Intervista a Salvatore Giò Gagliano

Gio mi apre la porta e mi invita ad entrare dentro casa sua. I suoi occhi, scuri e profondi, riescono ad avere sempre un’incredibile luminosità. Lo abbraccio con affetto, quell’affetto che lega due anime in sintonia. C’è così tanta bellezza attorno a me che ne rimango estasiata, ogni oggetto è pregno di arte ed ha una storia tutta sua che vorrebbe raccontare. Una cosa in particolare mi rapisce lo sguardo: uno splendido cuore sacro incorniciato.
“Adoro gli EX voto” gli dico.
“Adoro i cuori” mi risponde lui, ed è in quel momento che spuntano, come richiamati all’appello, tantissimi cuori, in ogni sorta di materiale, forma o colore. Ci accomodiamo sul divano, mi offre una birra e iniziamo la nostra chiacchierata.
Mi trovo qui perché non ho potuto non pensare al suo lavoro artistico riflettendo sul significato della parola “insolito” e perché lui è stato carino ad accogliere con entusiasmo una proposta fatta senza il minimo preavviso.

Salvatore Giò Gagliano, per gli amici Giò è un artista vercellese, un educatore presso ANFFAS onlus Vercelli e un arte-terapeuta. Classe 1977, ama definirsi un diversamente fotografo, la sua passione è catturare la bellezza umana, la sua arte è vederla anche dove gli altri non sanno farlo, e incanalarla nelle sue foto, per renderla fruibile e leggibile a tutti. Lontano da stereotipi e discriminazioni, ci insegna ad abbracciare la diversità, che è una ricchezza inestimabile per tutti noi, e a tenere viva la curiosità per le tante storie che le sue immagini narrano.
Dal 2000 lavora come educatore e ha partecipato a diverse mostre collettive e personali, sia in Italia che all’estero.

Origini

Come è nata la tua passione per la fotografia e cosa rappresenta per te?
È una passione che ho fin da piccolo, quando, per la prima comunione mi hanno regalato una macchinetta della kodak con cui ho iniziato a sperimentare, coinvolgendo mia cugina che mi faceva da modella. Il vero lato artistico, però, è arrivato nel 2000, dopo un percorso accademico nel quale mi sono cimentato prima con la pittura e la scultura. Precisamente durante la preparazione di una mostra, una triennale di giovani artisti, che in quell’anno affrontava il tema della guerra. Mi ricordo che avevo a disposizione degli oggetti specifici per costruire un’istallazione: delle cassettine di legno e plastica, che rappresentavano le guerre del passato e le guerre presenti, alle quali ho aggiunto un collage di fotografie in cui avevo immortalato tutti i miei familiari, intervenendo infine a livello pittorico. È stato lì che ho realizzato il grande potere della fotografia per comunicare agli altri quello che avevo dentro, quando la pittura e la scultura non mi bastavano. Ho capito che in questo modo sarei potuto andare oltre e da quel momento le foto sono diventate il mio mezzo artistico.

[Immagine fornita dall’Ospite]


Nel 2004, con “I Volti della Passione” sono riuscito ad unire le mie due vocazioni: l’arte ed il sociale, ambito nel quale avevo appena iniziato a lavorare. Questo progetto è nato per la Biennale del Mediterraneo. Mi sono reso conto che in tutta la storia dell’arte nessuno aveva mai affrontato il tema delle disabilità, se non per mettere in ridicolo i suoi soggetti, come facevano nel Settecento, per esempio. Ho subito pensato alla Pietà del Michelangelo, come passione, coinvolgendo Roberta, una ragazza con la sindrome di down, e Andrea, un ragazzo spastico, nei panni di Cristo, per vedere cosa ne uscisse fuori. Gli abiti vennero realizzati da mia madre e da mia zia, io ricreai il calice del Bacco del Caravaggio mettendo insieme un
candelabro con un piatto di vetro sopra, e gli scatti furono effettuati tutti in analogica.
Questo progetto è durato fino al 2009, quando ho realizzato la mostra. Grazie al Comune di Vercelli sono stati diffusi più di 30 cataloghi in tutta Italia e le mie foto sono arrivate a svariati giornali di arte. Negli anni a seguire, altri fotografi hanno trattato progetti simili, alcuni con mezzi e sponsor anche molto importanti, ottenendo grande risalto.

