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Il nuovo libro dell’acclamata scrittrice partenopea, che esplora l’incontro casuale in treno di Graziella e Francesco a prima vista appartenenti a mondi totalmente estranei, esce il 29 ottobre e sarà presentato con eventi a Napoli, Pesaro, Milano, Roma, Cassino.

Annella Prisco torna in libreria con la storia di un incontro ad alta velocità dall’intreccio inaspettato e avvincente. Si intitola “Noi, il segreto” ed è in libreria a partire dal 29 ottobre 2024, a quattro anni esatti dall’uscita del suo ultimo fortunatissimo romanzo, “Specchio a tre ante”, che è stato anche oggetto di traduzione.

È la storia intensa ed emozionante di Graziella, insegnante originaria di Atrani, il più piccolo dei borghi della Costiera amalfitana, raccontata con il solito stile scorrevole e delicato di Annella Prisco, che rivela man mano uno scenario stupefacente e ricco di colpi di scena, di introspezione e di profonde riflessioni.

Sposata con Gerardo, Graziella è una donna passionale e dinamica che decide di accettare l’incarico di docente in un
Istituto scolastico lombardo, nonostante sia costretta a lasciare il paese natìo, in provincia di Salerno, per trasferirsi a Milano. Spesso nasconde un velo di solitudine e inquietudine, causato dai dubbi e dalle incertezze in cui è immersa da quando ha iniziato un nuovo lavoro e una nuova vita in un’altra regione.

«Il contesto – spiega l’Autrice – è quello della problematicità dell’esistenza, che attraversa una serie di eventi: dall’uomo misterioso che incontra sul treno all’amore per il marito, dalla tensione per la malattia del padre all’amicizia profonda con la collega Marta, dal legame con l’ucraina Tanya al racconto dell’orrore della guerra. Con lo sfondo di un’Italia che da Nord a Sud manifesta tutte le sue bellezze, tradizioni e tipicità».

Lo spessore dei personaggi, ben delineati nei loro tratti distintivi, si staglia persino sullo sfondo del monastero più famoso d’Italia, ricostruito dopo la distruzione a seguito dei bombardamenti alleati, l’Abbazia di Montecassino, preso in considerazione dall’Autrice come cornice della narrazione.

La conclusione della vicenda, che ha il ritmo incalzante delle tensioni emotive, sarà sorprendente.

Tanti gli eventi e le iniziative in programma per l’uscita del libro: il primo appuntamento è a Napoli, città natale dell’autrice, sabato 16 novembre alle ore 11 nel foyer del Teatro Diana. Gli altri incontri sono previsti a Torre Annunziata (Libreria Libertà, 29 novembre), Napoli (O’Book, 11 dicembre), Pesaro (Alexander Museum Palace Hotel, 13 dicembre), Milano (20 febbraio 2025), Roma (Libreria Minerva, 14 marzo 2025), Cassino, Salerno, Atrani e poi numerose altre tappe in calendario.

Pubblicato da Guida Editori, con acquerello in copertina di Vincenzo Stinga, il libro è distribuito da Messaggerie Italiane ed è acquistabile in tutte le librerie anche online e dal sito www.guidaeditori.it

Annella Prisco è scrittrice, critico letterario, manager culturale ed esperta in comunicazione e relazioni pubbliche. È componente di varie giurie di Premi letterari e collabora con diverse testate giornalistiche. Nel 2022 le è stato conferito il Premio Donne che ce l’hanno fatta, e nel 2024 il Premio alla carriera L’Iguana – Anna Maria Ortese. All’esordio come autrice nel 1998 con il romanzo Ricordi senza memoria, a quattro mani con Monica Avanzini, hanno fatto seguito Chiaroscuri d’inverno (2005), Trenincorsa (2008), Appuntamento in rosso (2012) e Girasoli al vento (2018), che hanno ricevuto riconoscimenti anche a livello internazionale.

Nel 2020 è uscito il romanzo Specchio a tre ante, che pure ha ricevuto svariate onorificenze. Nel 2023 il romanzo è stato tradotto da Elisabetta Bagli in spagnolo e pubblicato da Papel Y Lapiz con il titolo El espejo de Ada, ricevendo il premio Il Canto di Dafne – Libro internazionale dell’anno, il premio della Giuria Città di Cattolica e il primo premio Libro in
lingua straniera “La Via dei Libri” in seno al Bancarella a Pontremoli.

Negli ultimi anni, l’Unione Europea ha intensificato gli sforzi per ridurre l’esposizione della popolazione al fumo passivo, con l’obiettivo dichiarato di creare una “generazione libera dal tabacco” entro il 2040. 

Questo impegno si riflette nelle recenti proposte di revisione delle raccomandazioni sugli ambienti senza fumo e senza aerosol, un’iniziativa che mira a proteggere maggiormente la salute pubblica attraverso misure più stringenti che includono anche i prodotti emergenti, come le sigarette elettroniche e i dispositivi a tabacco riscaldato. 

L’Europa ha sempre adottato un approccio progressivo e rigoroso nella regolamentazione dei prodotti del tabacco. 

Le raccomandazioni del Consiglio e le normative di riferimento mirano a limitare l’esposizione al fumo passivo, proteggendo in particolar modo le categorie vulnerabili, come bambini e anziani. 

Le norme vigenti si basano sulla Convenzione Quadro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il Controllo del Tabacco, e hanno già portato a una significativa riduzione dei fumatori e dell’esposizione al fumo in ambienti chiusi. Tuttavia, i cambiamenti tecnologici e l’emergere di nuovi prodotti alternativi al fumo tradizionale hanno complicato ulteriormente il panorama.

L’ Italia ha tradizionalemente avuto una legislazione molto restrittiva rispetto ad altri Paesi. La Legge 3 del 16 gennaio 2003 (art. 51), “Tutela della salute dei non fumatori” che ha esteso il divieto di fumo a tutti i locali chiusi (compresi i luoghi di lavoro privati o non aperti al pubblico, gli esercizi commerciali e di ristorazione, i luoghi di svago, palestre, centri sportivi), con le sole eccezioni dei locali riservati ai fumatori e degli ambiti strettamente privati (abitazioni civili).

La norma non prevede un obbligo, ma concede la possibilità di creare locali per fumatori, le cui caratteristiche strutturali e i parametri di ventilazione sono stati definiti con ilDecreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 dicembre 2003, che prevede anche le misure di vigilanza e sanzionamento delle infrazioni.

Un ulteriore passo avanti è stato fatto con la pubblicazione in gazzetta del Decreto Lgs. n. 6 del 12 gennaio 2016, che recepisce la Direttiva 2014/40/UE sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, presentazione e vendita dei prodotti del tabacco e dei prodotti correlati, che abroga la direttiva 2001/37/CE.

E’ un fatto innegabile che mercato del tabacco si è evoluto rapidamente negli ultimi quindici anni, con un aumento significativo della diffusione delle sigarette elettroniche (E-Cig) e dei prodotti del tabacco riscaldato (Tobacco Heating Product THP)

Questi prodotti vengono spesso considerati dai fumatori come alternative meno dannose rispetto alle sigarette tradizionali, ed è ormai noto che molte persone stanno utilizzando questi dispositivi come un mezzo per ridurre o cessare del tutto il consumo di tabacco combusto.

Tuttavia, questa evoluzione del mercato pone nuove sfide regolamentari. 

