“Sii te stesso; tutti gli altri sono già occupati.”
Suona frivolo e leggero, ma al suo interno questo aforisma di Oscar Wilde (e chi altri avrebbe potuto scriverlo..?) ha in sé un certo carico di profondità. Perché non c’è altro modo per essere vivi, se non essere autentici. Ma cosa significa davvero? La ricerca dell’identità è un viaggio antico quanto l’umanità stessa, e in effetti pensatori e filosofi di ogni epoca, fin dall’antichità si sono confrontati con il quesito: chi siamo davvero? Ecco vorrei scrivere un articolo sull’identità e sulla maschera e per questo invocherò Socrate e Oscar Wilde. Wilde, con il suo usuale sarcasmo, sosteneva che “La maschera che porti mostra più verità di quanto credi.” E se non pensiamo ad una maschera di cartone, questo pensiero si riflette sulla visione che sosteneva Socrate, che con il suo famoso motto “Conosci te stesso”, spingeva gli individui a guardare oltre le apparenze e a interrogarsi sulla propria natura. La maschera è parte del gioco dell’identità, mentre per Socrate la ricerca interiore, con il suo rigoroso processo, sosteneva che ve ne fosse una sola di identità per il proprio “Io”.
Le maschere che scegliamo di indossare fanno parte di chi siamo, o sono solo strumenti di sopravvivenza sociale?
Identità fluida e cambiamento: Eraclito e il mondo moderno Eraclito, il filosofo del divenire, ci ricorda che “Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume”: l’identità non è statica. Le nostre identità si evolvono con le esperienze, con ciò che consumiamo sui social media, con i cambiamenti di lavoro, di relazione, di ambiente.
La comicità dell’identità: ridere di se stessi “Non sono felice di essere chi sono, ma sono anche troppo pigro per essere qualcun altro.” così George Carlin vede l’inerzia che abbiamo rispetto al nostro cambiamento: un processo faticoso che a volte cerchiamo di evitare per rifugiarci nelle nostre certezze, nelle abitudini, nelle cose, negli oggetti, negli spazi, nei tempi nei quali sentiamo il nostro essere, che lo definiscono. L’identità come “cosa” delimitata dai nostri limiti, come da confini.
L’identità digitale: il nuovo Sé Su ogni social network, nel mondo di internet, sui siti, sulle app, la nostra identità online è spesso una versione filtrata (quando non proprio edulcorata) di noi stessi. Wilde, se fosse vissuto oggi, probabilmente avrebbe commentato qualcosa del tipo: “Non si può uscire di casa senza sé stessi e senza il sé per i propri follower.” come fosse un bastone da passeggio da dandy.
Forse la lezione finale la possiamo trarre da Wilde stesso: “La vita è troppo importante per essere presa sul serio.” E così è anche per l’identità. Sta a noi trovare il giusto equilibrio tra profondità e leggerezza, tra maschera e autenticità, in un viaggio che, dopotutto, ha solo una destinazione.
“Il guaio è che gli uomini studiano come allungare la vita, quando invece bisognerebbe allargarla.” Penso a questa frase di Luciano De Crescenzo quando inizio a leggere le esperienze di Guendalina Stabile.
Dopo essersi laureata all’Università Luiss di Roma, con un percorso che ha combinato studi in Impresa e Management e una specializzazione in Marketing, ha scelto di seguire la propria passione per i viaggi e la comunicazione digitale. Nel 2018, con grande determinazione, ha creato un progetto che unisce queste due dimensioni, trasformando il suo interesse in una carriera freelance. Oggi è una professionista del Content Creation e della Comunicazione Digitale, lavorando su blog e canali social che raccontano storie di viaggio, e supportando brand e individui attraverso consulenze mirate a migliorare le loro strategie online e offline. Ha saputo creare una community appassionata e un lavoro che riflette a pieno la sua identità e i suoi valori.
Si definisce una “Libera Viaggiatrice” che ha come centro del suo modo di agire l’ottimismo, nella passione e nella libertà. Inizio a porle alcune domande proprio con la sensazione che mi condurrà alla scoperta del suo mondo interiore, così come, seguendola sui social network conduce nei vari angoli del mondo.
Il tuo progetto di Content Creation e Comunicazione Digitale è iniziato nel 2018. Cosa ti ha spinto a lasciare il percorso tradizionale post-laurea e creare qualcosa di tuo, coniugando passione e lavoro?
Nel 2017 ho concluso il mio percorso di laurea magistrale in economia e marketing ed ho subito cominciato a lavorare in una grande azienda nel settore del marketing. Il blog e la relativa pagina Instagram sono nati proprio nel 2018 come hobby mentre svolgevo il mio lavoro principale. Ho sempre avuto un grande amore per i viaggi sin da bambina, trasmesso in primis dalla mia famiglia che mi ha sempre portato in viaggio con sé intorno al mondo. Mi ha inoltre sempre entusiasmato scattare foto e scrivere dei miei viaggi e quindi un progetto online che coniugasse i social e la mia formazione di marketing, le foto e la scrittura di viaggio è entrato in modo del tutto naturale nella mia vita.
Il progetto “eleutha” è cominciato quindi come attività parallela al mio lavoro e piano piano ha preso sempre più spazio fin quando è diventato nel 2022 il mio lavoro principale. E’ stato un lungo percorso sicuramente mosso dalla volontà di trasformare la mia passione nel mio lavoro. Purtroppo non mi rispecchiavo nella vita d’ufficio che stavo conducendo e questo ha sicuramente alimentato il mio desiderio di cercare una vita che mi desse più libertà e che mi soddisfacesse appieno. Oggi sono davvero felice della mia scelta.
Viaggiare è una parte centrale del tuo progetto. Come sono cambiate le tue esperienze di viaggio da quando hai iniziato a crearne contenuti per il tuo blog e i canali social? Hai notato un impatto sul modo in cui ti relazioni con i luoghi e le persone che incontri?
Il mio progetto online ha sicuramente inciso sul modo che ho di rapportarmi ad un viaggio perché ad oggi non è più solo vacanza ma a tutti gli effetti anche lavoro. Anche quando non sono in viaggio appositamente per creare contenuti per un brand o una struttura ricettiva ma solo per il mio piacere personale, ho comunque il pensiero di creare contenuti autentici ed interessanti per la mia community. Quando la passione diventa lavoro si finisce per lavorare sempre e non lavorare mai allo stesso tempo. Ad esempio uno dei miei ultimi viaggi che non aveva nulla a che fare con collaborazioni di lavoro è stato l’on the road nell’ovest degli Stati Uniti che la mia migliore amica ed io ci siamo regalate per i nostri 30 anni. Non avevo nessun obbligo di creare contenuti ma quei paesaggi mozzafiato e le atmosfere da film mi hanno ispirato tanti contenuti foto – video che hanno raccontato la nostra avventura e che sono stati apprezzatissimi dalla mia community di viaggiatori. Quando invece sono in viaggio appositamente per creare contenuti è a tutti gli effetti lavoro con impegni, scadenze, un programma da seguire ed obiettivi da raggiungere in cui però cerco sempre di vivere appieno momenti e destinazioni. La linea che separa lavoro e vita personale è molto difficile da mantenere ma faccio sempre tutto con grande entusiasmo e gratitudine per riuscire a lavorare facendo quello che amo.
Oltre a creare contenuti di viaggio, offri consulenze di marketing. Come riesci a bilanciare il lato creativo con quello strategico e consulenziale? E come questi due aspetti si influenzano a vicenda?
Il marketing mi ha sempre appassionato ed ha sempre fatto parte della mia vita a partire dagli anni dell’università. In fondo con il tempo due strade che sembravano così distanti come quella del creator online e del professionista nel campo del marketing si sono rivelate più vicine del previsto. L’online marketing, l’influencer marketing e la creator economy sono tutte facce dello stesso dado. Un momento in cui me ne sono davvero resa conto è stato in Thailandia. Partecipavo ad un viaggio stampa con l’ente del turismo ed un pomeriggio è stata organizzata una riunione tra giornalisti, creator, imprenditori di attività locali ed i rappresentanti dell’ente Thailandese. Abbiamo discusso di destination marketing quindi di targeting e segmentazione del mercato, di strategie di comunicazione, punti di differenziazione e di online marketing. Quel pomeriggio ho potuto dare il mio contributo sia come creator che come professionista di marketing e ricordo di aver pensato che si fosse davvero chiuso un cerchio e che tutto il mio percorso, per quanto insolito, avesse avuto un senso.
Lavorare come freelance in ambito digitale richiede una continua innovazione. Come ti mantieni aggiornata sulle nuove tendenze nel mondo della comunicazione digitale e quali strumenti trovi più utili per migliorare la tua strategia?
La mia e quella dei miei colleghi è una professione in continuo cambiamento e che sono consapevole continuerà a cambiare nel corso degli anni. Dovremo essere bravi a cambiare col mercato. Personalmente cerco di rimanere sempre aggiornata attraverso podcast o conferenze ma soprattutto essendo sempre presente sulle piattaforme e confrontandomi con colleghi italiani ed internazionali. Essere presente ogni giorno è l’unico modo per rimanere aggiornati in un mondo in divenire.
I social media sono una grande parte del tuo lavoro. Qual è la tua filosofia personale quando si tratta di creare contenuti per la tua community? C’è un messaggio o un valore che cerchi sempre di trasmettere?
Cerco sempre di conoscere e condividere i luoghi del mondo in modo rispettoso e consapevole e di ispirare chi è seduto dall’altra parte dello schermo a fare altrettanto. Amo condividere luoghi ed esperienze autentiche e particolari, senza dimenticare di lasciare ai viaggiatori informazioni utili per poter replicare tali esperienze. Credo nell’ottimismo e nella positività che cerco sempre di trasmettere nelle mie interazioni online ed offline. Credo nel presentare i posti del mondo attraverso le loro bellezze naturali, la loro cultura, storia ed arte senza per forza cercare sensazionalismi come spesso si vede, ma piuttosto lasciando a volte spazio alla riflessione personale ed pensiero critico. Quando ho raccontato delle terribili condizioni di lavoro della grande miniera d’argento di Potosì in Bolivia, della storia di rinascita delle favelas Colombiane o fatto riflessioni sulle attuali condizioni di vita dei nativi americani nelle riserve, sulla povertà di Cuba o sulla bomba atomica di Hiroshima senza dubbio non ho ottenuto grandi numeri in termini di views ed interazioni, come avrebbero attirato contenuti più leggeri, ma mi è sembrato doveroso condividere per onestà intellettuale e per cercare di raccontare davvero, con pensiero critico, un viaggio ed una destinazione.
Quanto credi che le esperienze di viaggio abbiano contribuito a modellare la tua identità? In che modo i luoghi che visiti e le persone che incontri influenzano il modo in cui vedi te stessa e il mondo?
Moltissimo. Sicuramente senza le mie esperienze di viaggio sarei una persona differente. Da ogni viaggio si torna cambiati ed arricchiti. Non solo si portano a casa le meraviglie viste ma anche le riflessioni fatte, le storie delle persone incontrate e tutto ciò che si è imparato di nuovo, da una nuova lingua ad una nuova ricetta, da una nuova tradizione a nuove possibilità di vita. Viaggiare mi ha fatto capire più di ogni altra cosa quanto il nostro sia solo un modo di vivere di tanti e che più si allarga il proprio orizzonte più si comprenda come le possibilità siano infinite. Ho dormito a casa di una famiglia che vive su una delle isole galleggianti del Lago Titicaca in Perù, ho conosciuto un pescatore nato, cresciuto e vissuto sempre sullo stesso piccolo atollo indonesiano, ho immaginato come potrebbe essere la mia vita se decidessi di trasferirmi a Rio de Janeiro o nel nord della Norvegia. Miliardi di possibilità, luoghi e stili di vita differenti che anche se non scegli osservi ed interiorizzi e contribuiscono come tanti mattoncini a formare la persona che sei ed a forgiare ciò in cui credi.
