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Mai come oggi nella società della comunicazione, viviamo immersi nei simboli o, meglio nei simulacri, come ben teorizzò nel suo trattato Jean Baudrillard (Simulacri e Simulazione del 1981), che costruiscono una realtà attraverso la quale “leggiamo” la nostra esistenza. I simulacri sono le gabbie semiotiche della società dei consumi che abitiamo e che costituiscono i nostri orizzonti di senso. Nello stadio della post-modernità in cui viviamo, il simulacro precede la realtà, redendo insignificante qualsiasi concetto di “originale” o di idea, annullando la distinzione tra realtà e rappresentazione, sostituendola con la simulazione

Siamo oltre l’opposizione di idea e realtà sensibile, di originale e copia, siamo ormai nella copia della copia, anzi nel regno delle copie e delle rappresentazioni fini a sé stesse.

Possiamo disquisire sulle molteplici cause, sicuramente sempre più legate alle dinamiche del dell’espansione dei media, della globalizzazione, della fine delle ideologie e del capitalismo multinazionale, di società sempre più individualistiche e atomizzate ma, sicuramente, il tema dell’ apparenza è sempre più centrale nel nostro tempo, dominato dall’incertezza, dall’insicurezza e dall’angoscia esistenziali. Condizioni dell’umano che ci sono da sempre, esplorate fin dall’antichità dal pensiero filosofico, a partire dalla divaricazione tra essere e divenire, oggi, più che mai, amplificate dal flusso assoluto che ci risucchia e rende tutto di difficile lettura e comprensione.

Conférence : quel avenir pour le cinéma en relief ? (Binocle 3D) - 3DVF
(Immagine dal Web)

Da un lato c’è infatti il moltiplicarsi dei simulacri che vedono sempre di più i media coinvolti nella costruzione di senso, dall’altro la perdita di ancoraggio dell’Io a punti di riferimento valoriali.

Prima con i reality show poi in modo estensivo con i social, si è messa in campo in modo estensivo  la messa in scena di sé. Possiamo definirci attraverso i profili con identità multiple, in grado di rappresentarci secondo quello che desidereremmo essere o, come vorremo essere visti dagli altri, il che acuisce quel processo di diffrazione dell’Io e di dissociazione esistenziale quali fenomeni già in atto da tempo con l’avvento della post-modernità, che ha ridefinito nuove forme della soggettività.

Emblematico in tal senso il Pirandello di Uno, nessuno e centomila con la cessazione da parte del personaggio principale dei contrasti tra l’Io ed il mondo e la “rinuncia” a quest’ultimo. 

Venezia Maschera Mascherare - Foto gratis su Pixabay
(Immagine dal Web)

Interessante l’interpretazione della filosofa Barbara Carnevali sulla “libertà della maschera” che può essere vista da un lato come gioco di “sperimentarsi”, in tema tra l’altro con il periodo di carnevale inteso come parantesi e sospensione dei ruoli sociali, con una fondazione estetica che si ricollega alle esperienze rinascimentali e barocche; dall’altro come possibile esigenza di anonimato per ripararsi dal lato “pubblico” a cui si è esposti nelle società attuali o all’occhio del “potere” (si pensi ad esempio alla dissimulazione di libertina memoria o alle esperienze di “identità condivisa” del movimento anonymous).

Alla liberazione dell’Io moderno e a queste sue forme, riconducibili anche alla condizione umana, resta in tutta la sua problematicità la ricerca dell’autenticità e di un rinnovato rapporto con il mondo che non può non passare per la veridicità delle relazioni con l’Altro e la ricerca di una propria originarietà e di una soggettività profonda che si rapporta anche con la trascendenza. 

Chiarificazione esistenziale, educazione, riconoscimento dell’altro, dovrebbero essere le dimensioni culturali per la crescita personale e collettiva, per contribuire anche a quel passaggio, attraverso la partecipazione ed recupero degli spazi sociali e di vita associata, dalla rappresentazione ad una vera rappresentanza anche nella dimensione politica.

Gianfranco D’Amato (penultimo a da destra) con gli amici volontari che hanno partecipato a questa seconda Odissea della Pace.

Sono più di 70.000 i profughi ucraini arrivati in Italia dall’inizio della guerra, per la maggior parte donne e bambini. Non trovo le parole per poter descrivere le storie di chi ha perso tutto, dalla casa, alla famiglia, al lavoro, ed è fuggito dalle zone di guerra, scampando alla morte.
Sui loro volti si leggono paura, dolore e profondo smarrimento.
Non sanno come andrà a finire questa triste vicenda, non sanno quando e se rivedranno i propri cari, la propria patria.
Molti di loro hanno varcato il confine, ma sono rimasti sulla linea di frontiera, con la speranza di potere tornare nelle loro città. Ma la guerra sta dettando legge e allontana un popolo dalla sua Terra.
Tutto questo è inaccettabile.
Sono molte le missioni umanitarie in atto che stanno consegnando in Ucraina i beni di prima necessità, i medicinali, e che stanno portando in salvo migliaia di persone, senza poter contare sulla solidità dei corridoi umanitari.
Prezioso è l’impegno dei volontari che partecipano con grande volontà e tenacia a queste spedizioni.
Impegno che continua anche al rientro in Italia con la messa in campo di progetti di prima accoglienza, assistenza, inserimento e integrazione, grazie ad una fitta rete di contatti e alla disponibilità di molte famiglie italiane.
Queste imprese, queste storie di solidarietà e speranza, meritano di essere raccontate.
Ne parlo ancora una volta con Gianfranco D’Amato, reduce da pochi giorni dalla sua seconda “
Odissea della Pace” in Ucraina.

Ciao Donatella, abbiamo deciso di fare questo secondo viaggio quando, la volta scorsa, arrivati con i 16 convogli di aiuti al confine tra la Romania e l’Ucraina, abbiamo deciso di portare con noi in Italia alcuni profughi.
Laggiù abbiamo visto tantissime mamme con i loro bambini e siamo riusciti a portare in salvo una ventina di persone.
Non eravamo andati laggiù con quell’intento, ma visto che nel frattempo alcune famiglie si erano rese disponibili all’ospitalità, lo abbiamo fatto.

Rientrati
in Italia abbiamo ben ragionato sulla questione, avendo più chiara la
situazione che avremmo trovato in quei luoghi, e ci siamo organizzati per
tornare laggiù, con criteri totalmente differenti.

Siamo ripartiti venerdì 25 con 4 van. Eravamo in nove, per darci il cambio alla guida, e abbiamo caricato questi mezzi all’inverosimile, con scatoloni di viveri, medicine e altri beni di prima necessità.
A differenza dell’altra volta avevamo già una rete di contatti tramite l’Associazione di ex universitari di Villa San Giuseppe, a cui appartengo, e inoltre avevamo i nominativi delle famiglie disposte ad ospitare i vari profughi. Voglio sottolineare che le famiglie coinvolte sono tutte di persone amiche o appartenenti a questa Associazione, in modo da garantire maggior sicurezza e controllo.
La destinazione finale è stata il Piemonte, perché il nostro Collegio di studi è collocato a Torino.
Una signora ucraina che vive a Milano, Mariya Tatarenko, che già ci aveva aiutato con la prima spedizione, è stata il fulcro di questa missione.
Senza di lei non saremmo potuti partire. Ci ha dato molti suggerimenti e i numeri di telefono per individuare chi potesse avere bisogno del nostro aiuto e, cosa più importante, ci ha messo in contatto con Anna, la responsabile del centro di accoglienza di Zamosc, sul confine tra Polonia e Ucraina, meta del nostro viaggio.

https://youtu.be/Kro_Is7zFE0

Quello di Anna è stato l’aiuto determinante. Sono stato in contatto con lei per giorni interi, per individuare le persone da portare in Italia, già attese dalle famiglie dei nostri amici.
Arrivati al centro profughi, Anna ci ha accolti come se ci conoscessimo da una vita. Grazie a lei e al suo instancabile lavoro siamo riusciti a portare in Italia 19 profughi ripartiti con noi a bordo dei van. Con loro anche due cani e un gattino.

Quando eravamo a Zamość ci siamo impegnati al massimo per riportare più gente possibile, anche se il tempo a nostra disposizione era poco.
Eravamo riusciti a recuperare 16 persone e grazie all’intervento di Maryia, a Cracovia, si sono aggregate al gruppo altre tre, tra cui due anziani di Mariupol che avevano perso la loro casa ed erano stati tratti in salvo dalle macerie. Erano terrorizzati! E’ stato molto difficile convincere questi ultimi, perché erano talmente disorientati che facevano fatica a fidarsi e ad affidarsi. Ma alla fine, siamo riusciti a convincerli, assicurando loro che li avremmo accompagnati personalmente dalla famiglia che li avrebbe accolti.

Gianfranco D’Amato con i due coniugi di Mariupol

Abbiamo accompagnato la piccola Evelina dal centro profughi di Zamość a Rivoli, da Mario e la sua meravigliosa famiglia. Con lei, la mamma, la nonna e l’inseparabile cagnolino.
A destinazione ha trovato un altro amico a quattro zampe e ha subito festeggiato il suo compleanno con una meravigliosa torta decorata con la bandiera ucraina.

Mille auguri Evelina!

Gianfranco D’Amato

Il gruppo di volontari del Comune di Segrate

“La generosità è un’onda che trasforma un piccolo gesto in un grande progetto: voglio ringraziare tutti coloro che hanno cooperato per la riuscita di quest’impresa con le donazioni, con il lavoro fisico, con ogni genere di mezzo e risorse. Non da meno è stato l’interesse del mondo del web, con molti influencer e personaggi che hanno lavorato con i volontari e hanno condiviso l’iniziativa in rete per farla conoscere”.

Arcivescovo Avondios Bica

Il progetto Odissea Della Pace – IL TUO AIUTO PER L’UCRAINA è nato per iniziativa di Avondios Bica, Arcivescovo della Chiesa Ortodossa di San Nicola al Lazzaretto a Milano, e di alcune organizzazioni di volontari dell’hinterland milanese e rappresentanti delle istituzioni comunali, che hanno sospeso le proprie attività per dedicarsi completamente a questa importante causa umanitaria, portando sostegni alla popolazione ucraina colpita dalla guerra.
All’inizio del mese di marzo, é partita da Milano una lunga carovana composta da 16 tir, che dopo due giorni di viaggio senza sosta, ha consegnato oltre 150 tonnellate di beni di prima necessità direttamente in territorio ucraino. Venerdì 18 marzo è partita una seconda staffetta destinata a sostenere le strutture di accoglienza dei profughi e gli orfanatrofi dell’Ucraina
L’Odissea della Pace è una delle tantissime iniziative di solidarietà nate in tempo record grazie alla partecipazione di moltissimi volontari e al contributo di molti personaggi famosi e influencer, che con i propri canali social hanno amplificato questa lodevole iniziativa, sensibilizzando e coinvolgendo così centinaia di cittadini che si sono presentati la notte prima della partenza per aiutare a caricare i tir. Tra questi ultimi, voglio ricordare Paolo Stella, Diego Passoni, Sirio, Victoria Cabello, Nilufar, Dario Head, Clementina Coscera, Alessandra Airo, Andrea Serafini, Nike Martens, Frank Gallucci, Giulia Gaudino, Davide Patuelli, Ana Laura Ribas, Federico Figini, Benedetta Piola, Angelo Cruciani, Tommaso Zorzi, Tommaso Stanzani, Edoardo Mocini.
Un grazie speciale va a Event Management srl., alla Ditta Capozi che ha messo a disposizione camion e tir per il trasporto di viveri e farmaci, alle Associazioni Cleanbusters, Milano SoSpesa e Noah, alla Parrocchia cattolica di San Gerolamo Emiliani, al Comune di Milano zona 3, ai Comuni di Pieve Emanuele, Assago, Basiglio, Opera, Siziano, Rozzano, Gambolò e Segrate.

Tra i molti volontari di questa lodevole impresa c’é anche Gianfranco D’Amato che da Segrate si è unito al convoglio e ha tenuto il diario di bordo della spedizione.

Ciao Gianfranco, ci vuoi raccontare questa toccante esperienza?

Ciao Donatella, tutto é iniziato a febbraio con un sms di un amico, mentre stavo trascorrendo qualche giorno in montagna. Il messaggio diceva che a Segrate stavano facendo una raccolta per aiutare la popolazione ucraina e che avevano intenzione di pubblicare un volantino per coinvolgere le persone a donare cibo, vestiti e medicinali.

Un gruppo di persone era in contatto con la Chiesa Ortodossa di Milano e insieme siamo riusciti a raccogliere una incredibile quantità di aiuti.
Il Comune di Segrate ci ha destinato degli spazi per il deposito e man mano che arrivavano le donazioni, i volontari ci aiutavano a smistarle e a inscatolarle.
Col passare dei giorni, eravamo decine e decine di persone a gestire tonnellate di roba. E la cosa meravigliosa è che tutto è nato per caso. Nulla è stato programmato a tavolino.

A Cascina Commenda, sono stati giorni massacranti a lavorare fianco a fianco con decine di persone che avevano lasciato tutto per dedicarsi all’emergenza.
C’era un fiume di gente che arrivava per donare l’inimmaginabile, ognuno portava quello che poteva e i bambini, in prima fila, regalavano i loro giocattoli per i bambini ucraini
Sono state raccolte tonnellate di beni di prima necessità.
Abbiamo trascorso ore a cercare mezzi e risorse, a pianificare, a sincronizzare meccanismi e programmare azioni, compiti per i quali generalmente servono settimane di tempo.
Qualcuno ha deciso di scatenare una guerra, noi a Segrate, come tanti altri in tutto il mondo, abbiamo risposto così.

La sensazione di vivere in un luogo in cui la gente risponde con tanta generosità a un’emergenza non ha davvero prezzo!
Da quando ho ricevuto il primo messaggio sull’iniziativa, è stato un diluvio di comunicazioni, adesioni, richieste di partecipazione.
C’è tanta gente per bene che, oltre a esprimere un’opinione netta contro la guerra, ha deciso anche di darsi da fare. Si è messa in moto una macchina che sta creando un incredibile effetto domino. Sono orgoglioso di appartenere alla comunità segratese, che in questo drammatico frangente reagisce così.

E’ stato un lavoro estenuante concentrato in soli 4 giorni. E’ davvero incredibile quante persone si sono fatte in quattro per raccogliere, raggruppare, inscatolare, etichettare, trasportare migliaia e migliaia di pacchi.

Sì Donatella, io li ho definiti gli angeli di Segrate.
Appena abbiamo iniziato la raccolta, avevo chiesto al mitico Nunzio Brognoli, leader indiscusso di questa estenuante attività durata quattro infiniti giorni, di raccogliere TUTTI i nomi delle fantastiche persone che hanno lavorato ininterrottamente. Sono così tanti che qualcuno è certamente sfuggito. Tra loro e con loro l’Associazione Nazionale Carabinieri e i volontari della Protezione Civile di Nunzio. Questi, uno per uno, i loro nomi:
Nunzio Brognoli, Claudia Delissandri, Giulia Di Dio, Martina Paiè, Carmelo Alacqua, Mara Altomare, Giovanni Valore, Cornelia Bonfanti, Mario Sormani, Vitale Loto, Sabrina Casiroli, Grazia Santalucia, Maurizio Borgato, Corrado Luppi, Vanda Tubia, Guido Coltivato, Anna Maria Paci, Ornella Paci, Annamaria Legrottaglie, Enrica Mezzella, Giuliana Lusso, Silvia Milesi, Demetrio Russo, Gabriele Gazzoli, Fabrizio Giaccon, Lara Giaccon, Sestica Molle, Alessandro Andreoli, Liba Shevchenko, Mariella Bolchi, Andrea Bertani, Piera Ompi, Carmelo Alacqua, Angelo Nicoli, Ombretta Pizzera, Giouliana Lusso, Mary Pizzera, Alina Thompson, Federica Cazzaniga, Alessia Gandini, Anna Carriero, Dario Giove, Andrea Belloni, Filippo Goldoni, Mucchi Facchinetti, Celeste Facchinetti, Silvia Vitali, Giuseppe Ferrante, Maria Antonietta Romanoni, Elisa Bragagnolo, Paolo Casati.

Nel contesto di una situazione confusa e difficile in cui stanchezza e stress si accumulavano, questa è stata innanzitutto una squadra fenomenale di amici, unita da uno scopo comune.
Una vera macchina da guerra, in moto per l’unica guerra che noi riconosciamo, quella a difesa della solidarietà.

L’Arcivescovo Avondios Bica prima della partenza del convoglio

Il 4 Marzo vi siete ritrovati al punto di raduno per la partenza, a Milano.

Sì, abbiamo recuperato 5 mezzi di trasporto e con altri volontari di Segrate ci siamo uniti alla carovana guidata dall‘Arcivescovo Avondius Bica, che aveva scelto come tappa di partenza lo spazio esterno della Ditta di trasporti Capozi, a sud di Milano.
Un’organizzazione incredibile! Ogni mezzo era meticolosamente incolonnato e aveva sul fianco la scritta ‘aiuti umanitari per l’Ucraina’.

La coda al confine tra Romania e Ucraina

https://youtu.be/wHLzyjwP_HI

https://youtu.be/Hkx9ron87G8

https://youtu.be/XwSPjbGJ5CY

Sapevamo che il luogo di destinazione era al confine tra Romania e Ucraina, e che al nostro arrivo, avremmo avuto dei contatti grazie all’Arcivescovo Bica.  Alcuni aiuti li avremmo dovuti lasciare al confine e altri li avremmo dovuti portare oltre confine, a 35 km, in una cittadina in Ucraina.