La Commissione Europea e il Consiglio dell’Unione Europea hanno quindi intrapreso iniziative normative per includere questi nuovi prodotti nei divieti già esistenti per il tabacco, estendendo le restrizioni anche agli spazi aperti.

La Commissione ha annunciato la propria intenzione di aggiornare la Raccomandazione del Consiglio relativa agli ambienti senza fumo emanata nel 2009 

La nuova proposta ed in votazione al Parlamento UE mira a includere non solo i prodotti del tabacco tradizionali, ma anche i nuovi prodotti come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato.

La Commissione sostiene che l’estensione dei divieti a questi prodotti è giustificata dalla necessità di proteggere ulteriormente la salute pubblica dall’esposizione ad aerosol di seconda mano, anche in spazi esterni come terrazze di bar, ristoranti, e aree pubbliche adiacenti a scuole e strutture sanitarie.

L’obiettivo generale di queste iniziative è duplice: ridurre ulteriormente il consumo di tabacco e disincentivare l’uso di prodotti contenenti nicotina, contribuendo alla cosiddetta “denormalizzazione” del fumo e del consumo di nicotina. 

Sebbene questi obiettivi siano, di per sé, condivisibili, la mancanza di un approccio distintivo tra i diversi prodotti e la mancata conduzione di una valutazione d’impatto adeguata rappresentano aspetti che destano non poche perplessità in una all’incisività sulla libertà dei cittadini.

Perplessità espresse da Italia e Romania

Le perplessità espresse dai rappresentanti di Italia e dalla Romania nelle dichiarazioni congiunte in occasione della discussione della raccomandazione del Consiglio sono indicative delle difficoltà legate all’adozione di queste misure. 

L’Italia e la Romania hanno sostenuto la necessità di preservare la salute pubblica e concordato sull’importanza di proteggere la popolazione dal fumo passivo, ma hanno anche evidenziato diverse problematiche procedurali e sostanziali riguardanti il processo di approvazione e il contenuto dell’Atto.

Nella loro dichiarazione, entrambi i Paesi hanno lamentato che “la procedura applicata per la discussione e l’approvazione da parte del Consiglio di questo Atto avrebbe necessitato di tempi e modalità migliori per lo svolgimento del dibattito tra gli Stati membri”. 

Hanno espresso rammarico per il fatto che molti emendamenti significativi proposti dagli Stati membri non siano stati adeguatamente considerati, sottolineando che un atto di tale importanza avrebbe dovuto essere finalizzato attraverso un consenso più ampio tra le parti, tenendo conto delle priorità nazionali.

Inoltre, la mancanza di una valutazione d’impatto adeguata è stata fortemente criticata. Per i due Stati “lintroduzione di misure ampie e generalizzate riferite alle aree esterne, non chiaramente identificate e associate a concetti come la presenza di traffico pedonale intenso, manca di fondamento giuridico e genera potenziale incertezza sul suo significato e sulla sua corretta attuazione”. 

Lapidarie le conclusioni della dichiarazione :”Si ricorda infine che da questo Atto adottato dal Consiglio, per sua stessa natura e portata, non deriva alcun obbligo legale per gli Stati membri di definire adeguatamente la propria legislazione nazionale, tenendo conto delle competenze e delle specificità nazionali nell’attuazione, e non viene creato alcun precedente normativo per qualsiasi futura discussione in seno al Consiglio sulla politica europea del tabacco. Per questo motivo, l’Italia e la Romania mantengono la propria preoccupazione politica sull’adeguatezza di alcune raccomandazioni, come sopra rappresentato, così come ogni ulteriore valutazione, in quanto Stato membro, sulla corretta attuazione nazionale di questo Atto

Tale posizione evidenzia la necessità di basare le politiche su solide evidenze scientifiche e su valutazioni che considerino gli effetti pratici delle restrizioni proposte.

La necessità di differenziare tra fumo tradizionale e alternative 

Un aspetto cruciale che merita particolare attenzione è la necessità di differenziare chiaramente tra i prodotti da fumo tradizionali e le alternative meno dannose come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato. 

Questo principio di differenziazione non è solo una questione di logica normativa, ma è supportato anche da un vasto corpus di letteratura scientifica che indica come le alternative meno dannose possano effettivamente aiutare i fumatori a cessare il consumo di tabacco combustibile, con potenziali benefici per la salute pubblica.

Non distinguere tra questi prodotti nelle politiche sugli ambienti senza fumo potrebbe inviare un messaggio sbagliato ai consumatori, portandoli a ritenere che il vaping o il tabacco riscaldato siano dannosi quanto il fumo di sigarette tradizionali. 

Questo tipo di equiparazione rischia di minare i benefici potenziali per la salute offerti da questi prodotti e, di conseguenza, potrebbe portare alcuni consumatori a tornare al fumo di sigarette tradizionali, annullando anni di progressi nel campo della riduzione del danno.

Diritto dei consumatori a scelte informate

Un altro elemento fondamentale è il diritto dei consumatori a fare scelte informate sulla loro salute. Equiparare i prodotti tradizionali del tabacco a quelli “alternativi” riduce significativamente il ventaglio di opzioni disponibili per chi desidera smettere di fumare, sminuendo i vantaggi distinti che le alternative meno dannose offrono. 

Le sigarette elettroniche e i dispositivi a tabacco riscaldato hanno dimostrato di poter rappresentare uno strumento utile per la cessazione del fumo, come riconosciuto nella Relazione BECA del Parlamento europeo.

Ignorare queste evidenze significa non solo ostacolare i fumatori che vogliono smettere, ma anche compromettere i risultati ottenuti fino a questo momento nella riduzione del danno.

Contrarietà ai divieti generalizzati anche negli spazi aperti

Un altro aspetto che solleva forti perplessità riguarda l’inclusione di divieti generalizzati che si estendono anche agli spazi aperti. 

Interventi normativi che incidono sulla libertà delle persone al punto di impedire loro attività anche all’aperto rischiano di essere percepiti come eccessivamente intrusivi e non proporzionati rispetto agli obiettivi di salute pubblica. 

Limitare la possibilità di utilizzare prodotti come le sigarette elettroniche o i dispositivi a tabacco riscaldato anche in aree all’aperto, senza una chiara base scientifica che giustifichi tali restrizioni, potrebbe generare un significativo malcontento e ridurre l’adesione alle norme, con effetti potenzialmente controproducenti.

Impatto delle regolazioni restrittive sul settore economico Horeca e turismo

Un regolamento restrittivo che impone divieti generalizzati e molto estesi, sia per gli spazi chiusi sia per quelli aperti, rischia di determinare impatti significativi sulle attività economiche e commerciali, in particolare nei settori Horeca (bar, ristoranti, caffetterie) e del turismo. Secondo i dati di un’indagine della Federazione Horeca europea, le restrizioni anti-fumo estese agli spazi aperti hanno provocato una riduzione del 15-20% del fatturato nei locali pubblici in alcune aree metropolitane. 

Inoltre, nel settore del turismo, studi condotti dall’Associazione Europea del Turismo (ETOA) mostrano che politiche restrittive possono dissuadere una significativa quota di visitatori, soprattutto quelli provenienti da paesi con normative meno rigide sul fumo. 

