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di Alessandra Macrì

Uso con malcelato disagio i tasti del telecomando. Non sono da Netflix e Prime. Da interno borghese riqualificato ai tempi della serialità. Non ci sto sul divano del decubito, appresso alle puntate. Per rappresaglia, mi vieto anche i film da addomesticati. Dal cinema pretendo il sequestro, lo spazio che annienta la realtà. Buio in sala e i baci potenziati dalla visione. 

Brividi d’autore però scoppia subito nel chiarore scintillante delle pellicole che hanno fatto la storia del cinema italiano, levandomi nel tempo di un battito di ciglia, alla nostalgia. Pierfrancesco Campanella non ama i preamboli. Le attese. L’archivio di Alfredo Bini compare come dichiarazione di poetica che congiunge generi diversi alla ricerca di un entomologo. Omaggio alla tradizione e ricerca smisurata del codice per registrare l’evento: l’attimo in cui accade il cinema nuovo. Il link tra Anna Magnani in Mamma Roma e la meravigliosa Maria Grazia Cucinotta di Campanella, persino più bella quando compare senza trucco. 

Secondo Fabio Melelli, docente universitario di Storia del Cinema: ‘Pierfrancesco Campanella è un regista atipico nell’ambito del panorama cinematografico italiano. Un cane sciolto, nel vero senso della parola, completamente al di fuori delle regole del sistema. Le sue opere, spesso contestate da certi critici pseudointellettuali che osannano solo gli artisti schierati, sono disturbanti e politicamente scorrette, anticipando spesso tematiche scomode. Il tempo però gli sta rendendo giustizia e i suoi vecchi film stanno ultimamente diventando veri e propri cult movies’. Annuisco e mi addentro, esaltandomi sui versi di Bukowski.

Lo stile è la risposta a tutto. Un modo nuovo per affrontare qualcosa di noioso o pericoloso fare una cosa noiosa con stile è preferibile al farne una pericolosa senza. fare una cosa pericolosa con stile è quello che io chiamo arte.

Da Charles Bukowski a Ben Gazzara, alias Charles Serking in “Storie di ordinaria follia”, diretto da Marco Ferreri, a uno degli insensibili interlocutori di Louiselle Caterini in “Brividi d’autore”, diretto da lei. Fino a che punto si può osare, provocando le cose pericolose della vita per sottrarsi a quelle noiose, e quando è lo stile che deve intervenire a imporre una misura? Intendo: la vita, da sfruculiata, va verso le sue conseguenze drammatiche, o irrisorie, o fatali. Quando è che l’artista capisce che ha trovato l’ultima scena, quella da cui riverberano tutte le altre, o mai più nessuna, tanto da dare un taglio alle provocazioni che infligge alla vita?

Forse quell’ultima scena non si trova mai. Troppe variabili entrano in gioco durante la fase delle riprese. Ad ogni buon conto, uno stile è fatto di regole che possono essere sovvertite durante il montaggio. E’proprio lì che occorre imporre un ritmo e un pathos crescente.

È possibile ovviare a quanto Mariagrazia Cucinotta, Louiselle, finisce per scegliere quasi fosse – per tutti? Finora i suoi film sono stati profetici… – l’ultima spiaggia, raggiungendo il successo e per ciò corrispondendo in uno al mercato, al conto in banca, e al proprio legittimo desiderio di essere altro tutt’altro da quello che la gente, il pubblico, deve sapere dell’artista? Che prezzo si può arrivare a pagare in nome di questo scopo?

Un prezzo alto, dettato dalla sincerità che prima di tutto si deve a se stessi e poi al proprio pubblico. Ma il cinema è soprattutto un prodotto industriale, fatto anche di mediazioni tra quello che il produttore vorrebbe importi e la tua personale esigenza di raccontare una storia. 

Calvino sosteneva che per scrivere devi uccidere i cani che hai dentro. In un altro dei suoi film, “Cattive inclinazioni”, l’ambiguo personaggio della contraffattrice d’arte interpretato da Florinda Bolkan, fa larghi sorrisi mentre confessa in un talk show da prima serata che il mostro è solo la materializzazione degli istinti che non accettiamo. Quindi si potrebbe finire per eleggere l’audience giudice unico delle mostruosità accettate, accettabili. Magari facendo votare la maggioranza, il pubblico a casa, pure nel caso dei sacrifici d’autore.

Il giudice inesorabile di un artista resta sempre quello che un tempo era il botteghino mentre oggi viene dettato dal numero delle visualizzazioni sulle piattaforme. Non bisogna mai dimenticarlo! Da parte sua il pubblico detiene sempre un telecomando e a lui resta sempre il sacrosanto diritto di cosa scegliere.

Finiremo per abitare la società della cronaca nera? L’editoria piazza overdosi di noir, i telegiornali e i salotti televisivi storie di massacri en famille, passeggiando distrattamente al parco, quando si teme di dare alla luce un bambino nelle situazioni più stravaganti.

E’ la triste prerogativa dei nostri giorni: spesso la realtà supera di gran lunga la fervida fantasia anche di un perverso sceneggiatore o di un regista dalle inclinazioni pericolose. Ce lo dimostrano quotidianamente i programmi televisivi del daytime o di seconda serata, infarciti di efferati casi di cronaca, tesi a tenere alta l’attenzione dello spettatore per un punto di share in più. 

Sperava non fossero profetici i film che girava alle soglie del nuovo millennio?

Immodestamente forse avevo già previsto tutto. I processi oggi vengono celebrati nei nuovi tribunali dell’Inquisizione, inscritti nella scatola televisiva. Il delitto di Cogne in questo ha aperto la strada ad un nuovo e discutibile modo di fare televisione.

Il mostro è Frankenstein. Ma la creatura di Mary Shelley è un ipersensibile esteta sopraffatto da bellezza, un contemplativo condannato dalla meschinità degli umani.

La stessa innocenza dei bambini, quella che abbiamo irrimediabilmente perso nel passaggio alla vita adulta. Ma anche i bambini sanno essere sufficientemente crudeli, specie quando emulano gli adulti.

Stare chiuso qui dentro cercando di conservare cosa non è esistito mai. Incombe come una mannaia nello script di “Brividi d’autore”. Mi ha folgorata. Tuttavia non interrompe la ricerca, fiera e disperata, di Louiselle. Forse chi sa di incatenarsi a un mandato talmente crudele, è piuttosto Gianluigi che si rifiuta di parlare coi grandi, in “Chiedo Asilo” di Ferreri, o Premio Politano di “Cattive inclinazioni”. Il bambino chiede alla mamma: “Dimmi la verità!” Sfuggire al mondo degli adulti significa sfuggire alla necessità della menzogna. Premio Politano, l’interrotto, potrebbe essere l’assassino, o chi non saprebbe concepire misfatto, o colui il quale reagisce all’oscena prevaricazione delle regole dei grandi impugnando una squadra da disegno e facendone ghigliottina. L’artista deve cedere a conseguenze da adulto? In che rapporto stanno menzogna e invenzione?

Nella stessa correlazione che intercorre tra invenzione e rivelazione. Un assioma che potrebbe essere tranquillamente applicato all’essenza stessa del cinema..

Premio. Più che un nome proprio, la configurazione di un indizio. Chi incarna l’originale, l’eterno infante attaccato alla lingua madre, natura e origine, sguazza nell’autenticità che ripaga l’artista della lotta col proprio splendore, col molto dolore, e gli infiniti giorni d’attesa?

L’archetipo di Premio Politano è inscritto nel mito greco di Edipo nel suo rapporto conflittuale con la madre. In chiave metaforica il mio è con il cinema, un mondo tanto affascinante quanto pieno di poche certezze.

Il dolore obbliga alla ricerca e al ricordo, la guarigione preme perché sia oblio. I suoi personaggi sono lesti a ripulirsi delle croste, dagli esiti delle suppurazioni sulla coscienza. Si ributtano nel gioco, si ficcano nella mischia, ascoltano la carne. Quanta voce dà alla carne per alimentarci la sua ispirazione?

Citando Charles Bukowski, nel desiderio sessuale “si commette il più vecchio dei peccati nel più nuovo dei modi”.

In “Storie di ordinaria follia” di Ferreri Ben Gazzara minaccia la svenevole partner: Vuoi che mi tolga la cinghia? Lei lo riporta nei frame collegati alla fantasia di Mariagrazia Cucinotta. Si tratta di una formula assai pronunciata almeno dal secondo dopoguerra, lungo i viali rigogliosi del boom economico, nelle belle case delle belle famiglie italiane. Spettava ai migliori pater familias. Non ci sono più i ‘maschioni’ di una volta?

Non sempre. Ad esempio Ferreri ne “L’ultima donna” aveva sentenziato che l’uomo era perduto, sconfitto dal suo stesso machismo e per questo destinato all’autoevirazione. E non si tratta di un caso isolato!

Uno dei malfattori di una Justine postmoderna, negandole aiuto a dispetto dei loro trascorsi rivela: Io non credo nei sogni Louiselle. È possibile fare cinema e non credere nei sogni? In “I love Marco Ferreri”, Pierfrancesco Campanella espone una citazione da Edgar Allan Poe: “Tutto ciò che vediamo sentiamo o siamo non è altro che un sogno dentro un sogno”

In questo Fellini è stato un maestro. Da “Otto e mezzo” in poi non ha fatto altro che raccontare la stessa storia. L’interpretazione dei suoi sogni in un’ottica junghiana, complice l’incontro con lo psicoterapeuta Ernst Bernhard.

Se perde la possibilità di credere alla creatura cosa ne è dell’artista? Colui che sogna si soddisfa completamente di ciò che sogna. Uno dei moventi a fare arte ancora oggi, secondo Manifesto, l’installazione-lungometraggio del 2015, di Julian Rosefeld.

“La vita è sogno” resta una splendida commedia di Calderon de la Barca. Ma ci sono anche le bollette da pagare… e forse lì si torna alla cruda realtà. 

Hanno paragonato i suoi film per genere e stile a quelli di Dario Argento. Ma lei fa sceneggiature tarantolate, dialoghi in cui ironia e autoironia e persino meta ironia la fanno da padrone. Colgo una volontà programmatica di sottrarre pathos a favore di un estetizzante gusto per il pulp. Quentin Tarantino o gli spazi percorsi dall’orrore misurato goccia a goccia in Dario Argento?

Mi onoro del paragone con due indiscussi Maestri. Non a caso il primo non ha mai nascosto la sua passione per il nostro cinema di genere, mentre al secondo mi sono ispirato quando ho girato trent’anni fa “Bugie rosse”. In quella pellicola non è difficile scovare più di un riferimento a “Profondo rosso”.

Satira derisione deformazione grottesca di una società immune al cambiamento sono i tratti costitutivi della poetica di Ferreri. Il lei di una società globalizzata che ha fondamenta nelle paludi, sulle sabbie mobili di movimenti schizoidi, in flash forward.

Non a caso il “grotesque” e il “divertissement” sono tratti costitutivi della filmografia ferreriana, che io amo molto.

Invece i suoi personaggi appaiono piuttosto materici, attaccati all’oggettività della soddisfazione. L’amore è incompatibile col terrigno, mero, dato di realtà? E poi ‘L’amore è un crimine che richiede un complice’. Nei suoi film si invera l’homo homini lupus. “Solitudini. Ecco cosa siamo”.

In quell’episodio le chiavi di lettura sono molteplici. In pochi minuti vengono affrontati diversi temi come il complesso di Edipo del protagonista, l’omosessualità, i disturbi alimentari ma il nodo principale è quello dell’incomunicabilità di oggi, dominata dai social media. Anche un tema attualissimo come la violenza sulle donne appare ribaltato: da vittima inconsapevole la protagonista si trasforma in una implacabile carnefice.

Lei non mi pare ami cuocere la vittima a fuoco lento. Alla tortura, che imporrebbe il supplizio dell’attesa, preferisce il colpo secco. E la telecamera indugia, sul dopo. La sua preferenza estetica la mette accanto a Rust, in “True Detective”, mentre sbatte sul tavolo delle indagini le foto di tutte quelle donne. Tutti quei corpi arresi, esposti a ciò che infine hanno accettato. A proposito dei corpi. Ipotizza copioni anche in funzione delle sue attrici ricorsive, adattando i ruoli ai loro cambiamenti fisici, o si augura che il corpo delle donne che ha scelto per i suoi film resti inviolato, scampato al tempo, fermo come nei primi frame in cui lei lo ha inquadrato?

In generale non ho mai scritto una sceneggiatura in funzione di una interprete in particolare. Le attrici tendono ad essere poco inclini ad essere imbruttite per esigenze di copione. Preferisco quelle che sanno comprendere la natura del loro personaggio e si appassionano convintamente al progetto.

Ferreri sostanzia di molte belle scene la superiorità della donna. “Ciao maschio”, per esempio, ha battute e dichiarazioni di intenti paragonabili alle scelte di protagoniste di François Truffaut, o di Jean-Luc Godard. Serva del potere, angelo distruttore, natura che autoperpetua se stessa o nuova, iconica alternativa a tutte le strettoie, altrettanti recinti di genere, evocate finora?

Ne cito una su tutte: l’enigmatica e crudele Andrea Ferreol che, ne “La grande abbuffata”, assiste impassibile al desiderio di morte e autodistruzione dei quattro protagonisti.

Francesca Dellera andava mangiata?

Era la diretta risposta ai suoi film precedenti dove la misoginia del maschio veniva combattuta dalla voracità femminile. Nella sua follia Paolo, per non perdere Francesca, la fa a pezzi e se ne ciba. Ma con questo gesto perpetua il desiderio di una comunione totale con il suo corpo. A distanza di oltre trent’anni un film del genere non sarebbe realizzabile.

Sul versante dei legami alternativi alla famiglia tradizionale, mi pare lei non indugi in facili consolazioni. Rispetto all’agito da Ferzan Ozpetek, per esempio, nei suoi film non ci stanno amici che tengano, spariscono i fratelli biologici e quelli di confidenze e avventure comuni, pure il tetto sotto cui ripararsi per allestire qualche progetto nuovo, rischia di essere meno di una allucinazione. Niente esiste, fuori dalla tirannide di desiderio, o al limite passione?

Non sempre è così. Se ripenso al mio debutto dietro la macchina da presa con la commedia “Strepitosamente… flop!”, al centro della vicenda c’era un gruppo di amici che avevano deciso di vivere insieme in una sorta di “comune”, legati da diverse aspirazioni sul loro futuro. Condividevano gioie e dolori, momenti di gloria e numerosi fallimenti, tipici di chi si affaccia alla vita adulta. Lì l’amicizia ricopriva un ruolo fondamentale: l’esatto specchio della mia vita privata. Ho pochi amici ma buoni, su cui so sempre di poter contare. 

Incazzarsi è un modo di divertirsi senza ridere come sosteneva Ferreri?

Per me che ho avuto il privilegio di conoscerlo era solo un suo personale modo per sovvertire le regole del buonismo a tutti i costi. Fino al suo ultimo film ha difeso strenuamente il suo sacrosanto desiderio di odiare e di combattere contro i pregiudizi della nostra società.

Per carità le belle famiglie italiane che non ci sono più. Ma quell’attaccamento che può intuire solo chi abbia lottato assieme su un set, chi abbia sofferto la condivisione della nascita di un progetto, l’affetto per gli attori e gli altri addetti ai lavori cinematografici, diventa inevitabile?

Non sempre è così. Con alcuni di loro nasce un rapporto di amicizia e di reciproca stima che mi porta a scritturarli anche in nuovi progetti. Con altri ci si perde di vista per mille motivi ma quando ci si ritrova è sempre una gran festa. Recentemente ho ritrovato un mio vecchio collaboratore, Roberto Girometti, direttore della fotografia di uno dei miei primi film. E’ bello ricordare con lui tanti aneddoti legati ai vecchi tempi.

Un sopruso artistico equivale a uno stupro?

Qualche volta in passato mi è capitato di cedere alle imposizioni di qualche produttore. Oggi, fortunatamente, complice l’esperienza e gli anni sul set, dispongo di un maggior margine di potere decisionale.

I giochi di specchi funzionano sempre, perché alla gente piace guardare gli altri. “Perché a nessuno piace vedere cosa è davvero”. Secondo George Bernard Shaw si usa uno specchio per guardare il viso e si usano le opere d’arte per guardare la propria anima. Quale via di scampo resta all’artista?

Non penso sia soltanto una caratteristica di una società, liquida e voyeuristica come la nostra. La dinamica del guardare e dell’essere guardati è antecedente al cinema e risiede nel suo fratello maggiore, il teatro. Da un palchetto d’opera lo spettatore poteva rimanere ammaliato dal talento dei suoi interpreti ma se la ieraticità dell’artista non catturava la sua attenzione, aveva come alternativa quella di poter sbirciare da una prospettiva privilegiata vizi e virtù di cosa accadeva negli altri palchetti: lo specchio della vita che, a mio giudizio, è sempre più interessante. 

Una vita senza segreti è una vita esposta al pubblico ludibrio?

Poteva esserlo per un esteta come Oscar Wilde. Tocca a noi fare della vita un’opera d’arte, sublime e maestosa.

L’io narrante di “I love Marco Ferreri”, l’uomo che perde il contatto coi propri passi mettendosi sulle tracce del regista scomparso, dice: “E finisco sempre per trovare un indizio di partenza perché il caso non esiste”. È così?

E’ la parabola del suo modo unico di fare cinema: quella di un intellettuale dall’unghia affilata che, grattando le false certezze del modernismo, ci mostrava impietosamente la scimmia dietro l’uomo e il nulla dietro la scimmia.

Nel cinema di Ferreri la fotografia passa dai colori alterati, volutamente artificiali, degli inizi, ai toni lividi della metropoli in cui si compie la disillusione d’amore del giovane Christopher Lambert, alias Michael. È possibile che anche lei diriga la sua vocazione ad accogliere atmosfere paragonabili, in cui l’unico polo di brillante chiarore sia, magari, una eroina tardo romantica, appena un poco decadente, dentro ‘un film di lucida ontologia allucinatoria?

Per me Ferreri resta un insuperato Maestro del cinema italiano, ahimè spesso dimenticato e poco ricordato. E’ possibile che da buon discepolo ne abbia seguito le sue orme.

Gli alberi sono creature meravigliose… nella limpida luce dei propri colori, nella freschezza delle loro ombre. Ci immergiamo nei loro profumi intensi, ci divertiamo a nasconderci dietro il loro corpo, a sbirciare dietro le foglie, ad ascoltare il loro fruscio.

Gli alberi respirano, gli alberi ci parlano… ci raccontano la loro vita, ci mostrano le proprie rughe, ci svelano la propria età senza timori, non hanno paura del tempo.

E conoscono la nostra vita… riconoscono i nostri passi, le nostre parole, osservano silenziosi e apparentemente indifferenti tutto quello che gli gira intorno…

E si chiederanno… “ma che c’avranno da correre…?” “cosa si urlano…?”; “perchè fanno tanto rumore…”.

Noi non possiamo che amarli… belli, brutti, storti, dritti, alti, bassi che siano…
Sono forse gli unici a regalarci un tenero colore, uno spicchio di sole in un tempo grigio che ci porta via tutto con fretta e arroganza…

Roma ne ha partoriti tanti… sono la nostra storia. Ci hanno visto camminare, crescere, cambiare, sperare, sognare. Tutti noi dobbiamo aiutarli a vivere, a resistere… e quando sono malati dobbiamo curali e proteggerli come figli. Figli che si sono fatti da soli, che non hanno mai avuto raccomandazioni, e mai un avvocato che li tutelasse.

Certo, qualcuno può ammalarsi. E come tutte le anime sensibili affronterà il dramma della sofferenza… Noi faremo di tutto per medicarlo, per assisterlo fino alla fine. Se poi dovessimo accorgerci che non ci sono rimedi per tenerlo in vita, perché così malato da non poter far nulla… così malato che potrebbe rappresentare anche un pericolo per la nostra incolumità… allora possiamo anche decidere di porre fine alla sua sofferenza. 

Per tutto il resto… beh, sarebbe quanto meno educato chiedere il loro parere… magari saprebbero darci più soluzioni di quante la nostra limitata fantasia non riesca a trovare.

