Intervista a Rosario Jermano

“Voglio fare il musicista”: il mondo di Rosario Jermano in un libro autobiografico.  Quando accade che la realtà racconti un sogno ancora più in grande.

(Immagine dell’Ospite)

Un musicista con l’intuizione di un percussionista che ha fame di suoni, strumenti, passione e animo. Leale, amico vero, sincero, generoso ed altruista, precursore ed anticipatore, un uomo d’altri tempi con valori grandi quanto i suoi sogni, giganti, incorruttibili e fermi come roccia col cuore. Ha rinunciato a Gato Barbieri per seguire gli impegni presi con Luca Barbarossa e molti ancora sono gli aneddoti raccontati nel suo libro autobiografico “Voglio fare il musicista” (Apeiron edizioni). E’ stato sempre nel posto giusto al momento giusto, quando tutto sembrava oro e si poteva parlare veramente di musica e di passione da seguire ad ogni costo e ad ogni prezzo, con rinunce pesanti e grandi come macigni. Franco Miseria lo ha voluto nei suoi spettacoli così come tutti i grandi autori del calibro di Pino Daniele, Renato Zero, Fabrizio De Andrè, Loredana Bertè, Mia Martini, Gino Paoli, Eros Ramazzotti, Zucchero e tutti gli altri nomi del panorama musicale dagli anni ’70 in poi. Tutti, ma veramente tutti hanno nel loro percorso artistico una o molte collaborazioni con Rosario Jermano. Uomo ed artista instancabile, coraggioso e vero come raramente capita, in un mondo difficile e faticosissimo. Ha costruito un mondo di rapporti umani attraverso la musica, fortemente voluto dai più grandi che ha saputo seguire raccogliendone la profondità, l’essenza, la natura più intima e complessa. 

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“Un arco di tempo così lungo non può rimanere senza ricordi”, scrive “Avevo bisogno di psicanalizzarmi da solo, di non mentire più al mio cervello, di cercare ragioni e motivazioni, chiamare per nome tutte le cose che avevo visto. Per questo ho scritto, altrimenti avrei suonato la batteria”. Un fiume in piena di ricordi il libro “Voglio fare il musicista”, che travolge il lettore e presenta i grandissimi della musica italiana nella loro verità assoluta, come fossero tutti messi a nudo per farli sentire ancora più vicini a chi legge, a chi li ha amati ed a chi li ha ascoltati con il cuore gonfio per tutta la vita. 

“Mio padre è quell’uomo che mi ha insegnato ad essere libera, a credere nelle passioni e nei sogni più alti. Ha creduto nel mio talento alimentando una sensibilità a volte pericolosa per un mondo di marmo come quello in cui viviamo. Mi ha insegnato che la vita è una sola e che la tomba non ha le tasche. Ho compreso le sue debolezze anche in età adulta e accarezzato i suoi errori, perché con lui ho conosciuto un amore senza eguali. Mi ha cresciuto accudendomi come una balia, non dimenticando mai un saggio di fine anno o una recita scolastica. Un uomo che mi ha insegnato la matematica e a fischiare. A cucinare e ad ascoltare i Beatles. Ero grande e lui così piccolo, quando la coperta gliela rimboccavo io, standogli vicino nei suoi momenti difficili e leccando le sue ferite, come lui aveva fatto con me. Ad oggi, grandi entrambi, guardiamo al domani con la solita poesia” – prefazione di Heather Francis Iermano (figlia di Rosario).

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Nella prima copia del libro ha voluto scrivere una dedica a sè stesso “Alla fine ci sono riuscito a scrivere un libro, sembrava un’impresa impossibile come la “missione”. Il libro non si autodistruggerà tra trenta secondi, ma sopravviverà a me, molti lo potranno leggere dopo che io non ci sarò più. La pandemia ha fatto anche delle cose belle, spronarmi a fare cose che non avrei mai fatto. Ho fatto anche un disco nuovo dopo la mia malattia e anche questo resterà. Come queste pagine. Si gruoss” Rosario Jermano. Lo abbiamo incontrato per i lettori di Condivisione Democratica. 

All’inizio del suo libro scrive “scappavo dalla vita” e si avverte come un rimpianto per non essersi dedicato molto agli affetti familiari. Perché sentiva di dover fuggire?