Questi effetti cumulati non solo minacciano la sopravvivenza di molte piccole e medie imprese, ma rischiano anche di compromettere la competitività economica delle città europee nel contesto internazionale.

Anomalie nel procedimento normativo

La revisione delle raccomandazioni del Consiglio ha sollevato anche delle perplessità procedurali. La Commissione Europea non ha condotto una valutazione d’impatto adeguata prima di proporre queste nuove misure. 

Considerando i significativi cambiamenti che il mercato del tabacco ha subito negli ultimi anni, è imprescindibile che le nuove normative siano accompagnate da una valutazione scientifica approfondita dei rischi associati a ciascun prodotto e da un’analisi dell’impatto economico di tali misure. 

Il fatto che queste valutazioni non siano state condotte è preoccupante e rischia di compromettere l’efficacia delle politiche proposte, introducendo incertezza per consumatori e imprese. Maggiori informazioni sulla procedura di valutazione d’impatto sono disponibili sul sito della Commissione Europea.

Inoltre, imporre divieti generalizzati senza una solida base scientifica potrebbe portare a conseguenze indesiderate, come un aumento della confusione tra i consumatori sui rischi relativi dei diversi prodotti. 

Questo tipo di incertezza può indurre i consumatori a credere che l’uso dei prodotti alternativi sia altrettanto dannoso quanto il fumo tradizionale, spingendoli, in ultima analisi, a tornare alle sigarette. 

In questo senso, un approccio basato sull’evidenza scientifica e su una valutazione approfondita degli impatti è essenziale per garantire che le politiche europee abbiano un effetto positivo sulla salute pubblica.

La revisione delle raccomandazioni sugli ambienti senza fumo rappresenta un passo importante nella direzione della tutela della salute pubblica e del benessere dei cittadini europei. 

Tuttavia, è necessario un approccio più equilibrato che riconosca il ruolo delle alternative meno dannose, consentendo ai fumatori di scegliere opzioni più sicure per ridurre il consumo di tabacco combustibile. 

È imperativo evitare provvedimenti normativi di natura liberticida che impongano divieti generalizzati e sproporzionati, compromettendo le libertà fondamentali dei cittadini e criminalizzando comportamenti che non pongono rischi significativi per la salute pubblica.

Senza una chiara differenziazione tra i prodotti e senza una valutazione adeguata dei rischi e degli impatti economici, il rischio è quello di vanificare anni di progressi nel campo della riduzione del danno.

Le politiche non devono limitare inutilmente le libertà personali, specialmente negli spazi aperti, dove i rischi di esposizione al fumo passivo sono notevolmente inferiori.

È essenziale che ogni misura regolatoria sia proporzionata, basata su prove scientifiche concrete e attenta a non incidere negativamente sulle libertà individuali dei cittadini europei.

Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. 

Scriveva così Pier Paolo Pasolini, sul Corriere della Sera del 14 novembre 1974, in un articolo intitolato “Cos’è questo golpe? Io so”.  Esattamente un anno dopo (2 novembre 1975), sarebbe stato brutalmente massacrato, in circostanze che nessuno è mai riuscito/ha mai voluto chiarire. 

La goccia e il vaso

Dato che parliamo di una delle intelligenze/coscienze più lucide e penetranti del Novecento, è chiaro che Pasolini sapeva perfettamente che, insieme a quell’articolo, firmava anche la propria condanna a morte. Intendiamoci: che la sua fosse una tra le voci più “scomode” e invise al Potere (la P maiuscola per indicare non questo o quel potere né questi o quei potenti ma la natura stessa del Potere: essenza, ragion d’essere e logiche che ne governano, universalmente, l’azione) gli era chiaro da ben prima di quel 14 novembre. 

Pasolini, dunque, sapeva di essere “al centro del mirino”. C’è sempre, però, una “goccia” che fa traboccare il proverbiale “vaso”. E non è affatto improbabile che, in questo caso, la goccia sia stata appunto quell’articolo.

Chi gliel’ha fatto fare?

Arriva sempre il momento nel quale il Potere dice “basta!” e tappa la bocca a colpi di martello al “Grillo parlante” di turno. La prima domanda, quindi, che questa vicenda suscita ha il sapore del cinismo andreottiano: “chi glielo ha fatto fare?”. Perché Pasolini decide di scrivere quell’articolo? È vero: è un intellettuale, una “coscienza critica” e il suo ruolo glielo impone. Come è vero che scrivere poesie, romanzi, saggi, sceneggiature, regie, drammi e articoli è il modo che l’uomo ha scelto per adempiere al meglio a tale ruolo. 

Essere o non essere

In certi contesti/momenti storici, però, le persone raggiungono quello che potremmo definire “punto di non ritorno”. Si ritrovano, cioè, sole di fronte a sé stesse. Devono decidere se fermarsi o andare avanti. Solo due cose sanno con certezza: fermarsi equivale a perdere la “guerra”; andare avanti equivale a perdere la vita. “Essere o non essere”: dilemma vitale. In tutti i sensi. Di gran lunga il più drammatico. Quello di fronte al quale nessuno vorrebbe trovarsi mai.

Fermarsi o andare avanti?

Le ragioni per fermarsi sono tante. Le conosciamo tutti, le comprendiamo tutti, le condividiamo tutti, le adottiamo tutti. La ragione per andare avanti, invece, è soltanto una: mettere la “causa” per la quale si combatte al di sopra della propria vita. Una scelta radicale che impone una decisione radicale.

La normalità non obbliga alla radicalità

Vorrei che, per un attimo, distogliessimo lo sguardo dalla persona che sta per compiere la sua scelta e lo rivolgessimo alla realtà che l’ha messa di fronte a tale scelta. Una cosa appare evidente: non può trattarsi di una realtà “normale”. La “normalità”, infatti, non obbliga mai alla radicalità. In tempi normali, a nessuno viene in mente di sacrificare la propria vita per una causa superiore. Semplicemente, perché non ce n’è alcun bisogno. 

Extremis morbis extrema remedia

Se ci vediamo costretti a “rimedi estremi”, dunque, significa che viviamo tempi “anormali”. Ci troviamo, cioè, di fronte a quei “mali estremi” che impongono, appunto, “estremi rimedi”. “Extremis morbis extrema remedia”, si diceva un tempo. Pasolini, dunque, sa che il male che ha di fronte (il tentativo di eliminare la democrazia e restaurare un qualche tipo di regime neo-fascista) è estremo e richiede cure estreme. Per questo, non smette di lanciare l’allarme né di puntare, pubblicamente, il dito contro coloro i quali considera responsabili di quella deriva.

Io so – scrive – i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.

Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”.

Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli”.

Il richiamo della coscienza

Pasolini ha scelto, dunque. Andrà avanti, nonostante sappia benissimo cosa lo attende. Decisione difficilissima e rarissima, comune allo sparuto drappello di quelle anime “nobili” che considerano ineludibile il richiamo della coscienza: magistrati, uomini delle Forze dell’ordine, giornalisti, docenti universitari, politici, sindacalisti, attivisti, sacerdoti, personalità di quella società che chiamiamo “civile” ma che, evidentemente, tanto civile non è. Soprattutto con loro.

Martiri della Democrazia

Pochissimi tra quelli che potremmo definire “martiri della Democrazia dei Costituenti” – Dalla Chiesa (‘82), Falcone (‘92) e Borsellino (‘92: i numeri in parentesi indicano l’anno della loro esecuzione), ad esempio – vengono ricordati solo in occasione di ricorrenze ufficiali. Ricordi retorici, formali, vuoti, finti.