Anche noi cambieremo, anche le nostre città si incammineranno nel corso mutevole della vita, nuovi volti si affacceranno, altri se ne andranno. Gli alberi no… Resteranno lì, e continueranno a osservare quei buffi esseri che si reggono su due zampe… ma nelle loro cortecce, nei loro rami, nelle nuove foglie che nasceranno e cresceranno, nel loro respiro… ci sarà uno scorcio della nostra vita, dei nostri sospiri.

Impariamo a vivere e ad amare gli alberi, e insegniamolo ogni giorno a chi pian piano si affaccia nella vita dei grandi, ansioso e desideroso di apprendere. 

Martedì 29 ottobre 2024 ha ripreso il via la Rassegna “DONATORI DI MEMORIE” organizzata dall’Associazione culturale RIACHUELO – PROLOCO SAN LORENZO, nella sede di Via dei LATINI 52 a Roma.

La manifestazione, che si protrarrà fino a martedì 3 dicembre, prevede la realizzazione di una serie di incontri e “feste” con personaggi che hanno attraversato il quartiere San Lorenzo in qualità di protagonisti o testimoni, lasciando un’impronta nella storia sociale e culturale di quest’angolo di Roma. 

Storie importanti, alcune forse poco note, ma tutte finalizzate a una narrazione corale, genuina e senza infingimenti, di una zona sospesa tra arte, socialità e militanza. 

Ciascun incontro, – video-registrato e conservato – si pone come un tassello necessario alla costruzione di un Archivio digitale capace di dar conto delle molteplici esperienze del quartiere.

Nell’evento dello scorso 23 ottobre,lafunzionaria archivista di Stato Caterina Arfè ha parlato dell’importanza della Archivistica e delle Fonti orali. È stato poi proiettato il documentario P-artigiano prodotto da Blue CinemaTV di Daniele Baldacci.

Il secondo incontro, tenutosi martedì 5 novembre, è stato dedicato a Biagio Propato, poeta on the road di San Lorenzo con proiezione del film Poeti di Nino D’angelo, proiettato al Festival del cinema di Venezia, del 2009. Testimoni sono stati studiosi, amici e parenti.

Protagonisti dell’incontro del 12 novembre saranno Giuseppe Sartorio, scultore del quartiere, detto “il Michelangelo dei morti”, misteriosamente scomparso nel 1922, e il villino da lui costruito su via Tiburtina. I donatori di memorie saranno, in questa occasione, l’erede saranno Margherita Mastropaolo e lo storico Andrea Amos Niccolini.

Il 19 novembre si terrà un incontro dal titolo A proposito del Pastificio Cerere, la Scuola di San Lorenzo. A raccontare sarà Roberto Gramiccia, medico, critico d’arte e amico, dai primi anni ’80, degli artisti del Palazzo e Alberto Dambruoso, storico dell’arte. 

Il 26 novembre la ricercatrice Serena Donati ricorderà l’esperienza preziosa di Simonetta Tosi e la realizzazione nel 1976 a San Lorenzo del Consultorio autogestito.

Il 3 dicembre Mauro Papa sarà infine il testimone dell’esperienza politica del padre Urbano, autore della scritta “Eredità del fascismo, vergata su una delle pareti di un palazzo crollato sotto le bombe alleate del 1943. 

La rassegna è realizzata con il contributo del Municipio Roma II – Assessorato alla Cultura

PRO LOCO SAN LORENZO, VIA DEI LATINI 52, 

info: 3391467003

Il nuovo libro dell’acclamata scrittrice partenopea, che esplora l’incontro casuale in treno di Graziella e Francesco a prima vista appartenenti a mondi totalmente estranei, esce il 29 ottobre e sarà presentato con eventi a Napoli, Pesaro, Milano, Roma, Cassino.

Annella Prisco torna in libreria con la storia di un incontro ad alta velocità dall’intreccio inaspettato e avvincente. Si intitola “Noi, il segreto” ed è in libreria a partire dal 29 ottobre 2024, a quattro anni esatti dall’uscita del suo ultimo fortunatissimo romanzo, “Specchio a tre ante”, che è stato anche oggetto di traduzione.

È la storia intensa ed emozionante di Graziella, insegnante originaria di Atrani, il più piccolo dei borghi della Costiera amalfitana, raccontata con il solito stile scorrevole e delicato di Annella Prisco, che rivela man mano uno scenario stupefacente e ricco di colpi di scena, di introspezione e di profonde riflessioni.

Sposata con Gerardo, Graziella è una donna passionale e dinamica che decide di accettare l’incarico di docente in un
Istituto scolastico lombardo, nonostante sia costretta a lasciare il paese natìo, in provincia di Salerno, per trasferirsi a Milano. Spesso nasconde un velo di solitudine e inquietudine, causato dai dubbi e dalle incertezze in cui è immersa da quando ha iniziato un nuovo lavoro e una nuova vita in un’altra regione.

«Il contesto – spiega l’Autrice – è quello della problematicità dell’esistenza, che attraversa una serie di eventi: dall’uomo misterioso che incontra sul treno all’amore per il marito, dalla tensione per la malattia del padre all’amicizia profonda con la collega Marta, dal legame con l’ucraina Tanya al racconto dell’orrore della guerra. Con lo sfondo di un’Italia che da Nord a Sud manifesta tutte le sue bellezze, tradizioni e tipicità».

Lo spessore dei personaggi, ben delineati nei loro tratti distintivi, si staglia persino sullo sfondo del monastero più famoso d’Italia, ricostruito dopo la distruzione a seguito dei bombardamenti alleati, l’Abbazia di Montecassino, preso in considerazione dall’Autrice come cornice della narrazione.

La conclusione della vicenda, che ha il ritmo incalzante delle tensioni emotive, sarà sorprendente.

Tanti gli eventi e le iniziative in programma per l’uscita del libro: il primo appuntamento è a Napoli, città natale dell’autrice, sabato 16 novembre alle ore 11 nel foyer del Teatro Diana. Gli altri incontri sono previsti a Torre Annunziata (Libreria Libertà, 29 novembre), Napoli (O’Book, 11 dicembre), Pesaro (Alexander Museum Palace Hotel, 13 dicembre), Milano (20 febbraio 2025), Roma (Libreria Minerva, 14 marzo 2025), Cassino, Salerno, Atrani e poi numerose altre tappe in calendario.

Pubblicato da Guida Editori, con acquerello in copertina di Vincenzo Stinga, il libro è distribuito da Messaggerie Italiane ed è acquistabile in tutte le librerie anche online e dal sito www.guidaeditori.it

Annella Prisco è scrittrice, critico letterario, manager culturale ed esperta in comunicazione e relazioni pubbliche. È componente di varie giurie di Premi letterari e collabora con diverse testate giornalistiche. Nel 2022 le è stato conferito il Premio Donne che ce l’hanno fatta, e nel 2024 il Premio alla carriera L’Iguana – Anna Maria Ortese. All’esordio come autrice nel 1998 con il romanzo Ricordi senza memoria, a quattro mani con Monica Avanzini, hanno fatto seguito Chiaroscuri d’inverno (2005), Trenincorsa (2008), Appuntamento in rosso (2012) e Girasoli al vento (2018), che hanno ricevuto riconoscimenti anche a livello internazionale.

Nel 2020 è uscito il romanzo Specchio a tre ante, che pure ha ricevuto svariate onorificenze. Nel 2023 il romanzo è stato tradotto da Elisabetta Bagli in spagnolo e pubblicato da Papel Y Lapiz con il titolo El espejo de Ada, ricevendo il premio Il Canto di Dafne – Libro internazionale dell’anno, il premio della Giuria Città di Cattolica e il primo premio Libro in
lingua straniera “La Via dei Libri” in seno al Bancarella a Pontremoli.

Negli ultimi anni, l’Unione Europea ha intensificato gli sforzi per ridurre l’esposizione della popolazione al fumo passivo, con l’obiettivo dichiarato di creare una “generazione libera dal tabacco” entro il 2040. 

Questo impegno si riflette nelle recenti proposte di revisione delle raccomandazioni sugli ambienti senza fumo e senza aerosol, un’iniziativa che mira a proteggere maggiormente la salute pubblica attraverso misure più stringenti che includono anche i prodotti emergenti, come le sigarette elettroniche e i dispositivi a tabacco riscaldato. 

L’Europa ha sempre adottato un approccio progressivo e rigoroso nella regolamentazione dei prodotti del tabacco. 

Le raccomandazioni del Consiglio e le normative di riferimento mirano a limitare l’esposizione al fumo passivo, proteggendo in particolar modo le categorie vulnerabili, come bambini e anziani. 

Le norme vigenti si basano sulla Convenzione Quadro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il Controllo del Tabacco, e hanno già portato a una significativa riduzione dei fumatori e dell’esposizione al fumo in ambienti chiusi. Tuttavia, i cambiamenti tecnologici e l’emergere di nuovi prodotti alternativi al fumo tradizionale hanno complicato ulteriormente il panorama.

L’ Italia ha tradizionalemente avuto una legislazione molto restrittiva rispetto ad altri Paesi. La Legge 3 del 16 gennaio 2003 (art. 51), “Tutela della salute dei non fumatori” che ha esteso il divieto di fumo a tutti i locali chiusi (compresi i luoghi di lavoro privati o non aperti al pubblico, gli esercizi commerciali e di ristorazione, i luoghi di svago, palestre, centri sportivi), con le sole eccezioni dei locali riservati ai fumatori e degli ambiti strettamente privati (abitazioni civili).

La norma non prevede un obbligo, ma concede la possibilità di creare locali per fumatori, le cui caratteristiche strutturali e i parametri di ventilazione sono stati definiti con ilDecreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 dicembre 2003, che prevede anche le misure di vigilanza e sanzionamento delle infrazioni.

Un ulteriore passo avanti è stato fatto con la pubblicazione in gazzetta del Decreto Lgs. n. 6 del 12 gennaio 2016, che recepisce la Direttiva 2014/40/UE sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, presentazione e vendita dei prodotti del tabacco e dei prodotti correlati, che abroga la direttiva 2001/37/CE.

E’ un fatto innegabile che mercato del tabacco si è evoluto rapidamente negli ultimi quindici anni, con un aumento significativo della diffusione delle sigarette elettroniche (E-Cig) e dei prodotti del tabacco riscaldato (Tobacco Heating Product THP)

Questi prodotti vengono spesso considerati dai fumatori come alternative meno dannose rispetto alle sigarette tradizionali, ed è ormai noto che molte persone stanno utilizzando questi dispositivi come un mezzo per ridurre o cessare del tutto il consumo di tabacco combusto.

Tuttavia, questa evoluzione del mercato pone nuove sfide regolamentari. 

La Commissione Europea e il Consiglio dell’Unione Europea hanno quindi intrapreso iniziative normative per includere questi nuovi prodotti nei divieti già esistenti per il tabacco, estendendo le restrizioni anche agli spazi aperti.

La Commissione ha annunciato la propria intenzione di aggiornare la Raccomandazione del Consiglio relativa agli ambienti senza fumo emanata nel 2009 

La nuova proposta ed in votazione al Parlamento UE mira a includere non solo i prodotti del tabacco tradizionali, ma anche i nuovi prodotti come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato.

La Commissione sostiene che l’estensione dei divieti a questi prodotti è giustificata dalla necessità di proteggere ulteriormente la salute pubblica dall’esposizione ad aerosol di seconda mano, anche in spazi esterni come terrazze di bar, ristoranti, e aree pubbliche adiacenti a scuole e strutture sanitarie.

L’obiettivo generale di queste iniziative è duplice: ridurre ulteriormente il consumo di tabacco e disincentivare l’uso di prodotti contenenti nicotina, contribuendo alla cosiddetta “denormalizzazione” del fumo e del consumo di nicotina. 

Sebbene questi obiettivi siano, di per sé, condivisibili, la mancanza di un approccio distintivo tra i diversi prodotti e la mancata conduzione di una valutazione d’impatto adeguata rappresentano aspetti che destano non poche perplessità in una all’incisività sulla libertà dei cittadini.

Perplessità espresse da Italia e Romania

Le perplessità espresse dai rappresentanti di Italia e dalla Romania nelle dichiarazioni congiunte in occasione della discussione della raccomandazione del Consiglio sono indicative delle difficoltà legate all’adozione di queste misure. 

L’Italia e la Romania hanno sostenuto la necessità di preservare la salute pubblica e concordato sull’importanza di proteggere la popolazione dal fumo passivo, ma hanno anche evidenziato diverse problematiche procedurali e sostanziali riguardanti il processo di approvazione e il contenuto dell’Atto.

Nella loro dichiarazione, entrambi i Paesi hanno lamentato che “la procedura applicata per la discussione e l’approvazione da parte del Consiglio di questo Atto avrebbe necessitato di tempi e modalità migliori per lo svolgimento del dibattito tra gli Stati membri”. 

Hanno espresso rammarico per il fatto che molti emendamenti significativi proposti dagli Stati membri non siano stati adeguatamente considerati, sottolineando che un atto di tale importanza avrebbe dovuto essere finalizzato attraverso un consenso più ampio tra le parti, tenendo conto delle priorità nazionali.

Inoltre, la mancanza di una valutazione d’impatto adeguata è stata fortemente criticata. Per i due Stati “lintroduzione di misure ampie e generalizzate riferite alle aree esterne, non chiaramente identificate e associate a concetti come la presenza di traffico pedonale intenso, manca di fondamento giuridico e genera potenziale incertezza sul suo significato e sulla sua corretta attuazione”. 

Lapidarie le conclusioni della dichiarazione :”Si ricorda infine che da questo Atto adottato dal Consiglio, per sua stessa natura e portata, non deriva alcun obbligo legale per gli Stati membri di definire adeguatamente la propria legislazione nazionale, tenendo conto delle competenze e delle specificità nazionali nell’attuazione, e non viene creato alcun precedente normativo per qualsiasi futura discussione in seno al Consiglio sulla politica europea del tabacco. Per questo motivo, l’Italia e la Romania mantengono la propria preoccupazione politica sull’adeguatezza di alcune raccomandazioni, come sopra rappresentato, così come ogni ulteriore valutazione, in quanto Stato membro, sulla corretta attuazione nazionale di questo Atto

Tale posizione evidenzia la necessità di basare le politiche su solide evidenze scientifiche e su valutazioni che considerino gli effetti pratici delle restrizioni proposte.

La necessità di differenziare tra fumo tradizionale e alternative 

Un aspetto cruciale che merita particolare attenzione è la necessità di differenziare chiaramente tra i prodotti da fumo tradizionali e le alternative meno dannose come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato. 

Questo principio di differenziazione non è solo una questione di logica normativa, ma è supportato anche da un vasto corpus di letteratura scientifica che indica come le alternative meno dannose possano effettivamente aiutare i fumatori a cessare il consumo di tabacco combustibile, con potenziali benefici per la salute pubblica.

Non distinguere tra questi prodotti nelle politiche sugli ambienti senza fumo potrebbe inviare un messaggio sbagliato ai consumatori, portandoli a ritenere che il vaping o il tabacco riscaldato siano dannosi quanto il fumo di sigarette tradizionali. 

Questo tipo di equiparazione rischia di minare i benefici potenziali per la salute offerti da questi prodotti e, di conseguenza, potrebbe portare alcuni consumatori a tornare al fumo di sigarette tradizionali, annullando anni di progressi nel campo della riduzione del danno.

Diritto dei consumatori a scelte informate

Un altro elemento fondamentale è il diritto dei consumatori a fare scelte informate sulla loro salute. Equiparare i prodotti tradizionali del tabacco a quelli “alternativi” riduce significativamente il ventaglio di opzioni disponibili per chi desidera smettere di fumare, sminuendo i vantaggi distinti che le alternative meno dannose offrono. 

Le sigarette elettroniche e i dispositivi a tabacco riscaldato hanno dimostrato di poter rappresentare uno strumento utile per la cessazione del fumo, come riconosciuto nella Relazione BECA del Parlamento europeo.

Ignorare queste evidenze significa non solo ostacolare i fumatori che vogliono smettere, ma anche compromettere i risultati ottenuti fino a questo momento nella riduzione del danno.

Contrarietà ai divieti generalizzati anche negli spazi aperti

Un altro aspetto che solleva forti perplessità riguarda l’inclusione di divieti generalizzati che si estendono anche agli spazi aperti. 

Interventi normativi che incidono sulla libertà delle persone al punto di impedire loro attività anche all’aperto rischiano di essere percepiti come eccessivamente intrusivi e non proporzionati rispetto agli obiettivi di salute pubblica. 

Limitare la possibilità di utilizzare prodotti come le sigarette elettroniche o i dispositivi a tabacco riscaldato anche in aree all’aperto, senza una chiara base scientifica che giustifichi tali restrizioni, potrebbe generare un significativo malcontento e ridurre l’adesione alle norme, con effetti potenzialmente controproducenti.

Impatto delle regolazioni restrittive sul settore economico Horeca e turismo

Un regolamento restrittivo che impone divieti generalizzati e molto estesi, sia per gli spazi chiusi sia per quelli aperti, rischia di determinare impatti significativi sulle attività economiche e commerciali, in particolare nei settori Horeca (bar, ristoranti, caffetterie) e del turismo. Secondo i dati di un’indagine della Federazione Horeca europea, le restrizioni anti-fumo estese agli spazi aperti hanno provocato una riduzione del 15-20% del fatturato nei locali pubblici in alcune aree metropolitane. 

Inoltre, nel settore del turismo, studi condotti dall’Associazione Europea del Turismo (ETOA) mostrano che politiche restrittive possono dissuadere una significativa quota di visitatori, soprattutto quelli provenienti da paesi con normative meno rigide sul fumo. 

Questi effetti cumulati non solo minacciano la sopravvivenza di molte piccole e medie imprese, ma rischiano anche di compromettere la competitività economica delle città europee nel contesto internazionale.

Anomalie nel procedimento normativo

La revisione delle raccomandazioni del Consiglio ha sollevato anche delle perplessità procedurali. La Commissione Europea non ha condotto una valutazione d’impatto adeguata prima di proporre queste nuove misure. 

Considerando i significativi cambiamenti che il mercato del tabacco ha subito negli ultimi anni, è imprescindibile che le nuove normative siano accompagnate da una valutazione scientifica approfondita dei rischi associati a ciascun prodotto e da un’analisi dell’impatto economico di tali misure. 

Il fatto che queste valutazioni non siano state condotte è preoccupante e rischia di compromettere l’efficacia delle politiche proposte, introducendo incertezza per consumatori e imprese. Maggiori informazioni sulla procedura di valutazione d’impatto sono disponibili sul sito della Commissione Europea.

Inoltre, imporre divieti generalizzati senza una solida base scientifica potrebbe portare a conseguenze indesiderate, come un aumento della confusione tra i consumatori sui rischi relativi dei diversi prodotti. 

Questo tipo di incertezza può indurre i consumatori a credere che l’uso dei prodotti alternativi sia altrettanto dannoso quanto il fumo tradizionale, spingendoli, in ultima analisi, a tornare alle sigarette. 

In questo senso, un approccio basato sull’evidenza scientifica e su una valutazione approfondita degli impatti è essenziale per garantire che le politiche europee abbiano un effetto positivo sulla salute pubblica.

La revisione delle raccomandazioni sugli ambienti senza fumo rappresenta un passo importante nella direzione della tutela della salute pubblica e del benessere dei cittadini europei. 

Tuttavia, è necessario un approccio più equilibrato che riconosca il ruolo delle alternative meno dannose, consentendo ai fumatori di scegliere opzioni più sicure per ridurre il consumo di tabacco combustibile. 

È imperativo evitare provvedimenti normativi di natura liberticida che impongano divieti generalizzati e sproporzionati, compromettendo le libertà fondamentali dei cittadini e criminalizzando comportamenti che non pongono rischi significativi per la salute pubblica.

Senza una chiara differenziazione tra i prodotti e senza una valutazione adeguata dei rischi e degli impatti economici, il rischio è quello di vanificare anni di progressi nel campo della riduzione del danno.

Le politiche non devono limitare inutilmente le libertà personali, specialmente negli spazi aperti, dove i rischi di esposizione al fumo passivo sono notevolmente inferiori.

È essenziale che ogni misura regolatoria sia proporzionata, basata su prove scientifiche concrete e attenta a non incidere negativamente sulle libertà individuali dei cittadini europei.

Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. 

