Incontro con Elisa Alaimo
Quest’intervista nasce un pò per caso.
Una domenica davanti ad un prosecco mi ritrovo a chiacchierare con Elisa di cose normali come il lavoro, e immediatamente salta fuori una questione inaspettata: l’ansia da prestazione.
Non ci sarebbe nulla di insolito pensando ad un universo fatto di adulti, carriera, uffici, piuttosto che della vita privata, ma che invece è tristemente riferito ai bambini. Nasce rapidamente in me la necessità di approfondire la questione e di chiarire, innanzitutto a me stessa le dinamiche che portano
a questa condizione che ha tutta l’aria di essere una piccola silente sofferenza della nostra epoca e che porta passivamente con sé la promessa di creare una società fragile e intrisa di solitudine, una macchina con degli ingranaggi scollegati.
Elisa Alaimo ha 43 anni, anche se ha il viso fresco e raggiante di una ragazzina. Lavora nell’ambito dell’educazione dal 2006. Dopo la laurea in Filosofia, con una tesi in antropologia culturale sulla Comunità Eritrea di Milano e sulle sue dinamiche di integrazione nel contesto urbano contemporaneo, c’è l’incontro con i Minori nelle comunità di accoglienza e i ragazzi nei corsi di formazione professionale, dove svolge il ruolo di docente di sostegno. Al riguardo mi dice: “Attraverso la relazione educativa con i giovani allievi e il supporto di docenti illuminati sono riuscita ad avvicinarmi al significato di reale inclusione (in anni in cui non era ancora un concetto così tanto diffuso), superando così quello di integrazione.“
L’esperienza tra i laboratori di elettronica ed elettrotecnica finisce circa dieci anni più tardi, quando arriva l’esigenza di fare un salto verso nuove conoscenze, apprendimenti e visioni. Ed è così che per i cinque anni successivi ricopre il ruolo di coordinatrice pedagogica ed educatrice per i più piccoli, per quella che è la “fascia 0-6”.
Cosa ti sei portata a casa di quegli anni?
“Sono stati anni decisivi e fondamentali, di visioni nuove, aperte davvero alla centralità della persona, dei suoi bisogni, con i propri tempi e con i propri processi. Gli anni insieme ai bambini, vissuti all’altezza dei loro sguardi mi hanno ridato l’energia e la sicurezza per tornare nel mondo degli adolescenti, così tanto vicini, così tanto lontani, così sollecitanti.“
Attualmente sei docente di sostegno specializzanda presso l’Università di Torino (TFA VIII° ciclo), come descriveresti questa esperienza?
“A dir poco impegnativa! | nostri docenti definiscono noi studenti in vari modi: acrobati tra le nostre vite, ponti tra le istituzioni, ma la definizione che preferisco è “attivista dei diritti umani”, perché lavorare per un mondo più inclusivo e più giusto è davvero ciò che finalmente rende piena la mia vita, chiara e colma di significato.“
Quando abbiamo chiacchierato quella domenica mi ha colpito molto il fatto che tu abbia fatto riferimento all’ansia da prestazione dei giovanissimi, ho sentito la stessa sensazione di quando fai degli esami approfonditi e il dottore ti conferma una diagnosi, che sospettavi ma che speravi in fondo di poter scongiurare: quell’impressione che la società in cui viviamo non goda proprio di ottima salute. Che cosa sta accadendo?
“L’ansia da prestazione è assai diffusa tra le nostre classi, fin dai primi anni della scuola primaria. lo stessa, da docente, sono testimone quasi quotidianamente del disagio che i bambini provano di fronte ad un insuccesso, ad un voto non corrispondente alle aspettative, alla paura di deludere gli affetti più significativi. La paura più grande è quella di perdere valore dinnanzi ai propri genitori. Come se l’affetto e l’amore famigliare fosse commisurato al giudizio a seguito di una prova. Ciò non corrisponde alla realtà, eppure nel bambino si fa, spesso, strada questo pensiero. | fattori sono molteplici, da una società sempre più competitiva, al tempo passato in famiglia, che tra i vari impegni di genitori e figli è sempre meno.
Molte volte confrontandomi con i genitori e raccogliendo i racconti dei bambini mi sembra che mamma, papà e figli si conoscano (o riconoscano) davvero sempre meno, così il voto o il risultato di qualunque prova diventa il dato tangibile del “chi si è?”. La mia è sicuramente un’opinione ma ritengo abbastanza ‘verosimile che le famiglie facciano molta fatica a capire i reali bisogni dei propri figli, a comprendere i processi che sottendono all’agire dei loro bambini e quindi le loro personalità. Forse se si iniziasse a dare valore e significato ai processi più che ai risultati (e uso il noi perché, a mio avviso, anche noi docenti dovremmo ricordarcelo di più) potremmo vedere bambini più sereni, consapevoli e sicuri del fatto che loro valgono non per quello che fanno ma per quello che sono.”
Qual è la differenza nell’apparato scolastico ed educativo della generazione attuale rispetto alla nostra?
“La scuola di oggi è una scuola che si mette sicuramente più in discussione rispetto ad un tempo. Ai docenti che si stanno specializzando si chiede di accettare, accogliere la trasformazione, di andare oltre all’ “abbiamo sempre fatto così”, di superare l’idea che certe teorie e pratiche non si toccano. Il lavoro educativo ci obbliga a rimanere nella complessità (di tempi complessi), la scuola di oggi inizia a riflettere sul fatto che ogni esperienza proposta ai ragazzi deve essere pensata, riflettuta. Uno stesso approccio non va bene per tutti, per sostenere un ragazzo nell’apprendimento è necessario riflettere sui suoi bisogni, riconoscerlo, accettarlo, accoglierlo incondizionatamente.”