La stragrande maggioranza, invece, giace ormai praticamente dimenticata. Penso a nomi come Scaglione (‘71), Ferlaino (‘75), Coco (‘76), Occorsio (‘76), Casalegno (‘77), Calvosa (‘78), Palma (‘78), Tartaglione (‘78), Alessandrini (‘79), Terranova (‘79), Ambrosoli (‘79), Giuliano (‘79), Rossa (’79), Bachelet (‘80), Minervini (‘80), Giacumbi (‘80), Galli (‘80), Amato (‘80), Costa (‘80), Tobagi (‘80), Caccia (‘83), Chinnici (‘83), Fava (‘84), Tarantelli (‘85), Cassarà (’85), Siani (‘85), Conti (‘86), Rostagno (‘88), Ruffilli (‘88), Saetta (‘88), Giacomelli (‘88), Livatino (’90), Scopelliti (‘91), Puglisi (‘93), Diana (‘94), D’Antona (‘99), Biagi (2002). Ma la lista, purtroppo, è decisamente più lunga di così. 

Diciamoci la verità: di quanti di questi nomi sapremmo dire chi erano e perché furono giustiziati?

Cui prodest?

Tre domande:

  • come mai – fatta eccezione per le chirurgiche esecuzioni di D’Antona e Biagi – stragi e omicidi terroristico-mafiosi si fermano al 1994? 
  • Lo Stato aveva sconfitto criminalità organizzata e terrorismo o era sceso a patti con essi? Gli “indicibili accordi” tra Stato e Mafia ci furono davvero? 

Ha ragione la Cassazione (27 aprile 2023), che ha assolto “gli imputati del reato di minaccia a un corpo politico dello Stato, per alcuni avendo rilevato la loro estraneità ai fatti e per altri avendo dichiarato prescritto il reato”, dopo derubricato da reato consumato a reato tentato? Oppure ha ragione Nino Di Matteo (Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo) a sostenere (“Il colpo di spugna”, Fuori Scena, gennaio 2024): “Forse doveva andare così […] le istituzioni tutte dovevano sgomberare il campo da nubi così nere. Non potevano consentire che, in una sentenza definitiva (per quanto assolutoria) venissero consacrati, nero su bianco, rapporti di dialogo e scambio con il nemico dichiarato. Molto meglio, molto più rassicurante per il Paese, ricondurre a congetture fatti e rapporti così scabrosi”.

  • La “lotta armata” (prima fase del progetto eversivo che mirava alla sdemocratizzazione del nostro Paese) aveva esaurito il proprio compito ed era, quindi, giunto il momento di avviare la fase due: una via “non-violenta” alla restaurazione anti-democratica?

Eversione: dalla fase “hard” a quella “soft”

Personalmente, propendo per quest’ultima ipotesi: la “fase soft” subentra alla “fase hard” (della quale credo abbiano fatto parte anche gli “indicibili accordi” tra Stato e Mafia) nel momento nel quale quest’ultima esaurisce il proprio mandato. Non è certo un caso, infatti, se – nell’ultimo trentennio – partendo dalla damnatio memoriae del sistema dei partiti (cuore della democrazia rappresentativa voluta dai Costituenti), il tasso effettivo di democraticità della nostra democrazia è stato ridotto praticamente al lumicino. 

Sputtanare è meglio che ammazzare

Del resto, corrompere e sputtanare la classe politica è infinitamente più facile e pratico che eliminarla fisicamente. E, soprattutto, non presenta controindicazioni. Anzi: mette d’accordo tutti. Il pugno di ferro della lotta armata non aveva ottenuto gli effetti sperati. La reazione, infatti, non aveva prodotto la restaurazione autoritaria. Partiti, sindacati, lavoratori, studenti, professionisti, gente comune – in due parole: società e opinione pubblica – avevano rifiutato la brutalità di stragi e omicidi e fatto quadrato intorno ai valori costituenti e alla parte sana delle Istituzioni. Gli strateghi dell’eversione si rendono, quindi, conto che si impone un cambio di passo.

Riforme reazionarie

E, così – dai primi anni Novanta – il progetto eversivo viene portato avanti non più a colpi di armi da fuoco ma di riforme. Riforme “reazionarie”, dipinte come innocue e spacciate per “progressiste” e migliorative. Poco importa se non sempre “nuovo” è sinonimo di “migliore”. La voglia di cambiamento è talmente forte, che l’opinione pubblica non si accorge del fatto che le cose stanno prendendo una piega pericolosa. E, forse, nemmeno le interessa. Come si dice: “tanto peggio, tanto meglio”.

Verso l’autoritarismo invisibile

Partendo da bipolarismo, maggioritarismo ed esecutivismo, e passando per monocameralismo, presidenzialismo e/o premierato, la “fase soft” punta a instaurare una nuova forma di autoritarismo: un autoritarismo invisibile, mascherato da democrazia. L’obiettivo è sbarazzarsi della democrazia, senza darlo a vedere. Passare, cioè, surrettiziamente, da una democrazia reale a una democrazia apparente. E, quindi, a una non-democrazia.

La democrazia somiglia all’oro

Il fatto è che la democrazia non è come il silenzio, che c’è o non c’è. Somiglia, semmai, all’oro. Il suo valore, cioè, dipende dal suo grado di “purezza”. Un conto, infatti, è vivere in una “democrazia a 24 carati” – pura al 99,9% – tutt’altro conto è vivere in democrazie a 18k (75% di purezza), 14k (58,3%), 10k (41,7%), 9k (37,5%) o meno, quando la percentuale di oro è talmente bassa che non si può più parlare di oro ma ci si trova di fronte a una lega di metalli, priva di valore. 

Democrazia patacca

Ed è, esattamente, verso una “democrazia patacca” – placcata oro a 9 carati – che il Potere sta trascinando la democrazia italiana. E, sebbene tutti sostengano di sapere benissimo che “non è tutto oro quel che luccica”, in realtà fanno tutti finta di ignorarlo. Evidentemente, molto più della verità, possono il bisogno/la convenienza di credere a certe bugie e/o la paura di guardare in faccia la realtà. E, così, ci ritroviamo ormai a un passo dal raggiungimento degli obiettivi di quella “serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere” di cui parlava Pasolini.

Anime spregiudicate

A proposito di quella stagione, ho sempre pensato che – al di là delle molte, significative, differenze – Moro e Pasolini fossero anime molto più affini di quanto non sembrasse. Se non altro, dal punto di vista della fedeltà al mandato della coscienza. E credo che entrambi abbiano pagato con la vita la loro “spregiudicatezza”. Spregiudicatezza intesa, ovviamente, come disponibilità ad affrontare qualunque rischio pur di non venir meno al proprio dover essere. 

È vero: molto probabilmente, l’aggettivo “spregiudicato” non è mai stato utilizzato per definire la personalità di Moro. Eppure, credo che spregiudicato egli lo sia stato davvero. Una spregiudicatezza forse alimentata dalla forza della sua fede. Se Pasolini ha pagato la spregiudicatezza di una voce troppo libera, credo che Moro abbia pagato quella di una visione troppo libera della politica. Visione che il Potere giudicò intollerabile e inaccettabile per il mondo di allora. E che giudicherebbe ancor più intollerabile e inaccettabile per quello di oggi. 