Scriveva così Pier Paolo Pasolini, sul Corriere della Sera del 14 novembre 1974, in un articolo intitolato “Cos’è questo golpe? Io so”.  Esattamente un anno dopo (2 novembre 1975), sarebbe stato brutalmente massacrato, in circostanze che nessuno è mai riuscito/ha mai voluto chiarire. 

La goccia e il vaso

Dato che parliamo di una delle intelligenze/coscienze più lucide e penetranti del Novecento, è chiaro che Pasolini sapeva perfettamente che, insieme a quell’articolo, firmava anche la propria condanna a morte. Intendiamoci: che la sua fosse una tra le voci più “scomode” e invise al Potere (la P maiuscola per indicare non questo o quel potere né questi o quei potenti ma la natura stessa del Potere: essenza, ragion d’essere e logiche che ne governano, universalmente, l’azione) gli era chiaro da ben prima di quel 14 novembre. 

Pasolini, dunque, sapeva di essere “al centro del mirino”. C’è sempre, però, una “goccia” che fa traboccare il proverbiale “vaso”. E non è affatto improbabile che, in questo caso, la goccia sia stata appunto quell’articolo.

Chi gliel’ha fatto fare?

Arriva sempre il momento nel quale il Potere dice “basta!” e tappa la bocca a colpi di martello al “Grillo parlante” di turno. La prima domanda, quindi, che questa vicenda suscita ha il sapore del cinismo andreottiano: “chi glielo ha fatto fare?”. Perché Pasolini decide di scrivere quell’articolo? È vero: è un intellettuale, una “coscienza critica” e il suo ruolo glielo impone. Come è vero che scrivere poesie, romanzi, saggi, sceneggiature, regie, drammi e articoli è il modo che l’uomo ha scelto per adempiere al meglio a tale ruolo. 

Essere o non essere

In certi contesti/momenti storici, però, le persone raggiungono quello che potremmo definire “punto di non ritorno”. Si ritrovano, cioè, sole di fronte a sé stesse. Devono decidere se fermarsi o andare avanti. Solo due cose sanno con certezza: fermarsi equivale a perdere la “guerra”; andare avanti equivale a perdere la vita. “Essere o non essere”: dilemma vitale. In tutti i sensi. Di gran lunga il più drammatico. Quello di fronte al quale nessuno vorrebbe trovarsi mai.

Fermarsi o andare avanti?

Le ragioni per fermarsi sono tante. Le conosciamo tutti, le comprendiamo tutti, le condividiamo tutti, le adottiamo tutti. La ragione per andare avanti, invece, è soltanto una: mettere la “causa” per la quale si combatte al di sopra della propria vita. Una scelta radicale che impone una decisione radicale.

La normalità non obbliga alla radicalità

Vorrei che, per un attimo, distogliessimo lo sguardo dalla persona che sta per compiere la sua scelta e lo rivolgessimo alla realtà che l’ha messa di fronte a tale scelta. Una cosa appare evidente: non può trattarsi di una realtà “normale”. La “normalità”, infatti, non obbliga mai alla radicalità. In tempi normali, a nessuno viene in mente di sacrificare la propria vita per una causa superiore. Semplicemente, perché non ce n’è alcun bisogno. 

Extremis morbis extrema remedia

Se ci vediamo costretti a “rimedi estremi”, dunque, significa che viviamo tempi “anormali”. Ci troviamo, cioè, di fronte a quei “mali estremi” che impongono, appunto, “estremi rimedi”. “Extremis morbis extrema remedia”, si diceva un tempo. Pasolini, dunque, sa che il male che ha di fronte (il tentativo di eliminare la democrazia e restaurare un qualche tipo di regime neo-fascista) è estremo e richiede cure estreme. Per questo, non smette di lanciare l’allarme né di puntare, pubblicamente, il dito contro coloro i quali considera responsabili di quella deriva.

Io so – scrive – i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.

Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”.

Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli”.

Il richiamo della coscienza

Pasolini ha scelto, dunque. Andrà avanti, nonostante sappia benissimo cosa lo attende. Decisione difficilissima e rarissima, comune allo sparuto drappello di quelle anime “nobili” che considerano ineludibile il richiamo della coscienza: magistrati, uomini delle Forze dell’ordine, giornalisti, docenti universitari, politici, sindacalisti, attivisti, sacerdoti, personalità di quella società che chiamiamo “civile” ma che, evidentemente, tanto civile non è. Soprattutto con loro.

Martiri della Democrazia

Pochissimi tra quelli che potremmo definire “martiri della Democrazia dei Costituenti” – Dalla Chiesa (‘82), Falcone (‘92) e Borsellino (‘92: i numeri in parentesi indicano l’anno della loro esecuzione), ad esempio – vengono ricordati solo in occasione di ricorrenze ufficiali. Ricordi retorici, formali, vuoti, finti.

La stragrande maggioranza, invece, giace ormai praticamente dimenticata. Penso a nomi come Scaglione (‘71), Ferlaino (‘75), Coco (‘76), Occorsio (‘76), Casalegno (‘77), Calvosa (‘78), Palma (‘78), Tartaglione (‘78), Alessandrini (‘79), Terranova (‘79), Ambrosoli (‘79), Giuliano (‘79), Rossa (’79), Bachelet (‘80), Minervini (‘80), Giacumbi (‘80), Galli (‘80), Amato (‘80), Costa (‘80), Tobagi (‘80), Caccia (‘83), Chinnici (‘83), Fava (‘84), Tarantelli (‘85), Cassarà (’85), Siani (‘85), Conti (‘86), Rostagno (‘88), Ruffilli (‘88), Saetta (‘88), Giacomelli (‘88), Livatino (’90), Scopelliti (‘91), Puglisi (‘93), Diana (‘94), D’Antona (‘99), Biagi (2002). Ma la lista, purtroppo, è decisamente più lunga di così. 

Diciamoci la verità: di quanti di questi nomi sapremmo dire chi erano e perché furono giustiziati?

Cui prodest?

Tre domande:

  • come mai – fatta eccezione per le chirurgiche esecuzioni di D’Antona e Biagi – stragi e omicidi terroristico-mafiosi si fermano al 1994? 
  • Lo Stato aveva sconfitto criminalità organizzata e terrorismo o era sceso a patti con essi? Gli “indicibili accordi” tra Stato e Mafia ci furono davvero? 

Ha ragione la Cassazione (27 aprile 2023), che ha assolto “gli imputati del reato di minaccia a un corpo politico dello Stato, per alcuni avendo rilevato la loro estraneità ai fatti e per altri avendo dichiarato prescritto il reato”, dopo derubricato da reato consumato a reato tentato? Oppure ha ragione Nino Di Matteo (Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo) a sostenere (“Il colpo di spugna”, Fuori Scena, gennaio 2024): “Forse doveva andare così […] le istituzioni tutte dovevano sgomberare il campo da nubi così nere. Non potevano consentire che, in una sentenza definitiva (per quanto assolutoria) venissero consacrati, nero su bianco, rapporti di dialogo e scambio con il nemico dichiarato. Molto meglio, molto più rassicurante per il Paese, ricondurre a congetture fatti e rapporti così scabrosi”.

  • La “lotta armata” (prima fase del progetto eversivo che mirava alla sdemocratizzazione del nostro Paese) aveva esaurito il proprio compito ed era, quindi, giunto il momento di avviare la fase due: una via “non-violenta” alla restaurazione anti-democratica?

Eversione: dalla fase “hard” a quella “soft”

Personalmente, propendo per quest’ultima ipotesi: la “fase soft” subentra alla “fase hard” (della quale credo abbiano fatto parte anche gli “indicibili accordi” tra Stato e Mafia) nel momento nel quale quest’ultima esaurisce il proprio mandato. Non è certo un caso, infatti, se – nell’ultimo trentennio – partendo dalla damnatio memoriae del sistema dei partiti (cuore della democrazia rappresentativa voluta dai Costituenti), il tasso effettivo di democraticità della nostra democrazia è stato ridotto praticamente al lumicino. 

Sputtanare è meglio che ammazzare

Del resto, corrompere e sputtanare la classe politica è infinitamente più facile e pratico che eliminarla fisicamente. E, soprattutto, non presenta controindicazioni. Anzi: mette d’accordo tutti. Il pugno di ferro della lotta armata non aveva ottenuto gli effetti sperati. La reazione, infatti, non aveva prodotto la restaurazione autoritaria. Partiti, sindacati, lavoratori, studenti, professionisti, gente comune – in due parole: società e opinione pubblica – avevano rifiutato la brutalità di stragi e omicidi e fatto quadrato intorno ai valori costituenti e alla parte sana delle Istituzioni. Gli strateghi dell’eversione si rendono, quindi, conto che si impone un cambio di passo.

Riforme reazionarie

E, così – dai primi anni Novanta – il progetto eversivo viene portato avanti non più a colpi di armi da fuoco ma di riforme. Riforme “reazionarie”, dipinte come innocue e spacciate per “progressiste” e migliorative. Poco importa se non sempre “nuovo” è sinonimo di “migliore”. La voglia di cambiamento è talmente forte, che l’opinione pubblica non si accorge del fatto che le cose stanno prendendo una piega pericolosa. E, forse, nemmeno le interessa. Come si dice: “tanto peggio, tanto meglio”.

Verso l’autoritarismo invisibile

Partendo da bipolarismo, maggioritarismo ed esecutivismo, e passando per monocameralismo, presidenzialismo e/o premierato, la “fase soft” punta a instaurare una nuova forma di autoritarismo: un autoritarismo invisibile, mascherato da democrazia. L’obiettivo è sbarazzarsi della democrazia, senza darlo a vedere. Passare, cioè, surrettiziamente, da una democrazia reale a una democrazia apparente. E, quindi, a una non-democrazia.

La democrazia somiglia all’oro

Il fatto è che la democrazia non è come il silenzio, che c’è o non c’è. Somiglia, semmai, all’oro. Il suo valore, cioè, dipende dal suo grado di “purezza”. Un conto, infatti, è vivere in una “democrazia a 24 carati” – pura al 99,9% – tutt’altro conto è vivere in democrazie a 18k (75% di purezza), 14k (58,3%), 10k (41,7%), 9k (37,5%) o meno, quando la percentuale di oro è talmente bassa che non si può più parlare di oro ma ci si trova di fronte a una lega di metalli, priva di valore. 

Democrazia patacca

Ed è, esattamente, verso una “democrazia patacca” – placcata oro a 9 carati – che il Potere sta trascinando la democrazia italiana. E, sebbene tutti sostengano di sapere benissimo che “non è tutto oro quel che luccica”, in realtà fanno tutti finta di ignorarlo. Evidentemente, molto più della verità, possono il bisogno/la convenienza di credere a certe bugie e/o la paura di guardare in faccia la realtà. E, così, ci ritroviamo ormai a un passo dal raggiungimento degli obiettivi di quella “serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere” di cui parlava Pasolini.

Anime spregiudicate

A proposito di quella stagione, ho sempre pensato che – al di là delle molte, significative, differenze – Moro e Pasolini fossero anime molto più affini di quanto non sembrasse. Se non altro, dal punto di vista della fedeltà al mandato della coscienza. E credo che entrambi abbiano pagato con la vita la loro “spregiudicatezza”. Spregiudicatezza intesa, ovviamente, come disponibilità ad affrontare qualunque rischio pur di non venir meno al proprio dover essere. 

È vero: molto probabilmente, l’aggettivo “spregiudicato” non è mai stato utilizzato per definire la personalità di Moro. Eppure, credo che spregiudicato egli lo sia stato davvero. Una spregiudicatezza forse alimentata dalla forza della sua fede. Se Pasolini ha pagato la spregiudicatezza di una voce troppo libera, credo che Moro abbia pagato quella di una visione troppo libera della politica. Visione che il Potere giudicò intollerabile e inaccettabile per il mondo di allora. E che giudicherebbe ancor più intollerabile e inaccettabile per quello di oggi. 

Il crooner e l’urlatore

Entrambi vedevano e stigmatizzavano il presente con lucidità unica. E, con quella stessa lucidità, profetizzavano il futuro. Futuro che, non a caso, preoccupava tanto l’ateo quanto il credente. Preoccupazioni molto più che fondate, a giudicare dal presente che stiamo vivendo. 

Entrambi, inoltre, vivevano, con autenticità, la loro dimensione spirituale, possedevano una profonda conoscenza sia dell’animo umano che dell’in sé della politica e condividevano valori quali dialogo, confronto, solidarietà, giustizia sociale, libertà, pace.

La differenza, se c’era, era nel diverso modo di modulare la voce. Per usare una metafora musicale, si potrebbe dire che Pasolini fosse un “urlatore”, mentre Moro, un “crooner”. Il primo “gridava”, il secondo sussurrava; il primo “scomponeva”, il secondo “componeva”. 

Due outsider

Entrambi, però, erano outsider. Pasolini fuori e Moro dentro l’Establishment, è vero. Eppure, ugualmente outsider. E, in quanto tali, ingovernabili. Fu questo loro rimanere fedeli alla natura di outsider che, prima, li precipitò nell’isolamento e nella solitudine intellettuale e, poi, portò alla loro condanna a morte. E, così, un “poeta” e un politico tra i più grandi del secondo Novecento, si ritrovarono fianco a fianco sul Golgota, accomunati dal medesimo, tragico, destino.

I buoni? Sono quelli che vengono ammazzati

Due ingenui? Forse, se vogliamo utilizzare il dispregiativo con il quale il Potere definisce le anime sulle quali non può nulla. Le uniche delle quali abbia davvero paura. Come sappiamo che ne ha paura? Semplice: ce lo dice il fatto che le fa eliminare. Nessuno sprecherebbe nemmeno una pallottola per qualcuno che non gli crea alcun problema! In tema di Potere, dunque, non è poi così difficile distinguere i “buoni” dai “cattivi”. Di solito, infatti, i “buoni” sono quelli che vengono ammazzati.

Anche Moro sapeva

Gli omicidi Pasolini e Moro rappresentano due passaggi decisivi del processo di sdemocratizzazione del nostro Paese. Il secondo, in particolare, non fu – come i media lo definirono – un “attacco al cuore dello Stato”. Per genesi, obiettivi, modalità di attuazione e conseguenze, fu un vero e proprio colpo di Stato.

Come Pasolini, anche Moro sapeva. Due mesi prima dell’uscita dell’articolo di Pasolini sul Corriere, Moro – Ministro degli Esteri – è in visita ufficiale negli Stati Uniti. Nel corso di un incontro bilaterale, Henry Kissinger (all’epoca Segretario di Stato ma anche Responsabile della Sicurezza Nazionale USA) è particolarmente esplicito nel chiedere a Moro di abbandonare la politica del cosiddetto “compromesso storico”, vale a dire la partecipazione del Partito Comunista al governo del Paese. (Ricordo che, alle Politiche del 1976, il PCI aveva ottenuto quello che sarebbe rimasto il migliore risultato della sua storia: 12,6 milioni di voti, il 34,37% del totale. Alle stesse elezioni, la DC aveva ottenuto 14,2 milioni di voti: il 38,7% del totale. Le due forze, insieme, quindi rappresentavano ben il 73,1% dell’elettorato italiano).

Kissinger vs Moro

In una testimonianza giurata in sede processuale, il portavoce di Moro sostenne che Kissinger apostrofò con estrema durezza il Presidente DC: “Lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. O lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere”. 

Pare che, uscito da quell’incontro, Moro si sia rifugiato nella cattedrale di San Patrizio, fortemente turbato. Ebbe un malore e decise di anticipare il suo rientro in Italia. Una volta rientrato, disse al suo portavoce che intendeva “abbandonare per almeno due anni, la politica attiva”: “cominci a far circolare nei giornali la notizia”. Poi, però, cambiò idea. Avrebbe bevuto l’amaro calice. “Non credi che io sappia che posso fare la fine di Kennedy”, avrebbe confessato a una sua allieva dell’Università.

Impossibile stabilire se le minacce del Segretario di Stato USA siano state davvero così esplicite e pesanti. Kissinger ha sempre smentito di aver pronunciato quelle parole. Importa poco. Se non vere, sono senza dubbio verosimili. Del resto, per gli USA, la possibilità che il più grande Partito Comunista europeo (per come la vedeva Washington, 1 italiano su 3 era comunista: parola impronunciabile oltreoceano) entrasse nell’area di governo del nostro Paese era, semplicemente, inconcepibile. 

L’impotenza della politica

L’ho scritto decine di volte ma mi vedo costretto a ripeterlo ancora. Forse perché – al pari di ogni verità contro-intuitiva – è difficile da credere: la politica non detiene il Potere. È il Potere che detiene la politica

Se non credete alle mie, credete almeno alle parole di Moro, che di politica certo se ne intendeva. Ecco cosa dice il 24 ottobre 1965, rispondendo a Eugenio Scalfari che lo intervista per l’Espresso: «La gente pensa che noi abbiamo un’autorità immensa, che possiamo fare e disfare tutto, e per di più impunemente. Una parola del presidente del Consiglio, una firma d’un ministro e tutto è risolto, qualunque affare lecito o illecito può diventare una realtà. Come se noi disponessimo d’una bacchetta magica e potessimo usarla come ci pare. Questo pensa la gente. E invece non è vero niente. Lei m’ha chiesto prima cosa penso della crisi dello Stato. Ecco cosa penso: che il potere esecutivo, o meglio la classe politica che è al vertice del potere esecutivo, ha limitate possibilità d’intervento e di comando». Limitate possibilità d’intervento e di comando: cerchiamo di non dimenticarlo.

Via Fani: epilogo non avvio 

Solo uno sprovveduto, dunque, può pensare che una personalità dell’intelligenza – non solo politica – di Moro non avesse capito che la sua condanna a morte era stata pronunciata molto prima dell’agguato di Via Fani. Via Fani è l’ultimo, non il primo atto di quel progetto: l’epilogo, non l’avvio. 

Una volta visto il “dietro le quinte” del progetto eversivo, Moro non poteva più avere alcun dubbio riguardo a con chi avesse a che fare e quale fosse il disegno complessivo. Se Pasolini conosceva i nomi dei “golpisti”, infatti, più e meglio di lui li conosceva Moro. E, al contrario di Pasolini, molti di quei nomi, li aveva probabilmente conosciuti anche di persona. Come Pasolini, dunque, Moro sapeva. E, come per Pasolini, il suo sapere e non tirarsi indietro è il motivo stesso della sua morte.

Conclusioni

Perché questa lunga riflessione?

Per la speranza che almeno tre cose, a mio avviso fondamentali, risultino il più possibile chiare:

  1. Nulla – negli ambiti nei quali opera il Potere – avviene per caso. Nulla.

  1. Tutto è collegato“fatti anche lontani”, “pezzi disorganizzati e frammentari” – e governato da una logica rigorosa, anche “là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. Se non la vediamo, non è perché tale logica non esiste ma perché non siamo capaci di vederla.

  1. Arbitrarietà, follia, mistero, attentati, stragi, delitti, insabbiamenti, depistaggi, disinformazione, propaganda, bugie, fake news, “panem et circenses” sono le armi di distrazione di massa con le quali il Potere – come il più grande di tutti gli illusionisti – ci fa vedere una realtà irreale, per impedirci di vedere quella reale, il cui destino deve dipendere, esclusivamente, dalla sua volontà.

Cosa possiamo fare? Non molto, in verità, se non provare a “immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace”, a mettere “insieme i pezzi disorganizzati e frammentari” della realtà, e a ristabilire “la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. 

Facile? Tutt’altro. Indispensabile, però, se desideriamo cercare di scoprire la differenza che c’è tra vivere e sopravvivere. 

Uniamo i puntini, dunque. E forse, come nel celebre gioco de “La Settimana Enigmistica”, riusciremo a scoprire qual è il vero volto della realtà nella quale viviamo. Forse.

Lotta, un termine antico che richiama il combattimento. Ma in senso più lato richiama la lotta per la sopravvivenza, per il riconoscimento, per la verità. C’e’ anche filosoficamente una lotta amorosa. Ma procediamo per gradi. Fin dalle origini la specie umana ha dovuto lottare per la sopravvivenza. Il Sapiens sapiens, a cui apparteniamo, è quello che è meglio riuscito nell’adattamento, ma già dalle prime comunità umane fino alle moderne società si sono presentati conflitti tra tribù, gruppi e classi sociali, rappresentati dal concetto marxista di lotta di classe, oggi ormai non più in voga. Occorre anche ricordare le guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa per secoli e che tuttora continuano a seminare odio e terrore nel mondo, spesso al servizio di interessi politico-economici.