Noi non abbiamo attraversato il confine e ci siamo fermati al campo profughi, dopo un viaggio da incubo attraverso la Romania.
Mentre in Slovenia e in Ungheria ci sono autostrade, in Romania ci sono strade dove non puoi superare gli 80 km orari. Abbiamo impiegato 32 ore per arrivare a destinazione!

Al campo profughi c’erano tantissimi volontari e Rumeni che lavoravano assiduamente. Avevano in braccio bambini ed era impressionante il flusso continuo degli arrivi di mamme e bambini.
La temperatura era a meno 3 e nevicava copiosamente.  
C’era un brulichio, un fermento di umanità difficile da descrivere se non ci si trova in mezzo. 

https://youtu.be/y1fNGzclAXs

Alcuni rappresentanti di associazioni di volontariato, con cui eravamo in contatto, ci hanno trovato da dormire in una canonica perché tutti gli alberghi erano pieni.  Tutta la città era strapiena. 
Tutto era improvvisato e senza programmazione.  

Chi era in possesso di passaporto poteva oltrepassare il confine.
Alla dogana c’erano controlli molto severi ma alla fine le merci sono state portate in territorio ucraino.
Noi volevamo sapere a chi sarebbero state destinate e sono state perciò scaricate insieme ai rappresentanti della
Protezione Civile Ucraina.

I pacchi venivano spostati da un camion all’altro.  Alcuni di noi sono saliti sui loro camion e hanno raggiunto la Chiesa del Vescovo ucraino per scaricarli personalmente nei magazzini, per monitorare il tutto ed essere certi che le merci arrivassero alle parrocchie ucraine.
In questo modo, abbiamo seguito l’intero flusso delle merci.

E’ stata una grande prova questo viaggio.

Abbiamo dormito 10 ore in 4 giorni.  
Abbiamo viaggiato 1 giorno e mezzo senza sosta.
Qualcuno ha dormito nei TIR e poi alla mattina prestissimo siamo andati al confine dove abbiamo trovato la situazione che ti ho descritto.  
Poi rientrati, siamo tornati al campo profughi per vedere se qualcuno poteva venire con noi, sui 15 mezzi che avevamo a disposizione.
Questa azione é stata fatta con molta cautela. 
Perché é indispensabile conoscere il luogo preciso della loro destinazione e devono essere in possesso di documenti in regola altrimenti in Ungheria non possono entrare.

Noi del gruppo di Segrate abbiamo portato in Italia 8 profughi e altri 12 sono stati accolti sugli altri mezzi.
Dei nostri, Veronica, la più piccolina (solo un anno d’età), é stata accompagnata a Bergamo
insieme ai suoi giovanissimi genitori e ad un’altra mamma con il suo bambino. 
Con me e l’amico Michele Romanelli, hanno viaggiato Olga e le sue due figlie: Anastasiia e Ksenia. rispettivamente di 4 e 9 anni, scappate da una città vicino ad Odessa.
Per tutto il viaggio abbiamo comunicato con Google translator e Olga ci ha raccontato che i suoi genitori avevano perso la casa sotto i bombardamenti mentre suo marito e suo fratello erano rimasti a combattere.  Lei era riuscita a fuggire con le figlie e voleva raggiungere a Catania la sorella. 
La cosa bella è che queste bambine, nonostante l’orrore vissuto in Ucraina, hanno giocato, riso e dormito durante tutto il viaggio verso l’Italia.   

Gianfranco D’Amato sul Van insieme a Olga, Anastasiia e Ksenia

Sono stati molti i momenti emozionanti.

Tutto il viaggio lo è stato.
Un momento molto bello è stato quando il segratese
Nunzio Brognoli ha raggiunto il convoglio con la macchina della Protezione Civile e, superandolo, lo ha guidato fino in Ucraina.

E’ stato molto toccante vedere la piccola Veronica in braccio ai suoi genitori, vedere lo sguardo di Olga e delle sue due bambine.

Ti senti responsabile di queste vite.

La piccola Veronika in braccio al padre

Con Olga ci siamo scambiati tantissimi messaggi per sapere del loro arrivo in Sicilia. Purtroppo, appena arrivate, le cose si sono un po’ complicate.
Pare infatti che non possano essere ospitate da sua sorella
Nadia e inoltre, per poter ottenere i documenti da rifugiati, debbano rimanere per qualche tempo in una struttura religiosa a Ragusa, dove si trovano attualmente.
Si spera che prossimamente possano tornare a Catania, vicino a
Nadia.

Mi stanno contattando in tanti per questa vicenda: ma noi non abbiamo fatto niente di particolare. 
Quando abbiamo visto in tv quello che stava accadendo ci siamo semplicemente alzati dal divano.

Alla fine, si tratta solo di alzarsi e di fare.
Prendi un van e, invece di fare un viaggio, vai laggiù.

Raccolta fondi di Ioan Bica : L’Odissea della Pace: il tuo aiuto per l’Ucraina! (gofundme.com)

Venti di guerra e tentativi di pace. La chiesa cattolica è punto di riferimento per chi prova a proporre un trattato che possa assicurare pace anche in questo difficile conflitto, ma già da tempo, già prima che scoppiasse questo conflitto in seno all’Europa, il Sommo Pontefice aveva proposto di mettersi in cammino per la pace, parlando di chi si impegna a costruirla la pace.

Per parlare di questo incontro Vittorio Gruzza che è uno di quei “Portatori di Pace” che Papa Francesco a chiamato nella chiesa.

Trentino, classe 1980, laureato in Giurisprudenza all’università degli studi di Trento. Dopo aver lavorato per 10 anni nell’industria del gaming occupandosi di compliance aziendale a 360°, dal 2018 è analista finanziario indipendente. Oggi risiede a Roma dal 2011 con la sua famiglia e da quasi due anni fa parte dell’equipe pastorale della parrocchia San Giovanni De La Salle, costituita in risposta al progetto di Papa Francesco per rinnovare e riformare la Chiesa.
Interessi: macroeconomia e finanza, musica e trekking. In generale “cercare di far del bene ed essere utili, laddove si può”.

(Foto dell’Ospite)

L’azione avviata in tutte le diocesi, in tutte le parrocchie è partita da diversi mesi: «Tutti siamo chiamati ad essere costruttori di pace», ha detto il Santo Padre. Ma che vuol dire effettivamente essere Costruttori di Pace?
Personalmente credo che essere “costruttori di pace” significhi essenzialmente essere portatori unilaterali e senza impegno di perdono, disinteresse, ascolto e semplicemente amore. Tutto gira intorno a questa parola. Saper amare è chiave fondamentale per portare la “pace”. Quella vera, quella che tocca il cuore e sa accogliere e placare il mare mosso che ognuno di noi porta dentro, inevitabilmente.

Il Papa ha invitato tutti i fedeli nell’occasione del Mercoledì delle Cenerdì a partecipare ad un momento di Digiuno e di Preghiera per la Pace, per percorrere ogni sforzo possibile. La Quaresima inizia proprio sotto venti di guerra. Che sforzi si possono fare? Serve la Preghiera?
Credo che la cosa giusta da fare sia mettersi a disposizione per quel che si necessita, a cuore aperto. Dire “io ci sono, se serve sono qui” e tenere gli occhi e le orecchie attenti per cogliere queste occasioni. Tuttavia, davanti ad eventi tragici come una guerra, credo che purtroppo le cose da fare che possano effettivamente controbattere alla drammaticità che un tale evento scatena nelle persone che la vivono, siano ben poche. E’ un aiuto, non è un rimedio. C’è un passo del Vangelo in cui Gesù ci dice che se pregassimo con fede avremmo il potere di ordinare alla montagne di spostarsi. La Madonna più volte ci ha ricordato in questi anni che la preghiera ha la forza di fermare le guerre e le leggi naturali. Per quanto tutto questo possa sembrarci lontano dalla materialità del nostro mondo, Io ci voglio credere.  Quante volte abbiamo sentito che la vita di un essere umano è stata salvata da una cosa invisibile come una parola detta al momento giusto? La preghiera è uguale. Viaggia con “parole” scaturite dal cuore dell’uomo che vanno a bussare alla porta del cuore di Dio, nostro Padre. Oggi crediamo ad ogni cosa ci venga propinata sia in tv che alla radio senza minimamente verificare spesso le fonti. Credo sia giunto il momento di credere anche alla Parola di Dio.

(Immagine dal Web)

Mi ha molto colpito vedere l’immagine del Cristo messo in sicurezza dai cittadini, quando hanno difficoltà a mettere in sicurezza loro stessi. Come se quel Cristo fosse effettivamente parte delle proprie vite, delle proprie identità.
E’ un immagine che insegna molto su ciò che può contare davvero nella vita delle persone. E’ una preghiera fatta con le mani e con il corpo. E’ un voler dire al mondo “stiamo perdendo tutto ma non siamo disposti a perdere la nostra fede e la nostra speranza”. Ci sono poche parole secondo me per carpire la profondità di questo gesto ed anche la sua disperazione. Ma il sapore ultimo che provo nel guardarla, non è certo di disperazione, semmai di coraggio, forza e fede. Grande esempio.

La guerra in Ucraina ci ha riportato alla mente situazioni fosche che hanno sconquassato l’Europa e che abbiamo sentito dai nostri nonni – come la Seconda Guerra Mondiale – oppure abbiamo visto nell’ex-Jugoslavia ma che abbiamo pensato relegata ad un momento storico particolare e irripetibile. E invece già l’Ucraina è stato territorio di guerra 8 anni fa. Come si fa ad assicurare la pace? E si può assicurare la pace?La pace si fa nel momento in cui si rinuncia a pestare i piedi al tuo prossimo per trarne un vantaggio. Al di là di posizioni geopolitiche o storiche, peraltro rilevanti, il fondamento di tutto questo sta ancora una volta, nel cuore. Non può esserci pace tra gli uomini se nel cuore dell’uomo ci sono altri idoli. Purtroppo basta guardarsi intorno per capire che oggi, qui, su questa terra, dal teenager che “posta” un video su Instagram e che fa del numero dei suoi follower la sua ragione di vita fino ad arrivare alla banca centrale di qualche paese che dietro la scusa della stabilità economica e dei prezzi opera in modo discutibile attraverso certe politiche monetarie, ciò che conta è il potere, il denaro e il controllo. Finché gli dei saranno questi, non avremo mai vera pace.

(Foto dell’Ospite)

Nel mondo ci sono tanti e tanti teatri di guerra, non solo l’Ucraina. Il Santo Padre si è speso molto per quei territori abbandonati. Ricordo con toccante commozione il gesto umilissimo, con il respiro affaticato di un uomo anziano, che chiede di mantenere la Pace, davanti ai leader del Sud Sudan, sbigottiti e colpiti. Perché la pace non è solo da costruire ma è anche da mantenere, da custodire.
(NdR: questo è il momento al quale ci riferiamo, avvenuto ad Aprile 2019 https://www.youtube.com/watch?v=ZMl_Wf-0jmE)
Assolutamente si. La pace è un dono prezioso e santo. E come ogni cosa santa il demonio ce la vuole distruggere, rubare e portar via. E’ nostra responsabilità mantenere la pace donataci da nostro Padre in cielo, un giorno alla volta, con le nostre libere scelte. Sapendo di essere figli imperfetti e fratelli lunatici. Fa parte del gioco esserlo. L’importante, è avere ben chiaro la sacralità di ciò che la pace contiene e genera.

Lei, Vittorio, coordina un gruppo di una parrocchia a Roma e si spende in prima persona per questo obiettivo che è decisamente immenso. Non si sente un pò una goccia in un mare in burrasca?
Io, insieme a mia moglie Nadia, abbiamo solo dato il nostro piccolo “si”, come altri dell’equipe pastorale e certamente, sono meno di una goccia. Anzi io non sono nulla. Ma il mio nulla è sufficiente nelle mani di Colui che risorge i morti, di Colui che dà la vista ai ciechi e che guarisce gli ammalati. Se penso alla possibilità che Dio, possa usarmi anche per pochi secondi della mia esistenza per agire o toccare il cuore del mio prossimo che non a caso ho davanti, quanto, come e dove dice Lui, mi basta per essere in pace. Alla fine siamo solo strumenti. Tutti noi. Ma come dicevo prima, quando Dio opera credo lo faccia rapidamente. Pochi secondi per resuscitare un morto e ancor di meno per guarire un sofferente.
Bastano pochi secondi per fare del bene. Lasciamo decidere a Lui, il quanto, il dove e il come.

Mi sembra che tutti noi siamo prigionieri in un tempo che scorre, allo stesso momento veloce e lentissimo.
Prigionieri di una nostra condizione di “sospensione” al di là del tempo.
Rileggo questo numero del nostro giornale, ché è anch’esso uno strumento per leggere il tempo che trascorre, come fosse un orologio, e così passiamo dal Carnevale alle notizie relative alla Guerra in Ucraina, quasi senza soluzione di continuità.

(Immagine ESA)

La situazione è sicuramente molto complessa: la Pandemia ha spezzato tanti equilibri e ora, anche se è passato quel primo momento di “stupore” e abbiamo imparato a conoscerlo il virus, la sensazione di paura e di sospetto non ci ha completamente abbandonati, i venti di guerra sono tornati a soffiare in Europa e l’invasione Ucraina ci ha posto davanti ad altri interrogativi e dubbi, e paure.
Eppure sento che le immagini scorrono senza lasciare un segno dentro, come un film proiettato alle nostre spalle.

Viviamo in un intorpidimento della nostra coscienza?
Viviamo in un intorpidimento della nostra mente?
Viviamo in un intorpidimento delle nostre energie?

A mio avviso viviamo in uno stato di mancata percezione del tempo che scorre e quindi sentiamo meno la pressione a “fare qualcosa”, l’impellenza di voler superare quegli equilibri spezzati e quella paura sopraggiunta.
Eppure dall’inizio dell’anno, da quel Primo Gennaio che abbiamo festeggiato pieni di buoni propositi, pieni di pensieri sull’anno che si stava per aprire davanti a noi, da quella mezzanotte la nostra cara vecchia Terra ha fatto un quarto del suo giro attorno al sole.
Lei ha fatto parte del suo viaggio, ha percorso un quarto della sua rivoluzione e ora sta a noi, a ciascuno di noi, fare – almeno in parte – la nostra rivoluzione.

Maurizio Biosa, milanese, ha maturato molte esperienze di studio, professionali e di vita sociale. Negli anni novanta ha lavorato come educatore in diversi Centri di aggregazione e dal 1991 al 2002 è stato prima allievo e poi attore della famosa Compagnia QuellidiGrock.
Fotografo freelance, promotore e portavoce del Forum Europeo del Teatro fino al FSE di Londra 2004, Biosa è stato co-fondatore e attore (con la Compagnia Figure Capovolte) del gruppo di ricerca e produzione teatrale Memoria del Presente.
In ambito giornalistico ha collaborato con AGR (agenzia radio-giornalistica) e con la redazione di Box Office Italia.
Nel 2011 si laurea in Programmazione dei Servizi e delle Politiche Sociali alla Facoltà di Sociologia presso l’Università Bicocca di Milano: le sue aree di intervento sono l’interazione interculturale, la mediazione dei conflitti sociali, la mutualità di territorio, il sostegno alla patologia e alla fragilità e la riduzione del disagio sociale.
Educatore professionale per la Comunità MizarCoop.va Filo di Arianna (Responsabile del servizio per la Rete Territoriale), Responsabile dell’Area notturna della Comunità di doppia diagnosi Alisei per CeAS – Centro Ambrosiano di Solidarietà, agente del cambiamento per i diritti sociali e specialista esperto della relazione educativa in contesti complessi o problematici, il suo percorso si allarga alla ricerca antropologica fino ad arrivare alle esperienze di auto mutuo aiuto dedicate al lavoro ed alle attivazioni di progetti sul territorio.
Dall’autunno del 2017 è tra i soci fondatori di Radio NoLo aps.
Sensibile allo sviluppo e alla progettazione “aperta” di reti territoriali di comunità, così come alla facilitazione, alla generazione e valorizzazione delle espressioni artistiche, culturali ed antropologiche già presenti sul campo, ha maturato anche esperienze nelle banlieues parigine ed in terra di Palestina, Gerusalemme Est (Shu’fat camp).
E oggi?Oggi affronto come il resto dell’umanità questa ‘fase pandemica’ e il fantasma della Terza Guerra Mondiale. Ma ci sono, viandante. Nessuno resti indietro. Restiamo umani e pace sulla Guerra all’Ucraina.”

courtesy by Virginia Cabras alias ALAGON @alagooon

L’Europa in apparente ripresa dalla Pandemia che ha colpito tutto il mondo è sprofondata dalla durezza dell’aspirante Zar Vladimir Putin.
Da giorni vivo con grande preoccupazione gli eventi.
Da giorni cortocircuito nel confronto con il reale. Come sotto assedio.
Non riesco a prendere le distanze da quanto è accaduto al popolo Ucraino.
Sono anche io in balia dell’”operazione militare speciale” voluta dal leader del Cremlino.
Si sostiene da lustri che la prima vittima in una guerra sia la Verità.

Una Ucraina, ‘amica e smilitarizzata’ è quella che qualche ora fa il Ministro della Difesa Lavrov ha ‘proiettato come un film’ con le sue parole, davanti ai giornalisti del mondo durante la Conferenza Stampa, al termine dell’incontro odierno col suo omonimo ucraino Kuleba, ad Antalya in Turchia.
Non invasa ma voluta e sostenuta per liberarla e restituirla alla storia della grande madre
Russia. Definitivamente denazificata e liberata dai tossicodipendenti e pure dai gay.
Ma da oggi anche per difesa dagli attacchi degli Stai Uniti…

Io non credo alla Verità.
La guerra è sempre, prima di ogni cosa, una catastrofe per i popoli.
Questa guerra, arrivata al suo 15° giorno, è al momento capace di stravolgere l’esistenza di milioni di persone tra cui almeno 2.500.000 tra donne, anziani e bambini, già rifugiati all’estero.
A detta di molti, la Resistenza del popolo Ucraìno e la imprevedibilità dei piani militari di Mosca potranno fare aumentare il numero di chi sarà costretto ad ‘andarsene’ dalla propria casa, o come la più parte, a lasciare il suo Paese.
I rifugi di fortuna, i tunnel della metropolitana di Kiev.
Bersagliati in tutto il paese dal nemico. Anche se oggi per loro è andata un poco meglio. Meno fuoco su di loro.