Il crooner e l’urlatore

Entrambi vedevano e stigmatizzavano il presente con lucidità unica. E, con quella stessa lucidità, profetizzavano il futuro. Futuro che, non a caso, preoccupava tanto l’ateo quanto il credente. Preoccupazioni molto più che fondate, a giudicare dal presente che stiamo vivendo. 

Entrambi, inoltre, vivevano, con autenticità, la loro dimensione spirituale, possedevano una profonda conoscenza sia dell’animo umano che dell’in sé della politica e condividevano valori quali dialogo, confronto, solidarietà, giustizia sociale, libertà, pace.

La differenza, se c’era, era nel diverso modo di modulare la voce. Per usare una metafora musicale, si potrebbe dire che Pasolini fosse un “urlatore”, mentre Moro, un “crooner”. Il primo “gridava”, il secondo sussurrava; il primo “scomponeva”, il secondo “componeva”. 

Due outsider

Entrambi, però, erano outsider. Pasolini fuori e Moro dentro l’Establishment, è vero. Eppure, ugualmente outsider. E, in quanto tali, ingovernabili. Fu questo loro rimanere fedeli alla natura di outsider che, prima, li precipitò nell’isolamento e nella solitudine intellettuale e, poi, portò alla loro condanna a morte. E, così, un “poeta” e un politico tra i più grandi del secondo Novecento, si ritrovarono fianco a fianco sul Golgota, accomunati dal medesimo, tragico, destino.

I buoni? Sono quelli che vengono ammazzati

Due ingenui? Forse, se vogliamo utilizzare il dispregiativo con il quale il Potere definisce le anime sulle quali non può nulla. Le uniche delle quali abbia davvero paura. Come sappiamo che ne ha paura? Semplice: ce lo dice il fatto che le fa eliminare. Nessuno sprecherebbe nemmeno una pallottola per qualcuno che non gli crea alcun problema! In tema di Potere, dunque, non è poi così difficile distinguere i “buoni” dai “cattivi”. Di solito, infatti, i “buoni” sono quelli che vengono ammazzati.

Anche Moro sapeva

Gli omicidi Pasolini e Moro rappresentano due passaggi decisivi del processo di sdemocratizzazione del nostro Paese. Il secondo, in particolare, non fu – come i media lo definirono – un “attacco al cuore dello Stato”. Per genesi, obiettivi, modalità di attuazione e conseguenze, fu un vero e proprio colpo di Stato.

Come Pasolini, anche Moro sapeva. Due mesi prima dell’uscita dell’articolo di Pasolini sul Corriere, Moro – Ministro degli Esteri – è in visita ufficiale negli Stati Uniti. Nel corso di un incontro bilaterale, Henry Kissinger (all’epoca Segretario di Stato ma anche Responsabile della Sicurezza Nazionale USA) è particolarmente esplicito nel chiedere a Moro di abbandonare la politica del cosiddetto “compromesso storico”, vale a dire la partecipazione del Partito Comunista al governo del Paese. (Ricordo che, alle Politiche del 1976, il PCI aveva ottenuto quello che sarebbe rimasto il migliore risultato della sua storia: 12,6 milioni di voti, il 34,37% del totale. Alle stesse elezioni, la DC aveva ottenuto 14,2 milioni di voti: il 38,7% del totale. Le due forze, insieme, quindi rappresentavano ben il 73,1% dell’elettorato italiano).

Kissinger vs Moro

In una testimonianza giurata in sede processuale, il portavoce di Moro sostenne che Kissinger apostrofò con estrema durezza il Presidente DC: “Lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. O lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere”. 

Pare che, uscito da quell’incontro, Moro si sia rifugiato nella cattedrale di San Patrizio, fortemente turbato. Ebbe un malore e decise di anticipare il suo rientro in Italia. Una volta rientrato, disse al suo portavoce che intendeva “abbandonare per almeno due anni, la politica attiva”: “cominci a far circolare nei giornali la notizia”. Poi, però, cambiò idea. Avrebbe bevuto l’amaro calice. “Non credi che io sappia che posso fare la fine di Kennedy”, avrebbe confessato a una sua allieva dell’Università.

Impossibile stabilire se le minacce del Segretario di Stato USA siano state davvero così esplicite e pesanti. Kissinger ha sempre smentito di aver pronunciato quelle parole. Importa poco. Se non vere, sono senza dubbio verosimili. Del resto, per gli USA, la possibilità che il più grande Partito Comunista europeo (per come la vedeva Washington, 1 italiano su 3 era comunista: parola impronunciabile oltreoceano) entrasse nell’area di governo del nostro Paese era, semplicemente, inconcepibile. 

L’impotenza della politica

L’ho scritto decine di volte ma mi vedo costretto a ripeterlo ancora. Forse perché – al pari di ogni verità contro-intuitiva – è difficile da credere: la politica non detiene il Potere. È il Potere che detiene la politica

Se non credete alle mie, credete almeno alle parole di Moro, che di politica certo se ne intendeva. Ecco cosa dice il 24 ottobre 1965, rispondendo a Eugenio Scalfari che lo intervista per l’Espresso: «La gente pensa che noi abbiamo un’autorità immensa, che possiamo fare e disfare tutto, e per di più impunemente. Una parola del presidente del Consiglio, una firma d’un ministro e tutto è risolto, qualunque affare lecito o illecito può diventare una realtà. Come se noi disponessimo d’una bacchetta magica e potessimo usarla come ci pare. Questo pensa la gente. E invece non è vero niente. Lei m’ha chiesto prima cosa penso della crisi dello Stato. Ecco cosa penso: che il potere esecutivo, o meglio la classe politica che è al vertice del potere esecutivo, ha limitate possibilità d’intervento e di comando». Limitate possibilità d’intervento e di comando: cerchiamo di non dimenticarlo.

Via Fani: epilogo non avvio 

Solo uno sprovveduto, dunque, può pensare che una personalità dell’intelligenza – non solo politica – di Moro non avesse capito che la sua condanna a morte era stata pronunciata molto prima dell’agguato di Via Fani. Via Fani è l’ultimo, non il primo atto di quel progetto: l’epilogo, non l’avvio. 

Una volta visto il “dietro le quinte” del progetto eversivo, Moro non poteva più avere alcun dubbio riguardo a con chi avesse a che fare e quale fosse il disegno complessivo. Se Pasolini conosceva i nomi dei “golpisti”, infatti, più e meglio di lui li conosceva Moro. E, al contrario di Pasolini, molti di quei nomi, li aveva probabilmente conosciuti anche di persona. Come Pasolini, dunque, Moro sapeva. E, come per Pasolini, il suo sapere e non tirarsi indietro è il motivo stesso della sua morte.

Conclusioni

Perché questa lunga riflessione?

Per la speranza che almeno tre cose, a mio avviso fondamentali, risultino il più possibile chiare:

  1. Nulla – negli ambiti nei quali opera il Potere – avviene per caso. Nulla.

  1. Tutto è collegato“fatti anche lontani”, “pezzi disorganizzati e frammentari” – e governato da una logica rigorosa, anche “là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. Se non la vediamo, non è perché tale logica non esiste ma perché non siamo capaci di vederla.