Nel mondo globalizzato assistiamo a disparità più o meno evidenti in tutto il pianeta, che si stanno sempre più accentuando con il procedere dello smantellamento degli stati sociali e dei sistemi di welfare. Seppur nel mondo l’Europa ha una maggior capacità redistributiva, l’Italia e’ quella che ha l’indice di Gini più alto (indicatore che misura le diseguaglianze: più è basso e più ci si avvicina ad una situazione di uguaglianza) del Vecchio Continente. Siamo comunque in una situazione di concentrazione delle ricchezze in mano di pochi, pari a quella di un secolo fa.

La lotta per ridurre le diseguaglianze e’ sicuramente una priorità a livello mondiale anche se i segnali non vanno purtroppo in tal senso. Sembra che gli egoismi continuino a dominare anzi, si stiano maggiormente diffondendo e radicando nei popoli stessi.

C’e’ poi, la lotta per il riconoscimento, su cui non mi vorrei dilungare perché è stato il tema di un nostro recente numero di Condi-Visioni (gennaio-febbraio 2024).

 Il riconoscimento e’ un concetto trattato in molte discipline, tra cui la sociologia, la psicologia e la filosofia. Oltre alla hegeliana lotta per la vita e la morte tra auto-coscienze, culminante nella dialettica servo-padrone, vorrei solo ricordare la “Lotta per il riconoscimento” di Axel Honneth, eminente sociologo e filosofo erede della scuola di Francoforte, come grammatica dei conflitti sociali e processo storico continuo di ricerca dei diritti dovuti alle esclusioni, alle violenze e alle umiliazioni.

Venendo alla lotta per la Verità, possiamo dire che la filosofia è ricerca stessa della verità, anche se questo è un concetto limite, irraggiungibile. In termini pratici, in un mondo dominato dalle fake news, dalle echo chambers dei social, dai negazionismi e dai complottismi, la lotta per la ricerca della verità è una questione quanto mai attuale e urgente. Si pensi ad esempio alle vicende no vax, alle più recenti discussioni sui cambiamenti climatici o alle verità sui genocidi. Andando in tempi meno recenti, alle stragi attuate durante la strategia della tensione in Italia, che ancora attendono risposte. In questi giorni è scomparsa Licia Pinelli, moglie del partigiano, ferroviere, anarchico Pino, morto nel dicembre del 1969 per una “caduta” da una finestra della Questura di Milano; ella ha sempre lottato per la verità nella Notte della Repubblica. Ci sono tantissimi altri casi grandi e piccoli che qui vorrei citare, come quello di Pietro Orlandi, che lotta per la verità sulla scomparsa della sorella Emanuela avvenuta ormai nel lontano 1983, ma la lista sarebbe lunghissima.

 Voglio solo evidenziare, reduce da un recente viaggio in Argentina, che le madri di Plaza de Mayo a Buenos Aires, costituitesi in Associazione, marciano ininterrottamente da oltre 40 anni, tutti i giovedì di ogni settimana, chiedendo verità per i desaparecidos della dittatura che governò l’Argentina dal colpo di stato del 1976 fino al passaggio a un governo eletto dai cittadini nel 1983.  Un esempio di lotta tenace e indefessa.

Per lasciarci con un messaggio di speranza, c’è anche quella che il grande psicopatologo e filosofo Karl Jaspers chiama lotta amorosa. E’ nella genuina comunicazione tra esistenze che avviene quella ricerca vera di intesa reciproca e comprensione comune che dovrebbe essere la dimensione non di un ingenuo e scontato stare in comunità ma di una dimensione che ci veda tutti impegnati in questa lotta della comunicazione dove trovano spazio la fiducia e  la solidaristica umana, con l’esclusione di qualsiasi forma di potere: la lotta amorosa.

La vita non esiste in natura. Ce la siamo inventata noi. A guardarsi intorno, non c’è granché di cui andare fieri. Di certo, non la migliore delle nostre invenzioni. Tra le peggiori, anzi. Se non la peggiore. 

Né potrebbe essere altrimenti. Essendo una nostra creazione, infatti, è impossibile che non ci assomigli. E, dato che, dentro di noi, prevale il male, è inevitabile che prevalga anche nelle cose che facciamo. E la vita, purtroppo, non fa eccezione. 

Comandamenti rivelatori

Chi nega che, nella natura umana, prevalga il male, non conosce (o finge di non conoscere) sé stesso e nega la realtà

Se la nostra natura, infatti, fosse orientata al bene, che bisogno ci sarebbe di così tanti comandamenti/divieto? Sette su dieci, tanto nel Vecchio quanto nel Nuovo Testamento. Ricordo solo i più “terreni”: non uccidere, non rubare, non dire falsa testimonianza, non commettere adulterio/atti impuri, non desiderare la donna e le cose degli altri d’altri. 

Chiunque li abbia scritti, ci conosceva molto bene. Più di noi stessi. E sapeva che, se fossimo stati lasciati liberi di assecondare la nostra vera natura e soddisfare istinti, bisogni, desideri, la vita sulla Terra sarebbe diventata un vero e proprio inferno. E, malgrado poche regole, che più chiare di così non potrebbero essere, è davvero un inferno quello nel quale viviamo.

Amare è contro natura

A essere onesti, c’è stato un uomo che ha provato a rovesciare la prospettiva. Si chiamava Gesù Cristo e, forse proprio per questo, ha fatto la fine che ha fatto. Cosa sosteneva? Che il comandamento più importante di tutti fosse il comandamento dell’amore: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Dopotutto, se uno ama davvero, non uccide, non ruba, non dice falsa testimonianza, non commette adulterio/atti impuri, non desidera la donna e le cose degli altri d’altri. Un unico comandamento “positivo”, che rendeva “inutili” i sette “negativi”.

Più facile obbedire a un’unica legge che a sette leggi diverse? Niente affatto. Immensamente più difficile, a quanto pare. Ulteriore prova del fatto che la natura umana è fatta per odiare e non per amare. Ci piaccia o no, l’homo homini lupus è la regola: l’amore non è che un’eccezione. Sempre più rara, tra l’altro. Del resto, se amare fosse naturale, che senso avrebbe comandarci di farlo?

Tra bene e male, scegliamo il male

E, così, l’umanità se n’è allegramente sbattuta, sia dei sette comandamenti della “tradizione” ebraica, sia dell’unico comandamento della “rivoluzione” cristiana. (Del resto, come si fa a dar retta a un pazzo che predica: “amate i vostri nemici?”). E, da migliaia e migliaia di anni, tra “bene” e “male”, continua a scegliere il male.

Il serpente mi ha ingannata

La domanda è: stando così le cose, ha senso nascondersi dietro a luoghi comuni del tipo: “così è la vita”? Neanche un po’. 

Il punto è che la vita non è affatto così. Siamo noi che l’abbiamo voluta così e che continuiamo a volerla così. E visto che, oltre che ipocriti, siamo anche pavidi, ci guardiamo bene dall’assumerci le nostre responsabilità e le attribuiamo alla “vita”, come se fosse un’entità mitologica, preesistente alla nostra apparizione sulla Terra. E così, dalla notte dei tempi, non facciamo che praticare il più antico e ignobile degli scaricabarile: il biblico “Il serpente mi ha ingannata”. 

La colpa è sempre dell’altro

E, come per magia, la colpa passa da noi a qualcun altro: mamma e papà (giurassici e “cringe”: non mi capiscono), mio fratello Caino (troppo cattivo), mio fratello Abele (troppo buono), la maestra (troppo severa), i professori (ce l’hanno con me!, chi c***o si credono di essere?), compagni di scuola, amici, colleghi di lavoro (stupidi, stronzi, invidiosi), le donne (tutte mignotte), gli uomini (tutti puttanieri), mia moglie (zoccola), mio marito (stronzo), il capo (bastardo)… e, naturalmente: i Russi, gli Americani, l’Europa, il Mercato, il Palazzo; dollaro, euro, bitcoin, BCE, FMI; negri, ebrei, musulmani, comunisti; froci, lesbiche, trans, queer & Co; stranieri, immigrati, zingari; poveri, disabili, malati, vecchi… 

In una parola, l’altro. L’odiato nemico; l’essere demoniaco che è causa di tutti i nostri mali e che non vediamo l’ora di eliminare. Essere demoniaco, con il nostro “stesso identico umore ma la divisa di un altro colore”, per dirla con De Andrè, il quale ricambia il nostro odio e non vede l’ora di eliminare noi. Come diceva l’uomo sulla croce? “Amate i vostri nemici”?

Ne resterà soltanto uno

Ma se il problema fosse davvero l’altro, come mai – dopo che lo abbiamo cancellato dalla faccia della Terra, migliaia e migliaia di volte, in migliaia e migliaia di guerre, che sono costate centinaia e centinaia di milioni di morti – i nostri problemi sono ancora tutti qui?

Quando scompariranno? Quando “ne resterà soltanto uno”, come diceva Highlander? Ne siamo davvero sicuri? E cosa succederà, a quel punto? Sicuri che l’ultimo dei mortali riuscirà a sopravvivere alla fine dei conflitti (“E quando fu di fronte al mare, si sentì un coglione perché, più in là, non si poteva conquistare niente”, canterebbe Vecchioni) o, non avendo più nessun nemico da combattere, finirà per diventare il nemico di sé stesso e auto-eliminarsi? 

Solo alla morte non c’è rimedio

Quando diciamo che solo alla morte non c’è rimedio, riconosciamo, implicitamente che, per tutto il resto, il rimedio c’è

Il che significa che c’è rimedio all’odio che ci spinge a un sempre più esasperato tutti-contro-tutti, alle mille guerre che devastano il pianeta, all’irrefrenabile, suicida, distruzione dell’ambiente, a un capitalismo sempre più selvaggio e alle distorsioni di un Mercato completamente fuori controllo, che divora tutto e tutti come un Leviatano, alla devastante (non)distribuzione della ricchezza (per la prima volta nella Storia, una ventina di persone possiede una ricchezza pari a quella di quasi 4 miliardi di persone: l’equivalente di metà della popolazione mondiale), al degrado morale e alla corruzione, che non risparmiano nessun ambito della nostra vita, privata o pubblica che sia.

Se il rimedio esiste, perché non lo adottiamo?

A questo punto, la domanda è: se, per tutte queste cose, il rimedio esiste, perché non lo adottiamo? Come mai l’odio non fa che crescere e le guerre si moltiplicano, con il rischio di trascinare l’umanità verso l’Armageddon? E come mai capitalismo, consumismo, inquinamento, deforestazione, sfruttamento sconsiderato delle risorse, cambiamento climatico, concentrazione delle ricchezze, povertà estrema, razzismo, xenofobia, patriarcato, sessismo, omo-lesbo-bi-transfobia, degrado morale e corruzione appaiono, ormai, incontrollabili e inarrestabili?

Il serpente siamo noi

La risposta c’è, è semplice, la conosciamo da sempre ma non la vogliamo sentire: il serpente siamo noi. E, fino a quando non riusciremo a estirpare il male da noi, sarà impossibile riuscire a estirparlo dalla realtà. E la vita sarà sempre la stessa: una barca alla deriva, in balia del peggio di noi.

Speranza: o forza di cambiamento o inutile utopia

Speranza è una tra le parole più mal interpretate, abusate e strumentalizzate di sempre. Qualunque cosa sia – virtù, sentimento, atteggiamento mentale, forza interiore – credo che abbia un senso e un valore solo se la consideriamo una miscela di fiducia e volontà. Fiducia nella possibilità di cambiare davvero noi stessi e le cose; volontà di impegnarci per concorrere a realizzare tale cambiamento. In questo senso, ha ragione Camus a dire che, quando non c’è speranza, ci si deve inventare la speranza. 

La speranza, quindi, ha senso e valore solo qui e adesso. In questa vita, intendo. Non nella prossima, sempre ammesso che esista. Questo, per due ragioni. La prima è che questa è l’unica vita certa che ci è dato di vivere. La seconda è che, ammesso che esista una vita-dopo-la-vita, essendo essa creazione di Dio (che è amore) e non dell’uomo, per affrontarla, non avremo alcun bisogno della speranza.

Palliativo o placebo: strumento del male

Se la speranza non è miscela di fiducia e volontà, non serve. O è un palliativo – allevia i sintomi ma non cura la malattia – o un placebo: non cura ma illude sul fatto che ci stiamo curando. In entrambi i casi, più che inutile è dannosa, perché ci induce a non lottare per il cambiamento ma ad attendere la vita nell’aldilà per ottenere, finalmente, tutto ciò che, nell’aldiqua, consideriamo impossibile ottenere: giustizia, pace, libertà, diritti e una vita davvero degna di essere chiamata vita. 

Se ci arrendiamo e rinunciamo a lottare, il danno sarà doppio, catastrofico e irreparabile. Né le persone né le cose cambieranno mai, e la speranza, da strumento del Bene, diventerà strumento del Male. Tranquilli, però: non sarà stata colpa nostra. È il serpente che ci ha tentati.

Fin dalla notte dei tempi, l’umanità ha dovuto affrontare una continua battaglia per la sopravvivenza: trovare cibo, riparo, sicurezza in un mondo spesso ostile e imprevedibile è stata una sfida costante che ha plasmato il nostro DNA evolutivo.
Ma questa lotta esterna, questa necessità di assicurarci le risorse necessarie per vivere, si è col tempo trasformata in una battaglia più intima e personale.
Oggi, mentre le nostre condizioni di vita si sono notevolmente migliorate, la lotta per la sopravvivenza non è scomparsa, ma è diventata sempre più una sfida interiore. Siamo costantemente chiamati a superare gli ostacoli che il mondo ci pone davanti, ma la vera battaglia risiede in noi stessi, nella nostra capacità di affrontare le nostre paure, le nostre debolezze, i nostri demoni interiori.
Questa lotta personale è forse la più ardua, ma è anche quella che ci plasma, che ci rende più forti e determina chi siamo veramente. Proprio come quella verso l’ambiente ha plasmato il nostro DNA.

Ognuno di noi, nel corso della propria vita, deve affrontare momenti di incertezza, di smarrimento, di profonda crisi interiore.
Sono quelli i momenti in cui la lotta per la sopravvivenza è la lotta per la preservazione della nostra identità.

Che si tratti di problemi personali, professionali o di qualsiasi altra natura, la nostra esistenza è costellata di momenti difficili che mettono alla prova la nostra determinazione. È in questi frangenti che la lotta diventa essenziale, la capacità di non arrendersi di fronte alle avversità che la vita ci presenta.

“Non importa quanto sia dura la vita, c’è sempre qualcosa che puoi fare e in cui puoi riuscire” (Stephen Hawking).

È la nostra capacità di adattarci e di rialzarci dopo ogni caduta, a definire chi siamo e a definirci come individui.

La lotta è il viaggio che ci conduce alla scoperta di noi stessi, delle nostre passioni, dei nostri sogni, definirili per poi, seguendoli, diventare la versione migliore di noi stessi.

Immaginate lo stupore di quel gruppo di persone che qualche anno dopo la Seconda Guerra Mondiale hanno scoperto piste d’atterraggio non segnalate, intagliate tra il fitto della boscaglia della foresta malinesiana. Immaginate lo sconcerto nel vedere che le piste di atterraggio non erano state create per far atterrare aerei per il traffico di contrabbando nè di droga, ma avevano uno scopo più alto. A volte ci viene più facile pensare ad una cosa in modo che sia illegale, che sia criminale e criminoso, invece che pacifica e – in qualche modo – tenera.
Le piste di atterraggio – sì, al plurale – erano state create tagliando gli alberi, ponendo torce ai lati della pista e finte torrette di controllo e aerei parcheggiati ai lati della pista. Tutto fatto in legno e bambù. Comprese le cuffie da operatore radio. Di legno e noce di cocco.

Gli indigeni che vivevano nel fitto della boscaglia, lontano dai grandi centri abitati e dalla civiltà così come ce la immaginiamo noi, lontani anche dalle brutture e dagli abomini che gli uomini civili stavano facendo ad altri uomini civili nel corso della Seconda Guerra Mondiale, avevano osservato l’arrivo di enormi aerei carichi di beni materiali sulle loro isole per mesi, per anni. Erano venuti in contatto con i “miracoli” della modernità, a loro prima inaccessibili, ricevendo con quelle spedizioni, tantissime razioni di cibo e vestiti confortevoli che non avevano mai visto prima. Tanto da pensare che fossero davvero dei Miracoli.
Per quelle popolazioni i beni materiali provengono, giungono a terra per la benevolenza degli spiriti degli antenati. Quindi quelle razioni di cibo e quei vestiti non potevano essere altro che doni divini.
Il “culto del cargo” nasce così: riti, danze utili ad attirare di nuovo quegli “Dei del cielo” con i loro preziosi carichi. Preparando ambienti che in qualche modo potessero risultare “familiari”. La ripetizione formale di strutture esteriori, sulle quali però non si ha che una superficiale cognizione della complessità che vi si cela dietro.

Un comportamento ingenuo, ridicolo…ma a quegli indigeni il comportamento risultava essere normale, logico, giusto, addirittura doveroso.

Fino a qualche giorno fa, di questa storia, non ne sapevo assolutamente nulla.
Un collega mi ha parlato di questo Bias Cognitivo, del Bias Cognitivo – quindi riconosciuto dalla comunità scientifica – chiamato “Culto del Cargo”. Tutti gli esseri umani lo hanno, e anche noi, nella nostra “modernità” ci comportiamo in modo simile a quegli indigeni malinesiani.

Pensiamo ai bias cognitivi che influenzano le nostre scelte quotidiane:

Il mito della meritocrazia: credere che “basta lavorare sodo” per ottenere successo, ignorando i fattori strutturali, le disuguaglianze o la semplice fortuna.
La fede nelle mode e nelle tendenze: come indossare scarpe di un marchio prestigioso o seguire diete miracolose, nella speranza di attirare il “cargo” del successo o della felicità.
La dipendenza dai rituali professionali: pensiamo ai meeting o alle presentazioni con grafici complicati, non sempre necessari, ma ripetuti perché ritenuti simboli di efficienza. Non sono, forse, le nostre versioni delle piste di atterraggio di bambù?

Bias cognitivi: la trappola della mente razionale
Le neuroscienze e la psicologia moderna ci spiegano che siamo predisposti a vedere schemi anche dove non ci sono. Questo fenomeno, noto come apofenia, ci porta a interpretare coincidenze come relazioni causali. Non è diverso da un villaggio melanesiano che collega l’apparizione degli aerei ai propri rituali.

Investire in criptovalute senza comprenderne i meccanismi, solo perché “tutti lo fanno”.
Seguire guru motivazionali che promettono formule magiche per il successo, imitando atteggiamenti o posture ritenute “vincenti”.
Il consumismo rituale: pensiamo al Black Friday, dove acquistare diventa un rito collettivo, quasi una celebrazione.

Un altro esempio emblematico è il rapporto con la tecnologia.
Smartphone, intelligenza artificiale, blockchain: spesso li veneriamo senza comprenderne realmente il funzionamento. Cerchiamo “soluzioni magiche” ai nostri problemi, affidandoci ciecamente a qualcosa che percepiamo come superiore, quasi divino.

Le start-up tecnologiche hanno i loro rituali: hackathon, stand-up meetings, pitch perfetti per attirare gli “investitori-dei” che portano il “cargo” dei finanziamenti.

Il culto del cargo ci offre uno specchio: ciò che consideriamo superstizione negli altri spesso è solo un’interpretazione diversa della nostra stessa irrazionalità. Forse non costruiamo aerei di bambù, ma inseguiamo simboli e rituali, nel tentativo di controllare un mondo imprevedibile.

Il confine tra razionalità e irrazionalità è più labile di quanto vorremmo ammettere.
Guardare con rispetto le credenze altrui significa riconoscere i nostri stessi limiti, accettando che, in fondo, siamo tutti umani.
I “cargo” che cerchiamo sono diversi, ma la speranza che ci guida è la stessa.