La Russia da giorni ha ‘aperto le sue braccia’ per accogliere con corridoi umanitari diretti ai propri confini le persone in fuga. Ma di fatto le scelte ed i modi di condurre l’Operazione da parte di Putin e dei suoi sottoposti, stanno spingendo chi scappa verso il confine Polacco, Moldavo e comunque verso un ‘ovest’, ambito e desiderato prima (l’agognato ingresso nell’UE), ed ora diventato la meta di una disperante fuga dalle proprie radici.

Verso l’Occidente, comunque… Senza “usare” le immagini che hanno fatto il giro del mondo nell’ultima settimana è il buon senso a proporre perché questo stia accadendo.
Il buon senso e… le fosse comuni dell’ormai trucidata Mariupol.
La scelta coraggiosa del Premier ebreo
Zelensky e con lui di un popolo fiero a votarsi alla Resistenza dell’Ucraìna, fa il paio con questa invasione Russa. Anacronistica, quanto disorganizzata, medioevale nella strategia della sua condotta, folle perché verso il cuore e il futuro di un intero continente. Rifiutata e condannata dalla più parte dei Paesi aderenti a ciò che resta dell’ONU. Dall’Europa tutta. Messa in difficoltà dalla coalizione delle sanzioni e degli aiuti economici e militari all’Ucraina.

Resta per chi scrive l’obbligo di spiegare quale sia la frustrazione nel ‘vivere’ più che mai in questi giorni spaventosi quest’occidente. Contraddittorio e bollato, nella contemporaneità, dalla ‘esportazione della democrazia’ e dalla vertiginosa fuga dall’Afghanistan.
Pronto a muovere eserciti per i propri interessi economici ma ridotto alle ‘sanzioni’ davanti alla pericolosa evoluzione verso un ipotetico nuovo Conflitto Mondiale che sarebbe probabilmente non più lungo di un’ora… Così come incapace di promuovere una campagna vaccinale mondiale per affrontare la pandemia. Ma a un tempo solo come uno di un popolo così radicalmente affezionato alla propria libertà.

Alla parola Libertà, a ciò che attualmente rappresenta tengo molto. Intimamente, nell’anima.
Ho ereditato questo radicamento dalla Resistenza nel mio Paese al Nazifascismo.
Dalla straordinaria vitalità di persone come
Liliana Segre e dalla figura intellettuale, poetica e politica di Pier Paolo Pasolini.
Dalla morte di
Fausto Tinelli e Lorenzo (Iaio) Iannucci.
Dal diritto all’autodeterminazione dei popoli, da quello Curdo a quella avversa a quello dei Palestinesi.
Dalla devastazione di intere culture, antiche come quella Mesopotamica in Iraq e dall’annientamento della fresca rivolta dei giovani di Hong Kong così come fu degli studenti di Piazza Tienanmen.
Dall’ipocrisia della ‘guerra umanitaria’ dei Balcani e da quella delle comfort-zones in cui in molti siamo troppo spesso barricati e da cui altri stanno fabbricando anche su questa “guerra” delle fake news. In qualche immorale modo per renderla plausibile.

Ed ecco che dopo tutto questo tempo, il sentimento dell’assedio nell’anima diventa di giorno in giorno insopportabile. Per non riuscire a sostenere altrimenti quelle donne, quegli anziani, quei bambini, inerti e in fuga davanti alla guerra di Putin.
In un momento in cui alla libertà siamo un po’ tutti disabituati, fuori sincrono, disumanizzati dal distanziamento pandemico come dalla paura dell’altro.
Legati solo dal timore del contagio e dalla speranza che si possa tornare a finalmente a “vivere”… Così come, fino a solo tre settimane fa, facevano le donne e gli uomini. Gli anziani e i giovani, l’infanzia in Ucraìna… Sorelle e fratelli. Come chi in Russia ora rischia la prigione (fino a 15 anni) se dice che questa è una guerra o manifesta per la fine delle ostilità.

Spero che questo incubo finisca presto, anche se probabilmente rischia di cambiare gli equilibri di un mondo che aveva più urgenza di far fronte unito contro la Pandemia e i cambiamenti climatici e non aveva certo necessità di un conflitto tanto pericoloso, le cui ferite mortali resteranno per lustri nelle memorie… Così come Putin, il nuovo “Zar”, internazionalmente riconosciuto come criminale di “guerra”.

Cessate il fuoco e… tornate a casa, tutti.
Perché i bambini devono poter tornare a giocare a Maidan*.

Milano 10 Marzo 2022.

*Maidan in ucraìno vuol dire Piazza. E’ così chiamata la Piazza principale di Kiev, Capitale dello Stato libero di Ucraìna.

La ragazza che sapeva trattenere le cose che sparivano. Storia di una principessa un po’ maga e un po’ fotografa. 

“In questa guerra che ammutolisce, vedo bambini con piccole borse colorate camminare al freddo accanto a madri, sorelle, nonne, zie.
Tutte donne che hanno il coraggio di ricominciare.
Penso tante cose; quelle che chi capisce più di me, sa comprendere e analizzare meglio di me.
Stasera mi atterrisce una cosa minima.
Se sei madre, sorella, nonna, zia e ti trovi in questa situazione e devi fuggire, lasciare la tua casa, le tue cose, il tuo posto, la tua cucina, le tue lenzuola pulite, cosa fai mettere ai tuoi figli, ai tuoi nipoti in quelle borse?
Un cappello per il freddo, matite colorate, un libro, un pupazzo, un maglione in più, la foto di una vacanza al sole, la cioccolata?
Come si fa a dire a un bambino questo sì, quello no. Come si fa a scegliere?
Come si fa?
Il mio pensiero minimo va a quelle donne, tutte, e a quei bambini”.
Eva Romoli 

(Foto dell’Ospite)

Somiglia in tutto ad una bambina antica, il suo aspetto fisico, i suoi lunghi capelli che ti viene voglia di sistemare con un enorme fiocco dal colore sgargiante, il tono della sua voce, la sua lentezza quasi avesse a disposizione l’eternità, la sua ingenuità, le sue lettere, i suoi pensieri e le sue parole scritte come in un diario segreto, quello di un tempo che aveva lucchetto e chiave. Il suo desiderio di fermare il tempo traspare in ogni cosa che fa, che pensa, che dice, appare come un volersi rapportare ad uno dei momenti più felici e sereni della sua vita. Eppure è una donna, una professionista, forte, coraggiosa, profonda. Ma quell’odore di biscotto appena sfornato che racconta una storia come fosse una favola, se lo porta addosso come un secondo abito.
Eva Romoli nel 2016 inizia un’attività molto curiosa, fotografa insegne antiche di ogni tipo di attività commerciale. Ovviamente inizia da Roma, sua città d’origine, ma poi la sua iniziativa interessa ogni parte del mondo e coinvolge sempre più persone grazie alla pubblicazione su Facebook. La storia coinvolge e raggruppa sempre più persone, amici reali e virtuali, che la sostengono, le inviano materiale, condividono e commentano. Eva diventa popolare, La Repubblica le dedica un ampio spazio sul quotidiano, la curiosità cresce e questo suo piccolo mondo antico inizia a diventare sempre più grande e popolato. 
L’abbiamo incontrata per i lettori di Condivisione Democratica. 

Più che una passione la sua appare come una esigenza, un bisogno, una chiara volontà di fermare il passato, i ricordi, le emozioni di un tempo in cui la semplicità e la felicità erano più a portata di mano, come se non si dovesse poi faticare molto per ottenerle. Quando si è resa conto di quanto fosse necessario e fondamentale utilizzare
la fotografia per ristabilire un legame così forte ed irrinunciabile?

“Era febbraio 2016. La mia idea originaria, quel pomeriggio, era di fotografare tutti i posti dove ero stata felice con l’uomo di cui ero innamorata. Volevo regalargli una foto per ogni posto in cui eravamo stati insieme. Poi, guardando portoni e vetrine, mentre aspettavo per entrare al cinema, in quei momenti che sembrano momenti persi camminando sul marciapiede, mi sono caduti gli occhi sull’ìnsegna rossa della tavola calda. Era quell’ora del pomeriggio, che ancora non è buio e che basta già per rendere le insegne ancora più luminose.
Ho usato la fotografia che conoscevo, quella col cellulare, perché era l’unico strumento per creare la mia scatola dei ricordi; per fermare i ricordi nel tempo; per dare a quei posti, a quei profumi, a quei mestieri e storie, una vita senza fine”.

Cosa accade ogni volta che fotografa una vecchia insegna?
“Provo la grande soddisfazione di esserci riuscita, di aver fatto in tempo, di essermi spinta per caso fino a lì. In realtà non sono mai andata apposta a cercare insegne per le strade. Sono le insegne che si sono lasciate trovare durante le mie passeggiate e i miei spostamenti a piedi e poi tantissime le devo ai miei amici, di vita e dei social. Alcuni conosciuti virtualmente solo grazie a questa avventura e che non smettono ancora di farmi costantemente bellissime sorprese”. 

Una raccolta di oltre mille insegne in sei anni, la prima risale al 2016. Sono raccolte in tutto il mondo?
“Sono arrivata a 1094 e sì, vengono da tutto il mondo. Ho iniziato dal mio quartiere e mi sono allargata a tutto il mondo, alle piccole isole greche, a quasi tutti i posti di vacanza di amici e di mio fratello. Le insegne sono diventate quello che erano in passato, le cartoline (anche di queste ne ho una bella collezione, una scatola di tutte quelle ricevute): ogni insegna diventa un pensiero e un saluto per me”.

Qual è stata l’insegna più significativa e per quale motivo?
“Quasi impossibile sceglierne una…. Le mie preferite sono foderami, passamanerie, negozi di bottoni, cartolerie, vecchie salumerie; se proprio devo scegliere, d’istinto il pensiero va al vini e olii vicino casa, che poi ha chiuso dopo poco tempo e sono stata felice di aver fermato quel ricordo, prima che venisse cancellato dalla strada.  

(Foto dell’Ospite)

Le insegne vanno di pari passo con mestieri ormai quasi del tutto scomparsi o con definizioni di mestieri che sembrano non appartenere più al vocabolario comune e quotidiano. Salsamenteria, coloreria, foderami, mesticheria. Parole che per molti rappresentano un vissuto sano e pieno. Il linguaggio dei giovani oggi è più aggressivo e diretto. Secondo lei il mestiere del “narratore” di vita passata può aiutare i ragazzi ad un confronto più maturo anche con se stessi?

Sarebbe un aspetto sul quale riflettere, ma che non nasce con la mia collezione. La mia raccolta ha una lettura molto più personale e non voglio veicolare nessun insegnamento. Mi basterebbe che la foto di un’insegna di foderami sollevasse la curiosità di chi ora o fra qualche anno non sa e non saprà nemmeno che anni fa si compravano le fodere e i bottoni, per fare e per riparare i vestiti. Mi piacerebbe non andassero perse quelle attività e quelle atmosfere,  quel modo di vendere e comprare senza fretta. Per esempio il piccolo mondo che ruota intorno alle pizzicherie, ai commessi con le cravatte dai nodi grossi, alle persone che entrano, si riconoscono e si salutano”.

Quanto è importante la volontà di condivisione in lei e come pensa di attivarla nel modo più ampio possibile?
“La condivisione è l’anima di questo percorso. Per questo ho scelto di pubblicare tutte le foto in un album pubblico su fb: per renderlo visibile e fruibile da tutti quelli che ne abbiano curiosità e per fa partecipare più persone possibili. Fossi stata da sola, questa raccolta non sarebbe diventata quella che è.
Ah, importante: anima del progetto è che le foto devono essere scattate sul posto, bisogna passarci davanti fisicamente e poi ogni foto deve essere localizzata topograficamente (sempre la città, meglio se con la via). Unica eccezione l’ho fatta io fotografando, all’interno di due ristoranti e di un negozio di sanitaria, le loro foto delle vecchie insegne, conservate in quadri appesi al muro, dopo la ristrutturazione dei locali”.

I suoi studi di archeologia ed il suo lavoro all’Istituto austriaco sono una parte importante della sua vita. Qual è il suo sogno per il futuro?
“I miei studi sono il mio passato e quello che mi ha formata e resa quello che sono, regalandomi lo sguardo che ho sulle cose, sulla storia e sulle parole; il lavoro che faccio da 20 anni mi permette il contatto con le persone e lo amo per questo. Di sogni ne ho sempre tanti. Se devo dirne uno legato a questa esperienza è pubblicare un libro con una scelta di insegne, raccontando la storia vera di quell’attività e scriverne accanto una io, una immaginata da me”.

Come immaginava il mondo da adulta quando la mattina prima di andare a scuola comprava mille lire di pizza bianca per la merenda?
“Per me, il mio mondo futuro di bambina era tutto il mio presente e contava solo che le persone che amavo fossero con me e che non mi mancasse mai il mare d’estate, la lista dei regali di Natale da scrivere con mio fratello, la pizza bianca sotto al banco. Mi immaginavo ballerina e mamma. L’immaginazione non mi è mai mancata”.

La sua iniziativa ha destato molta curiosità ed interesse, tanto da coinvolgere il quotidiano La Repubblica che le ha dedicato ampio spazio. Quando ha iniziato a fotografare le vecchie insegne immaginava ci potesse essere uno sviluppo “produttivo” e costruttivo?
“No, non l’ho mai pensato e non lo penso neanche ora. Per me iniziare è stato come mettere ricordi in un cassetto e mai avrei immaginato tutto questo interesse e le proposte che mi sono state fatte”.

Sulla sua pagina Facebook ha creato l’album “Lettere antiche” dove pubblica non solo il materiale fotografico ma pensieri, riflessioni, spunti e brani di altri autori. 
“L’album #lettereantiche su fb è dedicato solo alle insegne. L’album per le parole è #parolemie dove scrivo delle mie cose, senza un vero filo logico, se non il mio istinto, per fissare i miei momenti di gioia e quelli tristi. È nato per non lasciare perse nel flusso di fb le mie parole. Come vede, l’istinto alla conservazione e alla raccolta sono sempre prioritari per me!
Tra tanto materiale ho molto apprezzato il suo scritto sui bambini, le donne e la guerra.
Cosa metterebbe lei in quelle borse preparate frettolosamente per fuggire all’orrore della vita?
Me lo sono chiesto e quella lista mi spaventa: mi sembra ridicola e priva di rispetto per chi si trova senza niente ad elencare le mie cose.
Gli occhiali, un libro di mio fratello, l’astuccio, la mia agenda, il telefono e il carica batterie, le tre forcine per capelli di mia nonna, un sasso del mare di Santorini, una foto di mio padre che dorme sotto l’albero, le chiavi di casa, un fiocco di raso di mia madre, un rossetto e la mia acqua di colonia”.  

La rubrica “cose belle”, sempre su Facebook, è come un vademecum della vita semplice e facile. Ognuno credo voglia raggiungere questo obiettivo. Cosa fa lei per costruire un percorso più o meno lineare al di là di ciò che accade soprattutto in una città di sicuro difficile e caotica come Roma?
“Innanzitutto cerco di capire e di non scordare le cose belle che mi capitano; cerco di spronare il mio ottimismo. Anche nei giorni peggiori, sempre capita una cosa bella. Per esempio, durante il lockdown, uno dei primi giorni più tristi in assoluto, mi sono sorpresa contenta di una camelia che stava sbocciando. Così ho iniziato a scrivere ogni giorno una #cosabella nella mia agenda. A volte mi va di condividere queste cose su fb con una foto e allora può essere la gioia di mia madre per una torta inaspettata, mio fratello che torna per Natale, ritornare a parlare passeggiando per Roma con un’amica, che temevo di aver perso, il caffè con le amiche la domenica pomeriggio, prima del cinema, un mazzo di fiori il sabato mattina al mercato, una posizione a yoga che mi rende felice, un cibo speciale cucinato, una telefonata inaspettata. Ogni giorno capita una cosa bella, quello che serve è il tempo per accorgersene e quello di fermarsi per scriverla. Quando la scrivi, è ancora più bella, perché resta e non passa più. Non c’è nulla di lineare nella costruzione di questo percorso, che rimane ad ostacoli e di sicuro non porta alla felicità. Non esistono vite semplici e facili (nemmeno la mia lo è) e raccogliere cose belle mi aiuta a tollerare tutto il resto. Come passeggiare lungo gli argini del Tevere, guardando le cupole delle chiese e i terrazzi meravigliosi da sotto, scordandosi il traffico delle macchine che passano di sopra.
È come guardi le cose, che fa la differenza”.

Molti di noi si sono trovati a dover “camminare con una stampella” a volte anche solo metaforicamente, reggersi spostando il peso tutto da una parte, affrontare scalini, marciapiedi, strisce pedonali e porte dure da aprirsi con la spinta di una sola mano.
Eva è una donna forte, coraggiosa e “allenata”?

“Sono una donna: forza e coraggio me li sono dovuti prendere da sola”. 

Quali sono le sue passioni oltre alla fotografia di insegne antiche?
“Amo leggere e scrivere, il mare e la cartoleria, con tutto il mondo di penne, stilografiche, inchiostri, adesivi, nastri colorati e carte dai vari spessori. E mangiare”. 