  1. Arbitrarietà, follia, mistero, attentati, stragi, delitti, insabbiamenti, depistaggi, disinformazione, propaganda, bugie, fake news, “panem et circenses” sono le armi di distrazione di massa con le quali il Potere – come il più grande di tutti gli illusionisti – ci fa vedere una realtà irreale, per impedirci di vedere quella reale, il cui destino deve dipendere, esclusivamente, dalla sua volontà.

Cosa possiamo fare? Non molto, in verità, se non provare a “immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace”, a mettere “insieme i pezzi disorganizzati e frammentari” della realtà, e a ristabilire “la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. 

Facile? Tutt’altro. Indispensabile, però, se desideriamo cercare di scoprire la differenza che c’è tra vivere e sopravvivere. 

Uniamo i puntini, dunque. E forse, come nel celebre gioco de “La Settimana Enigmistica”, riusciremo a scoprire qual è il vero volto della realtà nella quale viviamo. Forse.

Lotta, un termine antico che richiama il combattimento. Ma in senso più lato richiama la lotta per la sopravvivenza, per il riconoscimento, per la verità. C’e’ anche filosoficamente una lotta amorosa. Ma procediamo per gradi. Fin dalle origini la specie umana ha dovuto lottare per la sopravvivenza. Il Sapiens sapiens, a cui apparteniamo, è quello che è meglio riuscito nell’adattamento, ma già dalle prime comunità umane fino alle moderne società si sono presentati conflitti tra tribù, gruppi e classi sociali, rappresentati dal concetto marxista di lotta di classe, oggi ormai non più in voga. Occorre anche ricordare le guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa per secoli e che tuttora continuano a seminare odio e terrore nel mondo, spesso al servizio di interessi politico-economici.

Nel mondo globalizzato assistiamo a disparità più o meno evidenti in tutto il pianeta, che si stanno sempre più accentuando con il procedere dello smantellamento degli stati sociali e dei sistemi di welfare. Seppur nel mondo l’Europa ha una maggior capacità redistributiva, l’Italia e’ quella che ha l’indice di Gini più alto (indicatore che misura le diseguaglianze: più è basso e più ci si avvicina ad una situazione di uguaglianza) del Vecchio Continente. Siamo comunque in una situazione di concentrazione delle ricchezze in mano di pochi, pari a quella di un secolo fa.

La lotta per ridurre le diseguaglianze e’ sicuramente una priorità a livello mondiale anche se i segnali non vanno purtroppo in tal senso. Sembra che gli egoismi continuino a dominare anzi, si stiano maggiormente diffondendo e radicando nei popoli stessi.

C’e’ poi, la lotta per il riconoscimento, su cui non mi vorrei dilungare perché è stato il tema di un nostro recente numero di Condi-Visioni (gennaio-febbraio 2024).

 Il riconoscimento e’ un concetto trattato in molte discipline, tra cui la sociologia, la psicologia e la filosofia. Oltre alla hegeliana lotta per la vita e la morte tra auto-coscienze, culminante nella dialettica servo-padrone, vorrei solo ricordare la “Lotta per il riconoscimento” di Axel Honneth, eminente sociologo e filosofo erede della scuola di Francoforte, come grammatica dei conflitti sociali e processo storico continuo di ricerca dei diritti dovuti alle esclusioni, alle violenze e alle umiliazioni.

Venendo alla lotta per la Verità, possiamo dire che la filosofia è ricerca stessa della verità, anche se questo è un concetto limite, irraggiungibile. In termini pratici, in un mondo dominato dalle fake news, dalle echo chambers dei social, dai negazionismi e dai complottismi, la lotta per la ricerca della verità è una questione quanto mai attuale e urgente. Si pensi ad esempio alle vicende no vax, alle più recenti discussioni sui cambiamenti climatici o alle verità sui genocidi. Andando in tempi meno recenti, alle stragi attuate durante la strategia della tensione in Italia, che ancora attendono risposte. In questi giorni è scomparsa Licia Pinelli, moglie del partigiano, ferroviere, anarchico Pino, morto nel dicembre del 1969 per una “caduta” da una finestra della Questura di Milano; ella ha sempre lottato per la verità nella Notte della Repubblica. Ci sono tantissimi altri casi grandi e piccoli che qui vorrei citare, come quello di Pietro Orlandi, che lotta per la verità sulla scomparsa della sorella Emanuela avvenuta ormai nel lontano 1983, ma la lista sarebbe lunghissima.

 Voglio solo evidenziare, reduce da un recente viaggio in Argentina, che le madri di Plaza de Mayo a Buenos Aires, costituitesi in Associazione, marciano ininterrottamente da oltre 40 anni, tutti i giovedì di ogni settimana, chiedendo verità per i desaparecidos della dittatura che governò l’Argentina dal colpo di stato del 1976 fino al passaggio a un governo eletto dai cittadini nel 1983.  Un esempio di lotta tenace e indefessa.

Per lasciarci con un messaggio di speranza, c’è anche quella che il grande psicopatologo e filosofo Karl Jaspers chiama lotta amorosa. E’ nella genuina comunicazione tra esistenze che avviene quella ricerca vera di intesa reciproca e comprensione comune che dovrebbe essere la dimensione non di un ingenuo e scontato stare in comunità ma di una dimensione che ci veda tutti impegnati in questa lotta della comunicazione dove trovano spazio la fiducia e  la solidaristica umana, con l’esclusione di qualsiasi forma di potere: la lotta amorosa.

La vita non esiste in natura. Ce la siamo inventata noi. A guardarsi intorno, non c’è granché di cui andare fieri. Di certo, non la migliore delle nostre invenzioni. Tra le peggiori, anzi. Se non la peggiore. 

Né potrebbe essere altrimenti. Essendo una nostra creazione, infatti, è impossibile che non ci assomigli. E, dato che, dentro di noi, prevale il male, è inevitabile che prevalga anche nelle cose che facciamo. E la vita, purtroppo, non fa eccezione. 

Comandamenti rivelatori

Chi nega che, nella natura umana, prevalga il male, non conosce (o finge di non conoscere) sé stesso e nega la realtà

Se la nostra natura, infatti, fosse orientata al bene, che bisogno ci sarebbe di così tanti comandamenti/divieto? Sette su dieci, tanto nel Vecchio quanto nel Nuovo Testamento. Ricordo solo i più “terreni”: non uccidere, non rubare, non dire falsa testimonianza, non commettere adulterio/atti impuri, non desiderare la donna e le cose degli altri d’altri. 

Chiunque li abbia scritti, ci conosceva molto bene. Più di noi stessi. E sapeva che, se fossimo stati lasciati liberi di assecondare la nostra vera natura e soddisfare istinti, bisogni, desideri, la vita sulla Terra sarebbe diventata un vero e proprio inferno. E, malgrado poche regole, che più chiare di così non potrebbero essere, è davvero un inferno quello nel quale viviamo.

Amare è contro natura

A essere onesti, c’è stato un uomo che ha provato a rovesciare la prospettiva. Si chiamava Gesù Cristo e, forse proprio per questo, ha fatto la fine che ha fatto. Cosa sosteneva? Che il comandamento più importante di tutti fosse il comandamento dell’amore: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Dopotutto, se uno ama davvero, non uccide, non ruba, non dice falsa testimonianza, non commette adulterio/atti impuri, non desidera la donna e le cose degli altri d’altri. Un unico comandamento “positivo”, che rendeva “inutili” i sette “negativi”.