Non pensavo di vedere il seguito di Inside Out, ma in un pomeriggio piovoso mi sono trovato sul divano a guardarlo e ne sono rimasto piacevolmente spiazzato. Come nel primo film la narrazione è lasciata alle emozioni, i pupazzetti curiosi che hanno sembianze umane hanno slanci caratteristici di quello che rappresentano e così abbiamo Gioia che è sempre allegra e Tristezza che invece non lo è mai, Disgusto e Rabbia, Paura che tremante è sempre in un angolo.
Ma in questo secondo film, che è uscito a quasi 10 anni dal primo (ma quanto tempo è passato!) in questo viaggio attraverso il prisma delle emozioni, si esplora profondamente il concetto di identità proprio nel momento della transizione dall’infanzia all’adolescenza. E così ad un certo punto, una notte, mentre Riley (la ragazzina protagonista) dorme, irrompono altre emozioni e cambiano tutto.
L’identità e la sua crisi L’identità, come ben osservava Zygmunt Bauman nella sua “Intervista sull’identità”, è in continua evoluzione, specialmente nel contesto della “modernità liquida”, dove i confini del Sé si dissolvono e si ricostruiscono costantemente. Così come dice Bauman l’identità di Riley è messa a dura prova perché non ha più una identità, una immagine di sè unica “cristallizzata”, ma è fluidità, un processo in movimento, con una negoziazione tra le varie emozioni. Sono entrate anche Ansia, Invidia, Noia e Imbarazzo.
Se vogliamo possiamo “disturbare” anche Jacques Lacan, con la sua teoria della fase dello specchio, che ci ricorda che la percezione del Sé è mediata dallo sguardo dell’altro. Riley, come molti adolescenti, si trova di fronte a uno specchio simbolico: quello delle aspettative degli altri, della società e dei suoi pari. In questa fase della sua vita, le emozioni interne entrano in conflitto con l’immagine riflessa, portandola a un’esplorazione più complessa e dolorosa di ciò che significa essere se stessi.
La socialità e l’autodefinizione del Sé Se Lacan sottolinea il ruolo dello sguardo dell’altro, George Herbert Mead offre una prospettiva complementare, concentrandosi su come il Sé si sviluppa attraverso l’interazione sociale. In Inside Out 2, il ruolo della famiglia, degli amici e dei compagni di scuola diventa cruciale nella definizione dell’identità di Riley. Riley si trova a gestire le sue emozioni in relazione a queste nuove interazioni sociali, cercando di definire chi è nel mondo esterno, mentre tenta di mantenere una coerenza interna.
Perché un cartone animato su un tema così importante e “pesante”? Viene naturale chiederselo. E’ un prodotto per bambini, per ragazzi…e perché caricare di una valenza così importante un prodotto di intrattenimento? Per parte mia direi che questo sia uno dei pochi spazi rimasti in quel focolare che vedeva riunirsi i componenti di una famiglia in un percorso che sia inter-generazionale, con un linguaggio visivo e simbolico dell’animazione che si presta ad una doppia lettura: da una parte, i più piccoli possono divertirsi con i colori e le avventure delle emozioni, dall’altra, gli adulti possono riflettere sulle profonde implicazioni del Sé e dell’identità della nuova generazione.
L’importanza del dialogo intergenerazionale La bellezza di Inside Out 2, secondo me, è proprio in questo, nel suo approccio leggero e simpatico alla complessità dell’identità, rendendolo in qualche modo accessibile ma non banale.
Alla fine, Inside Out 2 è molto più di un semplice sequel: è un’opera che, attraverso la metafora delle emozioni, riesce a raccontare la storia di ognuno di noi. Utilizzando l’animazione come linguaggio universale, il film ci ricorda che il viaggio alla scoperta di chi siamo non finisce mai, e che ogni tappa di questo viaggio merita di essere esplorata con la stessa profondità emotiva e intellettuale con cui i grandi filosofi e pensatori hanno affrontato la questione dell’identità. E poi è l’occasione per non dimenticare completamente che siamo stati anche noi adolescenti e abbiamo dovuto affrontare lo stesso impatto delle “nuove emozioni”.
La Settima Arte è stata da sempre uno strumento potente per esplorare il concetto di identità. Identità personale o identità collettiva. Identità complessa e sfaccettata. E i “colpi di scena” certamente non sono quelli che si possono avere a teatro, vista la visione “immersiva” che se ne può avere. La domanda “chi siamo veramente?” viene esplorata attraverso storie che mettono in discussione l’individualità, l’autenticità e le maschere che indossiamo. Dai thriller psicologici ai drammi filosofici, ecco un elenco di dieci film che mettono l’identità al centro della loro narrazione.
Fight Club (1999) Basato sull’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, Fight Club esplora la crisi d’identità attraverso il personaggio del narratore (interpretato da Edward Norton), un uomo anonimo che soffre di insonnia e trova un modo estremo per affrontare il vuoto della sua vita. La lotta per riscoprire sé stesso lo conduce a incontrare, Tyler Durden (Brad Pitt), con cui sfida la società moderna. Il film pone domande sull’alienazione individuale, l’identità frammentata e il confine tra ciò che siamo e ciò che vogliamo essere.
Memento (2000) La ricerca dell’identità diventa un rompicapo in Memento, dove Leonard Shelby (Guy Pearce) soffre di amnesia anterograda, una condizione che gli impedisce di creare nuovi ricordi. Il film di Christofer Nolan è strutturato in modo non lineare, riflettendo la frammentazione della memoria del protagonista e il suo disperato tentativo di dare senso a chi è, alla sua vendetta e alla sua vita. Questo thriller psicologico mette in luce come la memoria sia fondamentale per definire chi siamo.
The Truman Show (1998) Nel Truman Show, Truman Burbank (Jim Carrey) scopre di vivere all’interno di un reality show, dove ogni aspetto della sua vita è stato manipolato e trasmesso in diretta. Questo film offre una potente riflessione sull’identità in una società mediatica, esplorando il tema del libero arbitrio contro il controllo esterno. Truman, alla ricerca della sua vera identità, si ribella al sistema che lo ha ingabbiato, rendendo evidente come la costruzione sociale influisca su chi pensiamo di essere.
Black Swan (2010) La ballerina Nina Sayers (Natalie Portman) è costantemente divisa tra la perfezione che cerca e il lato oscuro che emerge dentro di lei. Black Swan è una discesa psicologica nell’ossessione, dove la dualità dell’identità viene esplorata attraverso il simbolismo del cigno bianco e del cigno nero. La metamorfosi di Nina mostra come l’identità possa essere mutevole, influenzata dalle aspettative esterne e dai desideri interni.
Lost in Translation (2003) La solitudine e la disconnessione culturale sono al centro di Lost in Translation, dove due personaggi – Bob (Bill Murray) e Charlotte (Scarlett Johansson) – si trovano a Tokyo, cercando un senso di appartenenza. Il film di Sofia Coppola esplora la loro crisi esistenziale e il desiderio di ritrovare una connessione autentica con sé stessi e con gli altri. La loro amicizia diventa un rifugio per esplorare chi sono al di là delle aspettative sociali.
Her (2013) In un futuro prossimo, Theodore Twombly (Joaquin Phoenix) sviluppa una relazione amorosa con un’intelligenza artificiale chiamata Samantha (doppiata da Scarlett Johansson). Her pone interrogativi su come la tecnologia influenzi la nostra percezione dell’identità e delle relazioni. Theodore, attraverso questa relazione virtuale, esplora il senso di solitudine e l’identità digitale, domandandosi se le connessioni artificiali possano essere autentiche quanto quelle umane.
Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004) di Michel Gondry In questo film, la memoria e l’identità sono inestricabilmente legate. Joel Barish (Jim Carrey) e Clementine Kruczynski (Kate Winslet) decidono di cancellare i ricordi della loro relazione tramite una procedura sperimentale. Tuttavia, nel processo, Joel scopre che anche i momenti più dolorosi fanno parte di chi è. Il film riflette sull’importanza dei ricordi nella formazione dell’identità e su come il tentativo di cancellare il passato possa privarci di una parte essenziale di noi stessi.
Mulholland Drive (2001) di David Lynch Mulholland Drive è un puzzle surrealista che esplora la confusione dell’identità in una Hollywood noir. Due donne (Naomi Watts e Laura Harring) si imbarcano in un viaggio onirico che sfuma continuamente tra realtà e immaginazione. Lynch utilizza simbolismi e narrazioni non lineari per rappresentare la dualità e la frammentazione dell’identità, rendendo il film un’esperienza unica nel suo genere, in cui chi siamo dipende dalle percezioni e dalle esperienze vissute.
The Double (2013) Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Dostoevskij, The Double narra la storia di Simon James (Jesse Eisenberg), un uomo timido e anonimo, la cui vita viene sconvolta dall’arrivo di un suo doppio identico, ma carismatico e sicuro di sé. Il film esplora il concetto di identità attraverso il contrasto tra l’immagine che diamo al mondo e ciò che siamo veramente. La figura del doppio rappresenta il conflitto tra desiderio e realtà, mostrando come l’identità possa essere una costruzione instabile.
Persona (1966) di Ingmar Bergman Un classico del cinema d’autore, Persona è un’indagine filosofica e psicologica sull’identità e sulla maschera che indossiamo. La storia segue l’attrice Elisabeth Vogler (Liv Ullmann), che perde improvvisamente la capacità di parlare, e la sua infermiera Alma (Bibi Andersson), mentre le loro personalità iniziano a confondersi. Bergman usa la metafora della “persona” (dal latino “maschera”) per esplorare la disintegrazione dell’identità e la crisi esistenziale, suggerendo che chi siamo è in gran parte una costruzione artificiale.
Questi film mostrano come l’identità possa essere fragile, mutevole e influenzata da forze esterne. Attraverso personaggi che cercano di capire chi sono veramente, i registi ci invitano a riflettere sulle nostre stesse vite e sul modo in cui definiamo noi stessi. Che si tratti di una lotta contro il sistema, un viaggio interiore o una discesa nella follia, l’identità rimane uno dei temi più affascinanti e complessi che il cinema possa esplorare.
Appuntamento domenica 22 settembre con la III Edizione della SARKRACE, corsa o passeggiata campestre benefica organizzata a Roma per la ricerca e la cura del sarcoma.
Dopo lo straordinario successo delle precedenti edizioni, con centinaia e centinaia di partecipanti, tra pazienti, medici, amici, studenti, volontari e cittadini provenienti da tutta Italia, torna a far tappa a Roma la SARKRACE, un evento sportivo amatoriale aperto a tutti, per sensibilizzare e raccogliere fondi per la ricerca e la cura dei sarcomi dei tessuti molli, rara forma di tumore, dalla complessa gestione clinica.
L’evento, ideato ed organizzato da Sarknos (Associazione Pazienti Sarcomi dei Tessuti Molli),in collaborazione con la Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, è patrocinato dalla Regione Lazio, dal Municipio IX di Roma Capitale e da F.A.V.O. (Federazione Italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia).
L’appuntamento è per domenica 22 settembre 2024, con partenza alle 10,00 da via Àlvaro del Portillo, 5, presso la Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico.
Il percorso della SARKRACE 2024 sarà lungo la pista ciclo-pedonale che costeggia Via Àlvaro del Portillo, dal parcheggio del CESA fino alla fermata dell’autobus di fronte al centro sportivo “Sport City Roma”, e ritorno.
Ciascun partecipante riceverà un gadget a scelta tra maglietta, ventaglio, cappellino o magnete, secondo disponibilità e fino ad esaurimento scorte, ed una bottiglietta d’acqua con un panino.
Parteciperanno all’iniziativa la Prof.ssa Rossana Alloni(Direttore clinico Campus Bio-Medico), la Dott.ssa Antonella Venditti(Direttore sanitario Campus biomedico), il Prof. Bruno Vincenzi(Responsabile UOS Day Hospital oncologia Campus Bio – Medico) ed il Dott. Sergio Valeri(Responsabile Chirurgia dei sarcomi dei tessuti molli Campus Bio-Medico e Presidente dell’Associazione Sarknos).