“Non è un rimpianto, ma trasferitomi a Roma nel 1984, mi trovavo lontano dalla mia famiglia di origine e preso da tutti i miei impegni, avevo la musica che mi assorbiva completamente, i miei sogni da realizzare, la mia persona da coltivare, da far crescere e maturare artisticamente e non solo. Ci sono scelte nella vita che non lasciano “scelta”. Poi sono rientrato a Napoli, mia madre e i miei fratelli c’erano ancora e sentivo il bisogno, dopo anni di lontananza, di stare più a contatto con loro, ricevere il loro affetto vero e sincero, anche se Roma significava avere mia figlia spesso con me essendo separato dal 1990. Ho vissuto molto l’essere padre e ne sono felice. Mia madre è mancata nel 2004 e i miei due fratelli maggiori sono scomparsi dopo. Ho avuto modo di trascorrere molto tempo con loro e viverne anche le loro sofferenze e paure, questo mi ha fatto sentire un vero fratello ed un vero figlio, amavo moltissimo mia madre. Non si vive solamente di musica, ma di vita, di persone, di sentimenti, di paure, di felicità e di amore. Siamo sempre a cercare un motivo, una ragione per vivere, ma l’unica ragione si chiama vita, ogni giorno dobbiamo pensarci cercando di non commettere errori, perché Dio ci dà due strade, sta a noi scegliere quale percorrere”.

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“Mio padre ha perso e ha vinto proprio come me”, in fondo è quello che accade ad ognuno di noi, è proprio la vita che porta in sé questa alternanza ed è forse ciò che ci fa crescere e maturare. Cosa ha perso maggiormente nella sua vita?

“Credo niente, rifarei tutto allo stesso modo, forse se non avessi vissuto cosi non sarei quello che sono oggi: un musicista. Nella vita ci vuole coraggio, bisogna rischiare, essere unici ed inconfondibili. Essere sè stessi ti dà un senso di libertà e di realizzazione che non ha paragoni e fare il lavoro che ci piace per noi esseri umani è fondamentale. Le scelte sbagliate rattristano, deprimono, fanno male e coinvolgono anche le persone che ci sono vicine e che amiamo. Essere insoddisfatti, frustrati e repressi è la stessa morte in vita, ci svuota lentamente giorno per giorno e ci costringe finanche ad accettare l’abitudine come qualcosa di sano. E’ importante, quando ci accorgiamo di ciò, fare il possibile per modificare qualcosa o tutto pur di ritrovare il nostro centro ed il nostro posto nella nostra vita”. 

Nascere a Napoli è come nascere sulla luna, inizi a vivere con uno scafandro ed un casco ma con occhi che vedono cose che nessuno vedrà mai. Si nasce da privilegiati contrariamente a ciò che pensano in molti. Qual è il suo pensiero a riguardo?

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“Penso che noi napoletani non ce ne rendiamo conto, viviamo una realtà che è ricca di tradizioni e di musica, fanno parte del quotidiano non è un fatto eccezionale. Napoli per me è il mare, gli odori delle strade, i panni stesi, la grande arte in varie discipline come il teatro di Eduardo, tutte cose che ci sono e ci appartengono naturalmente insieme al Vesuvio, la pizza, la musica classica Napoletana di Bovio e De Curtis, siamo avvolti da tutto questo e noi stessi diventiamo simili, cercando sempre la migliore soluzione ai problemi per poter “Tirare a campare”, ma con orgoglio e dignità. Napoli è una città creativa, piena di passione, di magia, di entusiasmo, co a capa tosta, a noi ci piace fare le cose fatte bene e non come si dice in giro per il mondo. “Ccà nisciuno è fesso”, anzi….Napoli ti parla ogni minuto ed in ogni angolo e ti racconta tante storie belle di umanità e di passato glorioso. E’ una terra spettacolare con tutti i suoi problemi e le sue criticità, ma da qui a dire che siamo furbi, senza voglia di lavorare ed indolenti ce ne passa. Napoli va vissuta, il turista vede quello che vuole vedere, ma chi ci vive si prende tutto ed alla fine, le assicuro, il bilancio è in positivo”

Licenziarsi dal “posto fisso” nel 1978 credo sia roba da eroi o da folli. Lei come si sente?