Più facile obbedire a un’unica legge che a sette leggi diverse? Niente affatto. Immensamente più difficile, a quanto pare. Ulteriore prova del fatto che la natura umana è fatta per odiare e non per amare. Ci piaccia o no, l’homo homini lupus è la regola: l’amore non è che un’eccezione. Sempre più rara, tra l’altro. Del resto, se amare fosse naturale, che senso avrebbe comandarci di farlo?

Tra bene e male, scegliamo il male

E, così, l’umanità se n’è allegramente sbattuta, sia dei sette comandamenti della “tradizione” ebraica, sia dell’unico comandamento della “rivoluzione” cristiana. (Del resto, come si fa a dar retta a un pazzo che predica: “amate i vostri nemici?”). E, da migliaia e migliaia di anni, tra “bene” e “male”, continua a scegliere il male.

Il serpente mi ha ingannata

La domanda è: stando così le cose, ha senso nascondersi dietro a luoghi comuni del tipo: “così è la vita”? Neanche un po’. 

Il punto è che la vita non è affatto così. Siamo noi che l’abbiamo voluta così e che continuiamo a volerla così. E visto che, oltre che ipocriti, siamo anche pavidi, ci guardiamo bene dall’assumerci le nostre responsabilità e le attribuiamo alla “vita”, come se fosse un’entità mitologica, preesistente alla nostra apparizione sulla Terra. E così, dalla notte dei tempi, non facciamo che praticare il più antico e ignobile degli scaricabarile: il biblico “Il serpente mi ha ingannata”. 

La colpa è sempre dell’altro

E, come per magia, la colpa passa da noi a qualcun altro: mamma e papà (giurassici e “cringe”: non mi capiscono), mio fratello Caino (troppo cattivo), mio fratello Abele (troppo buono), la maestra (troppo severa), i professori (ce l’hanno con me!, chi c***o si credono di essere?), compagni di scuola, amici, colleghi di lavoro (stupidi, stronzi, invidiosi), le donne (tutte mignotte), gli uomini (tutti puttanieri), mia moglie (zoccola), mio marito (stronzo), il capo (bastardo)… e, naturalmente: i Russi, gli Americani, l’Europa, il Mercato, il Palazzo; dollaro, euro, bitcoin, BCE, FMI; negri, ebrei, musulmani, comunisti; froci, lesbiche, trans, queer & Co; stranieri, immigrati, zingari; poveri, disabili, malati, vecchi… 

In una parola, l’altro. L’odiato nemico; l’essere demoniaco che è causa di tutti i nostri mali e che non vediamo l’ora di eliminare. Essere demoniaco, con il nostro “stesso identico umore ma la divisa di un altro colore”, per dirla con De Andrè, il quale ricambia il nostro odio e non vede l’ora di eliminare noi. Come diceva l’uomo sulla croce? “Amate i vostri nemici”?

Ne resterà soltanto uno

Ma se il problema fosse davvero l’altro, come mai – dopo che lo abbiamo cancellato dalla faccia della Terra, migliaia e migliaia di volte, in migliaia e migliaia di guerre, che sono costate centinaia e centinaia di milioni di morti – i nostri problemi sono ancora tutti qui?

Quando scompariranno? Quando “ne resterà soltanto uno”, come diceva Highlander? Ne siamo davvero sicuri? E cosa succederà, a quel punto? Sicuri che l’ultimo dei mortali riuscirà a sopravvivere alla fine dei conflitti (“E quando fu di fronte al mare, si sentì un coglione perché, più in là, non si poteva conquistare niente”, canterebbe Vecchioni) o, non avendo più nessun nemico da combattere, finirà per diventare il nemico di sé stesso e auto-eliminarsi? 

Solo alla morte non c’è rimedio

Quando diciamo che solo alla morte non c’è rimedio, riconosciamo, implicitamente che, per tutto il resto, il rimedio c’è

Il che significa che c’è rimedio all’odio che ci spinge a un sempre più esasperato tutti-contro-tutti, alle mille guerre che devastano il pianeta, all’irrefrenabile, suicida, distruzione dell’ambiente, a un capitalismo sempre più selvaggio e alle distorsioni di un Mercato completamente fuori controllo, che divora tutto e tutti come un Leviatano, alla devastante (non)distribuzione della ricchezza (per la prima volta nella Storia, una ventina di persone possiede una ricchezza pari a quella di quasi 4 miliardi di persone: l’equivalente di metà della popolazione mondiale), al degrado morale e alla corruzione, che non risparmiano nessun ambito della nostra vita, privata o pubblica che sia.

Se il rimedio esiste, perché non lo adottiamo?

A questo punto, la domanda è: se, per tutte queste cose, il rimedio esiste, perché non lo adottiamo? Come mai l’odio non fa che crescere e le guerre si moltiplicano, con il rischio di trascinare l’umanità verso l’Armageddon? E come mai capitalismo, consumismo, inquinamento, deforestazione, sfruttamento sconsiderato delle risorse, cambiamento climatico, concentrazione delle ricchezze, povertà estrema, razzismo, xenofobia, patriarcato, sessismo, omo-lesbo-bi-transfobia, degrado morale e corruzione appaiono, ormai, incontrollabili e inarrestabili?

Il serpente siamo noi

La risposta c’è, è semplice, la conosciamo da sempre ma non la vogliamo sentire: il serpente siamo noi. E, fino a quando non riusciremo a estirpare il male da noi, sarà impossibile riuscire a estirparlo dalla realtà. E la vita sarà sempre la stessa: una barca alla deriva, in balia del peggio di noi.

Speranza: o forza di cambiamento o inutile utopia

Speranza è una tra le parole più mal interpretate, abusate e strumentalizzate di sempre. Qualunque cosa sia – virtù, sentimento, atteggiamento mentale, forza interiore – credo che abbia un senso e un valore solo se la consideriamo una miscela di fiducia e volontà. Fiducia nella possibilità di cambiare davvero noi stessi e le cose; volontà di impegnarci per concorrere a realizzare tale cambiamento. In questo senso, ha ragione Camus a dire che, quando non c’è speranza, ci si deve inventare la speranza. 

La speranza, quindi, ha senso e valore solo qui e adesso. In questa vita, intendo. Non nella prossima, sempre ammesso che esista. Questo, per due ragioni. La prima è che questa è l’unica vita certa che ci è dato di vivere. La seconda è che, ammesso che esista una vita-dopo-la-vita, essendo essa creazione di Dio (che è amore) e non dell’uomo, per affrontarla, non avremo alcun bisogno della speranza.

Palliativo o placebo: strumento del male

Se la speranza non è miscela di fiducia e volontà, non serve. O è un palliativo – allevia i sintomi ma non cura la malattia – o un placebo: non cura ma illude sul fatto che ci stiamo curando. In entrambi i casi, più che inutile è dannosa, perché ci induce a non lottare per il cambiamento ma ad attendere la vita nell’aldilà per ottenere, finalmente, tutto ciò che, nell’aldiqua, consideriamo impossibile ottenere: giustizia, pace, libertà, diritti e una vita davvero degna di essere chiamata vita. 

Se ci arrendiamo e rinunciamo a lottare, il danno sarà doppio, catastrofico e irreparabile. Né le persone né le cose cambieranno mai, e la speranza, da strumento del Bene, diventerà strumento del Male. Tranquilli, però: non sarà stata colpa nostra. È il serpente che ci ha tentati.

