L’eredità di Lilith

Eredità, in diritto, indica generalmente il patrimonio ereditario, globalmente considerato d’una persona fisica, che alla sua morte passa nella titolarità giuridica d’un altro soggetto, l’erede, per successione a causa di morte. Il fenomeno ereditario rappresenta da sempre un aspetto cruciale dell’organizzazione istituzionale e sociale.

Molte culture hanno da sempre adottato un meccanismo successorio che privilegia la linea paterna. Per molto tempo anche in Italia il fenomeno successorio ha seguito il ‘diritto di primogenitura’, attribuendo il patrimonio ereditario al primo figlio maschio della persona deceduta.

E le donne? Per parlare dell’eredità delle donne scomodiamo nientepopodimeno che il libro della Genesi.

(Immagine di Lele Bissoli)

All’inizio il Dio degli ebrei aveva creato Adamo e Lilith. “Insieme li creo, uomo e donna li creo”, non uno dalla costola dell’altro. Furono creati insieme. Così è scritto nella scrittura originaria della Genesi. E così, in seguito, si ebbe la prima censura della storia. I rabbini presero un bisturi e rimossero sapientemente questa parte. E insieme a questo la sua collera, perché nell’atto sessuale Adamo pretendeva sempre di stare sopra di lei. Rimossero la pretesa di parità da parte di Lilith nell’alternanza del potere. Rimossero il disgusto di Adamo nel vederla coperta di saliva e di sangue, simbolo della grande energia vitale. Rimossero la sua forte carica sessuale e la potenzialità aggressiva nella difesa delle proprie ragioni. Lilith avrebbe potuto non esistere fin dall’inizio, ma evidentemente la sua esistenza era necessaria a segnalarne la conseguente oppressione. La parte rifiutata dell’archetipo femminile. La prima donna a caricarsi del simbolismo dei divieti posti sul desiderio femminile, e non solo quello sessuale. 

Come scrive Romano Sicuteri in “Lilith e la luna nera”:  “su di essa vanno ad aggregarsi tutte le influenze culturali, religiose e psicologiche trasformandola in un vero tabù”

Togliendo di mezzo lei, questa parte della femminilità si inabissa nell’inconscio collettivo. Lilith, proprio perché rifiutata, diventa cattiva, sfrenata, violenta e nemica degli uomini che volevano sottometterla. Finisce nel mondo dei diavoli in una sorta di inferno senza possibilità di redenzione. La Bibbia la toglierà di mezzo, ma nell’immaginario delle popolazioni giudaico-cristiane sopravviverà a lungo, almeno fino al sedicesimo secolo, come diavolessa che uccide i maschi colpendoli nel sonno. In questo mito non si fa altro che raccontare la forza aggressiva delle donne e il loro desiderio di essere alla pari nella costruzione del mondo e nella trama della relazione. Attenzione però a caricare la parola aggressività del significato più appropriato e questo significato lo troviamo nel libro “l’aggressività femminile” di Marina Valcarenghi, psicoanalista di formazione junghiana, docente di psicologia analitica e psicoanalisi degli aggregati sociali:


(Immagine di Lele Bissoli)

Con la parola aggressività intendo quella disposizione istintiva che orienta conquistare e a difendere un proprio territorio fisico, psichico e sociale nelle sue forme più diverse; o, in altri termini, quell’istinto che guida a riconoscere, ad affermare e a proteggere la propria identità. Con lo stesso significato, del resto, il termine aggressività è utilizzato nel linguaggio dell’antropologia e dell’etologia, oltre che della psicoanalisi. In nessun caso mi riferisco qui all’aggressività come Intesa nel linguaggio corrente con il significato di aggressione di uno spazio altrui.” 