(Grazie Marino)

“Quando la Patria chiama!…” tuonò il pingue e rubizzo podestà del piccolo borgo, al microfono della tribuna d’onore del campo sportivo. Davanti a lui, l’intero paese, riunito, come ogni sabato, per assistere alle manifestazioni di romana virilità dei suoi giovani, ardimentosi, figli.

“Speriamo che resti senza voce!”, urlò, dalla prima fila, uno dei più ardimentosi, prima che l’uomo potesse proseguire il suo stentoreo sermone.

Il ragazzo venne, ovviamente, fermato, identificato e portato via. Lo attendeva una punizione esemplare: sospeso da tutte le scuole del Regno.

Era il 1938 e aveva da poco compiuto sedici anni. Ventitré anni più tardi, sarebbe diventato mio papà.

Ogni volta che certa retorica torna a lordare di sé la realtà – spezzando le reni alla verità, imbellettando tutto e tutti di un’epica posticcia e ridicola, e trasformando l’informazione in indecente propaganda – ripenso alla lucidità e al coraggio di quel ragazzino (che, cinque anni dopo, si sarebbe unito alla Resistenza) e mi dolgo di non essere mai stato alla sua altezza. A questo punto, è evidente che non lo sarò mai. Mea culpa.

Ho scritto centinaia di articoli e due romanzi per denudare e denunciare l’ipocrisia subdola, velenosa e profondamente antidemocratica dei “benpensanti”. Eppure, malgrado tutti i miei sforzi, nulla in quella montagna di pagine ha la forza e l’efficacia di quel “speriamo che resti senza voce!”, urlato da un ragazzino, durante una delle ore più buie, dolorose e nefaste della Storia italiana.

Le parole sono banconote: hanno un “valore nominale” e uno “reale”. Quando il secondo non corrisponde al primo – cosa che accade con raccapricciante frequenza – non sono che carta straccia.

Se dico “ti amo” ma, in realtà, voglio solo indurti a fare sesso con me, l’amore di cui parlo non esiste. Evocarlo, non è altro che un modo immondo per riuscire a estorcerti ciò che – senza mentire, blandire e frodare – non riuscirei mai a ottenere da te.

Insieme a Dio e famiglia, patria è tra le parole più inflazionate in assoluto. Non solo da noi, a dire la verità. Ma questo non consola affatto. Al contrario: deprime e fa infuriare ancora di più.

Il “valore nominale” è altissimo; il “valore reale”, bassissimo. Talmente basso che, spesso, rasenta lo zero. E, a volte – come sta accadendo in questi ultimi anni – precipita addirittura sotto zero.

La parola patria è stata, infatti, ridotta a specchietto per le allodole: un vetrino colorato che viene spacciato per diamante, con l’unico scopo di convincerci a sacrificarci per un simulacro, vuoto e inutile come un dente cariato. Un “vitello d’oro”, che dei gran sacerdoti senza fede e senza scrupoli ci spingono ad adorare, consapevoli del fatto che, solo in nome di parole come Dio, patria e famiglia, riusciranno a farci commettere ogni genere di bassezza e scelleratezza.

Non lasciamoci incantare, quindi, dall’apparente nobiltà di quella parola. Di mera apparenza si tratta, appunto. Di nobile, infatti, è rimasta solo la parola. “Flatus voci”: una breve emissione di fiato e un suono che durano un secondo e, un secondo dopo, si disperdono nel nulla, come fumo di sigaretta.

Chi si serve di quella parola, lo fa per un unico obiettivo: servirsi di noi. Ci chiama “figli” ma si guarda bene dal riconoscerci ruolo e dignità di figli. A meno che non ci sia qualcuno convinto che figlio significhi suddito o servo.

Eppure questo squallido giochetto psicologico fa breccia facilmente in quel che resta delle nostre teste e coscienze. Teste e coscienze lobotomizzate da decenni di tv spazzatura, di informazione compiacente – che, in molti casi, da controllore del potere, si è trasformata in scendiletto dei potenti (nel 2024, secondo il World Press Freedom Index di Reporters Without Borders, l’Italia si è posizionata al 46° posto nella classifica internazionale della libertà di stampa), dall’orgia di stupidità, ignoranza, follia e odio dei social media e da un consumismo senza controllo, che ci spinge a desiderare – come una droga – pagandolo profumatamente, l’inutile e a fuggire – come la peste – tutto ciò che potrebbe dare senso, valore e profondità alle nostre vite, persino quando è gratis.
“Panem et circenses”: ricetta millenaria ma, ahimè, sempre efficace.

E, così, quando ci chiamano figli (valore nominale altissimo, valore reale inesistente), ci sentiamo, istintivamente, obbligati a “onorare il padre” (patria deriva, appunto, dall’aggettivo latino patrius «paterno», «del padre»). E, dunque, a fare tutto ciò che gli astuti cantori del culto della patria ci chiedono. Nefandezze e follie incluse.

E noi onoriamo il padre senza chiederci chi egli sia davvero, dimenticando che il comandamento cristiano (dietro al quale i predicatori senza scrupoli del falso patriottismo nascondono le loro inconfessabili intenzioni) ha valore unicamente se rispettiamo, davvero e in toto, la Parola di Cristo.

Una Parola che, non solo ci impone di amare il nostro prossimo come noi stessi (Mc. 12,29-31) ma, addirittura, di amare i nostri nemici: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano” (Mt. 5,44).

Due richieste, queste ultime, che nessuno dei gran sacerdoti del falso culto della patria condivide, né ci chiederebbe mai di rispettare, per due ragioni evidenti persino ai ciechi: essi odiano ogni genere di prossimo: negri, ebrei, musulmani, migranti, stranieri, omosessuali, intersessuali, transessuali, transgender, queer, gender fluid, gender creative, non-binari, pansessuali, demisessuali, ma anche donne, giovani, vecchi e poveri; non fanno altro che creare nemici: interni o esterni, reali o presunti. Secondo costoro, infatti, non esiste patria senza un nemico. Nemico che non solo noi figli non dobbiamo azzardarci ad amare ma che ciascuno di noi deve imparare a odiare con tutto sé stesso.

Un figlio può benissimo decidere di amare comunque suo padre, pur sapendo che egli è un assassino, un violento (dentro e fuori la famiglia), un ladro, un bugiardo, un cialtrone, un ruffiano. Tale scelta, però, è una scelta individuale che impegna solo quel figlio.

Un cittadino, invece, non è affatto tenuto a onorare una patria “solo chiacchiere e distintivo”, che non lo ama, non lo rispetta, e non solo non fa assolutamente nulla per lui ma, spesso, lo vessa e lo danneggia pesantemente.

Il celebre chiasmo con il quale, il 20 gennaio 1961, John Fitzgerald Kennedy chiuse il suo discorso di insediamento – «Non chiedete cosa può fare il vostro Paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese» – rappresenta, senza dubbio, un’invenzione retorica di grande forza e fascino.

Dato, però, che Kennedy usa la parola “country” [paese] e non “nation” [nazione] o “homeland” [patria], il vincolo morale che egli richiama non è né basato sul diritto di nascita (nazione deriva dal verbo latino “nasci”: nascere) né di territorio. Si tratta, semmai, di un vincolo che potremmo definire sociale, nel senso che ci viene dalla parola latina socius: «socio», «unito», «partecipe», «alleato». Un legame paritario ed egualitario, dunque, fondato su riconoscimento, rispetto e solidarietà reciproci tra tutti coloro i quali – a qualunque titolo e da qualunque parte del mondo provengano – danno vita alla comunità di quanti vivono in un certo Paese.

Non un vincolo sbilanciato, nel quale il soggetto forte (la patria) può tutto e il soggetto debole (il cittadino) può nulla o quasi; il primo è titolare di tutti i diritti, il secondo, solo di doveri; il primo vive alle spalle del secondo per soddisfare i capricci del primo.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non farebbe gravare su di noi un debito pubblico stratosferico, giunto a un passo da quota 3mila miliardi (2.918mld): il 137% del nostro PIL, pari a 49.450 euro di debito per ogni “figlio”.
Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe un’evasione fiscale scandalosa: tra i 90 e i 100 miliardi di euro l’anno, secondo le stime interne. Stime internazionali, invece, la valutano tra i 100 e i 120 miliardi (Fondo Monetario Internazionale) se non, addirittura, 200-250 miliardi (EU Tax Observatory).
Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe di accumulare, nel cosiddetto “magazzino della riscossione”, più di 1.200 miliardi di euro (più di 6 volte il PNNR) di tasse dovute e mai riscosse, il 90% delle quali lo Stato non vedrà mai.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non lascerebbe che il peso dell’Irpef si scaricasse, per oltre l’80%, sulle spalle di lavoratori dipendenti e pensionati.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe che i salari medi degli italiani fossero tra i più bassi d’Europa. Secondo Eurostat, i salari medi in Italia sono significativamente inferiori rispetto a quelli di molti altri paesi dell’Unione Europea. Il salario medio annuale in Italia si aggira intorno ai 31mila euro, contro una media dell’UE di circa 33.500 euro. In confronto, paesi come Lussemburgo e Danimarca registrano salari medi significativamente più alti, rispettivamente oltre 72mila euro e 63.300 euro. Anche in Francia e Germania i salari medi superano i 40mila euro annui, evidenziando una differenza di circa 14-15mila euro rispetto all’Italia.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe né la cultura androcentrica e ottusamente misogina alla base di un fenomeno drammatico e ingiustificabile come la violenza sulle donne. Secondo l’Istat quasi 7 milioni di donne (6,8mln) hanno subito, nel corso della loro vita, violenza fisica o sessuale: il 31,5% (quasi una su tre) delle donne italiane tra i 16 e i 70 anni. La Relazione annuale del Ministero dell’Interno, inoltre, segnala che, nel 2022, si sono registrati oltre 15mila casi di stalking e violenza sessuale (in media, 41 al giorno; 1,7 ogni ora); secondo l’associazione D.i.Re – Donne in Rete contro la Violenza, infine, una delle forme più comuni di violenza contro le donne è la violenza domestica. Nel solo 2023, più di 23mila donne si sono rivolte ai centri antiviolenza. In media, 63 al giorno, 2,6 ogni ora.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe la follia dei femminicidi, più della metà dei quali attribuiti a partner o ex partner e circa il 20% ad altri parenti: 4 omicidi su 5 avvengono, quindi, nell’ambito familiare. Nel 2023, i femminicidi sono stati 120 (quasi 1 ogni 3 giorni); 80 nei primi otto mesi di quest’anno. Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe il fatto che le donne italiane guadagnino meno (4,2% secondo Eurostat; 5- 7% secondo Istat, 10,7% secondo ODM Consulting) dei loro colleghi uomini, in un Paese che – secondo il Global Gender Gap Report 2023 del World Economic Forum – si posiziona al 79° posto su 146 paesi nella classifica generale della disparità di genere, che comprende partecipazione economica e opportunità, accesso all’istruzione, salute e sopravvivenza, empowerment politico.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe un tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) del 22-23%, né accetterebbe che il 14,9% dei giovani tra i 15 e i 29 anni rientri nei cosiddetti NEET (“Not in Education, Employment, or Training”): giovani che non studiano, non lavorano e non seguono alcun tipo di corso di formazione. Un tasso, quello italiano, significativamente superiore alla media UE, che si attesta sull’11,2%.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Tutto questo, senza parlare della scandalosa situazione della giustizia nel nostro paese (spesso ridotta a questione di protezioni politiche & Co. o di disponibilità economiche dei singoli), del folle smantellamento della sanità pubblica (già oggi tra i 4,7 e i 7 milioni di italiani hanno rinunciato a curarsi, per problemi economici, liste d’attesa troppo lunghe, difficoltà di accesso alle strutture sanitarie, eccessiva distanza dalle strutture mediche), della totale mancanza di attenzione, rispetto e risorse per scuola pubblica, università e ricerca scientifica.
Alla luce di tutto questo, la domanda che dobbiamo porci è: dove diavolo è il sedicente “padre” di tutti questi “figli”?

Ognuno di noi interroghi la propria coscienza.
Un fatto, però, emerge con indubitabile, dolorosa, chiarezza: fino a quando la patria non comincerà a parlare con voce di libertà, giustizia, eguaglianza, diritti e pari opportunità per tutti i suoi figli, attuando – nei fatti e non negli slogan elettorali – il mandato costituzionale (Art. 3) che recita “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, non sarà davvero patria.

E ogni volta che ci chiamerà, più che il diritto, avremo il dovere di urlare: “speriamo che resti senza voce!”

Mi capita spesso di pensare ai libri che non ho letto, ai chilometri che non ho calpestato, alle luci che non ho acceso, alle case che non ho abitato, ai letti che non ho vissuto, ai gatti che non ho spiato, ai cuori che non ho nutrito, ai sogni in cui non ho creduto, ai muscoli che non ho scolpito, agli occhi che non ho incontrato.

Mi capita… di pensare a quel che non sono. E a ciò che avrei potuto essere.

L’identità. Questa sconosciuta, verrebbe da dire. Le sue innumerevoli forme e sfumature, le sue nascite, le sue evoluzioni, le sue morti e resurrezioni credo siano ben raccontate, espresse, sottese in questo numero, che si pregia di contributi pronti a scavare ogni superficie.

Grazie a Giorgio Gabrielli, Giovanna La Vecchia e Walter Iolandi per la straordinaria capacità di tenere acceso e lucido il motore di questa avventura editoriale.

Grazie, senza limiti di tempo e di spazio, a Giuseppe Cesaro, per le parole, i pensieri, i sentimenti che ci ha donato.

Buona lettura, cari lettrici, cari lettori!

Non so se esista un angolo di mondo la cui popolazione sia completamente autoctona e il suo sangue non si sia mai mischiato a quello di nessun’altra etnia. Ammesso e non concesso, però, che esista, una cosa è certa: non è l’Italia. Per fortuna, aggiungo, visti gli inquietanti rischi, mentali e fisici, connessi all’endogamia. Sessuale o culturale che sia, non fa molta differenza. Senza considerare che, se un posto del genere esistesse, sarebbe arido, deserto e triste, e destinato a una fine di solitudine e dolore.

Diversità è ricchezza
Ci piaccia o no, infatti, diversità è ricchezza. Mettiamocelo in testa una volta per tutte. Capirlo è facile. Non serve aver letto un milione di libri. Basta guardarsi intorno: ce lo insegna la Natura. Che mondo sarebbe il nostro con un solo fiore, un solo frutto, un solo pesce, un solo uccello, un solo essere umano, magari brutto, sporco e cattivo?

Non solo: che musica si potrebbe mai scrivere con un’unica nota? Quale poesia, romanzo, opera teatrale, sceneggiatura con un’unica parola? Quale tela si potrebbe dipingere con un unico colore? Quale danza o balletto, potrebbe nascere da un unico passo?

Noi italiani siamo fortunati, quindi – molto fortunati – a poter vantare (il verbo non è scelto a caso) di essere il frutto dell’incontro e della fusione di così tante grandi culture, visioni, lingue, voci, tradizioni, storie, fedi.

Identità parola plurale, dinamica, aperta
La Storia stessa del nostro Paese ci insegna che – come dicevano i latini – identità è, di fatto, un “pluralia tantum”: una parola che ha soltanto il plurale. Esistono, infatti, le identità ma non l’identità, per la semplice ragione che ogni identità – anche la meno articolata e complessa – è sempre la sintesi di più identità diverse.

Sintesi dinamica, tra l’altro, dal momento che nessuna identità è data una volta per tutte. Le identità non smettono mai di evolvere. Esattamente come quella di ciascuno di noi. È a tutti evidente, infatti, che ciò che siamo oggi è diverso sia da ciò che eravamo ieri che da ciò che saremo domani.

Le identità evolvono da sempre, dunque. Ed evolveranno per sempre. Per fortuna, aggiungo. Altrimenti, sul nostro pianeta vivrebbero 8 miliardi di “homo sapiens”. E i 200/300mila anni che ci separano dal nostro antenato più simile a noi sarebbero trascorsi inutilmente.

E, dato che è plurale e dinamica, identità è, inevitabilmente, una parola aperta. Apertissima, anzi, dal momento che è il frutto di centinaia di migliaia di anni di incontri, inclusioni, fusioni.

Inclusioni – attenzione – non esclusioni. Che non sono solo assurde e incomprensibili: sono, soprattutto, impraticabili. Oggi ancora più di ieri. Chiudersi in un’ottusa e ridicola pretesa autarchica, significherebbe, infatti, condannarsi all’estinzione, prima ancora che all’insignificanza politica, economica, sociale e culturale.

Migriamo da 2 milioni di anni…
Gli esseri umani non hanno cominciato a migrare agli inizi degli anni Novanta, per sbarcare a Lampedusa, conquistare lo stivale e imporci il loro Dio, occupare le nostre case, portarci via lavoro e donne e turbare i sonni di noi benestanti/benpensanti, “cattolici da pasticceria” (come li ha definiti il capo della cattolicità), come proclamano le voci – scriteriate, storicamente infondate e irrazionali – della galassia nazionalista, patriottica, sovranista, sciovinista, protezionista, anti-globalista, autarchica e identitaria.

Piccola parentesi: a proposito di Dio, vale la pena ricordare che Ebrei, Cristiani e Musulmani credono tutti nello stesso Dio. Inoltre, i cattolici antisemiti farebbero bene a non dimenticare che Gesù, insieme a tutta la sua famiglia e agli apostoli, era ebreo. Chiusa parentesi.

… per soddisfare bisogni primari
Gli esseri umani hanno cominciato a migrare circa 2 milioni di anni fa, quando l’Homo erectus ha lasciato l’Africa e ha iniziato a diffondersi in Asia e in Europa. Le sue migrazioni erano guidate da bisogni primari fondamentali: terra, acqua, cibo, focolari sicuri e accoglienti, protezione dai predatori (animali e no) e la necessità di assicurare una progenie in grado di garantire la sopravvivenza della specie.

Siamo tutti africani.
Sì, siamo tutti africani: facciamocene una ragione. I primi ominidi, infatti, sono apparsi nel cuore dell’Africa circa 7-6 milioni di anni fa. E, sempre in Africa, è emerso il genere Homo, il cui primo rappresentante – Homo habilis, considerato un progenitore dell’Homo erectus – è vissuto circa 2,8/2,4 milioni di anni fa. I suoi fossili sono stati trovati principalmente in Africa orientale, in Tanzania e Kenya. Prove fossili e genetiche (analisi del DNA mitocondriale e del cromosoma Y) indicano, infine, che tutte le popolazioni moderne discendono da un gruppo di umani – Homo sapiens – che si è evoluto in Africa circa 300mila anni fa.

L’orco Globalizzazione
Anche l’orco Globalizzazione, che tanto ci terrorizza, non è nato – come qualcuno vuole farci credere – dopo la caduta del Muro di Berlino. Chi lo sostiene ha gioco facile. Dopotutto, si tratta di indottrinare teste sempre più vuote e coscienze sempre più aride. Combinazione ideale per infestare l’opinione pubblica con i venefici frutti della malapianta della paura.

La globalizzazione è nata millenni fa. E non per il capriccio di qualche capotribù proto-buonista/comunista o paleo-turbo-capitalista. È nata per un bisogno vitale, ineludibile: la sopravvivenza. Un dettaglio tutt’altro che trascurabile, non vi pare? Rinunciare alla prima, dunque, significa, di fatto, rinunciare anche alla seconda.

Autarchia è follia.
Ecco perché, a terzo Millennio avviato, l’idea di chiudersi in una sorta di autarchia2.0 non è soltanto anacronistica e stupida: è letale. Oltre che oggettivamente impraticabile. E non da oggi: da sempre. Non lo dico io: lo dice la Storia. Quella vera, non una delle mille bufale revisioniste, messe in giro ad arte dal, sempre più nutrito, consorzio dei nostalgici delle più grandi follie del recente passato.
Nessuno, in nessun angolo del pianeta, può, infatti, illudersi di essere completamente e felicemente autosufficiente. Sarebbe una follia. Follia ancora più grande in un Paese come il nostro, che dipende così tanto dagli altri, per materie prime e beni indispensabili alla sua stessa sopravvivenza.