Parlami dei tuoi progetti.
Attualmente mi sto dedicando a Kouros, un progetto benefico che ha come protagonista Marco. Marco è un ragazzo ventenne, che due anni fa ha perso la gamba destra in un incidente in moto. Io sono venuto a conoscenza di questa storia un anno dopo, leggendo l’articolo su Facebook, in cui si parlava anche di una raccolta fondi “una mano per una gamba”.
Naturalmente mi sono sentito in dovere di dare il mio contributo, ma rendendomi subito conto che fosse una goccia in mezzo al mare. Volevo fare di piu. Ho contattato Marco su instagram, dicendogli che mi avrebbe fatto piacere conoscerlo e sostenerlo, con l’unico mezzo di cui disponessi, ovvero la fotografia.
Oltre a questo, il mio desiderio era quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sul fatto che anche senza una gamba si può fare, come ha fatto Marco, e, contemporaneamente dimostrare che un arto mancante non priva un corpo della sua bellezza.

[Immagine fornita dall’Ospite]


Ci siamo incontrati e lui mi ha raccontato la sua storia. Io non lo sapevo, ma la ASL passa una protesi, la cosiddetta “gamba di legno”, che come si può facilmente intuire è una protesi molto rigida, che limita i movimenti. Per avere una “gamba” che gli conceda dei movimenti normali e fluidi è necessario un bell’investimento economico: la cifra è di 58 mila euro, ogni anno prevede circa 2 mila euro di manutenzione e ogni 5 anni andrebbe cambiata. Sono rimasto colpito dalla serenità con cui ha affrontato tutto questo: quando Marco si è risvegliato ha pensato di essere fortunato e che sarebbe potuta andare peggio. Era grato per essere rimasto in vita. Questo per me è stato come una pugnalata nel cuore. Per me lui è un eroe, un
mito e da qui nasce la connessione con le antiche statue greche, con la loro eterna bellezza,
seppur private di una gamba o un braccio. La rappresentazione visiva è il Kouros: questo giovinetto che mantiene sempre una posizione molto eretta e che ha la particolarità di avere la gamba sinistra leggermente avanti rispetto a quella destra, come nel caso di Marco, in cui la sinistra è quella sana.
Non credo alle coincidenze, ma credo che le cose capitino in un preciso momento, per un preciso motivo, per farti fare qualcosa di particolare.
C’era bisogno di un progetto forte! Non volevo fare delle fotografie in studio, fine a se stesse.
Ho pensato che il Museo Leone potesse essere perfetto con i suoi reperti archeologici. Il museo, non solo ha accolto con grande entusiasmo il progetto, ma ci ha messo a disposizione tutto lo spazio possibile per scattare, ci ha concesso l’utilizzo di reperti che raffigurano gambe, piedi o braccia (come rimando al nome della raccolta fondi “Una mano per una gamba”) ed ha riservato grande attenzione nei confronti di Marco. Inoltre ha esposto 6 delle 27 fotografie all’interno del museo vero e proprio, dislocando addirittura un’anfora antica per collocare una nostra foto. La mostra sta andando bene ed è di sostegno alla raccolta fondi, a cui partecipa anche la vendita all’asta delle foto. Il progetto vercellese si concluderà il 2 giugno, ma il mio desiderio è quello di portarlo anche fuori e dargli quanta più visibilità possibile.

Un altro progetto in partenza è “Corpus”, un altro progetto benefico a cui sono stato invitato e che probabilmente partirà in autunno al museo del Duomo di Vercelli. Per questo lavoro sto creando un libro d’artista, un percorso sulle persone e la pelle che abitano, con le sue cicatrici, imperfezioni, con le sue malattie, con i suoi vissuti e la sua forza. Saranno 300 fotografie con la copertina in ecopelle rilegata con i fili di sutura. Ogni pagina sarà uno zoom, senza nessun riferimento al soggetto, ma solo con la descrizione delle peculiarità di quella pelle. Ho fatto una ricerca sui social per raggiungere l’ambizioso numero di soggetti da ritrarre e sono rimasto stupito delle risposte positive che ho avuto già in breve tempo.

Ricordi un momento preciso o un incontro specifico che ha cambiato il tuo modo di vedere il mondo attraverso l’obiettivo?
Attraverso I’obiettivo no, ma ci sono stati degli eventi durante le mostre che mi hanno toccato, uno in particolare, durante la mostra “I Volti della Passione” al Palazzo del Moro a Mortara. In questo spazio c’erano due ingressi: un’entrata ed un’uscita. Ad un certo punto due signore, anche un po’ trasandate, sono entrate dall’uscita e si sono fatte un giro piuttosto rapido della mostra. Il mio pensiero è stato “queste non hanno nemmeno capito di essere ad una mostra”.