Anche il suo aspetto rimanda un po’ al passato, a quelle donne di un tempo, dal viso importante, i lunghi capelli morbidi e gli occhi un po’ abbassati quasi per pudore, timidezza e riservatezza, dalla bellezza particolare e un po’ mistica. Cosa vuol dire essere donna oggi, cosa vede di diverso nel confronto con sua madre?
“Essere donna so quello che vuol dire per me, non so se sia “essere donna oggi”: per me è non smettere mai di credere di poter essere felice, di avere sempre un nuovo mare da scoprire. Questa illusione di avere davanti a me tutte le possibilità, è il regalo del cuore di mia madre. Il suo insegnamento più bello è in fondo la mia ricchezza vera”. 

Continuerà a fotografare insegne antiche o ha già pensato ad un altro modo per rapportarsi al suo essere bambina, fanciulla, adolescente, creatura di un piccolo mondo antico?
“Tutta la mia vita è un rapportarmi alla bambina che metteva da parte i cataloghi dei giocattoli per Natale, da settembre. La vedo e la porto in ogni cosa che faccio. Le insegne, continuerò per sempre a raccoglierle. Insieme a lei”. 

https://youtu.be/rUeH4ak1xgc

“Mai come in questi giorni questa canzone mi sembra avere un senso. Che delusione questo Futuro che si sta infeltrendo come un vecchio calzino di lana. Parafrasando il grandissimo Giorgio Gaber, ‘La Mia Generazione Ha Perso’, la testa e la memoria!
Scusate ragazzi… “

Eugenio Finardi

Il mondo osserva le scene più tragiche appiattite dalle immagini di monitor e tv. E’ l’immagine di un mondo fuori posto, dove ogni logica è saltata e dove la normalità è sospesa.
Non è una storia nuova lo svolgimento drammatico di questa guerra che ha frantumato in mille pezzi le molte illusioni sorte all’inizio degli anni Novanta con la figura di Mikhail Gorbaciov, allora segretario del Partito Comunista dell’Unione sovietica e presidente dell’Urss, a cui venne conferito il Nobel per la Pace, il 15 ottobre del 1990.
Grazie alla “Perestrojka”, ci fu un radicale cambiamento nella società del suo Paese. Le riforme politiche e la scelta di interrompere alla corsa agli armamenti giocarono un ruolo determinante per porre fine alla Guerra Fredda.
Ma questa parentesi illusoria, influenzata da un’eccessiva fiducia nel progresso, ha avuto vita breve. Perché la storia non ha un divenire lineare, ma è un’alternanza di periodi di pace ed espansione e di periodi di crisi e conflitti.

Lo sa bene Fulco Pratesi, Fondatore e Presidente Onorario WWF, a cui ho chiesto di darmi un suo pensiero su questo ennesimo disastro in atto. Con la grande disponibilità e cortesia di sempre, Pratesi mi ha risposto con queste parole:

“Cara Donatella, purtroppo quella a cui stiamo assistendo non è che una delle infinite scene del repertorio creato su un innocente Pianeta e sulla altrettanto innocente sua biodiversità, condannati a convivere con la più aggressiva, invadente e inarrestabile specie, assurdamente autodefinitasi Homo sapiens.

Da millenni la Scimmia Nuda  si accanisce sui propri simili e sulle incolpevoli creature vittime della sua avidità, intolleranza e violenza suicida, favorite da una crescita inarrestabile delle proprie moltitudini ai danni del Creato.


Queste infinite guerre ingaggiate dall’uomo, magari rispondendo a orrendi stimoli  di potere e sopraffazione ai quali stiamo assistendo terrorizzati e indignati, non finiranno mai finché non sarà tornata una nuova era in cui gli esseri umani non comprenderanno la necessità di amare tutte le creature e l’ambiente che le ospita, compresi i propri simili, anche i più indifesi.


Come dice il Signore, attraverso le parole del Profeta Geremia ,”Vi ho condotti in un giardino, per saziarvi dei suoi frutti e dei suoi beni. Ma voi, appena stanziati, avete profanato la mia terra, avete reso la mia eredità un’ abominazione”.

E quale abominazione dobbiamo soffrire, più delle infinite guerre del Pianeta, in una delle quali  oggi dobbiamo assistere a violente uccisioni, devastazioni di città e villaggi, prodromi di un futuro spaventoso che ci sta incombendo?”.

https://youtu.be/XSZDPlZLuNc
courtesy by Giorgio Palombino e Barbara Cossu

Già qualche mese fa, sul web giravano foto di bambini e giovani ucraini a cui veniva insegnato l’uso delle armi per prepararsi a difendere il loro paese dai soldati russi.
Ad altri erano state date delle copie in legno di fucili Kalashnikov per allenarsi a mirare e a sparare ai loro nemici.
Da tempo, a Kiev i cittadini erano stati messi alla prova su un percorso a ostacoli nel terreno di una fabbrica abbandonata, ricevendo lezioni di tattica militare e primo soccorso.

Foto: EPA

Le immagini rilasciate da Planet Labs PBC confermano le voci di azioni intraprese in tutta l’Ucraina prima dell’inizio dell’invasione russa. All’aeroporto, le piste e le vie di rullaggio erano state bloccate, presumibilmente nel tentativo di impedire agli aerei russi di atterrare e utilizzare l’aeroporto.
L’ampia offensiva della Russia, iniziata giovedì 24 Febbraio, si è rapidamente diffusa in tutto il paese con un attacco su tre fronti, via terra, mare e aria e ha preso di mira le infrastrutture militari in tutta l’Ucraina, nonché diversi aeroporti e altri luoghi chiave, utilizzando attacchi missilistici e artiglieria a largo raggio. L’aeroporto internazionale di Kiev era uno degli obiettivi principali.

Immagine satellitare che mostra le piste bloccate all’aeroporto Boryspil di Kiev il 25 febbraio.
Foto: Planet Labs PBC

Nelle scorse settimane le immagini satellitari hanno mostrato soldati russi e artiglieria nella città bielorussa di Brest, a soli 10 miglia a est del confine polacco. Jack Detsch, giornalista che lavora alla Sicurezza Nazionale del Pentagono, afferma che si contavano più di 50 unità che trasportavano attrezzature pesanti in un’area di addestramento vicino alla città e in uno scalo ferroviario limitrofo.
Le forze russe hanno preso progressivamente il controllo di porzioni dell’Ucraina settentrionale al di fuori della capitale Kiev, compresa la zona di Chernobyl, raggiungendo la città di Kherson, a nord della penisola di Crimea.
Mariupol, Kharkiv, Irpin, sono state bombardate pesantemente.
Irpin e Bucha, le due cittadelle alla periferia di Kiev sono il cuore del conflitto tra Ucraina e Russia alle porte della capitale.
E’ finita sotto i bombardamenti anche la città di Leopoli, al confine con la Polonia, crocevia di profughi in fuga e di ucraini che rientrano per combattere.
Secondo l’opinione del segretario di Stato americano Anthony Blinken, Vladimir Putin potrebbe spingersi ulteriormente nell’Europa orientale dopo aver preso il controllo totale dell’Ucraina.

Il negoziato di Instanbul

Da un video su Telegram, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha affermato che l’Ucraina continuerà il processo di negoziazione nella misura in cui dipende davvero da loro: “Contiamo sui risultati. Ci deve essere una vera sicurezza per noi, per il nostro Stato, per la sovranità, per il nostro popolo. Le truppe russe devono lasciare i territori occupati. La sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina devono essere garantite. Non ci possono essere compromessi sulla sovranità e sulla nostra integrità territoriale. Questi sono principi chiari“.

L’allontanamento da Kiev e dalle posizioni nel Nord dell’Ucraina, è stato definito da Vladimir Medinsky, capo della delegazione russa al negoziato, l’inizio dell’escalation militare. L’esperto politico Evgeny Minchenko ha rilasciato a Bloomberg la dichiarazione che c’é stata molta incomprensione su quel che le parti hanno detto ad Istanbul e ha sottolineato che, per ora, hanno avuto la comunicazione che ci sarà meno azione militare vicino a Kiev ed a Chernihiv, perché l’esercito russo sta concentrando le sue risorse contro l’esercito ucraino nel Donbass.

Da LaPresse
Washington, 29 marzo.
Nel loro colloquio telefonico il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il premier italiano Mario Draghi, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il primo ministro britannico Boris Johnson hanno esaminato i loro sforzi per fornire assistenza umanitaria ai milioni di persone colpite dalla violenza, sia all’interno dell’Ucraina che in cerca di rifugio in altri paesi, e hanno sottolineato la necessità di un accesso umanitario ai civili a Mariupol.

Courtesy by Marco De Angelis

La decisione di Putin di invadere l’Ucraina, con la visione di un imperialismo tout court, ha generato reazioni in tutto il mondo (reazioni di cui Le Grand Continent sta tenendo una mappa aggiornata).

Dalla Porta di Brandeburgo a Berlino, alla Tour Eiffel a Parigi, al Colosseo di Roma, sono state organizzate manifestazioni per dire un NO ALLA GUERRA, UNO STOP ALL’INVASIONE MILITARE voluta da Vladimir Putin.
Il 6 marzo a Firenze è stato posto un drappo nero sulla statua del David in Piazza della Signoria come simbolo di lutto e di dolore per la guerra in Ucraina.
Il sindaco Dario Nardella ha dichiarato: “Il David, emblema della libertà contro la tirannia, oggi si copre di nero. Nel giorno della nascita di Michelangelo, un gesto simbolico di lutto per ricordare le vittime di questa guerra e esprimere tutto il dolore di Firenze.

Un segnale molto forte è stato dato dagli artisti russi Alexandra Sukhareva e Kirill Savchenkov, che, assecondati dal curatore Raimundas Malaauskas, non parteciperanno alla 59a Biennale dell’Arte di Venezia.
Su Instagram, la Sukhareva ha scritto che “Non c’è posto per l’arte quando i civili muoiono sotto il fuoco dei missili, quando i cittadini dell’Ucraina si nascondono nei rifugi e quando chi protesta in Russia viene ridotto al silenzio. Poiché sono nata in Russia non presenterò il mio lavoro al Padiglione della Russia alla Biennale di Venezia“.

La rivista TIME ha pubblicato un’immagine di copertina, illustrata da Neil Jamieson, che presenta le parole pronunciate dal presidente ucraino in un discorso al Parlamento europeo il 1° marzo: “La vita vincerà sulla morte e la luce vincerà sulle tenebre“.
Su Twitter, colpisce la copertina insanguinata di The Economist.
Una narrazione visiva della violenza di una guerra che va fermata!

courtesy by Andrea Santanastaso

@alliance_francaise_paris

Ph. Marcus Schreiber

Una vita a suon di bacchette “magiche”, il ritmo inarrestabile di un percussionista romano: Alex Barberis ed i suoni del mondo 
“Lo spirito della percussione è qualcosa che si può sentire ma che non si può afferrare, ti fa qualcosa che ti entra dentro…Colpisce la gente in modi diversi. Ma la sensazione che si prova è di soddisfazione e gioia. E’ uno stato d’animo che ti fa dire a te stesso “Sono felice di essere vivo oggi! Sono felice di essere parte di questo mondo” – Babatunde Olatunji, percussionista e musicista nigeriano. 
“Se non avessi fatto il percussionista sarei diventato un archeologo”. Per fortuna è diventato un percussionista anche perché sarebbe stato capace di utilizzare pale, picconi e picconcini, zappe, palette, scopette, spazzole e cazzuole al posto delle bacchette probabilmente da battere a suon di musica su carriole, secchi e antichissimi e preziosissimi reperti. 

(Foto dell’Ospite)

Un mondo di musica e di passioni, quello di Alex Barberis, percussionista romano. Il suono portato ovunque, in ogni tipo di esperienza in un arco di tempo importante, quasi quarant’anni. Studia, sperimenta, da vita a gruppi musicali, Maximum Available Gain capitanato dal chitarrista compositore Max Alviti, Simposio, Traccia Mista, L’Albero di Maggio, Janis is Alive, Colors 3, è promotore e partecipa ad iniziative musicali tra cui il primo “Working Progress Clinics Drummer Festival”, di cui è fondatore, una iniziativa messa in atto da un gruppo di insegnanti di batteria appartenenti alla realtà di Roma e dintorni. Un gruppo eterogeneo che si è formato allo scopo di cooperare, con il fine ultimo di divulgare, attraverso l’organizzazione di Clinics, le proprie singolari scuole di pensiero. Ha realizzato brani di sonorizzazione per le trasmissioni Linea Blu (Raiuno) e L’Italia sul due (Raidue), ha collaborato con il musicista americano Buddy Miles ed Alex Britti, il suo cd di musica improvvisata “Colori” è stato utilizzato nella rappresentazione teatrale Medea. Nel 2007 diventa Endorser delle batterie V-Drums Roland esordendo presso l’Open Day, la più importante manifestazione fieristica del settore musicale del centro sud Italia. Con i Three Way Drummers svolge il primo Summer Drummer Masterclass a Firenze. Suona nella maratona musicale “Dalla pelle al cielo” a Roma e per lo spettacolo “Io, Anna e Napoli” tra parole e musica di e con Carlo Delle Piane. 

(Foto dell’Ospite)

Ma questa rappresenta solo una sintesi di tutto il lavoro svolto da Alex Barberis. I suoi orizzonti musicali si estendono a molti generi tra i quali drum’n’bass, R&B, funk, etnofunk, hip hop, jazz funk, jazz fusion, latin jazz, cubana, latino americana, salsa, musica sinfonica, musiche di scena, canto popolare, musica africana, musica araba, world music, ambient, samba ed elettro jazz. Raccontando della sua partecipazione al progetto Khelè è come se descrivesse sè stesso: “Khelè è un universo di simboli e di enunciazioni evocative che trovano nel processo creativo e nelle modalità organizzative prescelte, l’evoluzione dinamica di un autentico viaggio sonoro in continuo divenire. Khelè non si pone alcuna limitazione sul tipo di strutture o tipo di improvvisazione o stile musicale. L’obiettivo principale di Khelè è esprimere creativamente la bellezza dei vari linguaggi musicali, usando in modo ambivalente strutture definite, libera improvvisazione, ricerca timbrica e uso delle nuove tecnologie di sintesi sonora. Khelè è la materializzazione delle infinite emozioni che la musica può offrire: un viaggio musicale che supera qualunque barriera spazio-temporale legata ai limiti di genere o stile musicale”. Perché Alex è un po’ tutto questo, un bellissimo universo di improvvisazione, creatività,  stili differenti, ricerca, dinamicità e poesia.

Lo abbiamo intervistato per i nostri lettori. 

(Foto dell’Ospite)

Cercando di visionare quanto più materiale possibile sulla sua figura professionale mi sono “smarrita” ed è stata una bellissima sensazione. Un mondo immenso di eventi, attività, esperienze, collaborazioni, nell’arco di circa quarant’anni. Mi aiuti a ritrovarmi iniziando a raccontarmi del suo essere bambino, immagino appassionato di tutto ciò che riusciva ad emettere un qualsiasi suono.
Sono l’ultimo di sei fratelli, tutti ascoltavano musica di ogni genere, quindi, venivo a conoscenza di gruppi, musicisti, cantanti e cantautori di ogni parte del mondo grazie a loro. Una volta la musica si ascoltava con molta curiosità ed attenzione. Quando ero piccolo, sei o sette anni, ascoltavo principalmente musica tramite il famoso mangiadischi portatile, dischi in vinile a 45 giri saranno stati 400/500 dischi, da Battisti, Bennato, Frank Sinatra, Mozart, Bach, poi in breve tempo i vinili da 33 giri su piatto ed impianto stereo, e lì un’infinità di musica, Pink Floyd, Genesis, Doors, Rolling Stones, Led Zeppelin, Deep purple, Beatles, Bob Marley, Police, Bach, Beethoven, Mozart, Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Miles Davis, e poi col tempo, Weather Report, Pat Metheny, Jan Garbarek, Bill Frisell. Insomma, tantissima musica e di vario tipo. Poi, ho iniziato a vedere concerti dal vivo, oltre ai tanti visti in TV, e questo mi ha portato ad avere sempre di più un approccio filosofico musicale, ma non cosciente del tutto. Avrei voluto suonare il pianoforte ma, in casa i problemi di sopravvivenza per una famiglia composta da 8 persone non erano semplici, quindi niente pianoforte. Le pentole erano la mia prima batteria ma non per cucinare. La simulazione di una batteria suonata con le cucchiarelle, mia Madre Valeria lo ricorda ancora.
Grazie ai miei amici d’adolescenza, che si riunivano in casa o in soffitta a suonare, approcciai, o meglio strimpellai la batteria….woooowww!…fu amore a prima vista, ma ero imbarazzato ad esternarlo e cominciai in intimità a pensare di comprarne una, purtroppo a quei tempi non esistevano batterie economiche come oggi. Cominciai a lavorare al Luneur, cercando di racimolare soldi per comprare ogni tanto un tamburo usato fino ad assemblare una batteria, ma la paga era bassissima, e vedevo la batteria molto lontana. Non importava, intanto simulavo la batteria con cuscini e i piedi battevano il pavimento simulando i pedali della cassa e del charleston, questa simulazione mi portò comunque a suonare nelle sale prova. Dopo due anni di esercizi sui cuscini, una mattina mio fratello Roberto, anche lui artista pittore della vecchia scuola dell’Accademia delle Belle Arti di Roma, mi vide e mi disse: “Ok!..basta, i cuscini servono per appoggiarci la testa..non per suonare, andiamo a comprare una batteria”. Lo guardavo incredulo. “Tu meriti di suonare veramente non di simularla la musica”, comprò a rate la prima batteria della mia vita, una bellissima Tama Swing Star color platino con piatti Paiste. Ringrazio di cuore mio fratello, che oggi non è più tra noi, il suo gesto meraviglioso ha dato a me la possibilità di percorrere una vita bellissima piena di soddisfazioni e mi ha liberato dall’apatia di quei tempi, quando non c’erano tante cose da fare, soprattutto nei quartieri periferici di Roma, e questo portava molti giovani in brutti percorsi di vita. La Musica mi ha tolto da percorsi negativi che, per molti cari amici è stato fatale…grazie ancora Roberto, grazie Musica!”