Dipendiamo dalle risorse degli altri…
A causa della limitata disponibilità di risorse naturali e dell’elevata domanda interna, infatti, ogni anno, noi italiani, spendiamo, a seconda delle fluttuazioni nei prezzi internazionali e delle quantità dei beni di cui abbiamo bisogno (tra questi: petrolio e derivati, gas naturale, macchinari industriali e apparecchiature tecnologiche, automobili e componenti per l’industria automobilistica, ferro, acciaio, rame e altre materie prime metallurgiche, prodotti chimici e farmaceutici, grano e cereali e persino frutta esotica e verdure fuori stagione) tra i 140 e i 217 miliardi di euro, rispettivamente il 7% e il 10,85% del PIL, una cifra che equivale al nostro Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Scusate se è poco.

La domanda è: saremmo mai in grado di produrre tutti questi beni “in casa nostra”?

… e dalle braccia degli altri
Per non parlare del bisogno, ormai patologico, di manodopera straniera, soprattutto per tutti quei lavori che noi italiani non vogliamo più fare: raccolta di frutta e verdura, ad esempio (si stima che, ogni anno, l’agricoltura abbia bisogno di 300/350mila stagionali); manovali, muratori, carpentieri, posatori di pietre, addetti a scavi e demolizioni, montatori di ponteggi (si stima che il 30-40% della forza lavoro nell’edilizia sia costituita da immigrati); cura e assistenza degli anziani (sono circa 850mila le/i badanti, in larga maggioranza immigrati); pulizie domestiche e di edifici pubblici, alberghi, ristoranti; camerieri, lavapiatti, aiuto-cuochi; camionisti, trasportatori, rider…

Una dipendenza, questa dalla manodopera straniera, destinata a crescere, soprattutto per due motivi:

  1. le preoccupanti dinamiche demografiche: abbiamo uno dei tassi di natalità più bassi al mondo (in media, circa 1,24 figli per donna: un valore ben al di sotto del livello di sostituzione – 2,1 figli per donna – necessario per mantenere stabile la popolazione nel lungo termine) e una popolazione sempre più anziana: circa il 23% degli italiani hanno un’età pari o superiore ai 65 anni, cosa che ci colloca tra i paesi più anziani a livello globale;
  2. le esigenze del mercato del lavoro, per il quale – secondo alcune stime – l’Italia avrebbe bisogno di 200/300mila lavoratori immigrati all’anno, per coprire le carenze di manodopera in settori chiave come quelli ricordati sopra.

Domanda: supponendo di rimandare a casa tutti gli immigrati che, attualmente, lavorano da noi (per lo più sfruttati, senza diritti e senza tutele) e di chiudere le frontiere ai migranti, chi di noi sarebbe disposto a rinunciare al proprio lavoro e a dedicarsi, per il bene di tutti, a una vita di fatica, sfruttamento, povertà ed esclusione sociale?

Un popolo di migranti.
Non so se siamo mai stati davvero – come voleva la retorica fascista – un “popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di navigatori, di colonizzatori, di trasmigratori”. Una cosa, però, è certa: siamo stati e siamo ancora un popolo di migranti. Si stima, infatti, che, tra metà Ottocento e metà Novecento, tra 25 e 30 milioni di italiani siano emigrati all’estero: uno dei più grandi flussi migratori della storia moderna.

Le principali ondate migratorie sono state tre:
1861-1915: tra 9 e 14 milioni di italiani (circa il 31%-48% della popolazione media di quel periodo) lasciarono il Paese, dirigendosi verso l’America Latina (in particolare Argentina e Brasile), gli Stati Uniti e l’Europa;
1916-1945: tra 6 e 10 milioni di italiani (circa il 14,8%-24,7% della popolazione media di quel periodo) emigrarono negli Stati Uniti, in Europa e in Sud America;
1946-1960: tra 5 e 6 milioni di italiani (circa il 10,5%-12,6% della popolazione media di quel periodo) emigrarono verso l’Argentina, l’Australia, il Canada, il Venezuela e altri paesi europei.

Un pianeta di italiani.
Migranti produttivi. In tutti i sensi, visto che si calcola che, oggi, in giro per il mondo, ci siano tra i 60 e gli 80 milioni di persone di origine italiana. Un’Italia-figlia, persino più popolosa della sua madrepatria, che conta solo 59 milioni di figli.

Tra i 25 e i 30 milioni di questi nostri “cugini” e “nipoti” vivono in Brasile (10/15% della popolazione), tra i 20/25mln in Argentina (40%/50%), 17/18mln negli Stati Uniti (5/6%), 1/2 mln in Venezuela (3/7%), 1,5mln in Canada (4%), 1/1,5mlm in Francia (2/3%), 1,4 milioni Uruguay (40%), 1 mln in Australia (4%), 700mila in Germania (0,85%) e 500mila in Svizzera (6%).

Due domande:

  1. Se i suddetti Paesi adottassero politiche anti-stranieri/immigrati, e decidessero di liberarsi di tutta quella gente e rimandarla a casa sua, noi dove ce li metteremmo?
  2. Se tutti questi italiani di seconda/terza generazione decidessero – in base allo ius sanguinis, così caro ai nostri sovranisti/nazionalisti – di richiedere la cittadinanza italiana (la trasmissione della cittadinanza non ha un limite di generazioni) e trasferirsi da noi, come gestiremmo l’ingresso nel nostro Paese di milioni e milioni di migranti legali?

L’identità italica non esiste

Siamo sicuri che i tratti somatici di tutti questi italo-brasiliani/argentini/statunitensi/venezuelani/canadesi/francesi/uruguaiani/tedeschi/svizzeri rappresentino l’italianità?
Ma, soprattutto: cos’è questa fantomatica italianità?
Un fantasma, appunto, dal momento che non esiste alcuna “identità italica”. E non per chissà quale pregiudiziale ideologica, ma per la semplice ragione che la Storia ci dice che il nostro Paese è uno tra i melting pot più antichi e ricchi di “bio”-diversità di tutto il pianeta.

Sono davvero tanti, infatti, i popoli non italici che hanno contribuito a renderci quelli che siamo oggi. Impossibile non ricordare almeno i più importanti: Fenici (popolo semitico originario di una regione che corrisponde all’attuale Libano, con colonie che si estendevano in parte della Siria e lungo le coste del Mediterraneo), Greci, Celti (tribù indoeuropee emerse in una regione dell’Europa centrale che comprendeva le attuali Austria, Svizzera, Germania meridionale e Francia orientale), Goti (originari dell’attuale Svezia meridionale: si divisero in due rami: i Visigoti, che, dopo aver attraversato i Balcani, si stabilirono in Gallia [l’attuale Francia] e nella Penisola Iberica [Spagna e Portogallo] e gli Ostrogoti, che si stabilirono nelle regioni orientali dell’Europa, intorno al Mar Nero, in un’area che corrisponde all’attuale Ucraina, Moldavia e Romania, per poi migrare in Italia), Longobardi (originari dello Jutland, oggi parte della Danimarca, che migrarono attraverso la Germania settentrionale), Vandali (probabilmente originari anch’essi della Scandinavia o della penisola dello Jutland), Unni (provenienti dalle steppe dell’Asia centrale o dalla Mongolia), Normanni (Vichinghi originari di Norvegia, Danimarca e Svezia, che si stabilirono nella Normandia in Francia prima di espandersi in altre parti d’Europa), Arabi, Franchi, Spagnoli, Francesi e Austriaci.
Ci piaccia o no, dunque, nel nostro sangue c’è il sangue di tutte queste genti. Impossibile, quindi, parlare di italianità. A meno che non ci sia qualcuno in grado di stabilire quale percentuale di sangue “italianamente puro” (vale a dire non fenicio, greco, celtico, gotico, visigotico, ostrogotico, longobardo, vandalico, unno, normanno, arabo, franco, spagnolo, francese e austriaco) sia necessaria per potersi dire effettivamente italiani. Cinque per cento? Dieci? Quindici? Trenta? Cinquantuno per cento?
Non scherziamo, per favore. Possiamo anche continuare a ignorare – o fingere di ignorare tutto questo – ma al nostro patrimonio genetico non interessano le nostre credenze, convinzioni, elucubrazioni. Possiamo strillare quanto vogliamo, ma lui resta quello che è: il prodotto di millenni di incroci avvenuti in un Paese che, per la sua posizione geografica nel Mediterraneo, è stato, fin dall’antichità, un crocevia di grandi popoli, grandi culture, grandi commerci.

È scientificamente dimostrato, infatti, che il nostro DNA è un mosaico di influenze genetiche e culturali diverse e che noi italiani condividiamo marcatori genetici con popolazioni del Mediterraneo orientale, del Nord Africa, dell’Europa centrale e settentrionale, e del Medio Oriente. Le cose stanno così: accettarlo o no, non le cambia.

Lingua italiana?
Per tutto questo, neanche la lingua italiana è al 100% italiana. Il nostro alfabeto, ad esempio, ha origini fenicie (1200 a.C.), è stato poi modificato dai Greci (IX secolo a.C.), ha influenzato l’alfabeto degli Etruschi (che vivevano nell’Italia centrale, prima dell’ascesa di Roma) e, infine, è stato adottato dai Latini. Con l’espansione dell’Impero Romano, l’alfabeto latino si è diffuso in gran parte dell’Europa e in alcune parti dell’Africa e del Medio Oriente. Dopo la caduta dell’Impero Romano, l’alfabeto latino è rimasto in uso grazie alla Chiesa cattolica, che lo utilizzava (e ancora lo utilizza) per la scrittura dei testi religiosi, e si è evoluto nelle lingue romanze, tra cui l’italiano.

Per non parlare del nostro lessico, che ospita più di 23mila parole di origine straniera. Parole di uso così comune e frequente, che non sappiamo nemmeno che provengono da greco, inglese, francese, spagnolo, tedesco, arabo, russo, provenzale, giapponese, portoghese, turco, longobardo, ebraico, hindi, sanscrito, cinese e persiano. Cosa vogliamo fare? Bandire tutte queste parole dai nostri vocabolari e rinunciare a usarle, solo perché non presentano i caratteri dell’italianità?

Numeri italiani?
E cosa dovremmo fare, allora, dei numeri che utilizziamo, visto che provengono dall’antico sistema numerico indiano (primo/sesto secolo d.C.), successivamente adottato e perfezionato da studiosi arabi e persiani, i quali li diffusero nel mondo islamico e, attraverso di esso, in Europa?
Vogliamo rinunciare anche a loro?

Già che ci siamo, allora, perché non rinunciare anche ad aritmetica, algebra e geometria, visto che sono arrivate a noi dopo un processo di sviluppo millenario, che ha coinvolto civiltà decisamente non italiche come Sumeri, Babilonesi, Egizi, Greci, Arabi, Persiani e Indiani?

Città italiane?
E cosa vogliamo fare delle molte, importanti, città italiane fondate da popolazioni non italiane? Qualche esempio? Ancona, Catania, Messina, Napoli, Reggio Calabria, Siracusa, Taranto (Greci), Cagliari e Palermo (Fenici), Milano e Torino (Celti), Trieste (Illiri). Ma la lista, ovviamente, è molto più lunga di così. Potremmo sempre raderle al suolo, per farle ricostruire da veri italiani. Ma, oltre alla incommensurabile perdita di bellezza, arte, storia e cultura, e tralasciando questioni come tempi e costi, e il problema di dove ospitare gli oltre 5 milioni di persone che vivono in quelle città, la domanda è: siamo davvero sicuri che riusciremmo a trovare tutta la manodopera italiana di cui avremmo bisogno?

Nemmeno la cucina italiana è davvero italiana.

L’italianità non esiste nemmeno in cucina, visto che alcuni alimenti che consideriamo testimonial-simbolo della nostra cucina nel mondo non sono affatto italiani: pomodori e patate, ad esempio, originari, rispettivamente, del Messico/Perù e delle Ande; il riso, originario dell’Asia (Cina e India); il mais, anima della polenta, e il peperoncino, anch’essi originari delle Americhe; il basilico, originario dell’Asia tropicale (India, in particolare); la melanzana, originaria dell’Asia meridionale (probabilmente, India); lo zucchero, originario dell’Asia meridionale (India) e persino il caffè, originario dell’Etiopia, che si diffuse in Europa attraverso la penisola arabica e il mondo islamico.

Cosa vogliamo fare? Rinunciare a tutte queste meraviglie poiché non possono vantare natali italiani e alle mille prelibatezze che le nostre bisnonne, nonne e madri hanno creato, grazie ad esse? La nostra cucina, come la nostra identità, è uno straordinario mosaico di influenze ed è proprio questo che la rende unica e inimitabile.

Ha ragione Brandolini

Che dire? Ha ragione Brandolini: “La quantità di energia necessaria per confutare una stronzata è di un ordine di grandezza superiore a quella necessaria per produrla”. Infinitamente superiore, mi permetto di chiosare.

Lo dimostra il fatto che mi ci sono volute ben quattordici cartelle (e dubito fortemente che saranno sufficienti) per provare a spiegare i motivi principali per i quali l’identità – almeno così come concepita e propagandata dai tribuni della galassia identitaria – è un falso storico, una visione anacronistica e completamente impraticabile dell’esistenza. In una parola: una stronzata.
Il fatto che siano in molti – troppi – a darle credito, non significa affatto che essa lo meriti davvero. Non sempre, infatti, un grande successo è sinonimo di grande qualità. Anche Albano e Romina o Toto Cutugno – sia detto con rispetto – hanno venduto milioni di dischi. Questo, però, non li rende certo Elvis né i Beatles. E nemmeno ce li avvicina.
Spesso, il successo di un’idea non dipende dalla sua effettiva grandezza ma dalla piccolezza dei suoi estimatori. Per una formica, anche un bassotto è un gigante. E la Storia, purtroppo, è piena di folle che si sono lasciate sedurre da folli.

Nel solo Novecento, l’Europa ha vissuto sotto il giogo di ben 13 regimi totalitari, più o meno sanguinari, per complessivi 415 anni senza libertà, pace, diritti, democrazia. E, sebbene, i risultati disastrosi e tragici di quelle esperienze siano sotto gli occhi di tutti, certe parole d’ordine continuano ad affascinare legioni di stolti, ignari e creduloni.
Come si spiega? Onestamente, non lo so. E la Storia, ahimè, dimostra che non esiste una ricetta che consenta di liberarsi, una volta per tutte, delle menti tiranniche, oppressive, spietate e sanguinarie che hanno ridotto in cenere Europa, Asia Orientale e Sudorientale, Nord Africa e Pacifico, prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Quello che so è che, rispetto al “secolo breve”, la situazione, oggi, è ancora più critica, a causa di un nefasto allineamento di pianeti: genitori inesistenti, scuole e università che sono l’ombra di quelle della seconda metà del Novecento, più di quarant’anni di tv spazzatura, un’informazione, ormai, ridotta a propaganda e gossip di bassa lega e all’incontenibile strapotere di Internet e dei social media.

A proposito di questi ultimi aveva ragione da vendere Umberto Eco, quando osservava che hanno dato «diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli». «Il dramma di Internet – aggiungeva Eco – è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità».
È vero: siamo in balia degli scemi del villaggio. Ed è un vero dramma. Anche perché il villaggio è ben felice di questo stato di cose, dal momento che si identifica – appunto – negli “scemi” e si sente confortato nella propria mediocrità. Mal comune…

Al pari degli indifferenti, odio gli “identici”, perché, uccidendo le differenze, uccidono la verità. E, con essa, la libertà. E, con la libertà, il senso e il valore stesso dell’esistere.
Chiudo parafrasando un sublime incipit tolstoiano: “Tutte le persone intelligenti, sono intelligenti a modo loro; tutti gli stupidi si somigliano”.
E quella tra gli stupidi non è solamente l’identità più diffusa ma è di gran lunga la più pericolosa che esista in Natura. Come ammoniva l’immenso Dietrich Bonhoeffer, infatti, «Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con la forza […]. Ma contro la stupidità non abbiamo difese. Qui non si può ottenere nulla, né
con proteste, né con la forza; le motivazioni non servono a niente».

Cerchiamo di non dimenticarlo.

Questa coppia di concetti è inscindibile, a partire dalla coincidentia oppositorum eraclitea che vede l’unità e identità degli opposti. Per la psicoanalisi l’Io prende la forma dall’Es indistinto, nel suo processo di formazione attraverso il Super-Io, il censore, il moralizzatore che rappresenta l’altro generalizzato. Ma l’Io è essenzialmente memoria, un filo che collega le esperienze nel tempo, per cui fragile e mutevole.
Oggi l’identità, in gran voga nella politica, è un termine molto abusato, che chiama in causa modo anacronistico l’”identitario”: la nazione, l’etnia, il suolo di nascita, la religione, il colore della pelle e così via. Anacronistico perché a tre secoli circa dalla Rivoluzione Francese, sembravano acquisiti gli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza che si accompagnavano ad un certo cosmopolitismo.
Anche il filosofo Kant, di cui celebriamo quest’anno i 300 anni dalla sua nascita, da buon illuminista richiama nella sua opera “Per la pace perpetua” (1795), oltre che la forma repubblicana, un diritto internazionale basato su un federalismo di Stati la cui libertà è garantita dal non intervento
di altri Stati esterni.

Arriviamo al nostro Mazzini, figura semi-dimenticata, oggetto di un recente revival della destra, che da sempre cerca di appropriarsene in malo modo, mistificando il suo messaggio patriottico in nazionalistico. Come ha ben spiegato Maurizio Viroli (Nazionalisti e Patrioti. Editori Laterza, 2019), filosofo e storico alla Princeton University, il primo si richiama valori repubblicani di tipo etico-politico difendendo i legittimi interessi dei cittadini ma elevandoli agli ideali del convivere libero e civile, l’altro si richiama a valori omogenei etnico-culturali legati a vincoli di sangue (si vedano le recenti diatribe tra Ius sanguinis, Ius solis e Ius culturae), a una visione contrapposta “noi-loro” che vuole generare sentimenti di distinzione e superiorità.

La società del rischio ha portato incertezze, paure, smarrimento, sentimenti su cui prosperano le destre in tutta Europa e nel mondo, portatrici di supposti messaggi securitari che passano attraverso la difesa dell’identità (non a caso abbiamo più volte ascoltato il refrain della “sostituzione etnica”).
Le conseguenze sono autocrazie, chiusure degli stati in sé stessi, che tendono a negare diritti civili e conquiste che sembravano acquisite per sempre, nazionalismi e guerre fratricide (basti pensare agli attuali conflitti che si stanno allargando in modo incontrollato.)

Venendo alla società liquida, teorizzata da Baumann, che vede non solo le relazioni ma anche un Io sempre più liquido, esasperatosi con i social media, si è affermata in modo estensivo la messa in scena di sé. Possiamo definirci attraverso i profili con identità multiple, in grado di rappresentarci secondo quello che desidereremmo essere o, come vorremo essere visti dagli altri, il che acuisce quel processo di diffrazione dell’Io e di dissociazione esistenziale quale fenomeno già in atto da tempo con l’avvento della post-modernità.
Emblematico in tal senso il Pirandello di Uno, nessuno e centomila con la cessazione da parte del personaggio principale dei contrasti tra l’Io ed il mondo e la “rinuncia” a quest’ultimo.
Alla liberazione dell’Io moderno e a queste sue forme, riconducibili anche alla condizione umana, resta in tutta la sua problematicità la ricerca dell’Opera della street artist Laika, dal titolo “Italianità” autenticità e di un rinnovato rapporto con il mondo che non può non passare per la veridicità delle relazioni con l’Altro ma, soprattutto, attraverso il suo riconoscimento. È la relazione che cura le lacerazioni della contemporaneità e sviluppa in modo armonioso l’identità.

Quello che dai te lo dai, quello che non dai te lo togli” Alejandro Jodorowsky

Giovedì 19 settembre, in occasione di Ouverture 2024 di TAG Torino Art Galleries, e venerdì 20 e sabato 21 in adesione a Exhibi.To, Ferdi Giardini ha inaugurato, negli spazi della Galleria Riccardo Costantini Contemporary, la sua ultima mostra “Altre voci, altre stanze”.
Nei lavori in esposizione, installazioni e sculture luminose, Ferdi Giardini trasforma materiali come plexiglass, cartoncino, alluminio e LED, in opere
d’arte che sollecitano la nostra percezione.