Le signore, alla fine del giro si sono avvicinate a me per condividere le loro impressioni. Mi sono sentito come se mi avessero preso a schiaffi, perché con uno sguardo veloce avevano colto tutta l’essenza della mostra e della mia arte.
Siamo esseri umani, capita a tutti di peccare, perfino a te, che del non fermarsi all’apparenza ne hai fatto il pilastro portante del tuo lavoro e della tua arte.
Da quel momento, ogni volta che faccio un pensiero del genere mi torna in mente quel ricordo e mi riprendo. È cambiato il mio modo di approcciarmi agli altri, non che prima giudicassi, perché sono sempre stato molto aperto, ma cerco di evitare questi scivoloni. Le differenze mi hanno sempre affascinato. Da piccolo ero ammaliato dai cinesi e dai loro occhi a mandorla ed ero incuriosito dal mio compagno delle elementari che aveva un ritardo mentale. Per me è ciò che ci rende diversi gli uni dagli altri a rappresentare il punto di forza dell’umanità.


PROCESSO CREATIVO
Come descriveresti il processo che segui per entrare in contatto con i tuoi soggetti? Come costruisci una relazione di fiducia con loro? Qual è il segreto per cogliere l’autenticità e la personalità dei tuoi soggetti?

[Immagine dell’Ospite]


Sono io che mi faccio condurre da loro, non sono io che conduco, come ho fatto con i miei ragazzi ( i ragazzi dell’ Anffas di Vercelli). Quando ho costruito “I Volti della Passione”, ho scelto i quadri sia per somiglianza che per caratteristiche, perché sapevo di andare a tirare fuori qualcosa da quella persona. Rosetta, per esempio, è appassionata di gioielli e bigiotteria, metterle quel orecchino di perla la faceva stare bene. E così ho fatto sempre, sia con i miei ragazzi, sia con gli altri modelli con cui ho lavorato. Solitamente sono io che chiedo agli altri cosa vorrebbero fare e quali sono i loro limiti. Anche con Marco è andata così, mi sono fatto guidare da lui, dai suoi movimenti. Intervenivo per suggerirgli di fermarsi solo quando la posizione mi sembrava giusta. Io mi fido e mi affido agli altri. È così che nasce il mio processo creativo. In base alle loro abilità e alla loro capacità di darmi fiducia a loro volta.
Mi piace creare la relazione, è un momento intimo. È come fare l’amore: ti devi fidare e affidare, perché, che tu sia vestito o svestito, davanti all’obiettivo sei comunque nudo e vulnerabile. Vedo tante foto in giro che sono perfette a livello tecnico, ma che non trasmettono nulla.


Che cosa è per te la bellezza?
Non posso essere ipocrita e negare che la parte estetica non mi tocchi, ma io sono sempre stato affascinato dalla bellezza interiore, da quello che mi trasmettono gli occhi e il sorriso.
Quello che viene da dentro rende bello il fuori. Ho fotografato tempo fa un soggetto fisicamente molto bello, eppure non ho sentito nulla guardando quelle foto, quella persona non mi è arrivata, vuoi perché non si è creato il giusto feeling, vuoi perché quella persona lì in quel momento non aveva nulla da trasmettere. La bellezza è sentire l’essenza di una persona e le sue fragilità, la bellezza è come si parla, come ci si muove, il profumo, la generosità nel dedicarsi agli altri.


EVOLUZIONE PERSONALE
Come è cambiata la tua visione del mondo e della bellezza attraverso il tuo lavoro?

È stato un cambiamento enorme, io mi sono aperto sempre di più. L’arte mi ha aiutato e mi ha liberato dalle catene che io stesso mi ero messo. Mi ha dato il coraggio di espormi e di dichiararmi omosessuale. Mi ha liberato dal bisogno di mettere sempre delle etichette. L’arte mi ha aiutato anche nel periodo della pandemia, nel primo lockdown ho pensato di non farcela: casa lavoro, lavoro casa; a lavoro mi avevano tolto la parte più bella che è quella degli abbracci e a casa ero da solo. Mai come in quel momento ho sentito il bisogno di comunicare con l’esterno attraverso le immagini, ed è così che è nato il progetto “Hope”. L’arte aiuta sempre. Questa è una cosa che mi appartiene sin da piccolo, quando tornavo a casa da scuola arrabbiato mi mettevo a disegnare, invece di parlare con mia mamma. L’arte per me è sempre stata un grande veicolo e negli anni mi ha aiutato ad aprire ancora di più la mia mente, a mettere da parte i pregiudizi e le paure, a migliorare il rapporto con il mio corpo e con lo specchio, a liberarmi dai condizionamenti sociali che ci vengono inculcati fin dall’infanzia.
Prendi l’Eurovision, per esempio, la vittoria di Nemo quanta critica ha sollevato perché lui è non binario, perché ha indossato degli abiti femminili, e siamo nel 2024.