L’istinto aggressivo dipende dalla qualità del soggetto, dalla sua coscienza, dal suo inconscio e dal modello sociale in cui vive, perché l’aggressività, come qualunque forma dell’istinto, non contiene in sé un codice etico. Il punto è che l’aggressività umana è malata e oscilla fra due poli distruttivi, la rimozione e la depressione da una parte, e l’aggressione dall’altra. Che poi coincidono con l’incapacità di difendere il proprio territorio o l’incapacità di riconoscere il territorio altrui. Da qui forse ha origine anche quella confusione terminologica fa aggressività e aggressione, che induce a semplificare la complessità dell’istinto e ignorare la differenza culturale fa violenza e autodifesa. 

Questa è la fondamentale premessa che fa Marina Valcarenghi nella sua introduzione.

È stata percepita per molto tempo un’inferiorità di genere ed è lì che deve essere cercata l’origine del deficit aggressivo che viene considerato, in modo erroneo, del tutto naturale, perfino in ambito scientifico. La Valcarenghi riscontra nelle pazienti una condizione di ipoaggressività o iperaggressività per compensazione. In altre parole due diverse manifestazioni sintomatiche di uno stesso problema: la difficoltà a riconoscere e a proteggere la propria identità e il proprio progetto di vita. Due manifestazioni che portano allo stesso risultato: l’inevitabile sconfitta della donna. Vi chiederete dunque come è possibile che si consideri naturale un modo di essere che genera sofferenza è che produce sintomi. Nella personalità maschile le cose non stanno così. Hanno tendenzialmente un rapporto più confidenziale con la loro aggressività e un meccanismo di autodifesa più naturale.

Secondo Konrad Lorenz, padre dell’etologia, il deficit aggressivo comporta l’impossibilità di affrontare compiti e problemi, la caduta di autostima e la perdita drammatica del senso dell’umorismo. Stiamo dunque parlando di una patologia del l’istinto aggressivo, non indagata proprio perché ritenuta normale anche dalle donne e scientificamente irrilevante da una psicologia arretrata. La stessa che considerava naturali il masochismo e il narcisismo nella sfera femminile. Ipotizzare che le donne non siano in grado per natura di difendere la propria identità significa affermare che le donne non siano pienamente soggetti e quindi in grado di esprimersi come tali nel mondo. Ma come mai questo deficit aggressivo, presunto naturale, comporta sofferenza e sintomi?  Eppure questa ipotesi, oltre ad essere sostenuta dalla medicina e dalla psicologia del profondo, è stata imposta dalla religione e dalla politica, con la forza delle armi, del rogo, della tortura, da una legge che ha sancito per un tempo immemorabile l’inferiorità è la debolezza delle donne. Questa legge non è stata sostenuta solo da uomini, ma anche dalle donne, e ancora oggi in parte lo è.  Ma non è mai stato dimostrato che le donne siano prive di un istinto aggressivo, Ne consegue dunque che ne siano state sistematicamente private. Un istinto però non è eliminabile può essere il massimo represso, respinto nell’inconscio dal quale invia segnali di disagio. 


(Immagine di Lele Bissoli)

Ma perché le donne ne sono state private? Già da un tempo così lontano da non averne più memoria. E cosa ha convinto tutti che questa fosse la normalità?  

Se una donna è frigida, questo è un suo problema, ma se quasi tutte le donne sono frigide e la frigidità femminile è un valore sociale perché testimonia la temperanza e buona educazione, allora diventa naturale essere frigide. E infatti così è stato. Oppure se una donna non parla in pubblico, questo è un suo problema, ma se quasi tutte le donne non parlano in pubblico perché il silenzio è un lodevole segno di modestia o perché non sono adeguate, o sono intellettualmente inferiori, o non hanno niente da dire, allora per le donne diventa naturale non parlare in pubblico. E invece non è naturale per niente. Nei due esempi proposti l’aggressività rimossa genera l’inibizione della spinta autoaffermativa sia nella sfera sessuale sia in quella sociale,  ma questa operazione non è indolore, appunto perché non deriva dall’istinto ma dalla sua perversione. Ora è noto che i traumi non sono solo personali e che l’inconscio collettivo registra i traumi collettivi provocando conseguenze nella vita delle aggregazioni umane. Lo studio dell’intreccio fra l’inconscio collettivo (formato dal sedimento di traumi ed esperienze rimosse da un gruppo) e la coscienza collettiva (formata dall’insieme cosciente dei fondamenti economici, politici, religiosi e culturali di un gruppo) costituisce quella che io chiamo psicanalisi sociale (e che è quindi altro dalla psicologia sociale) e che potrebbe aiutare a rendere ragione di fenomeni antichi e complessi e, quando sia il caso, a trasformarli … In altre parole noi donne siamo all’interno di un processo in cui non possiamo avviare una liberazione personale senza spezzare le catene di un condizionamento collettivo e viceversa. La questione dell’aggressività sembra al centro di questo processo.

