Le Fatiche dell’Aragosta
Abbandonare non è lasciare, lasciare è un’azione pensata, calibrata, ponderata… Abbandonare è un atto viscerale, un’esigenza inevitabile e improrogabile. Un’azione imposta alla persona o all’oggetto che la subisce. Lasciare qualcuno, invece, prevede un confronto, uno scambio dialettico, prevede l’atto di informare l’altro di ciò che sta accadendo.
L’abbandono è il terremoto che spacca la terra e distrugge ciò che si era costruito sopra. E poi l’abbandonato deve pensare a come ricostruire la sua misera vita sulle macerie e con le macerie che rimangono. E si può fare eh, anche con una certa raffinatezza, il problema è che se poi, in un futuro non sospetto, le casse del giradischi tremeranno un po’ di più, l’eco del frastuono della terra che gli è tremata sotto ai piedi riecheggerà nella sua testa e attorno a sé vedrà di nuovo macerie, anche se il paesaggio che lo circonda è un altro.
Abbandonarsi a qualcuno, invece, buttando giù i muri e le fortezze, mettendo da parte la voglia di impressionare, l’esigenza di un confine netto e quella di proteggere la parte interna più vulnerabile, è tutt’altra cosa. E fatta nella giusta misura e con le dovute cautele, può anche essere una straordinaria forma di libertà. Suona strano? Beh, la libertà è imprescindibile dagli altri. La libertà individuale fine a sé stessa è un concetto che non può esistere. Noi viviamo e risuoniamo anche negli altri. Nell’immagine che hanno di noi.
Si può abbandonare un’idea, una strada per un’altra (o per arrestarsi), si può abbandonare una convinzione, una cattiva abitudine, i vecchi pregiudizi che ci abitano, un sogno nel cassetto o una speranza, un affetto nel freezer della propria anima, un progetto, il tetto coniugale, la famiglia, un animale, i rifiuti sul ciglio della strada, gli studi, il lavoro o una situazione che richiede troppo da noi. E in tutto ciò troviamo delle aspettative che non ce l’hanno fatta.
Abbandonare è come rinunciare, rinunciare ad una parte di noi, all’investimento fatto, a una fatica che probabilmente non è debitamente appagata. Nell’abbandono troviamo massicce dosi di paura e insicurezza, l’ombra del fallimento, quella stessa ombra nata dalla luce dell’impegno e della motivazione, eppure nello specchio evidentemente non c’è riflessa l’immagine che volevamo vedere. L’abbandono è un’inversione a U.
È una condizione in cui si può essere vittime o carnefici, quasi con la stessa facilità.
C’è un concetto che nasce, come l’abbandono, in un contesto di necessità di rinuncia, di cambio di rotta, ma è molto più maturo, educato e diplomatico: lasciar andare, mettere via ciò che non ci identifica più, che non rappresenta più una situazione di equilibrio o di crescita. Un confine sottile che si muove tra percezioni, emozioni e sensibilità di persone diverse, ma come l’abbandono, può riguardare unicamente il soggetto stesso. Che venga esercitato su di sé o sugli altri, è un’azione che richiede un sacrificio, un’amputazione, quindi una quota di sofferenza. In fondo anche quando ci allontaniamo da qualcuno ci allontaniamo da noi, dalla parte di noi coinvolta in quel rapporto o contesto. E lo facciamo perché probabilmente i nostri bisogni sono cambiati e necessitiamo di nuovi spazi. A tal proposito voglio condividere con voi la parabola dell’aragosta del rabbino Abraham J. Twerski:
“L’aragosta è un animale soffice, molle, che vive all’interno di un guscio rigido. Questo rigido guscio non si espande. Allora, come fa l’animale a crescere? Beh, con la crescita dell’aragosta, quel guscio diventa estremamente limitante e l’aragosta si sente sotto pressione, a disagio. Così si nasconde sotto una roccia, per proteggersi dai pesci predatori, si libera dal guscio e ne produce uno nuovo. Con il tempo e con la crescita anche questo guscio diventa scomodo, così torna sotto la roccia e ripete. L’aragosta ripete questo processo più volte. Lo stimolo che permette all’aragosta di crescere nasce da una sensazione di disagio. Ora, se le aragoste avessero dei dottori, non crescerebbero più, perché al primo segnale di disagio l’aragosta andrebbe dal dottore a prendersi un Valium o un antidolorifico e si sentirebbe bene: non si libererebbe mai del proprio guscio. Quindi, credo che sia ora di capire che i momenti difficili sono anche i momenti di crescita maggiore, che non fanno altro che aiutarci; se mettiamo a buon uso le avversità, possiamo crescere grazie a esse”.
Ognuno può ricamarci su le proprie riflessioni, ma credo che rimanga forte il concetto che in alcuni momenti sia necessario sacrificare, tagliare, togliere e non solo aggiungere o riempire. La sofferenza va vissuta e attraversata, perché il nostro significato intrinseco si trova al di là di questa.
Perché in tutto questo c’è solo una persona che non ci deve e non ci può mai abbandonare: noi stessi.