Ferdi Giardini non è solo uno scultore, un designer, un artista, la sua figura ricorda antichi personaggi dal profondo sentire e dal ruolo fondamentale, alchimisti, stregoni, “allenatori di anime”, precettori. La capacità di trasformare elementi comuni in originali creazioni luminose è la caratteristica principale della sua pratica artistica: ogni materiale scelto porta con sé una storia, una possibilità di metamorfosi che esplora con personale innovazione. Sperimentare costantemente la creatività, inventare, cambiare, modificare, aggiungere, togliere, staccare, fare a pezzi, ricostruire, ma comunque tutto sempre e solo al servizio della ricerca di armonia e di gusto per trasmettere emozioni positive.

“Vivo di sensazioni e percezioni, le traduco in ogni mia creazione, dalle sculture alle lampade, agli ornamenti, in ogni oggetto
c’è l’emergenza di assecondare una esperienza profonda che mi dice che conoscendo l’anima dei materiali, i loro modi di rapportarsi agli agenti meccanici e fisici (luce, colore, forze e resistenze) si possono creare oggetti utilizzando al meglio le caratteristiche dei materiali stessi nella loro espressione concreta” – Ferdi Giardini.
Nelle opere in mostra, il plexiglass diventa un prisma di luce. Le sculture, così realizzate, la catturano e riflettono, dando vita a giochi di trasparenze e colori che mutano a seconda dell’angolazione e dell’’intensità della luce stessa. Ferdi Giardini ha generato i propri lavori pensando anche a una loro duplice fruibilità: le opere vivono infatti con un proprio raffinato carattere anche se spente.

L’alluminio, con il suo fascino industriale, è modellato in forme fluide e dinamiche.
Le superfici metalliche, o in plexiglass quando l’alluminio ne è di supporto, riflettono la luce LED in un caleidoscopio luminoso, creando un contrasto tra la freddezza del metallo e il calore della luce. I LED, riuscendo a variare in intensità, permettono all’artista di giocare con la luce, trasformando ogni lavoro in un’opera viva e mutevole.
Le sculture di Ferdi Giardini non solo catturano l’occhio, ma invitano il visitatore a esplorare le interazioni tra luce, materia, forma e falsa prospettiva. Ogni passo rivela una nuova sfumatura di colore, un nuovo gioco di ombre e luci. Sono più che semplici sculture luminose, sono meditazioni sulla trasformazione e la rinascita.
Attraverso la sua arte, Ferdi Giardini ci invita a vedere il potenziale nascosto nei materiali quotidiani, a riconoscere la bellezza nella semplicità e a celebrare l’infinita possibilità di trasformazione della luce e della materia.

La luce è vita. La luce è il sole che ho dentro, che fa chiarezza, che non permette incomprensioni o equivoci, concede ombre, come è nella sua natura, ma non oscure, esse sono sempre il riflesso dell’essere presente e vivo.
La mia luce vuole chiarezza, autenticità, originalità e paradossi simpatici, non concede spazio a falsità, ipocrisie e subdole energie, la mia luce non è manipolatoria, è semplice e pura, quanto più vicina alla cromaticità del sole, che fa bene, che da il bene e ti accompagna con “attenzione” e non con “preoccupazione”
.
Sostanziale la differenza!
La mia luce è quella pura, viva dei quadri di Caravaggio, a volte cruda ma vera e perfetta.
Caravaggio riusciva a dare quella inconfondibile drammaticità e schietta luce sui corpi, sui drappeggi, grazie ad un banale espediente: il suo studio era tutto dipinto di nero, con una sola fonte di luce, in un lato della stanza. A volte era una finestra, quindi con la luce del sole se di giorno; se di notte era una quantità smisurata di candele per illuminare i suoi modelli, sempre solo da un lato: la luce, nessun’altra interferenza.

La luce mette in chiaro ed io adoro le persone chiare e schiette, mi annoiano le persone che si truccano per nascondere nell’ombra i lati oscuri, offendono in questo modo la luce dell’anima loro e degli altri.
I miei clienti, i miei amici dopo aver installato le mie creazioni mi dicono “Ferdi, ci hai portato la luce, finalmente!”, come un profeta? Un guru? Un messia? Ma no, quello che faccio è semplice, faccio incontrare le mie conoscenze e i miei piaceri con i desideri di chi cerca le mie opere.
Il colore poi mi fa letteralmente impazzire, io sono coloratissimo, io sento il colore come sento l’aria, il vento, il profumo, lo devo portare indosso, lo devo comunicare, devo essere contagioso” – Ferdi Giardini
Ferdi Giardini interpreta la realtà ma anche il mondo del possibile, dell’immaginario, dell’ipotetico, con le proprie risorse personali e con la sua identità di creatore, prova a risolvere a modo suo i problemi, “deve riordinare il caos di forme in cui si è espressa la vita nel passato in qualcosa di nuovo” come diceva Adriano Tilgher.

Identità, dunque, come coscienza di sé e della responsabilità del proprio agire, del messaggio comunicato attraverso opere nate da una precisa consapevolezza di ciò di cui si vuole rendere partecipe l’altro. Identità come scopo, come realizzazione, come obiettivo, come progettualità dell’io d’artista al servizio dell’osservatore, dello studioso, del pubblico nella sua più vasta e meravigliosa variabilità. Le opere di Ferdi Giardini hanno una identità gigantesca e straordinariamente individuabile in qualsiasi contesto, con qualsiasi luce e dietro qualunque tipo di colorazione o materiale o forma. La magia di Ferdi Giardini è unica ed inconfondibile, moderna, eccentrica, bizzarra, stravagante ed elegante, raffinata ma mai ostentata, quasi semplice ed essenziale. La riconosci e diventa irrinunciabile per sempre.

Biografia dell’artista
Ferdi Giardini nasce a Torino nel 1959, frequenta e si diploma l’Accademia di Belle Arti del corso di Scenografia, di Torino, lavora nel mondo del teatro per circa cinque anni, contemporaneamente agli ultimi due anni di teatro, affianca la ricerca artistica. Incomincia a dipingere e a realizzare grandi installazioni, realizzate in diversi e inconsueti materiali, re-inventati e trasformati come un alchimista. Iniziano negli anni ottanta le prime mostre in Italia e all’estero, abbandona definitivamente il teatro, e affianca un altro interesse, crea corsi di formazione per i Comuni e gli Istituti Scolastici, rivolti sia agli insegnanti, che agli studenti.

Inizia negli anni novanta ad occuparsi di prodotti in serie, argomento diametralmente opposto al prodotto unico e irripetibile del mondo dell’arte! Una sfida con se stesso, che dopo alcune “invenzioni” realizzate in produzione limitata, hanno il suo apice, quando firma il primo contratto con l’Azienda di illuminazione: LUCEPLAN, nel 1998, inventando e costruendo il ventilatore da soffitto: “Blow”, venduto ancora oggi a distanza di decine d’anni in tutto il mondo. 
Seguirà la lampada “Teda” 2001 in tre versioni: parete, esterno, tavolo, e la lampada, “Voilà” 2015, da parete, per l’azienda OLUCE, il tavolo luminoso “Bancorè” 2007, la lampada da soffitto “Splash” 2007, e la lampada da soffitto “Echinos” 2007, per la ditta ILTILUCE. 
Dal 2004 al 2011, ha la cattedra presso il Politecnico di Torino per il corso di Disegno industriale della Facoltà di Architettura.
Attualmente continua la sua curiosità-ricerca nel campo del design, in quello artistico, e in quello didattico, partecipando a dibattiti, conferenze, mostre personali e collettive. Le ultime due mostre personali in ordine di tempo, sono state realizzate per la galleria  Riccardo Costantini di Torino, e una retrospettiva con i lavori di “finto metallo” degli anni ottanta, per la galleria di Davide Paludetto. Nel 2020 realizza per la ditta Rimani di Torino, l’illuminazione della hall di ingresso e per la sala riunioni. Dal 2021 insegna all’Accademia di Belle Arti di Sanremo le materie: Design e Eco Design.

Informazioni sulla mostra:
Artista: ​​Ferdi Giardini
Titolo: ​​Altre voci altre stanze
Sede: ​​​via Goito, 8 – Torino
Date: ​​​19 settembre – 19 ottobre 2024
Orari: ​​​da martedì a sabato ore 11.00 | 13.00 – 15.00 | 19.30
Lunedì e domenica chiuso.
Informazioni: ​Riccardo Costantini Contemporary
t. +39 011 19226893 | +39 348 6703677
​ info@rccontemporary.it

“Sii te stesso; tutti gli altri sono già occupati.”

Suona frivolo e leggero, ma al suo interno questo aforisma di Oscar Wilde (e chi altri avrebbe potuto scriverlo..?) ha in sé un certo carico di profondità. Perché non c’è altro modo per essere vivi, se non essere autentici. Ma cosa significa davvero? La ricerca dell’identità è un viaggio antico quanto l’umanità stessa, e in effetti pensatori e filosofi di ogni epoca, fin dall’antichità si sono confrontati con il quesito: chi siamo davvero?
Ecco vorrei scrivere un articolo sull’identità e sulla maschera e per questo invocherò Socrate e Oscar Wilde.
Wilde, con il suo usuale sarcasmo, sosteneva che “La maschera che porti mostra più verità di quanto credi.” E se non pensiamo ad una maschera di cartone, questo pensiero si riflette sulla visione che sosteneva Socrate, che con il suo famoso motto “Conosci te stesso”, spingeva gli individui a guardare oltre le apparenze e a interrogarsi sulla propria natura. La maschera è parte del gioco dell’identità, mentre per Socrate la ricerca interiore, con il suo rigoroso processo, sosteneva che ve ne fosse una sola di identità per il proprio “Io”.

Le maschere che scegliamo di indossare fanno parte di chi siamo, o sono solo strumenti di sopravvivenza sociale?

Identità fluida e cambiamento: Eraclito e il mondo moderno
Eraclito, il filosofo del divenire, ci ricorda che “Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume”: l’identità non è statica. Le nostre identità si evolvono con le esperienze, con ciò che consumiamo sui social media, con i cambiamenti di lavoro, di relazione, di ambiente.

La comicità dell’identità: ridere di se stessi
“Non sono felice di essere chi sono, ma sono anche troppo pigro per essere qualcun altro.” così George Carlin vede l’inerzia che abbiamo rispetto al nostro cambiamento: un processo faticoso che a volte cerchiamo di evitare per rifugiarci nelle nostre certezze, nelle abitudini, nelle cose, negli oggetti, negli spazi, nei tempi nei quali sentiamo il nostro essere, che lo definiscono. L’identità come “cosa” delimitata dai nostri limiti, come da confini.

L’identità digitale: il nuovo Sé
Su ogni social network, nel mondo di internet, sui siti, sulle app, la nostra identità online è spesso una versione filtrata (quando non proprio edulcorata) di noi stessi. Wilde, se fosse vissuto oggi, probabilmente avrebbe commentato qualcosa del tipo: “Non si può uscire di casa senza sé stessi e senza il sé per i propri follower.” come fosse un bastone da passeggio da dandy.

Forse la lezione finale la possiamo trarre da Wilde stesso: “La vita è troppo importante per essere presa sul serio.”
E così è anche per l’identità.
Sta a noi trovare il giusto equilibrio tra profondità e leggerezza, tra maschera e autenticità, in un viaggio che, dopotutto, ha solo una destinazione.

Contrariamente a quanto, comunemente, pensiamo, i totalitarismi non nascono mai dalla follia sanguinaria di un leader. Nascono sempre dal
servilismo del primo lacchè di quel leader.
E non ha alcuna importanza stabilire cosa determini quella prima, irredimibile, genuflessione: codardia, paura, credulità, stupidità, interesse personale o desiderio di rivalsa/vendetta nei confronti del resto del mondo.

Solo una cosa importa: riflettere sul fatto che, senza lo zerbinarsi di quel primo lacchè, nessun leader diventerebbe mai tale. E, di conseguenza, nessun autoritarismo nascerebbe mai.

Scusate se è poco.
Leader, infatti, significa “guida”, “comandante”, “capo”. È del tutto evidente, quindi, che, senza nessuno da guidare, nessuno da comandare, nessuno a capo del quale mettersi, non può esistere alcun “leader”. E, dunque, nessuna leadership.

Per usare una terminologia social: senza un primo “follower” non può esistere alcun “influencer”. Game over.

Anche se nessuno ci pensa mai, è proprio questo il punto nodale della questione: così come non può esserci un pastore senza pecore o un esercito senza soldati, non può esserci nemmeno un regime senza lacchè. Anche perché, per quanto violento e ben armato possa essere, quanti uomini è in grado di eliminare un uomo solo, prima di essere sopraffatto dalla reazione della moltitudine che gli si oppone?

Per dirla con parole assai più illuminate delle mie (Étienne de La Boétie: “Discorso sulla servitù volontaria”, 1576), il tiranno non ha altra forza che quella che gli uomini gli danno e «ha il potere di danneggiarli unicamente in quanto essi vogliono sopportarlo, che non potrebbe far loro alcun male, se essi non preferissero subirlo, invece di contrastarlo». «Son dunque gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smetter di servire, sarebbero liberi». «È il popolo – dunque – che acconsente al suo male o addirittura lo provoca». Il che dimostra che «la libertà non viene affatto desiderata, per la buona ragione che, se gli uomini la desiderassero, l’otterrebbero».

Aveva ragione il Grande inquisitore dostoevskijano: «Non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura».

Da tutto questo consegue che: se, nell’istante nel quale, nelle folli menti di Mussolini, Hitler, Stalin, Pinochet, Videla o Pol Pot (solo per citare i primi nomi che mi sono venuti in mente) prendeva forma l’idea di trascinare il mondo nell’abisso, accanto a quei sei personaggi in cerca di orrore, ci fosse stato qualcuno in grado di assestare loro un vigoroso e, ovviamente, risolutivo “calcio nel culo” (metaforicamente parlando, s’intende), nessuno dei suddetti signori sarebbe mai riuscito a realizzare il suo folle progetto criminale e il mondo si sarebbe risparmiato decenni di persecuzioni, massacri, torture, lutti e orrori indicibili.
Del resto, qualunque incendio – persino il più devastante che possa deturpare il volto del nostro infelice pianeta – nasce sempre da una prima, minuscola, scintilla.

Per spegnere quella prima scintilla, può essere sufficiente persino un semplice sputo. Per domare un “incendio” delle proporzioni – ad esempio – di una Seconda Guerra Mondiale ci sono voluti, invece, sei interminabili, drammatici anni, e tra i 70 e gli 85 milioni di morti, in gran parte civili (50-55 milioni).

Permettetemi, allora, una domanda: secondo voi, uno sputo e un vigoroso e risolutivo “calcio nel culo” valgono o no sei anni di guerra mondiale e decine di milioni di morti?
Supponiamo che avesse davvero ragione Raskol’nikov (il giovane omicida protagonista di “Delitto e castigo”) e che, in virtù della loro superiorità, alcune persone abbiano il dovere di oltrepassare la legge morale (Raskol’nikov parla, esplicitamente, di “diritto al delitto”), per realizzare la «distruzione del presente in nome del meglio», non credete che – esattamente per quella stessa ragione – chiunque di noi si trovasse accanto a una mente folle, nell’istante nel quale al suo interno scoppia la scintilla dell’orrore, avrebbe il dovere, di soffocare, sul nascere, quella scintilla e fare di tutto per mettere quel folle in condizione di non nuocere?

Perché è così importante capire che, quella del primo lacchè, è la responsabilità più grande di tutte? Perché è così importante sottolineare che è il lacchè, e non il folle, il vero responsabile dello scoppiare di quegli incendi che, per anni – decenni, a volte – mandano in fumo milioni e milioni di chilometri quadrati di libertà, diritti, pace e democrazia?
Perché la tentazione di farsi zerbino può cogliere chiunque di noi, in qualunque momento.

Nessun essere umano ne è immune.
E nessuno di noi può avere la certezza assoluta di non cedere alla paura o alle lusinghe del potere. Vere o false che siano.

Aveva ragione da vendere, allora, Ettore Petrolini – “insuperabile interprete della beffarda anima romanesca” [Treccani] – quando, a teatro, si rivolse a un signore che, fischiando, aveva interrotto la sua recitazione: “Io non ce l’ho con te – disse – ma con quelli che ti stanno vicino e non ti hanno ancora buttato di sotto!”.

Riflettiamo, dunque, sul fatto che, se ciascuno di noi si rifiuterà di genuflettersi per primo, nessuno si genufletterà.
E, se nessuno, si genufletterà, il generale Follia si ritroverà senza esercito e l’unica cosa che riuscirà a mettere a ferro e fuoco sarà il suo putrido, livoroso e velenoso fegato.

“Il guaio è che gli uomini studiano come allungare la vita, quando invece bisognerebbe allargarla.” Penso a questa frase di Luciano De Crescenzo quando inizio a leggere le esperienze di Guendalina Stabile.

Dopo essersi laureata all’Università Luiss di Roma, con un percorso che ha combinato studi in Impresa e Management e una specializzazione in Marketing, ha scelto di seguire la propria passione per i viaggi e la comunicazione digitale.
Nel 2018, con grande determinazione, ha creato un progetto che unisce queste due dimensioni, trasformando il suo interesse in una carriera freelance. Oggi è una professionista del Content Creation e della Comunicazione Digitale, lavorando su blog e canali social che raccontano storie di viaggio, e supportando brand e individui attraverso consulenze mirate a migliorare le loro strategie online e offline. Ha saputo creare una community appassionata e un lavoro che riflette a pieno la sua identità e i suoi valori.

Si definisce una “Libera Viaggiatrice” che ha come centro del suo modo di agire l’ottimismo, nella passione e nella libertà. Inizio a porle alcune domande proprio con la sensazione che mi condurrà alla scoperta del suo mondo interiore, così come, seguendola sui social network conduce nei vari angoli del mondo.

Il tuo progetto di Content Creation e Comunicazione Digitale è iniziato nel 2018. Cosa ti ha spinto a lasciare il percorso tradizionale post-laurea e creare qualcosa di tuo, coniugando passione e lavoro?

Nel 2017 ho concluso il mio percorso di laurea magistrale in economia e marketing ed ho subito cominciato a lavorare in una grande azienda nel settore del marketing. Il blog e la relativa pagina Instagram sono nati proprio nel 2018 come hobby mentre svolgevo il mio lavoro principale. Ho sempre avuto un grande amore per i viaggi sin da bambina, trasmesso in primis dalla mia famiglia che mi ha sempre portato in viaggio con sé intorno al mondo. Mi ha inoltre sempre entusiasmato scattare foto e scrivere dei miei viaggi e quindi un progetto online che coniugasse i social e la mia formazione di marketing, le foto e la scrittura di viaggio è entrato in modo del tutto naturale nella mia vita.

Il progetto “eleutha” è cominciato quindi come attività parallela al mio lavoro e piano piano ha preso sempre più spazio fin quando è diventato nel 2022 il mio lavoro principale. E’ stato un lungo percorso sicuramente mosso dalla volontà di trasformare la mia passione nel mio lavoro. Purtroppo non mi rispecchiavo nella vita d’ufficio che stavo conducendo e questo ha sicuramente alimentato il mio desiderio di cercare una vita che mi desse più libertà e che mi soddisfacesse appieno. Oggi sono davvero felice della mia scelta.

Viaggiare è una parte centrale del tuo progetto. Come sono cambiate le tue esperienze di viaggio da quando hai iniziato a crearne contenuti per il tuo blog e i canali social? Hai notato un impatto sul modo in cui ti relazioni con i luoghi e le persone che incontri?

Il mio progetto online ha sicuramente inciso sul modo che ho di rapportarmi ad un viaggio perché ad oggi non è più solo vacanza ma a tutti gli effetti anche lavoro. Anche quando non sono in viaggio appositamente per creare contenuti per un brand o una struttura ricettiva ma solo per il mio piacere personale, ho comunque il pensiero di creare contenuti autentici ed interessanti per la mia community. Quando la passione diventa lavoro si finisce per lavorare sempre e non lavorare mai allo stesso tempo. Ad esempio uno dei miei ultimi viaggi che non aveva nulla a che fare con collaborazioni di lavoro è stato l’on the road nell’ovest degli Stati Uniti che la mia migliore amica ed io ci siamo regalate per i nostri 30 anni. Non avevo nessun obbligo di creare contenuti ma quei paesaggi mozzafiato e le atmosfere da film mi hanno ispirato tanti contenuti foto – video che hanno raccontato la nostra avventura e che sono stati apprezzatissimi dalla mia community di viaggiatori. Quando invece sono in viaggio appositamente per creare contenuti è a tutti gli effetti lavoro con impegni, scadenze, un programma da seguire ed obiettivi da raggiungere in cui però cerco sempre di vivere appieno momenti e destinazioni. La linea che separa lavoro e vita personale è molto difficile da mantenere ma faccio sempre tutto con grande entusiasmo e gratitudine per riuscire a lavorare facendo quello che amo. 