Le donne non sono state le uniche vittime di questa repressione, ma sono state certo l’unica maggioranza ad esserne colpita, e in modo così diffuso e sistematico da corrompere la propria identità individuale e sociale causando una caduta verticale dell’aggressività, in quanto non si può difendere un territorio che non c’è. E questo territorio ci è stato negato a partire da una fase dell’evoluzione molto lontana.  È il caso di ritrovare il coraggio di sentirci soggetti nell’indagine e a riconoscere la nostra inequivocabile complicità in quella repressione. 

Chiudete gli occhi, immaginatevi il padre della psicanalisi all’inizio del ‘900 e tutta la scienza de profondo impegnata a indagare la mente umana e l’inconscio. La donna ha iniziato ad essere considerata un rompicapo in un’indagine unilateralmente definita da un modo maschile di pensare, che non ha mai dato la possibilità alla donna stessa di contribuire a spiegarsi in quanto soggetto. Jung fece un piccolo passo avanti indagando pioneristicamente  la differenza di genere muovendosi nell’area delle competenze per territorio, che vede le facoltà degli uomini più sviluppate nella sfera intellettiva e spirituale e le donne nell’ambito delle pulsioni e del sentimento. Seguendo il suo principio della complementarietà degli opposti nella psiche, Jung pensava che le donne avessero il compito di sviluppare la loro parte inconscia definita Animus e collegata al pensiero, e che gli uomini, al contrario, avrebbero dovuto di conoscere i loro aspetti femminili, definiti Anima, collegati alla sfera dei sentimenti e della vita naturale. 

Ora sappiamo che l’intensità pulsionale, emotiva e intellettiva è uguale in entrambi i generi, ma in forme diverse dell’energia.

Due modi complementari di prendere contatto con l’esperienza e non due modelli, entrambi mutilati, di vivere l’esperienza. Andremo così ad associare il pensiero maschile ad uno schema analitico, logico-deduttivo e penetrativo e il pensiero femminile ad un meccanismo sintetico, induttivo e ricettivo. Come è ben noto tutta la cultura occidentale è fondata sulla definizione greca di Logos, che circoscrive il pensiero maschile per eccellenza, eclissando quasi completamente il pensiero femminile, di cui ne restano vaghe tracce nella mitologia e nella storia. Basti pensare che le prime parole del Debello Gallico sono: “ Gallia est omnis divisa in partes tres”. Questo ci indica come il pensiero maschile delimita il suo oggetto di indagine, per penetrarlo ed arrivare a possedere una conoscenza. È rapido, lucido, preciso. 

Il pensiero femminile è aggregativo, parte dalla contemplazione dell’insieme, non è orientato a penetrare, ma ad assorbire l’oggetto della conoscenza, senza isolare i diversi aspetti di un contesto, ma esaminandoli nelle loro reciproche relazioni (deduzione, non intuizione). Non cataloga, ma crea analogie, non è veloce né sempre preciso, ma è attento alle variabili. Può sembrare disordinato e distratto ma arriva a grandi livelli di profondità proprio perché è paziente. 

Ecco, ora facciamo un altro salto in avanti e pensiamo a quelli che abbiamo definito come pensiero maschile e femminile come a processi mentali che appartengono a entrambi i generi, solo con padronanza e intensità differenti. 