Genitori, scuola e società formano la comunità educante di ogni individuo fin dalla più tenera età, quanta responsabilità ha ciascuno di questi attori?
“Sappiamo bene che con “comunità educante” si intendono tutte quelle istituzioni che concorrono alla crescita di un ragazzo e non solo, dalla famiglia alla scuola allo sport, fino ad arrivare al quartiere, ai servizi offerti dalla città etc… Con comunità educante si intende attualmente davvero un cerchio molto ampio. Ad esempio se so che un mio allievo, che sta manifestando disagio a scuola in svariati modi, va a prendere il caffè prima del suono della campanella in un determinato bar, io da docente devo essere consapevole che il mio allievo entra in classe con il bar. Per intenderci, gli incontri che ha avuto, i quotidiani sfogliati, i discorsi ascoltati possono essere indicatori del perché prova o manifesta disagio. E io, come docente, e quindi parte della comunità educante, così come il barista, posso attingere alla rete interna della comunità per capire la situazione e quindi intervenire sollecitando altri nodi della comunità.
Se questo senso di rete fosse più condiviso probabilmente anche le famiglie potrebbero sentirsi meno sole e quindi supportate in un percorso di crescita che coinvolge tutti collettivamente.“
Pensi che la nostra generazione fosse più libera e dunque più serena?
“Non so dire se la nostra generazione (anni 90-2000) fosse più libera delle nuove generazioni, sicuramente avevamo un sentimento della libertà diversa. Per me la libertà si manifestava nella Scelta.
La mia generazione poteva scegliere, sapeva cosa scegliere, si esponeva dichiarando cosa volesse. Talvolta gli obiettivi si raggiungevano con facilità, altre volte lottando (con la famiglia, la scuola, con le aspettative della società), altre volte lasciando perdere o cambiando strada. Con o senza compromessi.
Ora mi chiedo se le nuove generazioni si sentono libere di sognare. Mi domando se esistono ancora i desideri“
Questo mondo ci vuole altamente performanti, forse ancora prima di riuscire a maturare la nostra identità ed espressività, e non curandosi del nostro bagaglio emotivo, o banalmente dei tempi filologici individuali. e per questo che si parla sempre di più di burnout? È vero che questa condizione vede vittime sempre più giovani? Come fare per invertire questa tendenza?
“Il burnout è una malattia e come tale deve essere trattata. Il burnout si manifesta quando il nostro mondo intimo, quello dei sogni, delle ambizioni, dei modi in cui la nostra personalità si presenta al mondo brucia letteralmente. E brucia davvero. Ciò riguarda tutti, dai ragazzi che non si sentono riconosciuti nel loro valore, ai giovani adulti che sperimentano la frattura tra ciò che sono e l’ambiente che li circonda, spesso vittime di rapporti con datori di lavoro, manipolatori e perché no? Anche sadici. Ma ci sono anche lavoratori in prepensionamento che trascinano la loro giornata lavorativa al termine, senza esserci realmente (spesso generando una catena di malcontento e disagio tra colleghi, che potrebbero al loro volta sperimentare quel vuoto che genera il burnout stesso). lo non ritengo che il burnout sia legato direttamente al livello di performance o alle richieste esterne, credo che nasca da un profondo disagio esistenziale, che richiede un cambiamento, uno svoltare di cui spesso si ha paura o non si ritiene di averne le forze. Eppure quante storie conosciamo di lavoratori sofferenti che per scelta o necessità hanno cambiato contesto e si sono ripresi in mano la loro vita? E’ necessario monitorare i luoghi di lavoro (o di studio) con criteri adeguati e precisi, che mostrano chiaramente quali sono gli indicatori per un ambiente sano e favorevole al benessere.“
In diversi studi si fanno analogie sul comportamento tra la generazione degli adulti di oggi e quelle che l’hanno preceduta, affermando che ci si trova in un adolescenza estesa fino alla soglia dei 40, cosa implica questo atteggiamento, lo possiamo collegare al nostro discorso?
“Sì, ritengo che ci sia una correlazione tra i ragazzi adolescenti e gli adulti ritenuti (o che si ritengono) adolescenti a 40 anni ed è molto semplice, i quarantenni adolescenti sono tali perché non sono riusciti a superare le grandi paure dei ragazzi, cioè quelle di non essere amati, non accettati per quelli che sono, di essere lasciati soli.“
Per concludere, non posso esimermi dal domandarti cosa ne pensi del metodo Montessori.
“Il metodo Montessori ha dato la libertà ai bambini di scegliere e di conseguenza attraverso la scelta di manifestarsi nella loro personalità. L’ambiente, ordinato, preciso, leggibile della Casa dei Bambini porta il fanciullo a scegliere con serenità lo spazio con le proposte più adeguate al suo sentire. Con il metodo viene messo l’accento sulla centralità del bambino, che sperimenta sempre di più diventando via via più consapevole ed autonomo. Sono innumerevoli le possibilità che offre il metodo, ma ho voluto focalizzarmi sulla libertà di scelta perché, come già detto, la ritengo una facoltà che stiamo perdendo.
Anche il metodo Montessori ha il suo limite, che sta proprio nel concetto di metodo. Il metodo non deve essere considerato una “lista della spesa” o come consigli per gli acquisti da applicare in ogni occasione, ma va pensato, valutato, ripensato nella complessità.“