(Foto dell’Ospite)

Inizia quindi il suo percorso professionale. 
“Diciamo che inizia un percorso più strutturato. Per due anni suonai ad orecchio poi iniziai  a studiare batteria con il Maestro Mario Paliano della famosa Scuola di Musica Popolare di Testaccio. Purtroppo, non potevo frequentare sempre perché le lezioni costavano, ed io non avevo la possibilità. Nel tempo, mentre suonavo con vari gruppi, andai a lezione dai Maestri Beppe Giampiero e Alberto D’Anna, presso il Centro di percussioni Timba a Roma. Il tempo per andarci e per studiare non era molto, per pagarmi le lezioni lavoravo con mio zio svegliandomi alle 2:30 del mattino per essere pronto ad andare in giro per il centro di Roma a consegnare gelati nei bar. Alcune volte finivo di lavorare nel tardo pomeriggio ed attraversavo Roma da un capo all’altro con i mezzi pubblici per andare a lezione, alcune volte ero così stanco da non capirci assolutamente nulla. Ma anche quello è servito, uscivo dalle lezioni con un punto interrogativo in testa mentre mi appassionavo sempre di più”.

E poi arriva l’incontro con un grande maestro. 
“Con gli anni, la vita mi ha voluto premiare con un grande Maestro, Horacio El Negro Hernadez. Con lui ho compreso molti insegnamenti dei precedenti insegnanti o musicisti. Io cercavo di seguire i dischi di Afrocubana, dove la batteria non esisteva ma, soltanto con le percussioni e con i miei quattro arti, potevo ricreare in poliritmia i movimenti ritmici dei percussionisti, e come dal cielo ecco arrivare El Negro, che suonava al cubo in modo eccezionale quello che tentavo di fare io. Il direttore del Timba, mi disse, “credo sia arrivato il maestro che fa per te”, nell’aula guardavo fulminato e potevo vedere chi come me aveva un altro approccio sulla batteria, ed in che modo meraviglioso!
Prima di lui, avevo seguito alcune lezioni con il maestro Gianni Di Renzo, maestro di grande umanità, purtroppo ho avuto poco tempo con lui per capirlo e fare un percorso più accademico, ma dopo tanti anni, l’ho incontrato di nuovo tra i docenti di batteria al Saint Louis di Roma. Il resto del mio percorso didattico l’ho proseguito da autodidatta, molte cose le ho dovute imparare da solo, soprattutto nel linguaggio musicale, ma anche in quello tecnico corporale”. 

(Foto dell’Ospite)

Batterista, percussionista, maestro di batteria e percussioni, endorser, compositore, musicista, ideatore dei cajondrums SFINGE, collaboratore e ideatore di progetti musicali di ricerca tra cui Alma Nua e Tupa Ruja. Cosa rimane fermo ed immutabile di lei ogni qualvolta cambia veste, ruolo e personaggio? 
“Nasco principalmente come batterista, facendo un percorso esclusivo da batterista, poi ho cominciato ad assemblare un set con più strumenti a percussione. Al Centro di Percussioni Timba, seguivo  laboratori di percussioni, afrocubane, africane e brasiliane, questi laboratori mi hanno fatto conoscere le percussioni, e non ho fatto altro che creare un set compreso di conga, Djembe, Darbuka, e vari aggeggi, oltre alla batteria, comunque acustici. Il mio mondo sonoro comincia ad avere uno sviluppo e approccio batteristico diverso, sia sonoro che tecnico perché suonare più strumenti diversi richiedeva un tecnicismo maggiore sotto vari aspetti, nella velocità e nelle dinamiche. Endorser dei prestigiosi piatti toscani UFIP di Pistoia, grazie all’azienda pistoiese ho potuto sperimentare molti suoni diversi con più set di piatti e strumenti come gong e aggeggi. Endorser per 5 anni con le batterie Mapex, ho potuto sperimentare due set diversi facendomi costruire il primo set più adatto alle mie esigenze. Endorser, attualmente, della prestigiosa casa di batterie Ludwig, anche qui ho 3 set diversi, di cui uno specifico per le mie esigenze attuali, costruito con misure e legno che ricordasse il suono vintage. Endorser per alcuni anni della Roland, con cui ho collaudato vari strumenti come batterie e percussioni elettroniche. La collaborazione con l’azienda giapponese nasce perché la mia ricerca sonora comprendeva anche quella elettronica, tanto da interagire con sequencer, ma soprattutto era incentrato sulla ricerca delle sonorità synth. Grazie alla mia conoscenza sulla strumentazione Roland, entro come docente di batteria elettronica al Saint Louis di Roma, in seguito anche come docente di batteria classica multistilistica. Grazie al mio corso di V-Drums Roland, ad Utrecht in Olanda, viene portato a conoscenza il mio corso V-Drums svolto al Saint Louis, così da avviare il corso V-Drums School nel mondo. Endorser delle batterie elettroniche 2Box (svedesi) nonché collaudatore. Endorser delle bacchette Vic Firth per molti anni. Endorser, attualmente, delle bacchette Roll Em ottenendo delle bacchette signatur Alex Barberis da me ideate. Endorser Korg con i Wavedrum, una multi percussione elettronica dai suoni estremamente realistici. Endorser dei microfoni per batteria e percussioni Carol, Endorser Remo per le pelli per batteria e percussioni. Per esigenze personali, con l’artigiano Piero Traditi ho ideato il Cajondrums Sfinge, un cajon con seduta e tapa obliqua per avere la comodità di suonare il cajon con un set di batteria, riconosciuto come il proseguimento moderno dei cajon tradizionali alla manifestazione multietnica svolta al museo della civiltà Pigorini di Roma. Endorser Latum di Alessandro Armillotta, costruttore artigiano dei tamburi armonici Latum, con l’ideazione dei tamburi armonici mono nota per batteria e percussioni.
Collaboro da anni in progetti di ricerca musicale, come il genere World Music, il Nu jazz, o tutto ciò che ha influenze musicali di vario tipo, diciamo una fusione di suoni, di musica etnica, jazz, meditativa e moderna. Con gli attuali progetti con cui collaboro, gli Alma Nua, progetto del chitarrista compositore romano Andrea Esposito insieme al bassista Fabio Penna, il concetto musicale di base è l’estemporaneità della musica, in pratica, suoniamo la vera improvvisazione basandoci su dei canovacci, ossia, riconoscimenti armonici, melodici e ritmici, dove possiamo improvvisare e quindi far uscire il proprio estro artistico. Il disco Alma Nua, per ora soltanto in formato liquido, ossia, in formato file mp3 o wave, viene distribuito dagli stessi Alma Nua. L’altro progetto, appena iniziato, è quello world music dei Tupa Ruja, progetto della coppia, sia musicalmente ma, anche nella vita, di Martina Lupi cantante e multi strumentista, e Fabio Gagliardi voce, Didjeridoo e percussioni. Nel nuovo progetto Tupa Ruja, oltre a me alla batteria e percussioni acustiche ed elettroniche, c’è il grande chitarrista Nicola Cantatore, con la sua ricerca sonora meticolosa, e grande arrangiatore che, con i Tupa Ruja svolge in modo impeccabile. Insomma, un quartetto che, oggi, ha raggiunto una sinergia tale da far fare un balzo musicale sonoro e ritmico di notevole spicco.
In tutti i progetti, ovviamente rimango fermo sul mio modo di interpretare la musica, ma ovviamente, mi immergo nella sinergia piena con il resto dei musicisti, nulla deve sfuggirmi, o creare un personaggio in modalità, non è per me un lavoro, è principalmente passione”

Quali sono i suoi riferimenti musicali ed in quale genere crede di riuscire meglio ad esprimere la sua forma artistica in modo più profondo ed incisivo affinchè lo spettatore si senta “a casa sua”?
“I miei riferimenti sono molteplici, ma non ridondanti, mi riferisco a tutta quella musica che lascia lo spazio interpretativo ed improvvisativo. La musica composta da eseguire soltanto con gli occhi e poco con le orecchie, non mi è mai piaciuta, è statica, noiosa e meccanica. Credo fortemente, per mia esperienza diretta, che il pubblico si senta a casa sua se il, o i musicisti, creino credibilità suonando, avendo ognuno un proprio carattere per interagire con gli altri componenti del gruppo e con il pubblico.
Riguardo il genere musicale, quello che più rende vario il genere, che fonda varie conoscenze musicali, e che non sia ridondante. Per esempio, Pat Metheny Group, Bill Frisell, Jan Garbarek, Hadouk Trio, Trilok Gurtu, Oregon, Joe Zawinul, Steve Coleman, Mynta, Jon Scofield, Glen Velez, Lyle Mays e tanti altri, non proseguo perché la lista sarebbe lunghissima”.

(Foto dell’Ospite)

Ci parli del metodo drum time
“Più che metodo, è un percorso, dato che un mio metodo scritto non l’ho ancora realizzato.
Inizialmente è un percorso didattico come tanti altri, ma il mio intento è quello di tirare fuori il più possibile l’estro artistico dell’allievo, cercando di tralasciare inizialmente il percorso accademico, diciamo che la disciplina non deve mancare, d’altronde per ottenere dei risultati non se ne può fare a meno, ma l’approccio non è con la disciplina. Che siano piccoli o grandi, l’inizio è il gioco. Non ho mai dimenticato il mio approccio con lo studio della batteria, tutto troppo serio e noioso. Molti di noi sono nati con una vocazione artistica che deve essere indirizzata con il tempo, la difficoltà è notevole e molte volte può scoraggiare se non si riesce a miscelare bene lo studio con il divertimento. A volte si può avvertire la sensazione del fallimento, sia come allievi che come insegnanti. Per giustificare spesso un cattivo metodo di insegnamento si pone l’accento sulla selezione naturale, ma non è così. Credo che l’approccio di un bravo insegnante sia quello di comprendere la mente dell’allievo oltre alla sua vocazione o bravura, bisogna conoscere il vissuto dei ragazzi e poi trovare il giusto percorso per ognuno di loro. Molti si perdono non perché non bravi, ma perché non hanno incontrato l’insegnante giusto, con quella buona dose di sensibilità e di empatia”

Lei utilizza un suo percorso didattico musicale con la dispensa “6 x 10” da lei creata per tutti coloro che non hanno molto tempo a disposizione per studiare. Come si può con soli 10 minuti al giorno imparare a suonare la batteria? Ci spieghi il suo miracolo.
“Miracolo? Ma no. Io stesso, anni fa, avevo poco tempo a disposizione perché lavorando potevo dedicare poco tempo allo studio, ma ero costante e questo mi consentiva di fare grandi progressi.
Mi resi conto che la costanza, l’essere metodico e puntuale, la perseveranza, la determinazione potevano sopperire alle poche ore di studio. Iniziai ad applicarmi agli esercizi più importanti ogni giorno, ma ugualmente mi accorgevo che il tempo da dedicare alla batteria era troppo poco. Sperimentai che potevo rimediare a questo mio limite con meno esercizi ma ripetitivi. Costantemente gli stessi esercizi per la stessa durata.
Il metodo funzionò più di ogni altra cosa, tanto da applicarlo ai miei allievi, vedendo i giusti risultati. Sei Metodi, o meglio, alcuni esercizi fondamentali ripetuti in sei metodi diversi. L’allievo può dedicarsi iniziando con dieci minuti al giorno iniziando lentamente poi velocizzando sempre di più, sempre per la stessa durata, dieci minuti. Lo stesso esercizio, ad esempio della durata di pochi secondi, ripetuto per dieci minuti con pulizia sonora e di movimento senza mai fermarsi”.

Cos’è un batterista organico?
“Per organico si intende musicale, melodico, attento a suonare insieme alla ritmica sempre in movimento diverso degli altri strumenti, che non sia soltanto di accompagnamento ritmico, ma espressivo ed estemporaneo musicalmente, quello che, appunto,  solitamente fanno tutti gli altri strumenti.
Il batterista e percussionista americano Bob Moses, ne fece una vera e propria filosofia batteristica, tanto da influenzare molti batteristi nel mondo”. 

L’insegnamento per lei è una vera e propria vocazione oppure ha deciso nel corso del tempo di approcciarsi a tale mestiere? Cosa c’era nei suoi sogni di bambino? Essere un musicista puro l’ha mai contemplato?
“Iniziai ad insegnare trentuno anni fa, per caso. Un amico mi chiese di insegnargli a suonare la batteria. Non era nelle mie vedute, ma mi piacque molto, era molto soddisfacente..e mi consentiva di guadagnare in parallelo con il lavoro di musicista. Si unirono poi altri allievi, la sala era in un contesto piacevole, vicino la vecchia torre di avvistamento romana Tor di Valle, un edificio storico. In seguito mi sono perfezionato nell’insegnamento riprendendo e continuando a studiare, questa è stata una crescita per me, per migliorarmi e per aggiornarmi. La passione per l’insegnamento con il tempo è aumentata ed è poi diventata una vera e propria professione che amo molto.
Da bambino avevo tanti sogni, non solo la musica, ma ero un ribelle e le istituzioni mi fecero disamorare e distogliere da tanti altri obiettivi. Musicalmente sognavo ad occhi aperti la felicità di suonare per un grande pubblico felice di ascoltarmi. Mi emoziono ancora oggi nel ricordarlo e nell’immaginarlo anche adesso. I sogni di bambino non passano mai, non finiscono anche se non li realizzi completamente, sono belli proprio per questo motivo. Sono diversi dai sogni degli adulti.
Sono un musicista puro, faccio quello che più mi piace e mi va. I compromessi si fanno sempre, li fa chiuque. Anche se non sembra, li fai tutti i giorni e la vita non gira soltanto intorno a noi”

Se avesse potuto scegliere in quale band del passato avrebbe voluto suonare? Qual è stato il suo sogno gigante? Avrebbe voluto girare il mondo con Bruce Springsteen (mi perdoni la citazione, è il mio più grande innamoramento)?
“Doors quando ero molto giovane, Pat Metheny Group, Peter Gabriel, Jan Garbarek, Bill Frisell, ma questi sono sogni ancora vivi. Mi spiace deluderti ma non seguo Springsteen, un grande, ma non mi sarebbe piaciuto, non amo la staticità batteristica da sempre”

Nella sua intervista a Radio Città Aperta parla del grande progetto musicale “Alma Nua” del trio Esposito/Penna/Barberis. Le sue parole raccontano in libertà la sua vita da batterista senza compromessi. Quanto le è costato in termini professionali, morali, sociali, umani ed economici non scendere a compromessi?
“Il progetto Alma Nua è un progetto che amo molto perché mi consente di esprimermi liberamente e completamente a modo mio. Un progetto ancora vivo, nonostante il difficilissimo periodo, che condivido con i miei amici Andrea e Fabio.
La difficoltà di portare avanti un percorso sincero e serio professionalmente e artisticamente è sempre tanta, ma poi te ne fai una ragione, e non vedi il mondo come cattivo e menefreghista ma pieno di tante cose. Siamo in tanti, ognuno vive la sua scelta personale senza far del male agli altri. Io mi vivo la bellezza di quello che con le mie capacità artistiche ed imprenditoriali riesco a costruirmi, senza colpevolizzarmi o trovare alibi per quello che non ho potuto o voluto fare.
Comunque è una strada che mi ha portato a non avere il giusto economicamente, ma le dinamiche sono state tante e sono giunto a cinquantacinque anni con molte separazioni sia nel lavoro che sentimentalmente, ma questa è una lunga storia magari la raccontiamo un’altra volta”

Domanda banale ma di rito, per la curiosità dei lettori, se non avesse fatto il musicista cosa avrebbe voluto fare nella vita?
“In poche parole? L’archeologo”.

John Bonham, Neil Peart, Joey Jordison, Mike Portnoy e Buddy Rich vengono definiti i primi cinque batteristi più grandi al mondo. Cosa ne pensa e qual è la sua classifica?
“Tutti grandi batteristi, non è un caso che hanno e fanno la storia del batterismo, ma non li seguo, non sono per me l’ideale del batterista organico. Li ho seguiti perché è giusto che un musicista conosca i grandi. Tra tutti chi mi ha colpito molto è John Bonam, lui è stato veramente un batterista organico con i Led Zeppelin”. 

Ci parli del progetto Ti-Amat
“Ti-Amat era un progetto in movimento, dico era perché è fermo da un po’, ma comunque esistente. Perché in movimento? Perché vedevo come organico un duo che poteva essere affiancato da più musicisti in base alle possibilità, cioè riuscire a non far fermare mai il progetto anche se mancava un elemento del duo. Con basi apposite pilotate da computer, il progetto poteva vivere sempre, ma la pandemia ha dato un fermo, purtroppo, a molti progetti”. 

Un altro progetto molto interessante è Simul (dal latino, insieme), la sua collaborazione con la danzatrice Silvia Layla, i mantradrums. La danza ed il ritmo, due forme d’arte che viaggiano insieme e che mai si separano. Un’altra forma di ricerca e sperimentazione?
“Simula nasce dall’incontro con Silvia Layla, bravissima danzatrice di vari stili di danza, tra cui anche classica. Il progetto si basava sul suonare con le mie basi e le mie percussioni, un set percussivo non batteristico, e Silvia all’epicentro del progetto ovviamente. Anche questo progetto ha avuto un necessario periodo di pausa, sono stati anni veramente complicati artisticamente parlando, umanamente poi ancora più gravi. Siamo cambiati un po’ tutti e non sempre in meglio, un’artista fermo non per scelta ma per necessità imposte, è come un leone in gabbia, ma poi chissà magari una volta liberato riesce a lanciare un urlo così forte da far tremare la terra. Dentro di noi ognuno ha costruito qualcosa di forte, ora ripartendo dobbiamo trovare il modo per rappresentarlo, riprodurlo, interpretarlo”. 