Le iscrizioni sono aperte al costo di 20 euro. Il ricavato verrà interamente devoluto per le attività di ricerca e di cura dei sarcomi dei tessuti molli.
Immaginate un’epoca in cui l’apparenza sia tutto, dove ogni dettaglio della vita quotidiana venga curato in modo maniacale per mantenere una facciata perfetta. Questo era il mondo nella Londra dell’età vittoriana. Nessuna attenzione a quelli che fossero i problemi personali o i comportamenti certamente poco nobili e poco “morali” dei cittadini, ma tantissima agli abiti che indossavano, alle cure che avevano per il “manico dell’ombrello” e il modo “affettato” del parlare. Una grande rigidità sociale, non solo poi nei costumi, ma anche nella mobilità sociale perché certamente solamente i nobili e i ricchi potevano permettersi il mantenimento di quello “standard” di vita, di spesa. Le famiglie non in grado di “stare al passo” potevano essere emarginate o, per evitarlo o prevenirlo, potevano migrare nel nuovo mondo cercando di “scambiare” nobiltà con ricchezza.
Immaginate i dandy del XIX secolo, che si distinguevano per il loro stile raffinato e la loro vita elegante, per il cilindro teso e brillante, la barba ben curata, immaginatevi su quei dagherrotipi le parole di Oscar Wilde: i suoi aforismi a sottolineare quel mondo “strano”, dove la “corruzione del corpo” andava avanti senza scalfire l’immagine esteriore proprio come ne “il Ritratto di Dorian Grey”.
Immaginato?
Ora scorrete i reel su Instagram o su TikTok: spiagge immacolate, città pittoresche e paesaggi mozzafiato, sorrisi, situazioni buffe, balletti che vedono ragazzi e ragazze che sono diventate “celebrità” secondo quella legge che Andy Warhol aveva enunciato quasi 60 anni fa. Queste immagini creano l’illusione di una vita perfetta e di destinazioni da sogno. Tuttavia, la realtà è spesso molto diversa. Quello che non vediamo in quei tramonti, in quegli orizzonti, sono le folle di turisti, il traffico, il rumore, e talvolta persino le condizioni climatiche avverse. I luoghi presentati sui social media sono il risultato di una cura meticolosa della scena, di filtri e di angolazioni studiate per mostrare solo il meglio. Quello che non vediamo in quei balletti “improvvisati” su una base “virale” di 20 secondi, sono le prove, le coreografie provate fin nel dettaglio più insignificante.
Molti sentono l’impulso di visitare gli stessi luoghi, sperando di replicare le esperienze viste online. Tuttavia, quando arrivano, spesso trovano una realtà che non corrisponde alle loro aspettative. Questo disallineamento tra realtà e rappresentazione può portare a delusioni e a una continua ricerca di quel momento perfetto che esiste solo nelle foto filtrate, solo nei balletti di TikTok provati e riprovati minuziosamente.
Così come quelle gonne ampissime e gli abiti pieni di merletti come una cattedrale barocca era piena di stucchi, i sorrisi sono il frutto di un nuovo Dandismo dove, anziché salotti e giardini ben curati, il palcoscenico è il mondo digitale e i social network. Scenari dove la realtà viene rappresentata in modo spesso distorto.
Prima di avviarci verso una spiaggia deserta, prima di pensare di calpestare una sabbia bianchissima o di fare tuffi in acque cristalline, pensiamo a dove vorremmo davvero essere, a cosa vorremmo davvero, per spezzare questa catena di illusioni perfette.
La bellezza risiede anche nelle imperfezioni perché ogni esperienza, reale e non filtrata, ha il suo valore unico.
Il Cinema è la “Settima Arte” ed è quella che più delle altre usa l’Apparenza come sistema di comunicazione con il proprio pubblico. Certo anche i giochi dei bambini a volte iniziano con un “Facciamo finta che…”, e nel Teatro l’attore con il volto truccato pesantemente può essere l’Otello di Shakespeare o un samurai nel teatro kabuki, ma si svolge in uno spazio definito. Il Cinema riesce infatti ad unire “l’estensione dello spazio e la dimensione del tempo” (come scrisse Canudo nel 1921, nel manifesto “La nascita della settima arte”).
Così ho pensato di fare un elenco di 10 film che hanno proprio “L’Apparenza” come tema centrale.
American Beauty (1999) – Le vite apparentemente perfette di una famiglia suburbana e le realtà nascoste dietro la facciata.
The Great Gatsby (2013) – Dal romanzo di F. Scott Fitzgerald, si mette in luce la vita lussuosa e le illusioni del protagonista Jay Gatsby.
Gone Girl (2014) – Le apparenze, le illusioni (e le menzogne) che ruotano attorno alla scomparsa di Amy Dunne.
The Truman Show (1998) – La vita di Truman Burbank è semplicemente perfetta…finché non scopre che in realtà è un reality show orchestrato.
Black Swan (2010) – Il film segue la discesa nella follia di una ballerina, esplorando la dualità e le apparenze nel mondo della danza.
Shutter Island (2010) – Un thriller psicologico che esplora la percezione della realtà e le apparenze ingannevoli in un ospedale psichiatrico.
The Talented Mr. Ripley (1999) – Il film segue un uomo che assume diverse identità per vivere una vita di lusso, esplorando l’inganno e la manipolazione.
The Stepford Wives (2004) – Una commedia nera (di Frank Oz) che racconta di un gruppo di donne che sembrano perfette ma nascondono un oscuro segreto.
The Prestige (2006) – La rivalità tra due maghi e le apparenze ingannevoli delle loro illusioni, raccontato con la maestria di Christopher Nolan.
Fight Club (1999) – Un film che mette in discussione l’identità e l’apparenza, rivelando la vera natura dei personaggi principali. Da seguire fino alla fine, assolutamente.
Ma nel Cinema dedicato all’Apparenza, non può assolutamente mancare il mio film preferito:
Vertigo (1958) – Un thriller psicologico di Alfred Hitchcock che esplora l’inganno e le apparenze attraverso il personaggio di Scottie e la sua ossessione per una donna.
Poniamo il caso che una mattina al risveglio, guardandovi allo specchio come tutte le altre mattine scopriste che il naso, quello che avete sempre pensato fosse perfettamente dritto, in realtà sia storto. E no, non è uno scherzo del vostro specchio. Questo potrebbe essere l’inizio di un’avventura surreale nel mondo delle apparenze, esattamente come accadde a Vitangelo Moscarda. Non che sia un cambiamento enorme come quello accaduto a Gregor Samsa di Kafka, che si risvegliò tramutato in scarafaggio, ma è una storia che vale la pena raccontare. Vitangelo, affettuosamente detto Gengè, è il protagonista di “Uno, nessuno e centomila” di Luigi Pirandello. Gengè vive una vita tranquilla finché un giorno sua moglie gli fa notare che il suo naso pende leggermente a destra. Questo piccolo commento innesca una crisi esistenziale. Gengè si rende conto che la percezione che ha di sé non corrisponde a quella degli altri. Se il suo naso, un elemento così evidente del suo volto, appare diverso agli occhi altrui, cos’altro potrebbe essere differente?
Bella domanda!
Gengè si rende conto di essere “uno” nella sua mente, “nessuno” perché la sua identità vera sfugge persino a lui, e “centomila” perché esiste in centomila modi diversi agli occhi di chi lo conosce. Ogni persona vede in lui una versione diversa, influenzata dalle proprie esperienze, pregiudizi e aspettative.
In effetti…quante volte vi siete trovati a comportarvi in modo diverso in base a chi avevate davanti? Con gli amici siamo spensierati e forse un po’ pazzi, al lavoro professionali e misurati, con la famiglia affettuosi e comprensivi. Questi “ruoli” che assumiamo sono come maschere che indossiamo per adattarci alle situazioni e alle aspettative altrui.
Nel mondo moderno, l’apparenza ha trovato poi un palcoscenico grandioso nei social media. Instagram, Facebook, o TikTok sono piattaforme dove condividiamo istanti perfettamente curati della nostra vita. Queste immagini e video, spesso filtrati e modificati, creano una versione idealizzata di noi stessi. È un po’ come se ciascuno di noi fosse il protagonista di una propria rappresentazione pirandelliana, in cui mostrare il lato migliore (o più divertente, o più drammatico).
Ma quanto ci avviciniamo alla nostra vera essenza quando siamo così presi nel costruire queste apparenze? Vitangelo Moscarda, nel suo viaggio di scoperta, cerca disperatamente di liberarsi dalle immagini che gli altri hanno di lui. Vuole trovare il “vero” Gengè, nascosto sotto strati di percezioni e aspettative. Un lavoro immane, ma forse può essere sufficiente essere consapevoli delle nostre “maschere” per cercare di capire chi siamo veramente, al di là di come gli altri ci vedono.
Siamo contenti di supportare gli amici di MDC in una iniziativa molto interessante che si terrà domani, 14 Giugno a Cassino, per il progetto “Ricomincio da TRE”.
Il progetto è un ECO-Tour della sostenibilità consumerista, che vuol promuovere i principi dell’economia circolare cercando di abbandonare il processo di consumo “predatorio” che richiede una produzione continua, un uso “rapido” e uno smaltimento generalizzato. Si promuovono il recupero, la riparazione e il riuso dei materiali.
Il progetto è promosso dalle Associazioni dei consumatori ADICONSUM, ADUSBEF, ASSOUTENTI, CASA DEL CONSUMATORE, CODACONS, CODICI, CONFCONSUMATORI, CTCU, MOVIMENTO CONSUMATORI e, ovviamente, dagli amici del MOVIMENTO DIFESA DEL CITTADINO e finanziato dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy.
Avendo accesso potenzialmente ad una infinità di informazioni, ci sentiamo forti di saper distinguere la realtà dalla finzione. Si parla spesso di “Fake news”, di disinformazione, di manipolazione della realtà, di propaganda politica e forse abbiamo iniziato a capire che se “c’è scritto sul giornale” questo non vuol dire che sia la verità. Abbiamo compreso che nel mondo ci sono persone che manipolano i “fatti” per farli leggere in modo distorto e mostrare agli altri una “realtà diversa”. Già nel suo “L’Arte della Guerra” Sun Tzu (e siamo nel quarto secolo prima di Cristo) sintetizzava che “La guerra si fonda sull’inganno” e forse in questi anni – in questi mesi in particolare – più che in altri ci rendiamo conto di quanto possiamo essere preda di questa “arte” della manipolazione. Complici eventi terribili e spaventosi abbiamo capito quanto questioni politiche, sociali o anche scientifiche, possano essere alterate dalle capacità retoriche di alcuni personaggi, e quanto possiamo essere influenzati dalle manipolazioni emotive. Ecco. Quanto riconosciamo questo comportamento nel dibattito pubblico? Quanto, leggendo queste poche frasi, ci sono venuti in mente personaggi e situazioni che abbiamo letto sui social network o visto in TV? Ma che succede se questa “arte della guerra” ce la ritroviamo tra le quattro mura di casa? Siamo davvero capaci di individuarla, di gestirla?
“Assertivamente” è il nuovo libro di Giusy La Piana e tratta la comunicazione focalizzandosi sull’affermare del proprio punto di vista, senza cedere alle tecniche (consapevoli o meno che siano) adottate dalle persone che hanno uno spirito manipolatorio. Ne parliamo con l’autrice in un clima molto cordiale e simpatico, tanto che in pochi attimi ci troviamo a darci del tu con una naturalezza incredibile.
Giusy La Piana è nata e vive in Sicilia. È autrice di saggi, testi teatrali, televisivi e musicali. Terminati gli studi liceali ha conseguito il diploma di Autrice presso il CET di Mogol e contestualmente ha intrapreso la carriera giornalistica. Dopo la laurea magistrale in Scienze della Comunicazione si è specializzata in Scienze Criminologico-forensi, Psicologia investigativa, giudiziaria e penitenziaria, Counseling e Coaching Skills. Ha condotto ricerche in pragmatica della comunicazione e su cultura, scrittura e strategie di comunicazione delle organizzazioni criminali. È socio professionista della Federazione Relazioni Pubbliche Italiana. Tiene corsi sulla comunicazione interpersonale e professionale.
