraico.
Un dovere morale ricordare.
Sarebbe molto più facile non accogliere questa eredità pesante dai nostri nonni, facendo finta che non sia accaduto, in una sorta di rimozione collettiva, anche un pò auto-assolutoria. Come a pensare che si sia immuni dal vortice di Odio e di Indifferenza, di empatia verso le sofferenze altrui.
Il dovere morale infatti è anche quello di “raccontarlo bene”, di farlo acquisire alle giovani generazioni perché l’odio è insito nell’essere umano e solo comprendendolo è possibile liberarsene.
Mentre stavo scrivendo questo pezzo, che poteva benissimo concludersi nel capoverso precedente, mi è caduto l’occhio su una notizia: La statua di Theodore Roosevelt è stata rimossa dall’ingresso del Museo di Storia Naturale a New York.
Ora capiamoci, la statua è davvero interessante a livello statistico e capisco per quale motivo il movimento “Black lives matter” ne abbia chiesto la rimozione.
Theodore Roosevelt è stato il 26° Presidente degli Stati Uniti d’America, dal 1901 al 1909, un militarista convinto – anche a discapito del Premio Nobel per la Pace che gli fu consegnato nel 1906 – un “Cowboy” senza tanti scrupoli e giri di parole. Un personaggio quasi fumettistico – non è possibile dimenticare il fratello “pazzo” di Mortimer Brewster in “Arsenico e Vecchi Merletti” che si credeva per l’appunto Roosevelt tanto da farsi chiamare Teddy – che chiuse la propria carriera da Presidente andando in Africa per un viaggio di caccia dal quale ritornò con più di tremila trofei (seguito e acclamato dai giornali statunitensi).
Insomma Roosevelt in questa statua è ritratto a cavallo con accanto un Pellerossa e un Africano che lo seguono a piedi. A piedi nudi. I tratti somatici marcati, gli ornamenti tipici delle tribù nordamericane o centro africane e, quei piedi nudi, segni dell’assoggettamento, della schiavitù.
pLa statua è stata rimossa per poter essere esposta nella nuova “Theodore Roosevelt Presidential Library” di Medora, in Nord Dakota, che aprirà nel 2026.
Non è la prima volta che questa situazione si presenta. Le opere artistiche, i fregi sui palazzi, le statue nelle piazze, i templi nelle città.
Sono stati distrutti fregi fascisti o nazisti in Europa, distrutte statue di Stalin o Lenin nelle piazze ex-sovietiche o le statue di Saddam Hussein a Bagdad. Segni dell’oppressione anti-democratica sistemate nelle piazze, rimosse dopo con una nuova coscienza di cittadinanza. O con una nuova coscienza civica, che è quella che ha fatto restituire all’Italia la Stele di Axum che prima era nei pressi del Circo Massimo a Roma, fino a vent’anni fa.
La Damnazio Memoriae ai quali i regnanti erano destinati nel caso di malgoverno o di “crimini contro il proprio popolo” (che poi a volte potrebbero anche essere riletti come crimine contro una casta dei vincitori) era un modo per eliminare storia da quei libri che sono i monumenti artistici.
Nella nostra epoca – dove si scrive e si legge più di tutto quello che si sia mai scritto e letto nel passato, sommato – che senso ha effettivamente eliminare un segno? Certo sicuramente può essere meno “ostentato”, perché a ben guardare le piazze sono un luogo “attuale” e non musei da mantenere inalterate nei secoli.
L’eredità che abbiamo ricevuto dal passato, visto che parliamo di questo, a volte non è proprio “politicamente corretta”, non è “allineata con il sentimento” attuale, non è accettabile con il sentimento attuale democratico o religioso che sia.
Ma questo è il compito della nostra generazione: sta a noi preservare quella memoria per non far finta che non ci sia mai stata. Non si può riscrivere il passato, come si faceva nell’universo distopico di “1984” di Orwell o in quello di “Fahrenheit 451” di Bradbury, e non lo si può semplicemente nascondere, perché i fatti del passato sono destinati, prima o poi, a riemergere se non assimilati, se non elaborati, e se non si ha la capacità di contestualizzarli.
Leopoldo II del Belgio e Winston Churchill hanno avuto un passato non proprio specchiato, se rapportato al pensiero attuale, ed è giusto non nascondere i loro lati oscuri, quando non addirittura spregevoli, ma questo per farne persone a tutto tondo, com’è giusto che si possa fare a “distanza storica”.
Per poter lasciare una eredità migliore, dobbiamo arricchirla delle nostre conoscenze, renderla più elaborata, più complessa, più profonda.