Fin dalla notte dei tempi, l’umanità ha dovuto affrontare una continua battaglia per la sopravvivenza: trovare cibo, riparo, sicurezza in un mondo spesso ostile e imprevedibile è stata una sfida costante che ha plasmato il nostro DNA evolutivo.
Ma questa lotta esterna, questa necessità di assicurarci le risorse necessarie per vivere, si è col tempo trasformata in una battaglia più intima e personale.
Oggi, mentre le nostre condizioni di vita si sono notevolmente migliorate, la lotta per la sopravvivenza non è scomparsa, ma è diventata sempre più una sfida interiore. Siamo costantemente chiamati a superare gli ostacoli che il mondo ci pone davanti, ma la vera battaglia risiede in noi stessi, nella nostra capacità di affrontare le nostre paure, le nostre debolezze, i nostri demoni interiori.
Questa lotta personale è forse la più ardua, ma è anche quella che ci plasma, che ci rende più forti e determina chi siamo veramente. Proprio come quella verso l’ambiente ha plasmato il nostro DNA.

Ognuno di noi, nel corso della propria vita, deve affrontare momenti di incertezza, di smarrimento, di profonda crisi interiore.
Sono quelli i momenti in cui la lotta per la sopravvivenza è la lotta per la preservazione della nostra identità.

Che si tratti di problemi personali, professionali o di qualsiasi altra natura, la nostra esistenza è costellata di momenti difficili che mettono alla prova la nostra determinazione. È in questi frangenti che la lotta diventa essenziale, la capacità di non arrendersi di fronte alle avversità che la vita ci presenta.

“Non importa quanto sia dura la vita, c’è sempre qualcosa che puoi fare e in cui puoi riuscire” (Stephen Hawking).

È la nostra capacità di adattarci e di rialzarci dopo ogni caduta, a definire chi siamo e a definirci come individui.

La lotta è il viaggio che ci conduce alla scoperta di noi stessi, delle nostre passioni, dei nostri sogni, definirili per poi, seguendoli, diventare la versione migliore di noi stessi.

Immaginate lo stupore di quel gruppo di persone che qualche anno dopo la Seconda Guerra Mondiale hanno scoperto piste d’atterraggio non segnalate, intagliate tra il fitto della boscaglia della foresta malinesiana. Immaginate lo sconcerto nel vedere che le piste di atterraggio non erano state create per far atterrare aerei per il traffico di contrabbando nè di droga, ma avevano uno scopo più alto. A volte ci viene più facile pensare ad una cosa in modo che sia illegale, che sia criminale e criminoso, invece che pacifica e – in qualche modo – tenera.
Le piste di atterraggio – sì, al plurale – erano state create tagliando gli alberi, ponendo torce ai lati della pista e finte torrette di controllo e aerei parcheggiati ai lati della pista. Tutto fatto in legno e bambù. Comprese le cuffie da operatore radio. Di legno e noce di cocco.

Gli indigeni che vivevano nel fitto della boscaglia, lontano dai grandi centri abitati e dalla civiltà così come ce la immaginiamo noi, lontani anche dalle brutture e dagli abomini che gli uomini civili stavano facendo ad altri uomini civili nel corso della Seconda Guerra Mondiale, avevano osservato l’arrivo di enormi aerei carichi di beni materiali sulle loro isole per mesi, per anni. Erano venuti in contatto con i “miracoli” della modernità, a loro prima inaccessibili, ricevendo con quelle spedizioni, tantissime razioni di cibo e vestiti confortevoli che non avevano mai visto prima. Tanto da pensare che fossero davvero dei Miracoli.
Per quelle popolazioni i beni materiali provengono, giungono a terra per la benevolenza degli spiriti degli antenati. Quindi quelle razioni di cibo e quei vestiti non potevano essere altro che doni divini.
Il “culto del cargo” nasce così: riti, danze utili ad attirare di nuovo quegli “Dei del cielo” con i loro preziosi carichi. Preparando ambienti che in qualche modo potessero risultare “familiari”. La ripetizione formale di strutture esteriori, sulle quali però non si ha che una superficiale cognizione della complessità che vi si cela dietro.

Un comportamento ingenuo, ridicolo…ma a quegli indigeni il comportamento risultava essere normale, logico, giusto, addirittura doveroso.

Fino a qualche giorno fa, di questa storia, non ne sapevo assolutamente nulla.
Un collega mi ha parlato di questo Bias Cognitivo, del Bias Cognitivo – quindi riconosciuto dalla comunità scientifica – chiamato “Culto del Cargo”. Tutti gli esseri umani lo hanno, e anche noi, nella nostra “modernità” ci comportiamo in modo simile a quegli indigeni malinesiani.

Pensiamo ai bias cognitivi che influenzano le nostre scelte quotidiane:

Il mito della meritocrazia: credere che “basta lavorare sodo” per ottenere successo, ignorando i fattori strutturali, le disuguaglianze o la semplice fortuna.
La fede nelle mode e nelle tendenze: come indossare scarpe di un marchio prestigioso o seguire diete miracolose, nella speranza di attirare il “cargo” del successo o della felicità.
La dipendenza dai rituali professionali: pensiamo ai meeting o alle presentazioni con grafici complicati, non sempre necessari, ma ripetuti perché ritenuti simboli di efficienza. Non sono, forse, le nostre versioni delle piste di atterraggio di bambù?

Bias cognitivi: la trappola della mente razionale
Le neuroscienze e la psicologia moderna ci spiegano che siamo predisposti a vedere schemi anche dove non ci sono. Questo fenomeno, noto come apofenia, ci porta a interpretare coincidenze come relazioni causali. Non è diverso da un villaggio melanesiano che collega l’apparizione degli aerei ai propri rituali.

Investire in criptovalute senza comprenderne i meccanismi, solo perché “tutti lo fanno”.
Seguire guru motivazionali che promettono formule magiche per il successo, imitando atteggiamenti o posture ritenute “vincenti”.
Il consumismo rituale: pensiamo al Black Friday, dove acquistare diventa un rito collettivo, quasi una celebrazione.

Un altro esempio emblematico è il rapporto con la tecnologia.
Smartphone, intelligenza artificiale, blockchain: spesso li veneriamo senza comprenderne realmente il funzionamento. Cerchiamo “soluzioni magiche” ai nostri problemi, affidandoci ciecamente a qualcosa che percepiamo come superiore, quasi divino.

Le start-up tecnologiche hanno i loro rituali: hackathon, stand-up meetings, pitch perfetti per attirare gli “investitori-dei” che portano il “cargo” dei finanziamenti.

Il culto del cargo ci offre uno specchio: ciò che consideriamo superstizione negli altri spesso è solo un’interpretazione diversa della nostra stessa irrazionalità. Forse non costruiamo aerei di bambù, ma inseguiamo simboli e rituali, nel tentativo di controllare un mondo imprevedibile.

Il confine tra razionalità e irrazionalità è più labile di quanto vorremmo ammettere.
Guardare con rispetto le credenze altrui significa riconoscere i nostri stessi limiti, accettando che, in fondo, siamo tutti umani.
I “cargo” che cerchiamo sono diversi, ma la speranza che ci guida è la stessa.

(Grazie Marino)