Il tuo modo di comunicare attraverso l’arte racchiude dei messaggi che hanno un grande valore umano e sociale. Questo sicuramente ha portato con sé delle difficoltà.

[Immagine fornita dall’Ospite]


Ho fatto posare una ragazza down nuda – e sorride. Il lavoro fotografico con la disabilità è stato non solo quello di dimostrare che un ragazzo con la disabilità ha anche delle abilità, ma anche quello di scardinare il canone estetico. Il primo impatto con una persona è visivo e io voglio far vedere un corpo non perfetto in modo perfetto e poi riparlarne.
Un grande lavoro è stato quello di affrontare con le scuole, e soprattutto con i licei, il mio progetto “I Volti della Passione”. C’è bisogno di lavorare con i ragazzi in età scolastica in questo senso. Trovo che nel mondo attuale due cose non funzionino più tanto: la famiglia e la scuola, perché tutte e due hanno perso un ruolo importante che è quello di educare. La scuola distribuisce nozioni, la famiglia è assente tende a giustificare ogni pecca del proprio figlio, perché altrimenti dovrebbero ammettere le proprie mancanze e le proprie colpe.
Venendo meno questi ruoli, abbiamo una società allo sbaraglio e dei ragazzi che sono stanchi, delusi e annoiati dalla vita. La vita non è tutta rose e fiori, è una continua gavetta e ti mette costantemente in difficoltà.

A proposito di famiglia e di difficoltà, mi stavo chiedendo se avessi mai incontrato degli ostacoli nei progetti che includevano i tuoi ragazzi. Penso soprattutto quando hanno posato nudi, come hanno risposto le famiglie che hanno dovuto darti il consenso?
Quando ho creato “I Volti della Passione” ci sono stati solo due genitori che non hanno dato il consenso. Uno non ha aderito a priori, trattandosi di un nudo, e una mamma ha deciso di ritirarsi dal progetto successivamente perché non si è sentita a suo agio a vedere la figlia ritratta così. Un aneddoto particolare che invece vorrei raccontarti riguarda la rassegna internazionale d’arte moderna sul tema delle streghe, tenutasi a Benevento nel Palazzo Paolo V, poco prima della pandemia. Avevano accettato il mio lavoro con Roberta, esponendolo, per poi ritirarlo a causa delle lamentele di alcuni genitori, che fraintendendo il significato del mio progetto, hanno pensato che associarsi la sindrome di down al concetto delle streghe.
Ma Roberta è sempre stata una mia modella e musa, e in quanto tale ha sempre interpretato qualsiasi tipo di ruolo.

Se un giovane artista o fotografo venisse da te a chiederti dei consigli cosa gli diresti.
Intanto io non mi considero un vero e proprio fotografo, mi piace definirmi diversamente fotografo. Un consiglio che darei ai giovani in generale è di non sentirsi mai arrivati. Fino all’ultimo giorno della tua vita tu non sarai arrivato. Bisogna volare bassi e non perdere mai la curiosità, quella di visitare mostre e di conoscere la realtà che ti circonda. Queste cose sono fondamentali. Se non viaggi e non conosci non ti puoi approcciare agli altri. Un altro consiglio, ma mi rendo conto che fa parte del mio modo di lavorare, è quello di creare una relazione. Per me è fondamentale non essere a senso unico, perché è un processo basato contemporaneamente sul dare e sul ricevere. Ho l’impressione che le nuove generazioni, rispetto alla mia, si brucino tutto subito. Io faccio arte perché è il mio ossigeno, il mio bisogno di comunicare con gli altri, ma mi sento il signor nessuno. Ora c’è il bisogno di emergere subito, anche senza alcuna dote né dedizione.

Pensi che i social possano essere in qualche modo responsabili di questa cosa?
Mah, credo che i social siano stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La mia convinzione è che tutto sia partito da un esperimento sociale, che personalmente ho trovato molto interessante e ho amato: il grande fratello. Secondo me questo ha portato alla creazione dei social e di tutto ciò che ne è seguito: delle persone sconosciute, senza nessun talento, entrano in questa casa, e una volta uscite da lì si ritrovano ad essere dei grandi personaggi. Questo ha fatto credere a tutti quanti, che pur essendo nessuno e pur non avendo delle capacità o talenti particolari, sarebbero riusciti lo stesso ad ottenere la fama.
Tanti tra questi però sono finiti nel dimenticatoio, anche quelli che si pensavano intoccabili.
Forse bisognerebbe scendere dal piedistallo. Forse solo la storia, se tu hai seminato bene, può acclamarti un grande artista. Gli artisti eterni sono quelli che non si sentono mai arrivati e che non sentono la rivalità, ma che si esplorano e si reinventano continuamente.