“Mi sento un incosciente ed in parte un pazzo, ma non mi pento, vedo i miei amici di scuola e di adolescenza molto più vecchi di me anche se hanno la stessa età, io ho messo un anticalcare alla mia anima e loro no rimanendo ricoperti di una patina grigia che li rende infelici. Lavoravo all’Aeritalia, ufficio progetti, un’importante fabbrica di aeroplani, era anche un gran bel lavoro, mi insegnarono l’uso del computer, all’epoca grande come un camion, partecipai alla progettazione di un bimotore turboelica, usato tuttora dall’aeronautica militare. Fu in una delle pause pranzo dal lavoro che mi trovai in una delle tante botteghe della zona Via Marina vicino al porto, vendeva materiale di vario genere per animali. Comprai campanacci per le mucche, campane piccole, campanelli, sonagli e sonaglini, tutto ciò che produceva un suono e rimasi molto perplesso e sorpreso quando il negoziante mi disse che anni prima anche Gegè Di Giacomo, il batterista di Renato Carosone, ne aveva comprati molti. Era un segno del destino, un messaggio magico e divino, qualcuno stava cercando di farmi capire che dovevo fare il musicista. Nel febbraio del 1978 mi licenziai”, il resto è storia nota”

Cosa significa iniziare a fare musica con un’artista come Pino Daniele?

“Per me fu normale, due ragazzi che avevano voglia di fare musica, in quegli anni meravigliosi, gli anni ’70, in cui tutto era possibile e tutto era permesso. Dovevo solo volerlo, insistere e crederci fino a vederlo completamente realizzato, il mio sogno, qualsiasi sogno fosse e non importava quanto grande, gigante, immenso. Io ci ho sempre creduto. Pino è stato un musicista straordinario perché era un uomo straordinario, un amico vero, semplice, con un cuore grandissimo”.

I suoi inizi e la sua formazione la vedono al centro di un momento storico d’oro, dove la musica era il senso del vivere quotidiano. Cosa pensa dell’attuale situazione musicale italiana?

“La situazione della musica in Italia è veramente drammatica, quando i miei allievi mi fanno delle domande a volte non so rispondere, ad esempio come fare per entrare nei giri giusti per poter fare tours e dischi. I dischi non si fanno più, i tours si servono sempre di specialisti quotati ed infallibili che danno fiducia e sicurezza, ma chi ci arriva? I ragazzi sono scoraggiati, oggi è molto più difficile diventare un session man cioè un turnista, anche se questo termine a me non è mai piaciuto. Io ci sono dentro perché all’epoca tutto quello che facevo passava attraverso i canali giusti che erano attivi e floridi, mi notavano e mi facevo notare per la mia creatività, oggi anche se ci sono dei talenti non si riesce a mettersi in evidenza, devi essere raccomandato o presentato da un altro musicista conosciuto altrimenti stai a casa. Ci sono ragazzi bravissimi in giro per la strada che probabilmente non emergeranno mai perché hanno solo musica e bravura. Che tempo triste”. 

Crescere ascoltando Pino Daniele, Battiato, De Andrè, Renato Zero, Gino Paoli, ha tutt’altra sostanza rispetto all’ascolto musicale attuale. Forse manca tutto questo oggi ai giovani.

“I miei ascolti erano diversi, R&B di Otis Redding, Il rock dei Led Zeppelin, la chitarra di Hendrix e I Cream. Questo mi ha portato a mescolare tutto ed usare la somma nei dischi e nei live di artisti come Daniele, De Andrè e tutti gli altri. E’stata la mia forza. Non mi fermavo mai, ascoltavo, provavo, imparavo, sperimentavo ed ero incuriosito da tutto ciò che fosse capace di emettere un suono, un qualsiasi suono che potevo poi modulare e modellare. Oggi i ragazzi cos’hanno? I talent Show, il rap, la trap e cos’ altro? Di profondamente valido e costruttivo c’è ben poco, bisogna basarsi sul passato e sulle tradizioni se vuoi creare qualcosa di nuovo”.

(Immagine dell’Ospite)

La musica anni 70/80 era anche uno stimolo ad affermarsi con forza e coraggio, anche a costo di grandi ribellioni. Ai giovani manca tutto quello che la sorte ha dato a noi. Si è perso il senso profondo di fare musica.

“Non si è perso il senso, si sono chiuse troppe porte ed è difficile entrare nel “vortice” giusto, perché di vortice si tratta, di giostra, di nastro trasportatore, di catena di montaggio. Anni fa preparavi un provino e potevi farlo ascoltare a qualche direttore artistico, oggi i giovani non sanno neppure dove andare. Le case discografiche producono solo persone che escono dai talent o da milioni di visualizzazioni su youtube o altro. Diventa inutile mettersi a comporre e pensare di far conoscere la tua musica. Per me è molto difficile oggi, con la mia carriera, figuriamoci per i giovani talenti”.