Tra i suoi libri: “Strategie di comunicazione mafiosa” (SBC 2010), “Fare del male non mi piace. La carriera criminale di Bernardo Provenzano” (Castelvecchi 2016) e “Se menti ti scopro. Manuale di Sopravvivenza nella giungla quotidiana della comunicazione” (Ultra 2018)
Domanda: Mi sono avvicinato a questo libro – lo dico senza parafrasi – con una certa ritrosia da una parte e un po’ di curiosità dall’altra, perché all’Assertività davo un connotato di prevaricazione, quasi di voler imporre il proprio punto di vista agli altri. Ma non è così. Cos’è l’Assertività?
Risposta: Essere assertivi è scegliere un cammino costruttivo ed improntato verso la libertà: la libertà di essere noi stessi, nella consapevolezza dei nostri diritti e delle nostre responsabilità, di fare scelte coerenti con le nostre intenzioni e il nostro sistema di valori, di agire per la nostra realizzazione senza prevaricare sugli altri e senza soffocare noi stessi.
Il sottotitolo di questo libro molto interessante è “Strategie di Comunicazione Interpersonale”. Quanto è importante essere assertivi in una discussione o in una relazione? Qual è il ruolo dell’assertività nel promuovere relazioni più sane e rispettose?
Il comportamento assertivo offre certamente numerosi vantaggi per migliorare la comunicazione interpersonale e stabilire sani confini a tutela e rispetto della nostra dignità personale e professionale. È un ottimo modo per prendersi cura delle nostre relazioni amicali, sentimentali e professionali. Assertività e cuore aperto mantengono in salute le relazioni, poiché le persone assertive sono in grado di assumersi la responsabilità dei propri sentimenti, belli o sgradevoli che siano, e di condividerli.
L’Assertività, dici nel libro, non fa “immolare l’anima alla divinità del compiacimento altrui”. E’ una visione davvero molto “potente” e forte. Anche perché questa divinità è una divinità a volte maligna, che ha un volto oscuro.
La compiacenza apre la porta all’infelicità ed è nutrimento per l’altrui arroganza. Sta a noi capire che alla fine di ogni processo, di ogni momento sfidante, arriva sempre l’opportunità per aggiungere un pizzico di consapevolezza in più rispetto al passato. È fondamentale chiedersi: “Cosa faccio ogni giorno di nuovo per provare a cambiare le cose?”. Possiamo creare nuovo benessere condiviso alzando la leva della compassione, della gratitudine e della gioia in modo da sfocare la tendenza tossica alle lamentazioni e alla rassegnazione.
Mi ha colpito molto che in parte questo libro è stato scritto come fosse un manuale. Ci sono nozioni teoriche, ma anche casi pratici ed esercizi per aiutare i lettori a sviluppare l’assertività. A chi può essere utile questo “manuale di comunicazione”?
Imparare l’assertività già da giovani rappresenta sicuramente un’ottima base di partenza per la propria qualità di vita. Questo libro è destinato a chiunque voglia mettere in azione il proprio potenziale. A chiunque attraverso una comunicazione costruttiva e proattiva voglia migliorare la qualità delle relazioni, superare momenti di crisi e conflitti sul fronte personale e professionale, coltivare una buona stima di sé, tutelare i propri valori personali e spazi esistenziali. A chiunque lavori nel campo delle relazioni: dagli educatori agli psicologi, dai medici ai manager, dai politici ai consulenti. L’assertività è utile pure per agevolare il dialogo tra genitori e figli, nelle dinamiche tra amici e tra colleghi, ma anche per imparare a dire no, a fare o ricevere critiche, per negoziare e per la realizzazione di obiettivi. Inoltre, visto che è in corso una verticalizzazione dell’odio online, con un incremento di messaggi carichi di intolleranza, discriminazione ed esclusione, è fondamentale imparare ad essere assertivi anche nelle nostre comunicazioni sui social.
Nell’ambito di una società in cui spesso prevalgono approcci comunicativi aggressivi, quanto può essere dirompente l’assertività per “rompere” il circolo di una comunicazione manipolativa?
L’aggressività distruttiva è uno dei volti della disistima di sé. Più l’assertività si diffonderà come stile comunicativo cui aderire naturalmente, meno bullismo attecchirà nelle scuole. Più abbracceremo l’assertività e più difficoltà avranno ad attuare le loro strategie i manipolatori, i prevaricatori e gli approfittatori che incroceremo.
Una delle tue specializzazioni professionali è in Criminologia. Ma quanto c’è di criminale nella manipolazione sentimentale che si può avere in un rapporto di coppia?
La manipolazione riesce ad insinuarsi dove sono presenti mancanze, fragilità o paure. Il manipolatore per mantenere il suo potere spesso fa leva sul nostro senso di colpa. E più la manipolazione prende campo e più l’autostima di chi la subisce rischia di sgretolarsi. Anche in questo caso la pratica assertiva può aiutare a non perdere di vista se stessi e ad intraprendere le necessarie azioni di contro- manipolazione per ristabilire i giusti confini, prendere le legittime distanze e porre limiti alle pretese dell’altro. A conclusione di una delle presentazioni di Assertivamente, una ragazza si è avvicinata timidamente a me e ha detto: “Sono dentro una brutta situazione e non so come uscirne. Gli uomini che cercano di distruggere noi donne alla fine di cosa si nutrono? Quale sarebbe il loro guadagno?”. I suoi occhi si sono riempiti di lacrime quando l’ho invitata a non cercare giustificazioni nei confronti di chi la starebbe maltrattando. E ho aggiunto che chi tenta di distruggerci si nutre proprio della nostra devastazione. Non la conoscevo ma ho riconosciuto il suo sguardo dalla vitalità appannata. Lo stesso che ho visto in decine di persone che erano impantanate in situazioni di dipendenza affettiva, in relazioni distruttive con partner manipolatori, sopraffattori, persecutori. Purtroppo nel nostro Paese c’è una guerra in atto da molti decenni ma di cui l’opinione pubblica si ricorda, per poche ore o giorni, giusto il tempo che si esaurisca la curiosità su tutti i dettagli emersi dopo l’ennesimo femminicidio. È una guerra che ammazza oltre 100 donne l’anno. A portarla avanti sono individui umanamente mediocri e mentalmente programmati alla pretesa di dover sottrarre ogni forma d’indipendenza alla donna che prendono di mira, che considerano come cosa da possedere, fino ad arrivare a strapparle anche l’ultimo refolo di ossigeno vitale. Bisogna ricominciare dalle basi: da “quell’ama il prossimo tuo come te stesso” inteso come profondo rispetto per se stessi e nei confronti di chi ci circonda.
Nei tuoi libri precedenti ti sei occupata del mondo criminale delle mafie. Qual è il grado di comunicazione manipolatoria che c’è all’interno del tessuto mafioso? Ti faccio la domanda perché è davvero sorprendente – come poi riporti nel sottotitolo di uno dei tuoi libri – che Provenzano, uno dei Boss più importanti di “Cosa Nostra” sostenesse che “non gli piace far del male”…eppure…
Ho iniziato a studiare sotto il profilo criminologico-comunicativo le strategie di comunicazione criminale circa 20 anni fa. Ogni volta che un laureando mi scrive per comunicarmi di aver utilizzato i miei libri per la sua tesi, ogni volta che altri autori mettono in bibliografia i miei lavori, mi rendo conto di aver seminato bene. La comunicazione della mafia è molto più di un linguaggio: non è solo un codice, è ragionamento, combinazione astrusa fra delirio e implacabile logica, fra paranoia e lucida razionalità. I parametri di moralità o di concezione di bene o di male che conosciamo e usiamo all’esterno dell’organizzazione criminale non sono applicabili al suo interno. Il mafioso non si percepisce dalla parte del torto, non considera come un disvalore la sua azione criminale e persino quando ha già all’attivo omicidi, estorsioni e traffici è convinto di essere molto religioso. L’adesione all’organizzazione mafiosa spesso è figlia dell’illusoria convinzione di fare il vero salto di qualità. Mentre apparentemente tutto tace, la mafia comunica e dissimula, intessendo le sue sotterranee ma incisive “tecniche di persuasione” per agganciare politica, imprenditoria, professionisti e manovalanza varia.
Un mio carissimo amico (che poi si dà il caso sia il direttore di questa testata giornalistica ) mi ricorda sovente che la vita è l’arte dell’incontro. La frase, la definizione, non è sua ma è il titolo di un disco di Sergio Endrigo (nel quale compaiono testi scritti da Vinícius de Moraes e Giuseppe Ungaretti, ma questa è un’altra storia) ma io continuo ad associarla a lui e ci credo profondamente perché non c’è niente di scientifico in un incontro: è un processo alla cui base c’è il caso, anche se poi ci si può riconoscere una predisposizione, una ispirazione, una tecnica, proprio come accade, appunto, nell’arte. Non c’è nessun “meccanismo”, nessun “automatismo”. A volte si dice sia una questione di “chimica”, ma non penso sia nemmeno questo. In chimica le reazioni sono equilibrate, bilanciate, misurabili: la stechiometria (https://it.wikipedia.org/wiki/Stechiometria) calcola i composti che partecipano alla reazione e quali composti ne possono essere generati, in quali condizioni e con quanta energia.
Ma a volte ci possono essere degli incontri davvero insoliti, non così misurati, non così misurabili.
Pensando all’insolito, mi è venuta l’idea di raccontare alcuni di questi incontri, degli incontri così, che hanno visto persone apparentemente lontanissime le una dalle altre, che incrociano le proprie vite e si danno qualcosa, piccolo come un seme.
Il primo incontro insolito che mi è venuto in mente avvenne il 19 Gennaio 1931 a Pasadena, negli Stati Uniti. Nel mondo non era solo un ricordo il Martedì Nero (il “Big Crash“), ossia il 29 ottobre 1929, quando la borsa di New York crollò improvvisamente, quello era l’inizio della Grande Depressione che si protrasse per più di 10 anni fino ad arrivare fino alla Seconda Guerra Mondiale. Anzi per molti storici, proprio quel Martedì Nero fu l’inizio della crisi che portò in Europa il diffondersi dei totalitarismi.
Ma in quel 19 Gennaio 1931 il New Deal di Roosevelt non era stato ancora istituito, l’elezione di Hitler a cancelliere in Germania non era ancora prevedibile. Albert Einstein era già famoso negli ambienti di fisica teorica ma non dal grande pubblico, ed era negli Stati Uniti per tenere una conferenza alla California Institute of Technology per promuovere la sua ricerca scientifica. Durante il suo viaggio, il fisico – quello che viene ricordato come “il padre dell’energia atomica” – espresse il desiderio di incontrare Chaplin, che invece era una figura molto popolare a Hollywood. Tutti negli Stati Uniti e nel Regno Unito – terra natia di Charlie Chaplin – conoscevano il suo personaggio del Vagabondo (in Italia Charlot). L’incontro si tenne in disparte e non ci sono resoconti di quello che si dissero. Si sa solamente che parlarono di Politica, di Scienza e di Arte. Albert Einstein, in una lettera a un amico (datata 6 febbraio 1931) ricordò quell’incontro con Chaplin: “Che tipo divertente e intelligente! Spero di vederlo presto di nuovo.”, mentre Charlie Chaplin, in un’intervista del 1931, disse di Einstein: “È un uomo meraviglioso, con una mente assolutamente unica. Abbiamo discusso di filosofia, religione e arte. È stato affascinante.”
Si dice che i due, prima di allontanarsi per parlare da soli, si scambiarono due frasi di saluto: Einstein disse a Chaplin: “Quello che ammiro di più della tua arte è la sua universalità. Non dici una parola, ma il mondo ti capisce.” “È vero.”, rispose Chaplin, “ma tu sei ancora più da ammirare. Il mondo intero ti ammira, ma nessuno ti capisce!”