Oltre a creare contenuti di viaggio, offri consulenze di marketing. Come riesci a bilanciare il lato creativo con quello strategico e consulenziale? E come questi due aspetti si influenzano a vicenda?

Il marketing mi ha sempre appassionato ed ha sempre fatto parte della mia vita a partire dagli anni dell’università. In fondo con il tempo due strade che sembravano così distanti come quella del creator online e del professionista nel campo del marketing si sono rivelate più vicine del previsto. L’online marketing, l’influencer marketing e la creator economy sono tutte facce dello stesso dado. Un momento in cui me ne sono davvero resa conto è stato in Thailandia. Partecipavo ad un viaggio stampa con l’ente del turismo ed un pomeriggio è stata organizzata una riunione tra giornalisti, creator, imprenditori di attività locali ed i rappresentanti dell’ente Thailandese. Abbiamo discusso di destination marketing quindi di targeting e segmentazione del mercato, di strategie di comunicazione, punti di differenziazione e di online marketing. Quel pomeriggio ho potuto dare il mio contributo sia come creator che come professionista di marketing e ricordo di aver pensato che si fosse davvero chiuso un cerchio e che tutto il mio percorso, per quanto insolito, avesse avuto un senso.

Lavorare come freelance in ambito digitale richiede una continua innovazione. Come ti mantieni aggiornata sulle nuove tendenze nel mondo della comunicazione digitale e quali strumenti trovi più utili per migliorare la tua strategia?

La mia e quella dei miei colleghi è una professione in continuo cambiamento e che sono consapevole continuerà a cambiare nel corso degli anni. Dovremo essere bravi a cambiare col mercato. Personalmente cerco di rimanere sempre aggiornata attraverso podcast o conferenze ma soprattutto essendo sempre presente sulle piattaforme e confrontandomi con colleghi italiani ed internazionali. Essere presente ogni giorno è l’unico modo per rimanere aggiornati in un mondo in divenire.

I social media sono una grande parte del tuo lavoro. Qual è la tua filosofia personale quando si tratta di creare contenuti per la tua community? C’è un messaggio o un valore che cerchi sempre di trasmettere?

Cerco sempre di conoscere e condividere i luoghi del mondo in modo rispettoso e consapevole e di ispirare chi è seduto dall’altra parte dello schermo a fare altrettanto. Amo condividere luoghi ed esperienze autentiche e particolari, senza dimenticare di lasciare ai viaggiatori informazioni utili per poter replicare tali esperienze. Credo nell’ottimismo e nella positività che cerco sempre di trasmettere nelle mie interazioni online ed offline. Credo nel presentare i posti del mondo attraverso le loro bellezze naturali, la loro cultura, storia ed arte senza per forza cercare sensazionalismi come spesso si vede, ma piuttosto lasciando a volte spazio alla riflessione personale ed pensiero critico. Quando ho raccontato delle terribili condizioni di lavoro della grande miniera d’argento di Potosì in Bolivia, della storia di rinascita delle favelas Colombiane o fatto riflessioni sulle  attuali condizioni di vita dei nativi americani nelle riserve, sulla povertà di Cuba o sulla bomba atomica di Hiroshima senza dubbio non ho ottenuto grandi numeri in termini di views ed interazioni, come avrebbero attirato contenuti più leggeri, ma mi è sembrato doveroso condividere per onestà intellettuale e per cercare di raccontare davvero, con pensiero critico, un viaggio ed una destinazione.

Quanto credi che le esperienze di viaggio abbiano contribuito a modellare la tua identità? In che modo i luoghi che visiti e le persone che incontri influenzano il modo in cui vedi te stessa e il mondo?

Moltissimo. Sicuramente senza le mie esperienze di viaggio sarei una persona differente. Da ogni viaggio si torna cambiati ed arricchiti. Non solo si portano a casa le meraviglie viste ma anche le riflessioni fatte, le storie delle persone incontrate e tutto ciò che si è imparato di nuovo, da una nuova lingua ad una nuova ricetta, da una nuova tradizione  a nuove possibilità di vita. Viaggiare mi ha fatto capire più di ogni altra cosa quanto il nostro sia solo un modo di vivere di tanti e che più si allarga il proprio orizzonte più si comprenda come le possibilità siano infinite. Ho dormito a casa di una famiglia che vive su una delle isole galleggianti del Lago Titicaca in Perù,  ho conosciuto un pescatore nato, cresciuto e vissuto sempre sullo stesso piccolo atollo indonesiano, ho immaginato come potrebbe essere la mia vita se decidessi di trasferirmi a Rio de Janeiro o nel nord della Norvegia. Miliardi di possibilità, luoghi e stili di vita differenti che anche se non scegli osservi ed interiorizzi e contribuiscono come tanti mattoncini a formare la persona che sei ed a forgiare ciò in cui credi.

IN USCITA IL 7 NOVEMBRE IL FILM “IL RAGAZZO DAI PANTALONI ROSA” tratto dal libro di Teresa Manes. La vera storia di Andrea Spezzacatena “ucciso dal silenzio” il 20 novembre 2012.

Fu il primo caso in Italia di cyberbullismo che portò al suicidio un ragazzo minorenne.
Andrea Spezzacatena aveva appena 15 anni. “La verità resta che il suicidio di un adolescente sottolinea il fallimento dii una società”. Sono queste le parole di una madre Teresa Manes, che ha perso suo figlio. Andrea si è impiccato il 20 novembre del 2012 nella sua casa di Roma. Andrea oltre il pantalone rosa è il libro pubblicato dalla madre, il racconto doloroso, straziante, la ricostruzione di quegli attimi, la difesa di chi non poteva difendersi, il tentativo di comprendere e di aiutarsi, la speranza che questo possa non accadere mai più.
Da quel momento Teresa promuove dinamicamente, anche attraverso canali mediatici nazionali, campagne di prevenzione e contrasto del fenomeno del bullismo e del disagio giovanile. Il 27 dicembre 2021 per questo suo impegno profuso a favore dei giovani, è stata insignita dell’onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana.

Aveva 15 anni e 6 giorni quando si è impiccato – scrive Teresa Manes “Quando un figlio si suicida vieni ingoiato da una valanga di sensi di colpa. Sono andata da una psicologa per circa un anno, con tre sedute di 150 minuti cadauna a settimana. Ho fatto un lavoro di introspezione cosi profondo da levarmi l’anima per vedere di cosa era fatta. Non avevo ascoltato la sua sofferenza. Non avevo visto la sua solitudine.“….imperfetta, indubbia come donna mi piacevo come mamma…
Poi scoprii l’esistenza di una pagina facebook dove veniva etichettato come “il ragazzo dai pantaloni rosa” che aprì lo scenario del bullismo. Anzi de cyberbullismo.
Solo che i like su quella pagina erano solo 27, troppo pochi per essere considerati come influenti e determinanti per una scelta tanto estrema.
Non si è tenuto conto però che quel numero poteva essere rappresentativo di un gruppo classe, ad esempio. “Se ti metti lo smalto non puoi non aspettarti la presa in giro” disse davanti al giudice del tribunale ordinario, un avvocato difensore di uno degli insegnanti indagati (mio figlio si laccava le unghie nell’ultimo mese di vita). Mi venne in mente il caso della donna a cui venne negato di essere riconosciuta vittima di stupro perché indossava un jeans attillato quando fu aggredita”.

Al liceo Cavour di Roma lo chiamavano “il ragazzo dai pantaloni rosa” perché Teresa, la mamma, aveva erroneamente scolorito con la candeggina un paio di pantaloni rossi, che Andrea aveva comunque scelto di continuare a mettere nonostante fossero diventati rosa. I suoi compagni di scuola lo chiamavano anche in tanti altri modi, con crudeltà e ferocia, non credo affatto inconsapevoli di tutto ciò che stavano causando. Umiliato in rete costantemente fino al giorno del tragico evento.
Dopo il suicidio la magistratura, a seguito di due anni di ricerche, indagini ed interrogatori, negò si trattasse di un caso di bullismo e omofobia. Indirizzarono la loro attenzione sulla separazione dei genitori o un amore non corrisposto o su altro.

Dal libro di Teresa Manes è nato il film “Il ragazzo dai pantaloni rosa” (Eagle pictures e Weekend films, regia di Margherita Ferri, soggetto e sceneggiatura di Roberto Proia) che sarà nelle sale dal 7 novembre, il trailer del film a luglio ha avuto in 5 minuti oltre un milione di visualizzazioni, “segno evidente che di un film così se ne sentiva il bisogno. Servirà a far aprire gli occhi, spero anche i cuori”, scrive Teresa sulla sua pagina Facebook. Nel cast Claudia Pandolfi, Samuele Carrino, Andrea Arru, Sara Ciocca, Corrado Fortuna. Presentato al Giffoni Film Festival 2024 il film ha suscitato fortissime emozioni già dalle prime immagini accompagnate dalla canzone “Canta ancora” di Arisa. “E’ stato complesso trasformare questa storia in un film” racconta Roberto Proia “ho sentito forte la responsabilità che tutto questo comportava. Volevamo essere fedeli alla storia e non giudicanti, non raccontare i buoni ed i cattivi. Volevamo riuscire a comunicare con tutti, non solo ai bulli. Far capire che le parole possono suscitare reazioni diverse a seconda di chi le accoglie.
Per entrare nel mondo di Andrea era necessario che Teresa ci aprisse il suo cuore. E’ stato un viaggio complesso, a tappe, abbiamo riso e pianto, e siamo entrati nella mente di Andrea”. “Non esiste solo il bullo manifesto che attacca in modo esplicito e visibile” spiega l’attrice Claudia Pandolfi che nel film interpreta la madre di Andrea “quanti di noi sarebbero in grado di difendere chi viene attaccato? Quando si crea il clima cameratesco nel male è distruttivo, immagino che Andrea si sia sentito solo al mondo per questo, tanti aderivano a questa violenza senza attaccarlo direttamente”.
Il ragazzo dai pantaloni rosa è un film che racconta una storia che ha il diritto di non essere dimenticata.
“Neanche una settimana dopo i funerali di Andrea mi fu recapitata a casa una lettera di una professoressa con cui in buona sostanza ci manifestò cordoglio e vicinanza per la tragedia che ci aveva colpito duramente”, racconta Teresa Manes. “In quella lettera ricordava il sorriso di mio figlio dietro cui era stato bravo a mascherare un male di vivere giovanile, che si annida nelle ragioni più disparate e che nessuno, men che meno io, aveva saputo cogliere. Nella sua chiosa, quella professoressa, mi esortava a confinare la nostra triste storia nel silenzio, in segno di rispetto verso quel dolore che aveva spinto ad una scelta. Incredula davanti a quell’invito, ripiegai il foglio e preparai una valigia. Fu così che iniziò il mio viaggio verso le
scuole….consapevole del fatto che, se avessi chiuso la mia bocca, mio figlio sarebbe morto due volte”.

Andrea Spezzacatena è stato ucciso dal silenzio di persone che avrebbero dovuto comprenderlo, sostenerlo, aiutarlo e “riconoscerlo”, perché l’altra causa della morte di Andrea è stata la determinazione, la forza, il coraggio di non voler essere come i suoi aguzzini, come i suoi assassini, come i suoi coetanei. Voler affermare, a costo della vita, la sua identità, di ragazzo sensibile, profondo, dolce, buono e generoso, sì, è vero Andrea era “diverso” ma non nel senso in cui veniva raffigurato nelle chat, nelle discussioni, negli insulti, nelle umiliazioni e delle aggressioni, Andrea era “diverso” nel senso di “migliore” ed è stata propria questa sua impressionante forza ed affermazione a portarlo al suicidio. Non lo accetti un universo così sfatto, non ne vuoi far parte, non ti vuoi rendere complice di azioni e comportamenti che se oggi riguardano te domani riguarderanno qualcun altro, non cedi a compromessi, non ci credi più e non ti fidi più e soprattutto non ne puoi più di vivere e rivivere ogni giorno la stessa dinamica crudele, malvagia, persecutoria, ossessiva. Andrea ha smosso tante coscienze, Andrea continuerà a lottare, perché morire non sempre significa smettere di vivere ed Andrea è testimone di questo immenso e straordinario stato d’animo.

Leggete il libro e guardate il film. Comprenderete che la portata di un dolore e la quantità di lacrime che ti portano quasi a perdere un occhio per una infezione, possono suscitare sentimenti di comprensione e di aiuto verso il prossimo, e che ci può essere un altro tipo di risposta al male ricevuto ed è IL BENE. Teresa Manes è una madre che sta lavorando da dodici anni affinchè questo fenomeno disumano e purtroppo sempre più vasto, il bullismo ed il cyberbullismo, venga alla luce nella sua reale portata e porti consapevolezza in ognuno di noi, affinchè nessuno possa mai più tacere o sminuire o tentare di alleggerire un dramma che ha strappato via a tante famiglie il bene più prezioso: un figlio.

Il web scraping è la fonte di informazioni delle principali applicazioni di IA. Queste tecnologie, sebbene offrano vantaggi significativi, sollevano anche importanti questioni riguardanti la privacy.

Cos’è il Webscraping?

Il web scraping è in estrema sintesi una tecnica utilizzata per estrarre grandi quantità di dati dal web.

Questo processo automatizzato è ampiamente impiegato per vari scopi, come l’analisi del mercato, la ricerca accademica, il monitoraggio dei prezzi e molto altro.

In un mondo sempre più guidato dai dati, la loro raccolta massiva è diventata uno strumento essenziale per molte aziende.

Non sono solo le Big Tech ad utilizzare questa tecnica per ottenere vantaggi competitivi, come la raccolta di informazioni sui prodotti dei concorrenti o l’analisi dei trend di mercato desunte dai miliardi di utenti dei diversi social media più o meno segmentati.

Con l’espansione del commercio elettronico e l’aumento della disponibilità di dati online, le attività di web scraping sono aumentate. 

Diverse analisi di settore indicano che una percentuale considerevole di traffico web, in alcuni casi fino al 25-40%, può essere attribuita a bot di scraping. 

Nell’e-commerce o nella vendita al dettaglio questi tools consentono di recuperare informazioni sui prezzi dai siti web dei concorrenti e ritagliare offerte mirate su determinati target di clientela.

La pesca indiscriminata dei dati è ampiamente diffusa anche nel settore finanziario e degli investimenti raccogliendo nel web rendiconti finanziari, prezzi delle azioni e i più svariati indicatori economici che permettono di elaborare strategie di investimento mirate.
Utilizzo analogo nel settore immobiliare per individuare tendenze di mercato e dati sui prezzi, mentre nel mercato dei viaggi e turismo il web scraping consente di monitorare le disponibilità e i prezzi analizzando i feedback dei clienti.
Con l’espansione del commercio elettronico e l’aumento della disponibilità di dati online, le attività di strascico dati nel web sono aumentate. 
Diverse analisi di settore indicano che una percentuale considerevole di traffico web, in alcuni casi fino al 25-40%, può essere attribuita a bot di scraping. 

L’educazione della IA e la Privacy

Le principali applicazioni IA soprattutto quelle basate sul deep learning come chatbot e assistenti virtuali, ma anche in campi delicati come quello medico per la diagnosi precoce, apprendono ed evolvono tramite algoritmi che elaborano vasti set di dati.
Alcuni esempi:

Dati Comportamentali: Informazioni su come gli individui interagiscono con siti web, app, e dispositivi. Questo può includere dati di navigazione, preferenze di acquisto, e modelli di utilizzo. 

Dati Demografici: Età, genere, nazionalità, e altre informazioni demografiche possono essere usate per personalizzare e migliorare i servizi. 

Dati di Localizzazione: Posizione GPS, indirizzi IP, e altri dati di localizzazione che aiutano a comprendere le abitudini di mobilità e geografiche degli utenti. 

Dati di Interazione Sociale: Post sui social media, like, commenti, e altre forme di interazione sociale. 

Dati Biometrici: Impronte digitali, riconoscimento del volto, e altri dati biometrici usati per sistemi di sicurezza e identificazione personale. 

Questi contenuti oggetto del data mining possono includere informazioni personali sensibili, sollevando preoccupazioni sulla privacy degli individui che se ne vedono defraudati in rete senza nemmeno saperlo.
L’uso di dati personali nell’apprendimento automatico della IA può anche portare a vere e proprie violazioni della privacy, se non adeguatamente gestito.

Il punto di vista dei Garanti UE: più equilibrio tra innovazione e Privacy

La sfida dei prossimi anni sarà bilanciare le necessità “educative” e il potenziale dell’IA con il rispetto della riservatezza e dei diritti individuali dei cittadini.
Il Garante per la protezione dei dati personali italiano è stato il primo ad approfondire questi nuovi scenari con un’indagine su Open AI e suo ChatGPT che ha fatto conoscere al grande pubblico le potenzialità dei nuovi software basati sull’ intelligenza artificiale.
Nel provvedimento del 30 marzo 2023 veniva contestatala violazione del GDPR alla società statunitense preso atto che non esisteva alcun controllo all’accesso dell’ applicazione ai minori di 18 anni e: ”l’assenza di base giuridica che giustifichi la massiccia raccolta e archiviazione di dati personali per “addestrare” il chatbot”.
Solo dopo una serie di interlocuzioni finalizzate a rendere il software conforme al GDPR l’11 Aprile 2023 ne veniva permessodal Garante l’utilizzo in Italia condizionato all’ adozione di misure di salvaguardia dei dati personali degli utenti.

A sua volta l’European Data Protection Board, l’organismo dei Garanti UE, si è inserito nella tematica decidendo di lanciare una task force specifica su ChatGPT.
Il problema di fondo è semplice ed è stato ben sintetizzato dal Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati personali in un suo intervento:

“I dati personali di miliardi di persone, frammenti della loro identità personale e “titoli rappresentativi” di un diritto fondamentale come il diritto alla privacy vengono letteralmente pescati a strascico dalle grandi fabbriche dell’intelligenza artificiale globale per l’addestramento dei propri algoritmi e, dunque, trasformati in assets commerciali e tecnologici di pochi al fine consentire a questi ultimi di fare business. Il tutto avviene come se il web fosse un’immensa prateria nella quale tutto è di tutti e chiunque può pertanto impossessarsene e farlo proprio per qualsiasi finalità”

Per proteggere i dati personali dal web scraping illegale, è essenziale il ricorso generalizzato alla l’anonimizzazione e la pseudonimizzazione dei dati e l’implementazione di sistemi avanzati di autenticazione e autorizzazione. 
Il consenso informato gioca un ruolo cruciale, assicurando che gli individui siano pienamente consapevoli di come i loro dati vengano utilizzati e abbiano il controllo su di essi.

Il Ruolo della P.A. delle aziende e degli sviluppatori

Gli sviluppatori e le aziende hanno la responsabilità di garantire che le applicazioni IA siano sviluppate e utilizzate in modo responsabile secondo il criterio fondamentale della Privacy by design.
Per far fronte al web scraping dilagante anche i siti web della Pubblica Amministrazione e dei privati devono adottare misure di sicurezza robuste ed efficaci in modo da non compromettere l’usabilità per gli utenti legittimi.
Le migliori pratiche in termini di sicurezza dei dati, come la crittografia l’anonimizzazione e la pseudonimizzazione dei dati ma anche l’implementazione di sistemi avanzati di autenticazione e autorizzazione con audit di sicurezza, sono fondamentali per proteggere i dati raccolti da accessi non autorizzati e abusi nella raccolta.

Il webscraping e l’IA che impara da esso hanno il potere di trasformare radicalmente il nostro modo di interagire con il mondo digitale sicuramente in meglio.

Tuttavia, è imperativo che innovazione e rispetto della privacy procedano di pari passo, garantendo che i benefici della tecnologia non vadano a scapito del diritto alla privacy dei cittadini siano essi digitali o meno.