(Copertina del Libro)

Carosone, Pino Daniele, Ornella Vanoni, Mia Martini, Luca De Filippo, Renato Zero e tantissimi tra i più grandi di sempre, l’hanno voluta a suonare le percussioni. Si rendeva conto che sarebbe entrato nella storia della musica?

“Io ho fatto il mio lavoro, il lavoro che amavo, non mi sono mai reso conto che sarebbe accaduto quello che poi è stato, ma in realtà non ero neppure attento a cercare qualcosa che andasse oltre la mia musica, fare musica, pensare musica. Certo sentivo la magia, i brividi, le paure di un debutto, a volte piangevo sentendo cantare parole commoventi come quelle scritte da Paoli o da Zero, ma mai avrei immaginato di poter fare ciò che ho fatto suonando uno strumento che non fa neppure parte della tradizione musicale italiana. Ed invece è accaduto l’impossibile, sono entrato a far parte in prima persona della musica italiana, quella più vera e profonda. Erano davvero altri tempi, quando si cercava qualcosa di più, eravamo esigenti, precisi, pignoli, grandissimi lavoratori prima ancora che artisti o musicisti, puntuali e testardi, ci piaceva e sapevamo quanto fosse importante essere “ricercatori”, volevamo costruire qualcosa di grande che potesse piacere a chi ci ascoltava, che potesse farli esaltare ed esultare. Abbiamo vissuto momenti di vera gloria, la gente ci apprezzava e sapeva riconoscere il valore di una bella canzone”. 

I suoi anni a Roma ed il ritorno a Napoli. “Quello che se ne è andato” viene ancora oggi considerato, come un affronto, un errore imperdonabile, un’offesa. Ma Roma rappresentò per lei un passaggio fondamentale. 

“Certo, a quei tempi bisognava andare ed essere a Roma, era il centro della vita e della produzione musicale. Sono stati anni importanti per la mia formazione e per la mia professione. E’ stato un passaggio fondamentale della mia vita al quale non avrei potuto e voluto rinunciare per niente al mondo. Non è stato tutto facile, anzi, ma tutto si compensava in un’ottica di visione futura, bisognava poter guardare al di là del proprio orticello, mettersi alla prova e sottoporsi anche a difficoltà di ogni genere e natura. Per come sono andate poi le cose e per tutto ciò che è accaduto penso solo che i napoletani sono stati un pò invidiosi di quello che ho fatto, non c’è altra spiegazione per l’atteggiamento che hanno dimostrato nei miei confronti. Io non partecipo alla vita musicale Partenopea, eccetto che per poche cose nelle quali mi fa piacere essere coinvolto come ad esempio “Napoli Opera” con la voce di Michele Simonelli ed un’orchestra da camera diretta da Paolo Raffone, antico collaboratore di Pino Daniele e pianista del nostro primo gruppo insieme, la “Batracomiomachia”. Altra collaborazione da me gradita è quella con Antonio Onorato, un grande chitarrista le cui doti furono riconosciute anche da Pino Daniele”.

Che lavoro fa? – Il musicista – Si capisco, ma che lavoro fa?, così le disse il proprietario di casa. E’ quasi impossibile pensare che allora, quando si faceva veramente musica, questo mestiere non veniva considerato come tale. 

“Anche oggi è così, nulla è cambiato, vogliono credenziali diverse o ti devono vedere in televisione allora accettano che il tuo sia considerato un lavoro “ben pagato” altrimenti ti mandano sotto i ponti. Ma credo che ugual sorte tocchi a tutti gli artisti in ogni ambito, devi essere riconosciuto per strada o avere poltrone nei talk show o contratti strapagati, e spesso, me lo lasci dire, tutto ciò non corrisponde necessariamente a bravura o professionalità. Ma questo i proprietari di casa o altri riferimenti della vita quotidiana non lo tengono in nessuna considerazione”. 

E’ riuscito a collaborare con i più grandi artisti, ognuno nel suo momento di massimo successo. Non credo sia stato un caso. La sua professionalità era fondamentale per ognuno di loro proprio quando il livello si alzava e l’esigenza di perfezione cresceva. Non capita a molti una esperienza del genere.