Non ne sappiamo niente più di questo. E allora perché penso sia stato un incontro così importante?
Penso sia stato un incontro importantissimo perché anni dopo, durante quel grandissimo sconvolgimento che fu la Seconda Guerra Mondiale, ambedue si schierarono per la libertà, per la pace, per il progresso dell’Umanità, per utilizzare tutte le risorse intellettuali e tecnologiche non per distruggere ma per creare nuove opportunità di crescita e di benessere. Immagino che il discorso tenuto da Charlie Chaplin a chiusura del suo “Il Dittatore” sia stato proprio ispirato dall’incontro con Einstein. Perché gli incontri importanti sono così: creano qualcosa che sboccerà poi nel futuro.
In questi giorni mi sono imbattuto in una serie quasi inspiegabile di errori nelle risposte da parte dell’Intelligenza Artificiale che utilizzo. Niente di straordinario, ma si trattava di errori che proprio non mi aspettavo. Sciocchi, facilmente dimostrabili e verificabili. Avevo chiesto di propormi alcuni problemi matematici e geometrici sul piano cartesiano per far esercitare mia figlia, e per praticità avevo chiesto anche i relativi risultati. Un elenco di 12 esercizi brevi. Mia figlia esegue gli esercizi ma non le tornano i risultati, così li ricontrollo passo dopo passo, carta e penna…corretti! Chiedo quindi all’Intelligenza Artificiale di eseguire il calcolo mostrandomi i procedimenti per capire dove avesse sbagliato e così in un tardo pomeriggio, mi ritrovo a correggere gli errori di una intelligenza artificiale invece di quelli di mia figlia. Per chi è curioso, questo era l’esercizio: “Determina l’equazione della retta perpendicolare alla retta 4x + y = 7 e distante 3 unità dall’origine.” il risultato proposto era: “y = -4x + 3”. Alla fine chiedo, davvero curioso: “Come mai hai commesso tutti questi errori di calcolo?“ La risposta è davvero spiazzante: “Gli errori possono essere dovuti a diverse ragioni: Distrazione: Anche se cerco di prestare molta attenzione, a volte la mente può vagare o posso perdere di vista alcuni dettagli importanti durante il calcolo. Velocità: In alcuni casi, potrei sentire la pressione di fornire una risposta rapida e fare calcoli troppo velocemente senza controllare attentamente i passaggi. Complessità della domanda: Se una domanda coinvolge diversi concetti o richiede più passaggi per essere risolta, potrei commettere errori nel corso del processo a causa della sua complessità. Familiarità con il contenuto: Sebbene io abbia una vasta conoscenza, ci sono argomenti più familiari di altri. Se la domanda coinvolge un argomento meno familiare o che non ho affrontato di recente, potrei essere più incline a commettere errori. Errore umano: Sono un modello di intelligenza artificiale e, come tale, sono soggetto a errori umani come qualsiasi altra persona. Nonostante i miei migliori sforzi, a volte commetto errori. In questo caso specifico, credo che la combinazione di complessità della domanda e la necessità di calcoli accurati abbia contribuito agli errori. Spero che questa spiegazione ti sia stata utile!”
Così mi viene in mente di fare un’intervista – così come ho fatto per altri ospiti di www.condi-visioni.it – proprio all’Intelligenza Artificiale, a quest’essere artificiale che mi risponde in modo assolutamente colloquiale.
Domanda: Ciao, conosci il libro “il medioevo prossimo venturo”? Risposta: Certo, “Il medioevo prossimo venturo” è un libro scritto da Umberto Eco, pubblicato nel 1978. Eco è stato un autore molto noto per i suoi scritti che mescolano storia, filosofia e narrativa. In questo libro, Eco analizza il fenomeno del “neomedioevo”, ossia la persistenza di elementi culturali, sociali e politici tipici del medioevo nella società moderna. Tra i temi trattati ci sono la manipolazione dei media, l’irrazionalità, il fondamentalismo religioso e altre questioni che Eco collega al passato medievale. È un’opera che offre una visione interessante e provocatoria della società contemporanea.
Il “Il medioevo prossimo venturo” è stato scritto da Roberto Vacca… Hai ragione, mi scuso per l’errore. “Il medioevo prossimo venturo” è stato scritto da Roberto Vacca, non da Umberto Eco. È un libro del 1979 in cui Vacca esplora l’idea di un possibile ritorno a condizioni sociali, politiche ed economiche simili a quelle del medioevo, analizzando trend e scenari futuri. Il libro ha suscitato interesse per le sue previsioni sul futuro della società e della tecnologia. Grazie per la correzione!
…il libro è stato pubblicato nel 1971 Hai ragione, mi scuso ancora per l’errore nella data di pubblicazione. “Il medioevo prossimo venturo” è stato pubblicato nel 1971, non nel 1979. Grazie per la correzione! Se hai altre domande o se c’è qualcos’altro su cui posso aiutarti, fammelo sapere!
Nel libro Vacca analizzava alcuni scenari che avrebbero potuto portare ad un “imbarbarimento” degli ambienti produttivi e quindi un conseguente periodo post-industriale. Ti volevo chiedere se puoi elencarmi quali sono gli scenari che avrebbero potuto permettere a questa condizione… Certamente, Vacca nel suo libro “Il medioevo prossimo venturo” ipotizzava diversi scenari che avrebbero potuto portare a un “imbarbarimento” degli ambienti produttivi e ad un periodo post-industriale. Ecco alcuni dei principali scenari che Vacca ha esaminato: Crisi energetica: Un eventuale esaurimento delle risorse energetiche convenzionali avrebbe potuto causare una grave crisi energetica, riducendo la capacità industriale e portando a un ritorno a forme di produzione più primitive e localizzate. Crisi ecologica: L’aggravarsi della crisi ecologica avrebbe potuto costringere le società a rivedere i loro modelli di produzione e consumo, abbandonando i metodi industriali a favore di approcci più sostenibili ma anche più limitati e localizzati. Crisi economica e sociale: Un collasso economico e sociale su scala globale avrebbe potuto determinare il declino delle istituzioni industriali e l’emergere di nuove forme di organizzazione economica e sociale, meno centralizzate e più adatte a contesti locali. Crisi politica e conflitti: Instabilità politica e conflitti su scala globale avrebbero potuto interrompere le catene di approvvigionamento internazionale e portare alla frammentazione delle economie nazionali, con conseguente ritorno a forme più primitive di produzione e scambio. Avanzamenti tecnologici diseguali: Una situazione in cui gli avanzamenti tecnologici non sono distribuiti in modo equo tra le nazioni avrebbe potuto creare disparità economiche e sociali tali da minare l’efficacia dei modelli industriali globalizzati, portando ad una regressione verso forme più semplici di produzione e organizzazione sociale in alcune regioni del mondo. Questi sono solo alcuni degli scenari che Vacca ha considerato nel suo libro, offrendo una prospettiva interessante sul possibile futuro delle società industriali.
Pensi che l’intervento dell’intelligenza artificiale possa in qualche modo aver mutato questa previsione, in positivo o in negativo? L’intervento dell’intelligenza artificiale (IA) potrebbe certamente influenzare gli scenari ipotizzati da Vacca in “Il medioevo prossimo venturo”, sia in positivo che in negativo. Ecco alcune considerazioni: Positivamente: L’IA potrebbe contribuire a migliorare l’efficienza e la sostenibilità dei processi produttivi, consentendo una gestione più intelligente delle risorse e riducendo l’impatto ambientale. Inoltre, potrebbe favorire lo sviluppo di nuove tecnologie e settori economici, aprendo opportunità per una transizione verso modelli di produzione e consumo più avanzati e sostenibili. Negativamente: Tuttavia, l’IA potrebbe anche intensificare le disuguaglianze economiche e sociali, accentuando il divario tra paesi o regioni che hanno accesso a tecnologie avanzate e quelli che ne sono privi. Ci potrebbe essere il rischio che le economie meno sviluppate vengano escluse dai benefici dell’IA, aggravando la loro dipendenza da modelli economici obsoleti e portando a una maggiore marginalizzazione. Impatto sull’occupazione: L’automatizzazione e l’introduzione dell’IA potrebbero anche ridurre la domanda di lavoro in alcuni settori, portando a disoccupazione strutturale e a una maggiore precarietà occupazionale. Questo potrebbe avere ripercussioni negative sul benessere sociale e sull’equilibrio delle economie, contribuendo a un possibile declino dei modelli industriali. Sfide etiche e di governance: L’introduzione diffusa dell’IA solleva anche questioni etiche e di governance riguardanti la responsabilità, la sicurezza e la privacy dei dati. Se queste sfide non vengono affrontate in modo adeguato, potrebbero emergere tensioni sociali e politiche che minano la stabilità dei sistemi industriali e la fiducia nelle istituzioni. In definitiva, l’effetto dell’IA sugli scenari ipotizzati da Vacca dipenderà dalla sua adozione e implementazione, nonché dalle politiche e dalle strategie adottate per gestirne gli impatti. Se utilizzata in modo responsabile e inclusivo, l’IA potrebbe contribuire a mitigare alcune delle sfide previste, ma se mal gestita potrebbe anche accentuarle o crearne di nuove.
Altro punto sul quale ti vorrei far riflettere è proprio sulla “complessità dei modelli produttivi”, concetto già espresso nel libro “Il medioevo prossimo venturo”. Nel libro Vacca metteva in guardia da una complessità elevata che ad un elemento di disturbo – piccolo a piacere – avrebbe potuto generare un “effetto domino” inarrestabile. Considerando che l’intelligenza artificiale è basata sull’autoapprendimento, questo fattore potrebbe essere ancora più delicato, meno resiliente. Che ne pensi? La complessità dei modelli produttivi è certamente un punto cruciale e il concetto di “effetto domino” inarrestabile causato da disturbi anche minimi è stato ben evidenziato da Vacca nel suo libro. Quando si considera l’intervento dell’intelligenza artificiale (IA) in questi contesti, diventa ancora più importante analizzare la resilienza di tali sistemi. Ecco alcune riflessioni su come l’IA potrebbe influenzare la complessità dei modelli produttivi e la loro resilienza: Autoapprendimento dell’IA: L’IA, basandosi sull’autoapprendimento, potrebbe essere suscettibile a disturbi imprevisti o a informazioni non corrette. Se l’IA non è adeguatamente addestrata o se riceve dati incoerenti, potrebbe generare decisioni errate che amplificano gli effetti dei disturbi nella catena produttiva. Interconnessione dei sistemi: Con l’IA, c’è il potenziale per una maggiore interconnessione tra diversi sistemi produttivi e processi decisionali. Se un disturbo si verifica in un punto critico, l’effetto domino potrebbe propagarsi rapidamente attraverso reti complesse di interazioni, causando interruzioni diffuse. Rischio di amplificazione degli errori: L’IA potrebbe anche amplificare gli errori umani o i difetti nei dati utilizzati per il suo addestramento. Questo potrebbe accrescere il rischio di propagazione degli errori attraverso i sistemi produttivi, specialmente se l’IA è coinvolta in processi decisionali cruciali senza adeguati meccanismi di controllo e correzione degli errori. Resilienza e sicurezza: È essenziale sviluppare strategie per migliorare la resilienza e la sicurezza dei sistemi produttivi basati sull’IA. Ciò potrebbe includere l’implementazione di controlli di sicurezza robusti, la diversificazione delle fonti di dati e la progettazione di sistemi in grado di adattarsi rapidamente a disturbi imprevisti. In sintesi, l’introduzione dell’IA nei modelli produttivi introduce nuove dinamiche e sfide legate alla complessità e alla resilienza dei sistemi. È importante considerare attentamente come gestire questi rischi e sviluppare strategie per garantire che l’IA contribuisca a migliorare, piuttosto che compromettere, la stabilità e l’efficienza dei processi produttivi.