Arte, yoga e danza coinvolgono Argilla in movimento. Relax, camminate, musica, danza, mani nell’argilla, ascolto, una bella occasione per nutrire corpo e anima. Lasciar andare, rallentare, trasformare, fermentare, arare. Nel 2020 celebravate così l’equinozio d’autunno. Un atto creativo a tutto campo. Sembra non esserci ambito in cui la sua musica non sia presente e coinvolta.
“Questo progetto, anche esso fermo per la pandemia, aveva sempre di base il duo, un po’ come Simul ma, su una idea e progetto della Maestra Rita Malizia. Ho cercato sempre di avere persone interessanti intorno a me con cui condividere la musica, ogni altra forma artistica poteva rappresentare uno spunto, un inizio, un punto di partenza. La meraviglia di questo lavoro è fatta anche di incontri e di contaminazioni, dobbiamo imparare a fidarci ed affidarci agli altri se vogliamo realizzare progetti audaci e coraggiosi”

Diversificare per ampliare, mettersi all’ascolto, suscitare reazioni ed azioni. A tratti appare come un esploratore della vita e dell’essere umano, non solo della musica. Credo si tratti a volte di una sfida con se stesso o di una ricerca di se stesso?
“Semplicemente vivo la musica per come io la concepisco. Negli anni ho cambiato generi musicali, lavorato su vari generi musicali, ma quello che mi faceva vivere il piacere di farlo era la ricerca musicale, l’esplorazione di ritmi, suoni, facendomi avvicinare a musicisti con le stesse mie vedute., non è una ricerca introspettiva, ma soltanto vivere il piacere musicale”. 

Cosa hanno rappresentato questi ultimi due anni di fermo nel mondo per lei e per la sua attività?
“Non in termini religiosi, ma per certi versi veramente una benedizione. Mi ha fatto capire veramente che la mia strada non doveva essere deviata da ciò che mi appariva davanti ma doveva essere influenzata da ciò che mi andavo a cercare. Nel periodo del lock down ho realizzato il mio primo disco di sole percussioni, realizzato in casa con il musicista compositore Matteo Colasanti, un disco ed un progetto “Olocene”, musica meditativa e di ricerca. Quindi, un fermarsi sì ma, anche ripulirsi da scorie varie, creando di nuovo e vivendo la musica felicemente in un momento difficile”. 

Il potere della musica anche contro le guerre? Cosa ne pensa?
“La Musica è un linguaggio universale, una volta, storicamente, si parlava un’unica lingua, oggi la Musica è l’unico linguaggio per unire il mondo intero!”

Progetti per il futuro?
“Con i Tupa Ruja saremo a Roma il 28 aprile all’auditorium ed il 18 maggio all’Alexanderplatz. Poi dal 1 al 4 luglio in Friuli in quattro diverse località.  Con gli Alma Nua saremo a maggio ancora a Roma al Riverside. Si riparte, speriamo, senza ulteriori interruzioni e con l’augurio che tutto vada veramente per il meglio”.

Tu lo sai cosa significa “inspiration porn”?
No?! Molto bene, perché non vedevo l’ora di raccontartelo…
hai presente Maria Chiara Giannetta sul palco dell’Ariston?  Il monologo sui ciechi che ha stuzzicato i tuoi dotti lacrimali, ma senza portare a casa il risultato, perché di ste robe alla fine non se ne può quasi più.
Come? Ti è sfuggito qualcosa? Ora ti spiego tutto: dopo quattro puntate di Sanremo a qualcuno è sembrato doveroso trattare il tema delle disabilità. La giovane e talentuosa attrice interpreta una detective cieca (ma con il superpotere di un udito infallibile) nella fiction “Blanca”. Per far aderire meglio il suo personaggio si è fatta aiutare da quattro persone non vedenti, che le hanno mostrato come vivono la loro quotidianità. L’attrice, munita delle migliori intenzioni, ha voluto condividere con gli spettatori questa intensa esperienza, ma come nella maggior parte dei casi, la prospettiva è quella degli abili, oggettivando per l’ennesima volta delle persone, persone cieche, a cui su quel palco è stata tolta anche la voce, a favore di questo monologo forzatamente strappalacrime, tenuto della stessa Giannetta, su quanto siano meravigliosi, incredibilmente coraggiosi e di grande ispirazione i suoi “custodi”, i suoi “angeli”.
Praticamente dei cuccioli di foca dietro al vetro di un acquario. Cuccioli a cui è stata fatta una carezza e a cui dedicare degli occhi commossi ed una voce tremolante.
Questo approccio mainstream non è altro che una visione dichiaratamente pietistica della rappresentazione delle persone con disabilità che diventano fonte di ispirazione proprio per la loro disabilità.

https://youtu.be/DU1Ra1Ao2QE

Nulla togliere alla bravissima attrice, ma hai mai pensato che
la parte di un disabile possa essere interpretata da… (rullo di tamburi)… un Vero
Disabile? Perché questa cosa a me riporta alla mente il teatro elisabettiano, quando
le donne venivano interpretate (a gran fatica) dagli uomini perché considerate degli
esseri dall’emotività troppo instabile e assolutamente non adeguate al palco.

Hai mai pensato che un disabile possa esistere anche senza dei superpoteri che compensino i suoi limiti, che lo rendano una “persona speciale”, come se per giustificare la sua esistenza, si debba per forza elevare a protagonista di imprese straordinarie o eventualmente a creatura straordinaria nel compimento di azioni quotidiane del tutto ordinarie. Hai mai pensato a come il termine “diversamente abile” si faccia carico di aspettative corrotte? Ti manca la capacità di camminare, di sentire, di vedere, o hai problemi mentali, ma io devo per forza trovare in te qualcosa che compensi questa imperfezione, perché non puoi farmi sentire a disagio per questo. Non è accettabile. Devi sicuramente avere qualche super qualità che ti restituisca una dignità.
Il problema in questo è proprio la parola “io”, nucleo portante dell’universo. Chiusura selettiva alla possibilità di immaginare di vestire i panni dell’altro, ma per davvero, non solo per farti sentire meno peggio. Da spettatore, quando guardi questi siparietti, non ti scappa di pensare che forse l’altro sia un soggetto vero e non un personaggio di fantasia, che abbia delle emozioni proprie e non sia messo lì a solleticare le tue e a farti stare più sereno? Ti viene mai il dubbio che questi momenti si possano trasformare in cultura invece che la conferma dell’ennesimo stereotipo?

(Instagram @valetomirotti)

Valentina Tomirotti (https://instagram.com/valetomirotti?utm_medium=copy_link) al riguardo scrive sul suo profilo Instagram: “Non si fa! (Non è banale, è reale) è questione di rispetto dell’essere umano: la gente non capisce che queste gag sono deleterie per i diritti civili di ognuno di noi. L’insulto non è solo la parolaccia, è nel gesto, nell’idea, nell’atteggiamento.

(Instagram @valetomirotti)

Non posso fare a meno di chiedermi perché ci faccia stare così bene tirare fuori il nervo scoperto della pena, della pietà, di questa empatia dozzinale, perché ci faccia stare bene raccontare con stupore che una persona non vedente riesca ad alzarsi al mattino, farsi il letto e prepararsi il caffè. Perché vedere prima i limiti per poi elevarsi in uno slancio di ammirazione. Perché abbiamo sempre bisogno di qualcosa che ci aiuti a digerire la disabilità, come se fosse il pranzo di Natale a casa di zia Lina. Forse perché ci fanno sentire a disagio? Indegni di ciò che abbiamo e di cui non siamo comunque mai contenti?

(Stella Young durante l’intervento in TED – Sydney 2014)

Ora ti sarà sicuramente più facile capire a cosa si riferisca l’Inspiration Porn (pornografia motivazionale), termine usato per la prima volta da Stella Young , attrice, scrittrice  e attivista per i diritti dei disabili, che, durante il suo TED speach, nel 2014, ha deliberatamente utilizzato il termine “porn” per sottolineare che il meccanismo è lo stesso dei film a luci rosse, ovvero quello di oggettivare un piccolo gruppo di persone, in questo caso disabili, a beneficio di un grande gruppo di persone.

(Stella Young – dal Web)

Lo scopo è quello di motivare ed ispirare, in modo che tu possa pensare: “Beh, per quanto brutta sia la mia vita, potrebbe essere peggio. Potrei essere quella persona.

Ma, come giustamente fa notare Stella Young, cosa accade se
tu sei quella persona? Se devi costantemente diluire la tua disabilità per chi
ti sta intorno, per confortarlo, per alleviare il disagio nei suoi occhi?
Quando non puoi esistere perché sei troppo concentrato a pensare a come gli
altri ti percepiscono.

Alex Dacy (https://instagram.com/wheelchair_rapunzel?utm_medium=copy_link)
in una campagna di sensibilizzazione su Instagram dice “Sono orgogliosa di
essere disabile. Il momento in cui ho smesso di annacquare la mia disabilità
per placare lo sguardo abile è quando la mia vita è iniziata davvero.

La campagna è del 2020 e si chiama “Disabile DesiderAbile”, pensata e promossa da MySecretCase (nato come e-commerce di sex toys fino a diventare un portale di educazione sessuale, intesa come un vero e proprio diritto per il benessere psicofisico) per infrangere il tabù della sessualità legato alla disabilità. Una campagna fatta di tante voci e tante storie che parlano del bisogno di ognuno di noi: vivere una sana sessualità, oltre i pregiudizi, oltre l’ossessione della perfezione estetica, o l’ansia di performare. E come potrà essere una strada che parte dal pietismo per arrivare al desiderio? Lunga e scoscesa. Perché è difficile pensare di avere delle risposte istituzionali senza che prima vengano abbattuti certi muri. Credo che il cambiamento sia più facile e rapido nel singolo individuo, che nella comunità, quindi ogni singolo individuo si ritenga responsabile dell’influenza che ha sulla società in cui vive. Ogni singolo individuo si senta in dovere di fare un passo in avanti, di aprirsi al dialogo, di mettere in discussione ciò che vede, di cambiare prospettiva, di non fermarsi in superficie.

Tra l’abilismo e l’inspiration porn, ci sono molte bucce di
banana su cui si rischia di scivolare, non sempre per mancanza di sensibilità o
per cattiveria, il più delle volte si cade a causa di un’inadeguata educazione.
C’è ancora molto da fare per edificare una società davvero inclusiva, per
riconoscere che siamo tutti esseri umani con caratteristiche eterogenee e che
abbiamo il diritto di pari opportunità e trattamento. Credo che un buon punto
di partenza sia la comunicazione, quella vera, quella costruita sull’ascolto,
sull’onestà, sull’empatia, sull’apertura verso l’altro. E credo che la buona
comunicazione richieda la collaborazione di tutte le parti coinvolte.

Apparenza, finzione, difficoltà di riconoscere la sostanza dalla forma, il falso dal vero, l’autenticità della parola dal pensiero autentico. Tutto questo è quello che ci circonda, oggi più che mai, nella quotidianità, nella vita privata e in quella lavorativa.
Chi di natura è sé stesso sempre, in ogni occasione, con chiunque, si trova in grande difficoltà, è come se vivesse senza pelle, esposto, privo di protezione, incerto su come muoversi.
E’ proprio da queste riflessioni e dal pensiero utopico di un mondo dove si recita solo sul palco che ho pensato di intervistare Manuele Guarnacci, regista, attore ed insegnante di laboratorio teatrale, per dar voce a chi ci può davvero spiegare il ruolo della maschera teatrale, l’importanza del teatro amatoriale, i benefici e le difficoltà di chi intraprende un percorso di questo tipo, raccontarci insomma di quel mondo che sarebbe fantastico fosse l’unico dove si finge

Vi presento Manuele Guarnacci….

(Foto dell’Ospite)

Nato nel 1984, contemporaneamente agli studi accademici di Arte Drammatica
e ai successivi esordi nel professionismo teatrale si è laureato in Relazioni
Internazionali con voto 110/110, con una tesi triennale riguardante i
laboratori teatrali come forma di cooperazione ed una tesi specialistica sui
pericoli della comunicazione virtuale.

Ha accumulato esperienze come attore, regista e assistente, lavorando con alcuni dei più importanti artisti del panorama italiano (Giorgio Albertazzi, Gabriele Lavia, Michele Placido, Valerio Binasco, Alessandro Haber, Alessio Boni, Luca Barbareschi…), debuttando nei più importanti teatri di tutta Italia e anche all’estero ( da citare: il Fringe Festival di Edimburgo con Maurizio Lombardi).

(Foto dell’Ospite)

Già all’età di 19 anni
muoveva i primi passi come regista e da allora, pur crescendo le esperienze,
non ha mai smesso di operare nel territorio, appassionandosi alle potenzialità
del teatro come strumento di formazione umana anche per i non professionisti.
Ha seguito corsi di dramma terapia, lavorando in contesti di teatro integrato
(dedicato a persone disabili), si è specializzato nel teatro per stranieri,
teatro nelle aziende, ha fatto esperienza nelle carceri e in contesti cosiddetti
“a rischio”.

Attualmente guida il progetto Teatro Quindi, con cui porta avanti 9 laboratori per un totale di quasi 100 adulti iscritti. Questi corsi hanno come principale obiettivo l’arricchimento del bagaglio umano attraverso il teatro.

Manuele intanto ti ringrazio per la disponibilità…ci puoi spiegare il ruolo della maschera dall’antichità
Nell’antichità la maschera teatrale aveva una valenza funzionale: rendere evidente, visibile e amplificato il personaggio che si interpretava, lì dove non esistevano strumenti acustici, scenografici e di luce evoluti come oggi. Ma aveva anche un valore di altro tipo: permetteva di distinguere subito l’attore dal personaggio. Quest’ultimo poteva quindi essere interpretato con massima potenza, audacia, provocazione, senza rischiare di essere confuso con l’interprete.
Le forme stesse delle maschere, grandi e dai tratti esasperati risaltavano il gioco metaforico e simbolico. Il travestimento spettacolare, in grado di attirare subito l’attenzione del pubblico e farlo entrare in un esercizio collettivo di fantasia, è presente in tutte le culture del mondo di ogni epoca.

Nell’epoca della Settima Arte il Teatro ha ancora senso? E per il pubblico che impatto ha?
E’ una domanda affatto scontata, che anzi è importante porsi costantemente. Negli ultimi decenni il teatro ha inseguito troppo spesso altre forme artistiche e culturali (cinema, musica, arti figurative, danza, conferenze) che sembrano più al passo con i tempi e riescono ad avere un rapporto vivo e d’interesse con il pubblico.  Giustamente l’arte si contamina ma il senso profondo e caratteristico del teatro è la sua stessa forza e specialità: un luogo specifico in cui tante persone si danno appuntamento in un tempo specifico per condividere dal vivo uno scambio di energie e rituali fortissimi che trovano forma e vibrazioni a partire dai corpi veri e vivi degli attori. E’ l’unica arte che si basa su persone che davanti ad altre persone vivono storie e vicende che, per quanto arricchite di poesia e dinamiche metaforiche, rimangono sempre concrete, leggibili, identificabili nella quotidianità dello spettatore. Al contrario del cinema tutto avviene dal vivo, nel qui ed ora che rende potente il rituale collettivo e personale; al contrario della musica, fotografia e pittura gli strumenti principali sono attori in carne, ossa, voce e lo spazio fisico in cui si muovono.

(Foto dell’Ospite)

Che ruolo ed importanza può avere il teatro amatoriale?
Il teatro amatoriale, soprattutto in una città come Roma, è ancora troppo sottovalutato, schifato e forse temuto dal mondo professionale. Credo si debba imparare dallo sport, dove anche il dilettantismo è vissuto con molta importanza. L’esperienza teatrale fa bene a tutti, è un grande esercizio per la mente, lo spirito e le relazioni con noi stessi e gli altri. Al tempo stesso il mondo amatoriale dovrebbe essere considerato il punto di partenza per nuovi circuiti di appassionati che possono tornare a riempire le platee dei più grandi teatri. Per questo mi dedico col massimo livello di impegno e di ricerca costante per lavorare al meglio con gli amatori. So che la nostra arte oggi più che mai può essere arricchente, quasi terapeutica, rispetto alla vita atomizzata che viviamo. Al contempo è preziosissimo anche per me godere di tanti rapporti umani che mi riportano vite, mestieri,  pensieri, condizioni così diverse tra di loro. Il professionismo teatrale sa essere molto noioso e lontano dalla realtà sociale, è fondamentale per me e per la mia sensibilità artistica trovare modo di immergermi e fare esperienza delle “vite degli altri”.