“Sono casualità il fatto di trovarsi al posto giusto nel momento storico musicale giusto, certo il talento ha fatto in modo che ciò avvenisse, ma ci sono altri aspetti come l’allegria, la simpatia e l’entusiasmo che danno tanto valore ai rapporti sia musicali che non. Forse era più facile l’approccio ma più difficile poi il consolidamento, se non valevi non duravi da nessuna parte, se non avevi una serie di caratteristiche forti, oltre alla buona preparazione musicale, non avevi una certa continuità. Bisognava avere una personalità, un carisma, una credibilità. Tutto questo ha reso lunghi e duraturi molti sodalizi”. 

“Ho superato i sessant’anni e le difficoltà si rinnovano senza pietà. Ci vorrebbe una pensione della sofferenza, una pensione delle difficoltà, una pensione per il coraggio che abbiamo avuto”. Scrive nel suo libro. Tutto questo purtroppo non esiste. Si combatte per pagare affitto e bollette. Professionisti come lei in difficoltà mentre dilaga il buio artistico e culturale. Quanto fa male tutto ciò a lei ed a noi?

“Ci sono abituato. Dal 1978 sbarco il lunario e vado avanti, con momenti eccezionali e momenti bui, ci sono dentro e ci vivo con le mie sofferenze, ma anche con le mie gioie. Ma se ci pensa non è in fondo così la vita di tutti noi?”

Trecento LP registrati con quasi tutti gli artisti italiani, 4 album da solista, tournée, come riesce ad accettare, affrontare e superare questa situazione di crisi così grave e pesante?

“Fortunatamente sono un pensionato, nei momenti difficili, come questi anni del covid, sono andato avanti con la mia pensione ed i vari ristori concessi, me la sono cavata fino ad ora. La fine di questo delirio è ormai vicina e godrò dei benefici, età e forze permettendo. Molto presto sarò in tour con Renato Zero, anche se lui ha 70 anni, non resterà di certo inoperoso dopo la pandemia”.

Il covid ha fatto cambiare lavoro a molti artisti completamente rovinati. Il tempo passa e la situazione peggiora e per molti non ci sarà più una soluzione. Cosa avrebbe dovuto fare lo stato per evitare tutto questo?

“Avrebbe dovuto dare più ristori a noi musicisti ed artisti, non certo i mille o duemila euro che non significano assolutamente nulla, cifre importanti che ci avrebbero aiutato a non finire sul lastrico. E forse anche qualche decisione meno vessatoria e prolungata nei confronti del mondo artistico e culturale”. 

Nel 2016 la malattia e tutto per un po’ si ferma. Come ha trascorso quel periodo?

“Con una caparbietà infinita, una voglia di ritornare a suonare sul palco, con coraggio e determinazione. Mi ha aiutato molto l’amore di mia figlia e la presenza di dottori eccezionali. Poi gli amici intorno e la stima di tanti che non mi hanno mai fatto sentire solo o perso o definitamente abbattuto da una malattia molto dura e tenace. Tanta sofferenza poi nella mia vita l’avevo già provata e penso che questo ti aiuta quando un altro ed un altro ed un altro uragano si abbatte su di te. Semplicemente ti trova più forte e non certo rassegnato. Dici a te stesso “ne ho passate tante, supererò anche questa”. Nella vita e nella malattia soprattutto non è tanto quello che ti accade e di quale portata, ma il tuo modo di reagire e la tua voglia di vivere. Avevo sempre la musica in testa, ma quella ce l’avevo sempre anche ed indipendentemente dalla malattia. Il ritmo, quello giusto, fa tanto la differenza in ogni circostanza, finanche nella malattia, pensi un po’”. 

Nel suo libro un capitolo lo intitola “Io e Pino Daniele” un rapporto unico, saldo ed incorruttibile. Cosa c’è ancora di Pino che non sappiamo o non conosciamo?

“Tante cose che terrò nel mio cuore, tanti momenti belli che abbiamo vissuto insieme e che resteranno nella memoria tra i miei ricordi più belli, insieme a quelli di mia madre e di mia figlia. Penso che Pino si sia dato completamente attraverso la sua musica, a parte qualcosa della sua vita privata che è tale e rimane tale, non credo ci sia qualcosa che Pino ha tenuto per sé, proprio perché anche per lui la musica era tutto ed attraverso la musica portava tutto quello che aveva dentro al pubblico, a chi lo amava e lo ascoltava e lo ascolta ancora oggi. Ci siamo conosciuti negli anni Settanta, avevo capito subito che era un grande talento, è stato il mio migliore amico, la sua morte mi ha reso vulnerabile, poi forte. Sono stato un uomo fortunato”. 