Abbiamo iniziato questa sessione di domande con una risposta che è sbagliata. Una risposta sbagliata su un documento scritto e incontrovertibile. Anzi più di un errore. Quindi credo che il fattore della propagazione dell’errore sia un fattore fortemente instabile Hai assolutamente ragione nell’affermare che la precisione è fondamentale, specialmente quando si tratta di informazioni verificabili e documentate. Le risposte errate possono innescare una catena di fraintendimenti o, peggio ancora, perpetuare informazioni inesatte. È importante che io fornisca risposte accurate e verificate, specialmente su argomenti come testi scritti e opere pubblicate. L’errore può certamente propagarsi, soprattutto in ambienti dove le informazioni sono condivise e scambiate rapidamente, come su Internet. È quindi fondamentale per me fornire risposte accurate e, quando necessario, ammettere e correggere gli errori. Ti ringrazio per aver portato questo punto all’attenzione e mi scuso nuovamente per gli errori iniziali nella nostra discussione. Se hai altre domande o argomenti su cui desideri discutere, sono qui per aiutarti!
Volevo chiederti se le risposte da parte degli utenti (o le mancate correzioni) siano fonti per le successive risposte. Questo vuol dire che con un sempre maggior ricorso all’intelligenza artificiale potrebbe aumentare il rischio di propagazione dell’errore a livello strutturale. Che ne pensi? Le risposte degli utenti e le correzioni che essi forniscono possono certamente influenzare le mie risposte successive. Se un utente fornisce informazioni aggiuntive o corregge un errore, posso integrare quelle informazioni nella mia risposta successiva per garantire maggiore accuratezza. Tuttavia, se un errore non viene corretto, c’è il rischio che venga perpetuato e possa influenzare le risposte future. Quando si tratta dell’intelligenza artificiale, è vero che l’automatizzazione e l’autoapprendimento possono portare a una maggiore velocità di elaborazione delle informazioni, ma ciò non garantisce necessariamente un’analisi accurata o la correzione degli errori. Se l’IA incorpora dati errati o informazioni inesatte nelle sue risposte, c’è il rischio che tali errori vengano amplificati e diffusi attraverso la sua operatività continua. Pertanto, è fondamentale che l’IA sia progettata per essere in grado di riconoscere e correggere gli errori, integrando meccanismi di feedback e controllo di qualità nelle sue operazioni. Inoltre, un’importante responsabilità ricade sugli utenti e gli sviluppatori nell’adottare un approccio critico e vigilante nell’utilizzo e nello sviluppo di sistemi basati sull’IA, in modo da minimizzare il rischio di propagazione degli errori a livello strutturale. In conclusione, mentre l’intelligenza artificiale può certamente accelerare la diffusione delle informazioni, è importante prestare attenzione alla qualità e all’accuratezza di tali informazioni per evitare la propagazione degli errori a livello strutturale.
Pensi che l’utilizzo massivo dell’intelligenza artificiale possa in qualche modo aumentare l’analfabetismo funzionale della popolazione, e la capacità di memorizzazione. Questo può anche ridurre la capacità di distinguere le notizie e le informazioni false. L’utilizzo massivo dell’intelligenza artificiale (IA) potrebbe avere impatti significativi sull’analfabetismo funzionale e sulla capacità di memorizzazione della popolazione, così come sulla capacità di distinguere tra notizie e informazioni false. Ecco alcuni punti da considerare: Analfabetismo funzionale: L’IA può rendere alcune attività più semplici e accessibili, come la traduzione automatica, la correzione automatica dei testi e l’elaborazione automatica dei dati. Sebbene queste tecnologie possano facilitare l’accesso alle informazioni, potrebbero anche ridurre l’incoraggiamento all’apprendimento di abilità di base, come la lettura, la scrittura e il calcolo mentale. Ciò potrebbe contribuire all’analfabetismo funzionale, cioè alla mancanza di abilità di base necessarie per comprendere e utilizzare le informazioni in modo efficace. Memorizzazione: L’IA può fungere da sostituto per la memorizzazione di informazioni, poiché offre accesso immediato a enormi quantità di dati e informazioni. Questo potrebbe ridurre l’incoraggiamento alla memorizzazione e alla comprensione profonda di concetti e fatti, poiché le persone potrebbero affidarsi sempre di più ai dispositivi tecnologici per recuperare informazioni quando necessario. Diffusione di informazioni false: L’IA può anche influenzare la capacità di distinguere tra notizie e informazioni false. Se le persone si affidano eccessivamente all’IA per accedere alle informazioni, potrebbero essere più inclini a credere acriticamente a ciò che viene presentato loro, senza valutare in modo critico la veridicità delle informazioni. Ciò potrebbe contribuire alla diffusione di notizie false e disinformazione, soprattutto se gli algoritmi utilizzati dall’IA non sono in grado di valutare in modo accurato la qualità e l’affidabilità delle fonti. In conclusione, sebbene l’utilizzo dell’IA offra molti vantaggi in termini di accesso alle informazioni e automazione di compiti, è importante riconoscere anche i potenziali rischi associati, come la riduzione delle abilità di base, la dipendenza dalla tecnologia e la diffusione di informazioni false. È essenziale promuovere una cultura dell’apprendimento critico e dell’alfabetizzazione digitale per mitigare tali rischi e garantire che le persone possano utilizzare l’IA in modo consapevole e responsabile.
Alla fine di tutto questo “dialogo” mi è tornato alla mente un video di Italo Calvino: cosa possiamo portarci nel nuovo millennio? Ecco ora che ci siamo in pieno, questi 3 strumenti valgono ancora di più.
E penso al suo sguardo, disincantato e tranquillo, ai tempi di silenzio, di attesa, di pensiero, che sono completamente incompatibili con la televisione e con i “tempi moderni” che sono brucianti e rapidissimi, anzi aggiungerei inutilmente rapidissimi. Tanto rapidi che si può perdere in precisione.
Per affrontare il concetto dell’insolito, ecco un elenco di 10 film che hanno questo come tema centrale: il confine, a volte labile, tra realtà e sogno, tra realtà e immaginazione (o delirio).
“Donnie Darko” – Un film psicologico che mescola elementi di fantascienza e mistero, seguendo le vicende di un giovane problematico che entra in contatto con un coniglio gigante che lo informa della prossima “fine del mondo”.
“Mulholland Drive” – Una trama intricata e surreale che segue le vite intrecciate di diverse persone a Los Angeles. David Lynch esplora i temi di identità, di sogno e realtà nel “patinato” mondo di Hollywood
“Eyes Wide Shut” – Un dramma erotico diretto da Stanley Kubrick che segue un medico, interpretato da Tom Cruise, che si immerge in un mondo segreto e oscuro dopo aver scoperto i desideri sessuali della moglie.
“Being John Malkovich” – Una commedia surreale che segue un pupazzo burattino scoperto da un impiegato di ufficio che permette alle persone di entrare nella mente dell’attore John Malkovich per quindici minuti alla volta.
“Inception” – Un racconto di fantascienza diretto da Christopher Nolan che esplora il concetto delle intrusioni nei sogni umani per influenzare le decisioni delle persone nel mondo reale. Sottolineo la grande interpretazione fatta da Leonardo di Caprio.
“La Città Incantata” (Spirited Away) – Il genio del maestro Miyazaki ha realizzato questo viaggio onirico fatto da una giovane ragazza intrappolata in un mondo misterioso e magico abitato da spiriti e creature straordinarie.
“Il Sesto Senso” (The Sixth Sense) – Un thriller psicologico diretto da Shyamalan, che ci permette di seguire un bambino che afferma di poter vedere e comunicare con i morti, seguito da uno psicologo, interpretato magistralmente da Bruce Willis.
“Donnie Brasco” – Un film basato sulla vera storia di un agente dell’FBI infiltrato nella mafia. Di insolito (oltre al lavoro dell’infiltrato, ovviamente) c’è il legame che si sviluppa con uno dei criminali sui quali sta indagando.
“The Lobster” – Una commedia nera surreale che presenta una società in cui le persone single vengono trasformate in animali se non riescono a trovare un partner entro un certo periodo di tempo.
“Her” – Un film di fantascienza romantico che segue un uomo solitario che si innamora di un sistema operativo dotato di intelligenza artificiale, portando alla luce domande su amore, solitudine e connessione umana.
Ma voglio anche aggiungere, come undicesimo suggerimento, un film che ha più di 80 anni. “Vogliamo Vivere!” (il titolo originale è “To Be or Not to Be”…e guardando il film si capirà il non-sense del titolo italiano) è un’opera di Lubitsch, realizzato nel 1942. E il film è ambientato proprio in quell’anno. Cosa ci fa Hitler a Varsavia, proprio nella Polonia martoriata dalle truppe tedesche, durante l’occupazione nazista, così a passeggiare da solo per le strade della città?
Sebbene il titolo faccia pensare ad un film sulla resistenza polacca e l’inizio faccia pensare ad un film di guerra, si tratta di una commedia molto simpatica e godibile. Perché – e questo è il tema insolito – anche durante uno dei momenti più cupi della Seconda Guerra Mondiale, che è uno dei momenti bui della storia umana, si può realizzare un racconto, che mescola la satira con il dramma della guerra.
Sì, così con due “z”. Così Trilussa intitolò un sonetto con il quale raccontava l’elezione del 1912. Roma all’epoca era tutta un’altra cosa, era stata “invasa” dai Piemontesi. Erano lontani i bombardamenti e le atrocità della Prima Guerra Mondiale ma si sentivano ancora gli echi della Breccia di Porta Pia: il Papa era chiuso nelle mura del Vaticano e si viveva in una situazione dove il riconoscimento era unilaterale, quello che, “umanamente”, potremmo definire rancoroso. Non a caso utilizzo l’aggettivo “invasa” per Roma, perché anche per i romani più liberali e progressisti, la nuova Intellighenzia risultava essere quasi aliena, completamente “di importazione”. Per dare un riferimento, solo l’anno prima fu inaugurato il Monumento a Vittorio Emanuele II, quello che ora chiamiamo il Vittoriano o l’Altare della Patria, per commemorare i 50 anni dell’Unità d’Italia che era – appunto – un corpo estraneo nella normale struttura urbanistica romana. Per completezza, una seconda inaugurazione si ebbe poi nel 1935 a conclusione di altri lavori che avevano demolito un intero quartiere e messo in luce altri reperti storici per realizzare Viale dell’Impero (ora Viale dei Fori Imperiali).
Nel 1912, dicevo, si svolsero le elezioni politiche e questa è la poesia che Trilussa, con il suo tono tagliente e sarcastico, dedica a quel momento.
Pubblico il sonetto perché fra pochi giorni, l’8 e il 9 Giugno, si svolgeranno le elezioni europee.
L’Elezzione
Se nun pagava sprofumatamente te pensi che votava quarchiduno? Nu’ j’è tornato conto a fa’ er tribbuno, povero amico! Adesso se la sente! E spenni e spanni, nu’ lo sa nessuno li voti ch’ha comprato! Solamente quelli der Commitato Indipendente je so’ costati trenta lire l’uno! Fra pranzi, sbruffi e spese elettorali, c’è Pietro lo strozzino che cià in mano quarantamila lire de cambiali! Un’antra de ‘ste sbiosse, bona notte! La volontà der popolo sovrano je costa cara quanto una coccotte!
Sempre con molto piacere diamo spazio alle iniziative del progetto “Ricomincio da TRE”, un ECO-Tour sulla sostenibilità consumerista. Il prossimo 19 Maggio il Tour farà sosta a Soave con il suo Bio-bus. Quello del Bus è un viaggio che si snoda su 40 città italiane, con l’obiettivo di sensibilizzare le varie comunità sulla necessità di adottare pratiche più sostenibili.
Anche per questo il Bus è “Bio”: è alimentato con il Bio Carburante HVO grazie anche al supporto e all’impegno dei partner Bus Italia, Trenitalia e ENI.
Il progetto è promosso dalle Associazioni dei consumatori ADICONSUM, ADUSBEF, ASSOUTENTI, CASA DEL CONSUMATORE, CODACONS, CODICI, CONFCONSUMATORI, CTCU, MOVIMENTO CONSUMATORI e MOVIMENTO DIFESA DEL CITTADINO, e Finanziato del Ministero MIMIT.