In questo momento storico particolare, con la pandemia che ci ha allontanato dalle sale e dai luoghi di ritrovo, cosa si respira dietro le quinte?
Sono venuti al pettine tanti nodi decennali su un sistema che non funziona. In Italia abbiamo degli esempi (la musica, lo sport) di circuiti che riescono ad evolversi e ad avere basi importanti su cui poggiarsi anche in momenti di difficoltà. Il pubblico li segue con passione ma questo è dovuto anche ai meccanismi con cui si muovono. Il teatro purtroppo ha molti problemi decennali e sta perdendo fiducia in se stesso. Io sono convinto che il suo valore è più alto che mai, proprio oggi, in cui siamo costretti alle distanze e abbiamo paura degli altri, dei corpi. Stiamo disimparando l’empatia, l’ascolto, lo scambio, il valore del racconto e dello stare insieme. Il teatro ha una funzione enorme se riesce a trovare il modo di farsi valere. Dopo il panico iniziale, lo svuotamento delle sale, la disoccupazione di molti ed molti esperimenti inconcludenti, in questo ultimo periodo, l’inverno 2021-2022, alcuni teatri stanno tornando ad avere numeri importanti di spettatori. Sono proprio quei teatri che non hanno smesso di investire, rischiando molto, ma hanno saputo farlo con una sensibilità particolare verso il pubblico e la comunità che li circondava. E’ importante chiederci non cosa vogliamo portare in scena ma di cosa ha bisogno la società. Chi lo ha fatto ha trovato molte risposte nel teatro da poter portare avanti.Nei miei corsi il primo anno di pandemia è stato caratterizzato da una marea di problemi pratici, gestionali (distanze, mascherine, coprifuoco, greenpass…). Chi ha potuto e ha scelto  di continuare, fortunatamente la maggior parte, aveva però un bisogno enorme di quell’appuntamento, insieme al proprio gruppo di compagni, per giocare insieme con la fantasia condividendo dolori ma anche energie. Quest’anno, con la ripresa di tutte le attività, anche i corsi sono tornati a riempirsi ma la frenesia è ancora piena di paure, frustrazioni, stanchezze emotive e ogni giorno entrano in sala prove persone spente o piene di negatività che vanno “rigenerate”. Il miglior antidoto per fortuna è il teatro, concentrarsi su quello, la nostra passione, che ripaga tutti i sacrifici con la bellezza, il divertimento, energie e fantasie nuove. E si esce dal palco tutti più freschi.

(Foto dell’Ospite)

Nel programma di laboratorio teatrale ritieni opportuno inserire il lavoro di improvvisazione con uso della maschera della commedia dell’arte? Se sì, che difficoltà riscontri nei partecipanti alle attività?

Si, inseriamo anche dei percorsi con le maschere fisiche ma in questo periodo di mascherine ne abbiamo già molte… L’obiettivo principale è riuscire a lavorare con le maschere psicologiche. Capire che ne indossiamo sempre alcune e che questa arte permette di sperimentarne altre, diverse, accettare l’idea che siamo liberi di cambiarle, imparare a gestire noi stessi e il nostro rapporto con gli altri vivendo ruoli diversi da quelli in cui rischiamo di rimanere chiusi nella vita quotidiana.

Secondo la tua esperienza, quale ritieni siano le peculiarità principali che hai riscontrato negli allievi che intraprendono un percorso di questo tipo? Le difficoltà, i benefici, le emozioni…

Troppo spesso incontro allievi e allieve che vogliono
essere non solo guidati ma costretti a fare cose. E’ indice di una profonda
insicurezza ma anche della voglia di rompere i propri schemi. Il problema è che
finché sarà qualcun altro, l’insegnante, il regista, a trascinarti oltre i tuoi
limiti non acquisirai mai la vera consapevolezza e gestione di te, dei processi
e percorsi interiori che ti hanno portato a quei risultati. Allora solitamente
preferisco strade più lunghe ma che portano l’attore e l’attrice ad una
autonomia sui passi che stanno facendo, sia tecnici che umani.

Si pensa che la formazione culturale sia da relegare alla gioventù e alla scuola, invece anche da adulti abbiamo bisogno di “cibo per la mente”. I nostri corsi sono aperti a tutti, principianti, esperti, timidi, mattatori, giovani e vecchi. Nel momento in cui una nuova persona si presenta cerchiamo di capire, tra i 9 gruppi diversi, quale può essere quello che fa al caso suo, sia umanamente, sia per il percorso che si prevede di fare. Gli stimoli che può dare il teatro sono molteplici: lavoro sul corpo, sulla voce, sui testi, sul rapporto con noi stessi, con gli altri. Ci sono allievi che dopo 8 ore in ufficio vogliono principalmente divertirsi, stare in allegria giocando sul palco, altri invece hanno voglia di approfondire tecniche drammatiche complesse, perdersi e riscoprirsi profondamente dentro i personaggi e le loro emozioni, altri ancora vogliono esplorare l’espressività fisica e vocale per imparare a relazionarsi meglio… L’importante in questi casi non è il livello di partenza ma gli stimoli e i percorsi che si vogliono fare insieme agli altri. E noi insegnanti mettiamo con piacere le nostre esperienze e tecniche sempre in discussione per ricercare costantemente nuovi percorsi artistici e pedagogici.

Ringrazio Manuele e gli faccio i complimenti, e sono complimenti speciali perché il suo non è solo un ruolo di insegnante di un’attività ludica ma anche, e forse soprattutto, sociale.

E’ chiaro dalle sue risposte che chi decide di mettersi
in gioco in un percorso di questo tipo è alla ricerca non solo di divertimento
ed evasione ma anche di introspettività, bisogno di mettersi in gioco e di provare
a vincere le proprie rigidità, paure, insicurezze e magari di scoprire lati di
sé sconosciuti.

Il Teatro…mettere maschere per poterne togliere altre.

LATO A: Nineteen Days (Dave Clark – Denis Peyton)
ACCOMPAGNAMENTO: The Dave Clark Five
QUALITÁ ARTISTICO MUSICALE: Buona +
Il leader Dave Clark, batterista, fu una specie di despota all’interno del gruppo, ciò comunque non comportò alcuna rottura di formazione per almeno alcuni anni. Di certo il gruppo era realmente ben preparato e disposto a mostrare musicalmente la propria autenticità artistica, riscontrabile nei tantissimi dischi incisi durante la carriera. Nineteen Days era una sorta di allucinazione rock, brano ben tirato e cantato con grande impatto corrosivo; i fiati, che non difettavano mai, erano uno dei distintivi riconosciuti della band.
Brano ultra compresso e molto ritmato che dimostra come il gruppo fosse ben maturo per presentarsi in qualunque locale dove la musica scorresse a fiumi. Nonostante una loro ben precisa e distinguibile impronta musicale, alcune strizzate d’occhio al repertorio beatlesiano, sponda Lennon, non mancano affatto (cfr. con Dizzy Miss Lizzy…).

LATO B: I Need Love (Dave Clark – Mike Smith)
ACCOMPAGNAMENTO: The Dave Clark Five
QUALITÁ ARTISTICO MUSICALE: Super-
Sempre in co-abitazione con il leader, scritta dal tastierista e cantante Mike (Michael George) Smith, I Need Love è una disperazione d’amore, con un testo decisamente indigente in piena contrapposizione con la qualità della musica che lo sostiene. Un innamorato disperato e bisognoso d’amore, pronto a bussare alla porta della ragazza amata affinché finalmente lei gli dedichi un po’ di attenzione e un po’ d’amore. Lanciata durante lo speciale televisivo Hold On! serrato, brillante e coinvolgente, I Need Love non si discosta dalla percezione del già udito, ma perdoniamo tutto ragazzi, un brano talmente travolgente, con basso e chitarre che avvampano ed elettrizzano al massimo anche il più smaliziato degli ascoltatori. Un finale impetuoso è quanto di più adatto ad un pezzo così irresistibile. Insomma, al tirar delle somme: un 45 giri con il quale, se intorno al 1966/67, vi foste presentati ad una festicciola danzante, di quelle che ben ricordiamo, sarebbe stato meglio legarvelo alla cintura dei vostri pantaloni ben saldo, poiché le possibilità che qualcuno ve lo sgraffignasse sarebbero state davvero infinite e maledettamente giustificate! Scovate il 45 – se ancora non lo possedete – e mettetevi finalmente con l’animo in pace !

THE DAVE CLARK FIVE
COLUMBIA EMI
N° DI CATALOGO: SCMQ 7035
STAMPATO IN: ITALIA
DATA: 1967
RARITA’: MEDIA
QUOTAZIONE: EURO 25,00 / 35,00
QUALITÀ GRAFICA DELLA COPERTINA: 8

NOTE EVENTUALI: Pubblicata in UK il 28 ottobre del 1966, nel nostro Paese arrivò qualche mese dopo e quindi nel 1967. Fenomenale gruppo inglese, sempre ossessionato (ma non erano gli unici!) dallo strapotere dei Beatles, tanto è vero che quando i Fabs fecero uscire la pellicola di A Hard Day’s Night, immediatamente i DC5 si impegnatono in Catch Us If You Can ovvero, Prendeteci se potete e Nineteen days era una delle canzoni di punta del film che non raggiunse, come prevedibile, la popolarità del lungometraggio degli
Scarafaggi.

Lo ammetto. Sono stata anche io e lo sono di tanto in tanto tuttora, attirata in quel vortice di vanità ed esibizionismo che impera attualmente nella nostra società: fotografarsi nelle più svariate situazioni, dando in fondo anche sfogo alla propria creatività, ma indubbiamente in un moto incontenibile di vanità.

(Instagram @loretta-rossi-stuart)

Quando sono arrivata, nel leggere la favola di Apuleio “Eros e Psiche”, alla quarta prova iniziatica della bella Psiche, è stato come ricevere una carezza di assoluzione rispetto al mio peccato di vanità e, conseguentemente, una sorta di generalizzata assoluzione nei riguardi delle numerose donne che cedono alla tentazione dei selfie.
La favola di Psiche, esoterica e illuminante per ciò che concerne in particolare l’evoluzione spirituale femminile, ci racconta come la bellissima e coraggiosa moglie mortale di Eros, osteggiata e messa duramente alla prova da Afrodite, riesce a superare le prime tre difficilissime prove pur di riuscire a ricongiungersi al suo amato Eros e a venir elevata ed infine accolta nell’Olimpo. Soffermiamoci su ciò che simboleggia la quarta prova, dove la vanità femminile trova una sua sublimazione.
Narra Apuleio: “Ma per quanto frettolosa di portare a termine il servizio, le vinse l’animo una temeraria curiosità e si disse – Sciocca che sono! Io che porto la bellezza degli Dei non me ne prenderò neppure un pochino per piacere al mio bellissimo amante? – e detto così dischiuse il vasetto. No, dentro non v’era nulla di tutto questo, niente bellezza ma un sonno infernale”.

Come ci indica Erich Newman nel suo saggio “Amore e Psiche” Il tentativo di Afrodite di annientare Psiche raggiunge il suo culmine nella quarta prova: l’unguento di bellezza che Psiche deve andare a prendere è proprietà di Persefone, dea degli inferi. Mettere nelle mani di Psiche l’unguento di bellezza è un’astuzia degna proprio di Afrodite e della sua conoscenza della natura femminile.
Quale donna potrebbe resistere a questa tentazione, e come potrebbe resistere proprio una Psiche?
Lei che ha tra le mani l’unguento di bellezza della dea e decide di aprire il vasetto e di usare per sé l’unguento, dovrebbe essere perfettamente consapevole del pericolo che questo comporta. Tuttavia decide di non dare ad Afrodite quello che ha così faticosamente acquisito e lo ruba. Psiche è una mortale in lotta con una dea. Ma questo fallimento di Psiche spinge lo stesso Eros a entrare in azione, trasforma il fanciullo in uomo e l’amante fuggitivo in salvatore. 

Quindi ci sarà un epico lieto fine a questa favola di tribolazione dell’animo femminile in cui trova il suo senso ed il suo sposto, financo la vanità, diventando un fattore di crescita iniziatica, in quanto diretta e motivata, dalla ricerca e la conquista dell’amato. Insomma, ragazze, giovani e meno giovani…se la sappiamo gestire con eleganza, la vanità può essere poetica e creativa.
Ovvio…non esageriamo!

Marzo 0

…marzo, e già cagna l’aria…

con le tue infinite apparenze, i tuoi infiniti volti…

con il profumo della primavera che accarezza il vento, con le dune che iniziano a colorarsi, accompagnate dalle giornate che si allungano, e che invitano le rondini a tornare e le lucertole a sguizzare, in allegria…

marzo ti adoro, non lasciarmi

Il mio T9 appena scrivo “masc” mi suggerisce “mascherina”, tanto per sottolineare quanto questo momento storico sia pieno del sistema di protezione individuale che copre bocca e naso, ma per un lungo periodo la “mascherina” era usata per coprire gli occhi e parte del volto, come sistema di protezione individuale sì, ma non dalle malattie, ma dalle rappresaglie dei gendarmi.

Certo non parlo di rapinatori o di assassini che cercano di non essere riconosciuti dai poliziotti, ma di quelli che sbeffeggiavano i potenti e, al pari di rapinatori e assassini, potevano essere perseguiti dalla giustizia.
Il Carnevale ha avuto questo ruolo sociale per molti anni, per secoli. Tanto da poter avere proprio un momento preciso dell’anno dedicato.
Sembra che il nome derivi da “Cernem Levare“, cioè “eliminare la carne” che è quello che si faceva durante la cena dell’ultimo giorno del periodo quando si approssimava il Mercoledì delle Ceneri ed iniziava la Quaresima della Pasqua. Ma le origini sono ancora più lontane e senza andare a pensare ai babilonesi o agli antichi greci, pensiamo agli antichi romani che avevano il Calendario che terminava proprio alla fine di febbraio (il giorno in più, quel 29 Febbraio, infatti prima era un giorno aggiuntivo messo proprio alla fine dell’anno) e in quei giorni potevano festeggiare con il sovvertimento dell’ordine normale delle cose, delle convenzioni sociali. Un pò a ricreare il caos primordiale da quale il nuovo anno può nascere.
Il Servo diventa padrone e il Padrone serve i propri schiavi.

Il caos vissuto forse anche come segno apotropaico in una società così strutturata come quella romana e completato da una rigenerazione che può essere il processo, con una condanna e con un funerale.

Una distruzione prima della ricostruzione.

Mi sembra effettivamente di buon auspicio, soprattutto per questo 2022 che è iniziato “in salita”.

Il Carnevale ora è una sfilata di travestimenti e di costumi che possano far ridere o che facciano in qualche modo far sentire di “appartenere” ad una comunità che ha una passione in comune. Basta vedere i costumi che indossano i ragazzi per capire: tantissimi supereroi (da Spiderman a Ironman, passando per Hulk e Thor), qualche anime (vado per supposizione, perché non ne conosco nessuno) e qualche personaggio di Film “cult” o delle serie TV Netflix (le maschere di Dalì diventate famose per La Casa di Carta, tanti personaggi StarWars ad esempio), tanti animaletti simpatici (essenzialmente cani e gatti, ma ho visto anche una mucca) e poi personaggi esotici (ballerine di flamenco, odalische che indossavano la mascherina chirurgica prima che fosse su tutti i nostri volti, agghindatissime Frida Kahlo, Antichi romani,…).

(Immagine dal Web)

Una volta però il Carnevale era la sfilata delle maschere del teatro popolare e che, per un periodo dell’anno, diventavano quasi personaggi “normali”, accolti nella società e ancora più ascoltati. Rappresentazioni macchiettistiche e caricaturali dei vizi e dei costumi, ma anche dei “potenti”. Nello “sberleffo” verso il signorotto locale o verso la “classe dirigente”, il Carnevale svolgeva la propria funzione sociale. Da questo nascono le nostre “maschere nazionali”. Ne abbiamo tante, ne cito solo qualcuna, andando sù e giù per lo stivale. C’è Arlecchino che nasce a Bergamo ed era il servo svogliato ma furbo che si ingegnava in mille truffe e imbrogli per diventare ricco e c’è Pulcinella, nato tra i vicoli di Napoli che col primo condivide l’indole furba e truffaldina, ma con un tratto distintivo: non riesce proprio a tenere un segreto e dice sempre la verità anche se in modo strambo. Uno che indossa un vestito completamente colorato mentre l’altro uno completamente bianco, con la caratteristica mascherina nera. A Roma Meo Patacca e Rugantino erano sempre pronti ad attaccar briga, uno scontroso bullo trasteverino il primo, un gendarme il secondo, anche se comunque di estrazione popolare.
I veneziani prendevano in giro i ricchi facendoli rappresentare da Pantalone che è vestito in modo superbo, ma è di una avarizia esagerata, Bologna faceva il verso ai suoi dotti facendoli diventare dei Dottor Balanzone pedanti, vestiti con la toga e sempre pronti a metter giù citazioni dotte, anche se senza né capo né coda.
A Milano è Meneghino, a Firenze è Stenterello, a Perugia è Bartoccio, a Genova Capitan Spaventa il personaggio che in modo a volte sbruffone ed esageratamente vanaglorioso tira fuori le sue doti cercando di impressionare.
Tutti uomini?
E no, abbiamo anche Colombina e Corallina, Giacometta e Rosaura che spesso in tutto questo “carnevale” delle commedie dell’arte hanno un ruolo di primo piano come tessitrici di intrecci complicati ed esilaranti.

Tante maschere, tante storie che si intrecciano, ma un unico scopo, quello di prendersi un pò meno sul serio e capire che anche i potenti, quelli che sembrano infallibili, sono in realtà fallibili e hanno tanti e tanti vizi, oltre alle proprie virtù e – almeno per una volta all’anno – se ne può parlare tranquillamente. Con o senza maschera sul volto.

Siamo nel pieno del Carnevale, una festa popolare che affonda le sue radici in un antico passato.

I dolci, gli scherzi, i travestimenti rendono il Carnevale uno dei periodi più allegri e divertenti dell’anno.

Le “maschere” sono protagoniste indiscusse: insieme a quelle tradizionali quali Arlecchino, Colombina e Pulcinella, legate alle tradizioni locali del teatro popolare, ritroviamo molti personaggi protagonisti di favole classiche e moderne avventure: fate e maghi, principesse e principi, supereroi della Marvel, fantasmi, strane creature e personaggi fantastici. 

È una festa molto amata dai bambini ed anche molto apprezzata dagli adulti.