Nel 2019, dopo ventitrè anni di pausa, il suo quarto disco “Nouvelle Cuisine”, un disco non commerciale lo definisce, un disco fatto con più di quaranta musicisti tra i migliori della scena musicale, è stata la sua terapia più efficace?

“Certamente, una cura infallibile, ancora con le stampelle ho cominciato a lavorarci e sono felice di averlo fatto. Tutti mi hanno aiutato, tutti i miei amici musicisti che hanno partecipato senza alcun compenso, hanno suonato tutti gratis per me, in nome della nostra amicizia. Se non avessi fatto quel disco non sarei uscito così velocemente dal tunnel dell’apatia”.

Nel 1996 la fatidica frase “Sai suonare il berimban?”, inizia così il suo rapporto con Fabrizio De Andrè. Passano gli anni ed aumenta la desolazione della sua assenza. Le sue parole non passano mai di moda, anzi diventano sempre più attuali. Come è stato il vostro rapporto? 

“Con Faber è stato un rapporto di profonda stima, lui un tipo difficile e speciale, io un pignolo ed anche io persona difficile, lui cambiato negli anni in una persona docile e dolce, io musicista che non lascio dubbi irrisolti. In definitiva due perfezionisti che la musica ha fatto incontrare, il nostro incontro ha dato risultati veramente notevoli, risultati che oggi io valorizzo nel pieno del loro significato”.

Non ebbe il coraggio di andare in America nonostante l’invito di Corrado Rustici. Mi viene in mente Pino Daniele, Massimo Troisi, i napoletani sono pigri? Oppure non ha creduto abbastanza in sè stesso o ancora la certezza non si baratta con l’incertezza? Ci pensa mai che quel coraggio di allora forse le avrebbe regalato un presente più solido e sicuro?

“Ero già conosciuto in Italia, in America avrei dovuto cominciare tutto dall’inizio, lì non scherzano, non è l’Italia delle raccomandazioni. In America se sbagli sei fuori. Non ho visto un futuro sicuro nel mio trasferimento in America, infatti oggi Rustici si è trasferito in Germania perché lì la musica non va più come una volta. Ed a molti è toccata la stessa sorte. Rientrare dopo tanti anni dall’America poi sarebbe stato ancora più complesso, non è rientrare da Roma a Napoli, non è proprio la stessa cosa, si perdono tutti i contatti, gli amici, si torna probabilmente molto diversi e lo stesso rientro diventa più pesante e faticoso anche da un punto di vista psicologico. Non me la sono sentita. Poi chi lo sa come sarebbe andata. Va bene così”. 

Una lista infinita di artisti straordinari, sembra quasi impossibile pensare di averli incontrati tutti insieme in una sola vita. Adattarsi poi ad esigenze sempre diverse, sempre nuove, sempre più complesse. E’ stato bello, ma mi viene da pensare anche tanto faticoso.

“Per me no, non me ne rendevo conto, mi divertivo a suonare con loro, mi davano fiducia e stima illimitate ed anche la libertà di potermi esprimere a modo mio, era un valore aggiunto. I grandi artisti grazie a Dio ragionano così, ragionano bene e mi davano anche la forza di spingermi. E’ stato uno stimolo continuo. La stessa cosa la prova un cuoco quando gli dicono “Sai, cucini bene”, lui crea sapendo che i commensali mangeranno tutto”.

Morale della favola? Perché realmente di favola ha il sapore ed il colore la sua vita. Ed ora? Cosa accadrà?    

“Non lo so, spero di suonare fino a che le forze me lo permetteranno, spero di vedere le mie due nipotine crescere, mia figlia è incinta di due gemelle, spero che mia figlia viva bene e che non abbia mai problemi. Il resto non mi interessa, il mio cuore è gonfio di soddisfazioni e di cose tristi, ma vivo e questo è ciò che conta veramente per me. Ho avuto una vita così piena e ricca di ogni cosa che ora voglio solo godermi tutto quello che ho costruito. Non ho più bisogno di chissà quali grandi sussulti o sobbalzi, sono diventato un po’ più tranquillo, non per l’età e neppure per la malattia, non vivo di paure per nessuna delle due, non vivo di ricordi ma ricordo per vivere meglio e più intensamente possibile la mia vita.