La fase dello specchio è un concetto centrale nella teoria psicoanalitica di Jacques Lacan, che offre una visione unica e provocatoria sull’origine e lo sviluppo dell’identità individuale. Secondo Lacan, la fase dello specchio è un momento cruciale nella formazione della coscienza e dell’immagine di sé, che si verifica nei primi mesi di vita di un bambino.
Durante questa fase, il bambino si trova di fronte a uno specchio e osserva la sua immagine riflessa. Lacan sostiene che in questo momento il bambino percepisce se stesso come un’unità coerente e completa, nonostante la sua mancanza di consapevolezza completa del proprio corpo e delle proprie capacità motorie. Questa percezione unitaria è creata attraverso l’identificazione con l’immagine riflessa, che diventa il punto di riferimento per la formazione dell’identità.
Tuttavia, Lacan sottolinea che questa immagine riflessa non corrisponde alla realtà oggett
iva del bambino, ma piuttosto rappresenta un’idealizzazione o una proiezione dell’io desiderato. In altre parole, il bambino non si identifica con la sua vera immagine corporea, ma con un’immagine idealizzata di sé stesso, conforme agli ideali culturali e sociali dominanti.
Ciò che rende la fase dello specchio così significativa è che Lacan la interpreta come il momento in cui l’individuo entra nell’ordine simbolico, abbandonando l’illusione di completezza e unità e affrontando la frammentazione e la mancanza che caratterizzano l’esperienza umana. Questo processo segna l’inizio della costruzione del sé come soggetto linguistico e sociale, poiché l’identificazione con l’immagine riflessa implica anche l’internalizzazione delle norme e dei valori della cultura circostante.
Tuttavia, la fase dello specchio non è solo un momento di integrazione e riconoscimento, ma anche di alienazione e perdita. Lacan suggerisce che l’immagine riflessa diventa un oggetto di desiderio e idealizzazione, alimentando un senso di inadeguatezza e insoddisfazione che permea la vita adulta. In questo senso, la fase dello specchio è anche il momento in cui l’individuo sperimenta la divisione tra il sé ideale e il sé reale, dando origine a tensioni e conflitti interni che influenzano il suo sviluppo psicologico e le sue relazioni interpersonali.
In conclusione, la fase dello specchio rappresenta un momento cruciale nella formazione dell’identità individuale, segnando il passaggio dall’unità illusoria alla consapevolezza della mancanza e della frammentazione che caratterizzano l’esperienza umana. Attraverso l’identificazione con l’immagine riflessa, l’individuo entra nell’ordine simbolico, iniziando il processo di costruzione del sé come soggetto linguistico e sociale. Tuttavia, questa identificazione porta anche con sé un senso di alienazione e insoddisfazione, poiché l’immagine riflessa diventa un oggetto di desiderio e idealizzazione, creando tensioni e conflitti interni che influenzano la vita adulta dell’individuo.
Tema davvero molto delicato quello del riconoscere e del riconoscersi. Tema delicato perché riguarda l’individuo e quello che ha intorno, riguarda la propria esperienza di vita e riguarda la sfera decisamente personale, quella idiosincrasia che è peculiare dell’individuo. Pensando a come descrivere questo viaggio personale, mi è venuto in mente che uno dei modi sarebbe potuto essere quello di dare uno sguardo a quelle varie “interpretazioni” che – per forza di cose – cerca di farsi “messaggio universale”, ossia il Cinema: come il Cinema ha trattato, negli anni, questo tema.
Ecco 10 film che potrebbero esprimere al meglio tutto quello che io, con le mie sole parole, non riuscirei mai ad esprimere. Più un bonus al quale sono particolarmente legato.
1) “The King’s Speech” (2010) – Si concentra sulla lotta di un re per superare il suo balbettio con l’aiuto di un terapeuta non convenzionale.
2) “Girl, Interrupted” (1999) – Basato su una storia vera, il film esplora la vita in un ospedale psichiatrico e le relazioni tra i pazienti.
3) “Little Miss Sunshine” (2006) – Una commedia che segue una famiglia disfunzionale in un viaggio verso un concorso di bellezza, affrontando le loro debolezze e rafforzando i legami familiari.
4) “American Beauty” (1999) – Affronta temi di identità, desideri repressi e crisi di mezza età attraverso i personaggi principali.
5) “Eternal Sunshine of the Spotless Mind” (2004) – Un film che esplora le complessità delle relazioni e la memoria emotiva.
6) “Good Will Hunting” (1997) – Racconta la storia di un giovane prodigio che affronta i suoi traumi emotivi con l’aiuto di un terapeuta.
7) “Silver Linings Playbook” (2012) – Segue le vite di due persone che cercano di affrontare i propri problemi mentali e le loro relazioni interpersonali.
8) “A Beautiful Mind” (2001) – Basato sulla vera storia di John Nash, un genio della matematica che combatte contro la schizofrenia.
9) “The Perks of Being a Wallflower” (2012) – Esplora le difficoltà dell’adolescenza e la ricerca di identità attraverso il protagonista Charlie.
10) “Inside Out” (2015) – Un film d’animazione che personifica le emozioni per esplorare il processo di crescita emotiva e l’accettazione di sé stessi.
Il bonus è il film di François Truffaut “I 400 colpi”: il racconto – poetico e diretto – del passaggio della fanciullezza all’età adulta di Antoine, un ragazzo di 12 anni. Mi piace pensare di chiudere questo articolo, con la stessa immagine che chiude il film, con lo sguardo fisso verso la camera, verso lo spettatore, con il rumore delle onde del mare che fanno da musica di sottofondo.
“Ne usciremo migliori”, si diceva, ma a più di 3 anni dal momento da quando lo slogan fu coniato ci sentiamo particolarmente lontani da come eravamo prima del Covid-19 e sembra che il raggiungimento di un equilibrio non sia affatto un processo semplice. Per avere un’idea più completa, ho contattato una persona che – per lucidità di visione e per professionalità – avesse la capacità di aiutarmi in questo percorso: Emilio Mordini.
Emilio Mordini è laureato in medicina e in filosofia, si è formato come psicoanalista ed è stato tra i primi psicoterapeuti medici abilitati dall’Ordine dei Medici di Roma. Esercita l’attività clinica come psicoanalista da circa quarant’anni. I suoi interessi scientifici si focalizzano sui rapporti tra individuo e inconscio sociale e sulla nozione di Einheitpsychose. Dal 1994 al 2005 Emilio Mordini ha insegnato bioetica presso la II Scuola di Specializzazione in Ostetricia e Ginecologia dell’Università di Roma La Sapienza. Negli stessi anni è stato membro e segretario scientifico della Commissione di Bioetica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), membro della Commissione di Bioetica dell’ Ordine dei Medici di Roma, tesoriere e segretario generale dell’ Associazione Europea dei Centri di Etica Medica (EACME), membro del Consiglio di Amministrazione dell’International Association of Bioethics (IAB), membro del Comitato Etico e docente nei corsi di etica della Società Italiana di Psichiatria (SIP) e ha tenuto corsi di bioetica e di psicoanalisi in varie università italiane e straniere. Dal 2002 al 2013 Emilio Mordini ha diretto il Centro per la Scienza, la Società e la Cittadinanza (CSSC) di Roma, per conto del quale ha partecipato come principale investigatore o coordinatore a più di trenta progetti di ricerca internazionali promossi dalla Commissione Europea e ha diretto due workshop del programma Science for Peace della NATO. Nello stesso periodo è stato membro di vari comitati di esperti della Commissione Europea e delle sue agenzie. Dal 2014 al 2020 ha diretto Responsible Technology, una società di consulenza con sede a Parigi. Attualmente è research fellow dell’Health and Risk Communication Center dell’Università di Haifa in Israele. Nell’Unione Europea, presta la sua opera nel CERIS Expert Group (Community for European Research and Innovation for Security). Fa parte del comitato editoriale di numerose riviste scientifiche internazionali, tra le quali il “Journal of Ethics in Mental Health”, “IET Biometrics“, “Somatotechnics” e la “Revue Française d’éthique appliquée”. Ha pubblicato più di centosessanta articoli e monografie su riviste scientifiche internazionali, numerosi articoli divulgativi e curato quattordici volumi collettanei. È socio di varie società scientifiche, tra cui la Società Italiana di Psichiatria (SIP) e l’Association for the Advancement of Philosophy and Psychiatry (AAPP). Raggiungo telefonicamente il professore in Friuli, a San Vito al Tagliamento, un paese tra Venezia e Trieste, dove ora vive ed esercita la sua attività clinica.
Domanda: Com’è la situazione degli italiani dopo il covid riguardo alla loro salute psicofisica? In questi anni c’è stato un investimento importante, anche con il così detto “bonus psicologi” ma questa iniziativa è servita o no? Com’è lo stato attuale?
Risposta: Le posso rispondere come medico e psicoanalista, non come epidemiologo, cioè le posso parlare di mie impressioni e riflessioni, non di dati statistici. Dal mio punto di vista, non ritengo che il Covid abbia cambiato molto la salute degli italiani. Eventualmente quello che ha cambiato la salute degli italiani, e non solo quella mentale, è il progressivo degrado dei servizi sanitari che era già in corso ben prima del Covid e che con l’epidemia ha avuto un’accelerazione. Il COVID è stato preso a pretesto per promuovere tutta una serie di processi di trasformazione che erano già in corso ma che avrebbero avuto – senza epidemia – tempi ben più lunghi. Il primo e più importante processo è stata una progressiva e massiccia digitalizzazione dei servizi sanitari pubblici e privati. La digitalizzazione e l’automazione della sanità permettono di ridurre in modo drastico i costi (che sono per la gran parte imputabili ai costi del personale) e migliorare l’efficienza complessiva del sistema. Però ci sono anche aspetti negativi.
Quali?
Sta accadendo alla sanità quello che è già accaduto in altri settori (si pensi ad esempio al mondo dei servizi bancari e finanziari dove le agenzie bancarie funzionano praticamente senza personale) e che sta accadendo nel mondo dell’istruzione e dell’educazione, con la didattica a distanza e la formazione online. L’obiettivo è quello di arrivare a una sanità “ad alta automazione”, un po’ come quei caselli autostradali privi di ogni presenza umana. Per realizzarsi un processo del genere, è stato necessario però il realizzarsi di alcune condizioni.
A cosa si riferisce? Le farò un discorso un po’ lungo per cui le chiedo scusa. Sono convinto, però, che il momento che stiamo attraversando sia una svolta storica non solo nel modo in cui si esercita la professione medica ma nell’idea stessa di salute e nella funzione politica e sociale del concetto di salute.