Basti pensare ad alcune delle più classiche manifestazioni della tradizione popolare come il Carnevale di Venezia, di Viareggio, di Putignano, per citarne alcuni tra i più conosciuti, caratterizzati da sfilate di carri allegorici i cui protagonisti non solo sono maschere della Commedia dell’Arte ma rappresentano goliardicamente anche personaggi della cultura e della politica del nostro tempo. 

(Autore: Yoshi Nakanishi – Licenze Creative Commons)

Molto particolare è anche il Carnevale di Tufara, in provincia di Campobasso: l’ultimo giorno di Carnevale si assiste alla sfilata del diavolo, tra corse, danze, salti e acrobazie.

Una manifestazione che origina dalle tradizioni contadine e che riecheggia riti propiziatori legati alla natura e alla fertilità, nel periodo di passaggio tra l’inverno e la primavera, i un connubio tra sacralità religiosa e profano.

Il tema delle maschere e dei travestimenti riecheggia nelle culture di tutti i tempi che, con il Carnevale, prende forma dalla tradizione e dal teatro popolare.

Un tema affrontato in letteratura e approfondito dalle scienze sociali. 

Utilizzando la metafora del teatro drammaturgico, il sociologo Erving Goffman ha evidenziato come ciascun individuo metta in atto una rappresentazione di sé stesso nel corso delle proprie relazioni sociali quotidiane, dove l’identità individuale coincide, di volta in volta, con la maschera che egli indossa nelle differenti messe in scena sociali. 

Non possiamo fare a meno di volgere l’attenzione anche al pensiero di Luigi Pirandello, da cui emerge il contrasto tra maschera e volto, tra apparire ed essere, tra esteriorità e interiorità. Un precursore dei nostri tempi, dove tale contrasto emerge ancor più potentemente per il tramite delle tecnologie e per l’uso ormai quotidiano dei social media. La realtà – ma di quale realtà stiamo poi parlando? – diviene una realtà virtuale, in cui è facile immergersi fino a perdere la propria identità. 

Ed ecco che la maschera, da ciascuno indossata nel quotidiano, si tramuta in una moltitudine di maschere da mostrare, in una società sempre più caratterizzata da istanze narcisistiche, per apparire, per simulare ciò che viene richiesto dai ruoli e dalle circostanze, per conquistare uno spazio nella realtà virtuale…o forse anche nella realtà di tutti i giorni!

Oggi, forse in misura maggiore rispetto al passato – chissà poi se questo dipende dalla percezione di ogni donna o uomo che vive nel proprio tempo – viviamo un periodo storico in cui il contesto sociale e culturale è caratterizzato da profonde incertezze, accentuate trasversalmente dalla pandemia e, in questi ultimi giorni, da conflitti geopolitici che si tramutano in guerre. 

Siamo in un’epoca fortemente connotata da spinte narcisistiche e individualistiche, in cui è attribuita una grande importanza al successo, al denaro, e all’apparenza, che spesso sconfina nell’ostentazione. 

Spesso sono le generazioni di giovani ad essere viste come quelle che maggiormente popolano i social, cercando di conquistare il proprio spazio e la propria identità, anche nel tentativo di costruirsi un’immagine che possa portarli al successo (il web pullula di influencer, di beniamini da imitare). Ad una attenta osservazione non sfuggirà, tuttavia, che si tratta di un fenomeno trasversale, in cui narcisismo ed esibizionismo contagiano copiosamente tutte le fasce d’età. 

Forte è la spinta a condividere la propria immagine di sé, spesso indossando una maschera, per apparire, per fare bella figura, per celare le proprie incertezze e insicurezze.

La maschera rappresenta l’aspetto esteriore con cui ciascun individuo si presenta all’altro, ciò che gli altri vedono e giudicano. Ciò che appare è visibile, ma può anche non corrispondere alla realtà.

Come è possibile distinguere il vero e dal falso? 

«In ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico» è la frase cardine del film “La migliore offerta” di Giuseppe Tornatore. Il protagonista, Virgil Oldman, esperto di arte, sottolinea che spesso, nel ricreare un’opera d’arte, «il falsario non resiste alla fatale tentazione di metterci del suo», ciò che in qualche modo rende l’opera comunque autentica. Allora forse possiamo ipotizzare che non sempre celarsi dietro ad una maschera equivalga a fingere. Sono sempre presenti elementi di autenticità. Ciascuno vede la realtà attraverso il proprio modo di essere, le proprie idee e rappresentazioni del mondo, che mutano nel corso della vita. 

Dunque, indossare maschere è un’abitudine quotidiana. 

Che non significa soltanto apparire, talvolta significa anche proteggere le proprie fragilità o semplicemente scegliere a chi e come, dal proprio punto di vista, secondo la complessità del proprio mondo, regalare all’altro quel che si ritiene la parte più autentica e più preziosa di sé stessi.

A ognuno la propria maschera! 

Aristotele diceva che l’apparenza è il punto di partenza per la ricerca della verità e in fisica è proprio così.

Sentito mai parlare di forze  apparenti? Le forze apparenti entrano in gioco in fisica per spiegare il cambiamento dei principi della dimamica in sistemi non inerziali. Un sistema non inerziale è un sistema che si muove in modo accelerato. Tutto, forse anche nelle relazioni sociali, è molto più semplice se i sistemi di riferimento degli osservatori si muovono in moto rettilineo e senza accelerare o decelerare, in questo modo si  osservano le stesse identiche cose pur stando in sistemi di riferimento differenti, ma questi purtroppo sono solo modelli fisici, nati per semplicaficare il problema e tirare fuori una teoria che spesso si rivela molto più complessa. 

Quando i due osservatori si trovano su sistemi di riferimento che non viaggiano più a velocità costante non riescono più a percepire le stesse sensazioni, in questo caso le forze. L’osservatore sul sistema non inerziale avverte le cosidette forze apparenti, dovute alla sua accelerazione, mentre l’altro nel suo sitema inerziale no. Un bel gran casino, non  si capisce più nulla…ma non è quello che ci accade sempre confrontandoci quotidianamente con le persone? Non sempre riusciamo ad essere lineari e costanti ed è così che creiamo un’apparenza di noi stessi che non sempre corrisponde a realtà, ma “don’t panic”, fermiamoci un secondo e osserviamo meglio…immaginiamo un osservatore seduto in una macchina che viaggia a velocità costante ed uno fermo alla fermata dell’autobus. In macchina il conducente ha una palla sul sedile, che succede se improvvisamente frena (decelera)? Sappiamo tutti che la palla cade a terra, ma in fisica il movimento è associato alle forze e quale forza spinge la palla a terra? La forza apparente creata dalla decellerazione dell’auto, forza che per l’osservatore che aspetta l’autobus non esiste, lui potrebbe dire che è l’auto che scivola sotto la palla perché decelera. 

Benché  apparente, la forza che l’automobilista avverte é presente e viva così come l’apparenza che creiamo, se pur involantariamente, di noi stessi. 

Perchè nascondiamo spesso la nostra vera natura dietro una data immagine? Per convenzione sociale? Per compiacere gli altri? Io non lo so eppure spesso ci ritroviamo ad essere vittime delle apparenze, che come le forze anche se apparenti hanno delle conseguenze a volte positive a volte negative. Forse in fisica, capito il meccanismo, lo schema diventa più chiaro ma nelle relazioni sociali, a mio parere, esistono troppe variabili per arrivare alla vera realtà e non sempre siamo disposti a spendere il nostro tempo per scoprirla. Anche se “il tempo è relativo” all’atto pratico c’è che nella vita non ne abbiamo poi così tanto e sprecarlo sarebbe un gran peccato, non ci resta che valutare quando vale la pena di indagare se effettivamente dietro all’apparenze c’è una bella realtà, cosa che non sempre è così facile.  Anche il Sole  ha fatto scherzi, dal nostro punto di osservazione, fino a che qualcuno non ha indagato, sembrava che si muovesse per apparire di giorno e scomparire di sera, in realtà poi si è capito che era il nostro sistema di riferimento Terra a muoversi, questo è quello che si dice moto apparente, lo si può osservare nel Sole e in molti altri astri. 

Valutiamo quale sia il Sole o l’astro per cui  valga la pena scoprire realtà che va oltre l’apparenza, il nostro tempo su questo Mondo è limitato e per stare bene non ci estra altro che consumarlo nei migliori dei modi, cercando di fare sempre quello che ci si fa stare bene per vivere serenamente e se per noi vale la pena studiare quello che va oltre l’apparenza facciamolo, potremmo trovare una bella realtà o aver fatto solo una nuova esperienza.

Può mai andare d’accordo il pieno con il vuoto? Due vocaboli così distanti, due concetti così apparentemente in contrasto, possono mai trovare una via d’intesa, una logica comune che li unisca, oltre quella della evidente contrapposizione? A quanto sembra, sì. 

Quando il vice direttore Giorgio Gabrielli, conscio della mia perdurante traballante situazione di salute, con animo costruttivo e sempre presente mi ha suggerito il tema dell’eredità come leitmotiv del numero in corso, un sussulto ha accarezzato le corde della mia sensibilità, messa a dura prova negli ultimi mesi. 

Renato Scarpa ci ha lasciato. Un caro amico, un amico del nostro giornale, un amico della bellezza, della cultura e della poesia italiana. E cosa ha lasciato? Certamente una grande eredità. Certamente un patrimonio di sentimenti, di onde spirituali, di gesti nobili e puri, di vissuti preziosi, di sconfitte abbattute, di incoraggiamenti sottesi. Sì, certamente una grande eredità. Ma anche un profondo ed incolmabile senso di vuoto. La consapevolezza che nulla potrà riempire, appunto, il vuoto che ha lasciato. 

Questo accade per ogni creatura speciale che incontriamo nel nostro viaggio, e che poi perdiamo. Per ogni piccolo o grande paesaggio che affrontiamo o che guardiamo dall’alto. Questo è il destino di ogni essere, umano o animale, che prepotentemente si affaccia nella nostra vita. Ed è il destino di noi stessi per qualcun altro, sin dal primo giorno, gridando con il nostro primo pianto il desiderio di esserci e di iniziare a camminare.

Forse è arrivato davvero il momento di fermarci un istante. Osservare al microscopio la fretta e l’arroganza dei nostri giorni, l’incuria della nostra superficialità, la cattiva educazione delle nostre parole. Dovremmo analizzare i batteri che si insinuano in ogni lettera che esprimiamo, allontanare ogni tarma che può far cedere da un momento all’altro i bastoncini che le compongono.

Ne parlavo alcuni giorni fa con Faby (@_NonDirmelo_), una sensibilità curiosa ed intelligente, incontrata scambiando alcuni pensieri su twitter. Ha espresso la mancanza di educazione di buona parte del mondo social e la pesantezza da riunione condominiale di linguaggi ed espressioni.

Ecco cosa voglio ricordare, in questo momento, di Renato. L’eredità delle sue parole. Il contenuto di ogni suo pensiero, le carezze di ogni sua espressività, il caldo, spontaneo e tenero abbraccio di ogni racconto.

E invitare tutti farne tesoro. Tutti.

E allora… facciamo un pieno di parole, ma che non siano vuote. Coloriamole anche di allegria, di squisita ironia, di profonda leggerezza. Ma non lasciamole in pasto alla banalità, al tanto per dire, al vento che se le porta via, alla rissa o alla pesantezza di una riunione condominiale…

Ecco. Il rispetto per le parole. 

Caro Renato,

il nostro giornale è dedicato a te.

E al cucciolo di uomo che ci aiuterai a preservare.

Gerry 

Il 27 Gennaio è svolta la Giornata della Memoria. Ho scritto questo articolo mentre mancavano pochi giorni al triste ricordo e le preparazioni erano ancora in atto. Sui social network iniziavano ad apparire i primi post con delle immagine evocative, nelle scuole si iniziavano a preparare delle ore nelle quali saranno stati ospiti i – pochissimi superstiti – o le loro testimonianze sarebbero state proiettate ai ragazzi.

E’ un nostro dovere civile ricordare quello che è effettivamente successo, quello che è stata una macchia nera per l’umanità. Un’assoluta mancanza di valore morale e di valore civile che sono non su una fazione politica, non su un popolo, ma sul mondo intero, sul genere umano: non una colpa da espiare, ma un monito per ricordare che tipo atrocità può perpetrare l’uomo sull’uomo.

Prima di tutto cosa ricordiamo?

Il 27 gennaio del 1945, il Maresciallo Ivan Konev e la sua 60ª Armata delle truppe sovietiche impegnate sul “1º Fronte ucraino” scoprirono per primi il campo di concentramento nazista vicino alla città polacca di Oświęcim (in tedesco Auschwitz).

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Non era il primo campo di prigionia e il primo campo di concentramento dedicato alla “Soluzione Finale” liberato – 6 mesi prima era stato liberato il campo di Majdanek e anche i campi di Belzec, Sobibor e Treblinka che erano stati smantellati nel 1943 dai nazisti – ma la scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente, per la prima volta, al mondo intero l’orrore del genocidio nazista.
Anche Auschwitz era stato abbandonato dai nazisti, scappati freneticamente circa dieci giorni prima portando con loro tutti i prigionieri sani in quella che fu una “Marcia della Morte”, visto che molti prigionieri morirono durante la marcia stessa.

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L’ONU – Organizzazione delle Nazioni Unite – il 1° Novembre 2005 scelse questa data per ricordare la Shoah, lo sterminio del popolo ebraico.

Un dovere morale ricordare.
Sarebbe molto più facile non accogliere questa eredità pesante dai nostri nonni, facendo finta che non sia accaduto, in una sorta di rimozione collettiva, anche un pò auto-assolutoria. Come a pensare che si sia immuni dal vortice di Odio e di Indifferenza, di empatia verso le sofferenze altrui.
Il dovere morale infatti è anche quello di “raccontarlo bene”, di farlo acquisire alle giovani generazioni perché l’odio è insito nell’essere umano e solo comprendendolo è possibile liberarsene.

(Immagine dal Web)

Mentre stavo scrivendo questo pezzo, che poteva benissimo concludersi nel capoverso precedente, mi è caduto l’occhio su una notizia: La statua di Theodore Roosevelt è stata rimossa dall’ingresso del Museo di Storia Naturale a New York.
Ora capiamoci, la statua è davvero interessante a livello statistico e capisco per quale motivo il movimento “Black lives matter” ne abbia chiesto la rimozione.
Theodore Roosevelt è stato il 26° Presidente degli Stati Uniti d’America, dal 1901 al 1909, un militarista convinto – anche a discapito del Premio Nobel per la Pace che gli fu consegnato nel 1906 – un “Cowboy” senza tanti scrupoli e giri di parole. Un personaggio quasi fumettistico – non è possibile dimenticare il fratello “pazzo” di Mortimer Brewster in “Arsenico e Vecchi Merletti” che si credeva per l’appunto Roosevelt tanto da farsi chiamare Teddy – che chiuse la propria carriera da Presidente andando in Africa per un viaggio di caccia dal quale ritornò con più di tremila trofei (seguito e acclamato dai giornali statunitensi).
Insomma Roosevelt in questa statua è ritratto a cavallo con accanto un Pellerossa e un Africano che lo seguono a piedi. A piedi nudi. I tratti somatici marcati, gli ornamenti tipici delle tribù nordamericane o centro africane e, quei piedi nudi, segni dell’assoggettamento, della schiavitù.
pLa statua è stata rimossa per poter essere esposta nella nuova “Theodore Roosevelt Presidential Library” di Medora, in Nord Dakota, che aprirà nel 2026.

Non è la prima volta che questa situazione si presenta. Le opere artistiche, i fregi sui palazzi, le statue nelle piazze, i templi nelle città.
Sono stati distrutti fregi fascisti o nazisti in Europa, distrutte statue di Stalin o Lenin nelle piazze ex-sovietiche o le statue di Saddam Hussein a Bagdad. Segni dell’oppressione anti-democratica sistemate nelle piazze, rimosse dopo con una nuova coscienza di cittadinanza. O con una nuova coscienza civica, che è quella che ha fatto restituire all’Italia la Stele di Axum che prima era nei pressi del Circo Massimo a Roma, fino a vent’anni fa.

La Damnazio Memoriae ai quali i regnanti erano destinati nel caso di malgoverno o di “crimini contro il proprio popolo” (che poi a volte potrebbero anche essere riletti come crimine contro una casta dei vincitori) era un modo per eliminare storia da quei libri che sono i monumenti artistici.
Nella nostra epoca – dove si scrive e si legge più di tutto quello che si sia mai scritto e letto nel passato, sommato – che senso ha effettivamente eliminare un segno? Certo sicuramente può essere meno “ostentato”, perché a ben guardare le piazze sono un luogo “attuale” e non musei da mantenere inalterate nei secoli.

L’eredità che abbiamo ricevuto dal passato, visto che parliamo di questo, a volte non è proprio “politicamente corretta”, non è “allineata con il sentimento” attuale, non è accettabile con il sentimento attuale democratico o religioso che sia.

Ma questo è il compito della nostra generazione: sta a noi preservare quella memoria per non far finta che non ci sia mai stata. Non si può riscrivere il passato, come si faceva nell’universo distopico di “1984” di Orwell o in quello di “Fahrenheit 451” di Bradbury, e non lo si può semplicemente nascondere, perché i fatti del passato sono destinati, prima o poi, a riemergere se non assimilati, se non elaborati, e se non si ha la capacità di contestualizzarli.
Leopoldo II del Belgio e Winston Churchill hanno avuto un passato non proprio specchiato, se rapportato al pensiero attuale, ed è giusto non nascondere i loro lati oscuri, quando non addirittura spregevoli, ma questo per farne persone a tutto tondo, com’è giusto che si possa fare a “distanza storica”.

Per poter lasciare una eredità migliore, dobbiamo arricchirla delle nostre conoscenze, renderla più elaborata, più complessa, più profonda.