È sbagliato dunque parlare di uguaglianza tra uomo e donna, il punto di forza infatti è proprio la diversità. Il pensiero ricettivo e il pensiero penetrativo sono complementari, e insieme partecipano ad una funzione mentale completa e armoniosa. Nella storia questa disparità ha portato ad una sorta di delirio di onnipotenza del processo mentale maschile e alla debolezza e alla tendenza caotica del pensiero femminile, il quale respinto nell’inconscio ha assunto spesso forme irrazionali, superstiziose e paralizzanti. Lasciandolo capeggiare però, il processo mentale maschile è diventato un tiranno convinto che l’universo conoscibile sia modellato sulla sua forma. È stato avvelenato dai suoi stessi eccessi, diventando ossessivo, dispotico e paranoico.  Ma sì sa che gli ossessivi finiscono per essere giocati dal loro stesso sintomo.

Marina Valcarenghi afferma infatti con una certa sicurezza che  “questo sistema maschile ormai da troppo tempo inflazionato, in grado di distruggere il pianeta ma non di sfamarlo, creerà un sacco di guai in un imminente futuro se non sarà affiancato, con pari dignità, dal pensiero femminile.” 

Anche nella sfera sessuale esistono due forme opposte di espressione: accogliere e penetrare. Non sono diversi il desiderio è l’appagamento, ma il modo in cui vengono vissuti.  Nel corso dei secoli la repressione femminile ha vincolato l’istinto sessuale al senso di colpa, radicato nell’inconscio collettivo tanto da farne perdere le tracce alla coscienza individuale. Il conflitto fra istinto e senso di colpa provoca sintomi, come blocco del desiderio e frigidità. L’incapacità di sopportare la tensione sessuale interrompe il circuito libidico. Naturalmente questo senso di colpa è inconscio e può agire anche in contrasto con le convinzioni personali del soggetto, che può avere opinioni perfino trasgressive da questo punto di vista e nello stesso tempo essere drammaticamente incapace di provare un orgasmo. La perversione che ne deriva sposta la libido dalla sua direzione naturale verso comportamenti compensatori, come un’iperattività coatta, ansia per traguardi sociali o economici, l’identificazione insidiosa della sessualità con l’amore e l’eccesso di senso materno. La perversione più sottile però è quella che associa la sessualità in maniera univoca all’amore, come se quel sentimento elevato dovesse giustificare  e liberare dal senso di colpa una naturale pulsione fisiologica, un naturale desiderio. Questa artificiale purificazione dell’istinto ha costretto tante donne a convincersi di essere innamorate anche quando avevano solo voglia di fare l’amore. 

Perché la repressione della sessualità femminile, pur avendo origini così lontane, ha ancora delle ripercussioni in un’epoca di ostentata libertà e permissivismo edonistico come la nostra? Vivere liberamente la propria sessualità restituisce alle donne la dignità del soggetto, mentre vivere la sessualità in dipendenza dal desiderio altrui costringe nella posizione di oggetto, senza identità, desiderio o aggressività. Le donne hanno imparato a vivere in funzione degli uomini, ed ora, correggere un’abitudine radicata nell’inconscio collettivo genera angoscia. Questo rende più facile ad una donna spogliarsi in pubblico e prendere l’iniziativa sessuale, che non abbandonarsi al piacere, perché nel primo caso rimane nella condizione di oggetto e nella seconda no. Al contrario, l’istinto sessuale maschile ha visto uno sviluppo ipertrofico, ma contemporaneamente si è visto privato del suo valore, nel momento in cui la religione cattolica ha generato anche qui i sensi di colpa, mentre i movimenti per la liberazione sessuale di fine anni ’60 hanno riportato alla luce il corpo sia maschile che femminile, però più come oggetto di consumo. Infine la cultura edonistica e permissiva, sovrapponendosi alla tradizione sessuofobica, ha collocato il corpo tra oggetto di culto e fonte di vergogna e disagio.