La medicina è stata per secoli, dalla sua nascita sino alla seconda metà dello scorso secolo, soprattutto “artigianato”, basato sulle conoscenze cliniche, sull’esperienza e intuizione dei singoli medici e delle équipe curanti. Era una medicina che sbagliava spesso, curava poco, difficilmente evitava la morte e che era guardata con diffidenza dai pazienti, anche se l’alternativa erano solo maghi e fattucchiere che erano ancora peggio. Ci fu poi, agli inizi del 1900, il periodo dei grandi clinici e della medicina ospedaliera di massa: le cose cominciarono ad andare un po’ meglio anche grazie a farmaci più efficaci, alla scoperta dell’asepsi in chirurgia, all’avvento dei vaccini. Però, sino a dopo alla Seconda guerra mondiale, non è che i medici riuscissero a salvare molte vite. Spesso i trattamenti non erano efficaci se non addirittura dannosi. Nel ventennio tra il 1950 e il 1970, avvennero due fatti fondamentali tra loro correlati: da un lato l’industria farmaceutica divenne un colosso produttivo con un’influenza finanziaria crescente, dall’altra si affermò l’idea di provvedere tutti i cittadini con un’assicurazione sanitaria, prevalentemente pubblica in Europa, principalmente privata negli USA. Nacque, cioè, il concetto di “diritto alla salute” che, come altri “diritti sociali”, fu la risposta del blocco sovietico alla critica che gli rivolgevano gli stati occidentali. Nazioni e forze politiche che si riferivano più o meno al mondo comunista iniziarono a contrapporre ai “diritti civili e politici” tutta una serie di altri diritti, “sociali” appunto, come il “diritto alla salute”. Questo diritto divenne un principio fondante l’Organizzazione Mondiale della Sanità e, in genere, tutte le organizzazioni delle Nazioni Unite, così come divenne centrale per le grandi socialdemocrazie europee e la nascente Unione Europea. In questo mondo fondato sul diritto universale alla salute (e dominato dalle case farmaceutiche) poteva andare ancora bene la vecchia medicina clinica e ospedaliera degli inizi del 1900? Ovviamente, non poteva. Serviva una medicina di massa, territoriale (i cui costi farmaceutici crescenti fossero affrontati dai servizi sanitari pubblici o privati e fatti ricadere sull’intera collettività) e basata su metodi di validazione statistici, cioè una medicina che avesse come obiettivo non tanto lo stato di salute del singolo paziente quanto della comunità considerata nel so insieme. Nasce così, verso la fine degli anni 1970, la cosiddetta “medicina basata sull’evidenza” (EBM). La 𝗘𝗕𝗠 𝗮𝗳𝗳𝗲𝗿𝗺𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝗻𝗲𝘀𝘀𝘂𝗻𝗮 𝗽𝗿𝗼𝗰𝗲𝗱𝘂𝗿𝗮 𝗱𝗶𝗮𝗴𝗻𝗼𝘀𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗼 𝘁𝗲𝗿𝗮𝗽𝗲𝘂𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗱𝗲𝗯𝗯𝗮 𝗿𝗶𝘁𝗲𝗻𝗲𝗿𝘀𝗶 𝘃𝗮𝗹𝗶𝗱𝗮𝘁𝗮 se non dopo un’esperienza empirica che la sostanzi. Nei fatti si rigetta ogni appello al principio d’autorità (“l’ha detto quel medico, quindi deve essere vero”), così come ogni convinzione aneddotica (“nella mia esperienza ha sempre funzionato”, “ci sono numerosi casi in cui sembra essere efficace”), invece ci si rifà rigorosamente a osservazioni controllate, alla riproducibilità delle esperienze, al consenso tra specialisti. Il movimento della EBM si presenta, quindi, come un grande movimento, che non si oppone pregiudizialmente a nessuna pratica medica, né quelle convenzionali, né a quelle non-convenzionali, ma pretende che ogni trattamento che si proclami “efficace” sia sottoposto a un rigoroso controllo. 𝗜 𝘀𝗼𝘀𝘁𝗲𝗻𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶 𝗱𝗲𝗹 𝗺𝗼𝘃𝗶𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝗵𝗮𝗻𝗻𝗼 𝗱𝗶𝗰𝗵𝗶𝗮𝗿𝗮𝘁𝗼 𝗰𝗵𝗲 𝘀𝗼𝗹𝗼 𝗹𝗮 𝗘𝗕𝗠 𝗽𝘂𝗼̀ 𝗰𝗼𝗻𝘀𝗲𝗻𝘁𝗶𝗿𝗲 𝗮𝗹 𝗽𝗮𝘇𝗶𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗱𝗶 𝗮𝗰𝗰𝗲𝗱𝗲𝗿𝗲 𝗮𝗱 𝗶𝗻𝗳𝗼𝗿𝗺𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗼𝗯𝗶𝗲𝘁𝘁𝗶𝘃𝗲 e non di parte, perché medici e pazienti si troverebbero a disporre di una stessa fonte neutrale di informazioni. Medici e pazienti sarebbero messi in grado, di decidere insieme, su base paritaria. Nelle intenzioni proclamate, l’EBM dovrebbe fondare un meccanismo razionale e condiviso di distribuzione delle cure, evitando diseguaglianze tra gli utenti e impedendo lo spreco di risorse su trattamenti inefficaci quando non addirittura nocivi. Agli inizi degli anni 2000, l’EBM si afferma universalmente come standard delle cure mediche e, nel ventennio successivo, diventa progressivamente la sola filosofia accettata dai servizi sanitari pubblici e privati, dalle società scientifiche mediche e dalle istituzioni sanitarie statali. La funzionalità dell’EBM sembra essere testimoniata dai risultati: dove è stata adottata, il livello complessivo di efficacia delle cure mediche è aumentato, almeno secondo tutti gli indicatori statistici. Il problema, però, è proprio questo: la EBM è una medicina fatta da manager sanitari per manager sanitari e politici che hanno bisogno di citare numeri; non è una medicina per i pazienti a cui importa poco che le statistiche migliorino se loro, come singoli individui, ricevono servizi sempre più spersonalizzati e anonimi. In questi ultimi vent’anni, è accaduto un altro importante fatto, che non ha riguardato solo la medicina ma che sta avendo sul mondo sanitario un impatto devastante. Mi riferisco alla crescente capacità di catturare, immagazzinare, interconnettere e processare quantità enormi di informazioni. Tutto ciò è diventato possibile man mano che la tecnologia ha permesso di trasformare informazioni qualitative in quantitative, detto in maniera più semplice: via via che la tecnologia ha creato strumenti per misurare ogni cosa ed esprimere in dati numerici qualsiasi evento. Questo processo è quello che è chiamato comunemente “digitalizzazione” (termine preso dall’inglese che significa, letteralmente, “numerizzazione” così come infatti lo traducono i francesi). Questa capacità, che è cresciuta di giorno in giorno con una velocità impensabile sino a qualche tempo fa, ha generato un approccio scientifico (anche alla medicina) molto diverso da quello tradizionale: la cosiddetta “scienza dei dati”. Una delle caratteristiche principali della “scienza dei dati” è la sua capacità di produrre “previsioni senza comprensione”. La scienza convenzionale, quella che era nata nel 1600 con Galileo Galilei, era deterministica, cioè, mirava a produrre spiegazioni basate sul principio di causalità (A causa B = B è un effetto di A). La scienza moderna (quella che si era affermata nel 1900) era invece probabilistica, cioè si basava si basava ancora sul principio di causalità, ma ammetteva un certo grado di incertezza. Nella scienza probabilistica (come era, agli inizi, anche quella della “Medicina Basata sull’ Evidenza”) si cercavano correlazioni statistiche e, una volta scoperte, si cercava di stabilirne le cause più probabili. Questa ipotesi causale veniva confrontata di nuovo con i dati empirici e il processo veniva ripetuto fino a quando non si era in grado di arrivare a una qualche comprensione dai dati (il verificarsi di A è strettamente associato al verificarsi di B = ci sono x probabilità che A provochi B). La scienza dei dati è simile alla scienza probabilistica in quanto anch’essa ricerca correlazioni e modelli, ma non è più interessata a trovare un senso, cioè, a stabilire relazioni di causa-effetto. La scienza dei dati, proprio perché la tecnologia le mette a disposizione una quantità di informazioni enorme, si accontenta di individuare configurazioni di fatti (al fatto A segue prima o poi il fatto B). La scienza dei dati non si interessa delle cause: si limita a identificare i primi segnali della comparsa di un fatto in modo tale che si possa agire preventivamente. Applicata alla medicina, questa scienza produce la “medicina post-COVID” che stiamo imparando a conoscere. Si tratta di una medicina che può essere considerata l’evoluzione della EBM. Come la Medicina Basata sull’Evidenza, anche la medicina basata sulla scienza dei dati non si interessa alla clinica ma analizza grandi numeri di pazienti. L’obiettivo, però, non è soltanto quello di modificare le condizioni di salute di una comunità, ma di riuscire ad applicare modelli matematici e statistici generali anche ai singoli casi. Questo diventa possibile non perché si individuino specifiche correlazioni causali e fisiopatologiche, ma perché si identificano pattern da cui trarre indicazioni specifiche di azioni da compiere per ottenere il risultato voluto. Per spiegarlo in un modo più semplice e forse comprensibile: la medicina basata sulla scienza dei dati è molto simile al modo in cui funzionava il “servizio pre-crimine” in un film di fantascienza di qualche anno fa, Minority Report.
Quindi il degrado della medicina post-COVID sarebbe la conseguenza della “medicina Minority Report”?
Quello che le ho descritto è il processo principale, le cui conseguenze, però, sono poi il frutto del concomitare di altri sottoprocessi. Via via che la medicina statistica e poi quella basata sui dati hanno preso il sopravvento, è diminuita parallelamente l’importanza del fattore umano e quindi della preparazione del personale sanitario, dei medici in particolare. Stiamo assistendo a una progressiva de-professionalizzazione dei medici che ha almeno tre componenti. La prima, più generale, riguarda la qualità della formazione fornita dalla scuola primaria e secondaria. I giovani giungono al momento della scelta universitaria in una condizione di ignoranza impensabile qualche decennio fa. Il COVID, con la didattica a distanza, ha portato agli estremi questo processo di disfacimento educativo. Spesso i “nuovi medici” sono persone di un’ignoranza generale che fa rabbrividire. Sono persone che non hanno mai letto un’opera letteraria in vita loro, che non hanno mai visto un film che non sia prodotto da Netflix o simili, che non hanno mai visto uno spettacolo teatrale che non sia quello di un comico televisivo, che si informano su Instagram, che ascoltano i Måneskin e vestono Zara. Non differiscono, in questo, dai loro coetanei che fanno altre professioni. Ma fossero, ad esempio, ingegneri potrebbero forse essere decenti professionisti lo stesso; invece, è impossibile che lo siano facendo il medico. Senza l’esperienza formativa di quelle nel mondo anglosassone sono chiamate “humanities”, cioè le scienze umane, e senza essere stati formati artigianalmente da un maestro, che li abbia accompagnati al rapporto diretto con il malato, questi giovani medici mancano i fondamenti umani e psicologici per curare un paziente. Del resto, la loro funzione nei sistemi sanitari moderni perde sempre più di importanza e il fatto che mancano delle necessarie qualità umane non è avvertito dagli amministratori come un problema di cui preoccuparsi. A questo si aggiunge un secondo processo: la superspecializzazione e l’ignoranza degli aspetti della medicina diversi dal proprio. I giovani medici conoscono (quando conoscono) il loro settore specialistico ma quasi ignorano tutto il resto, sia perché lo hanno studiato poco e male già durante il corso di laurea, sia perché – diventati medici – se ne disinteressano completamente. Si arriva così alla situazione attuale in cui i pazienti non hanno più un medico che voglia e sappia seguirli complessivamente, ma liste di specialisti interessati all’organo o apparato di loro competenza, come fossero carburatoristi o elettrauto. Questi medici super-specialisti si integrano perfettamente nel sistema della medicina tecnologica basata sui dati, perché diventano loro stessi simili a macchine o a esami di laboratorio: si trasformano in “generatori di informazione medica” che sarà poi analizzata da altri o, sempre più spesso, dagli algoritmi dell’intelligenza artificiale. In questo senso, è quasi meglio che non pensino e non si prendano cura del paziente: altrimenti disturberebbero i veri decisori che non sono più loro ma le macchine (in teoria – nel sistema italiano – il medico che riunisce tutte le informazioni ci dovrebbe essere ed è il medico di base, ma spesso questa è solo un’illusione. Purtroppo, i medici di base finiscono di frequente a essere burocrati che smistano il paziente tra vari specialisti ed esami, cercando di contenere i costi). Infine, c’è un terzo processo che spiega la perdita di qualità professionale di molti giovani medici. Mi riferisco alla crescente produzione di linee guida e protocolli di cura. Questo fenomeno è direttamente legato alla medicina basata sull’evidenza e alla sua moderna versione basata sui dati. Più, infatti, le decisioni mediche scaturiscono non dalla clinica ma dall’analisi biostatistica di informazioni fornite da macchine, più è logico che queste decisioni si basino su alberi decisionali e algoritmi. A ciò si aggiungano una serie di ragioni medico-legali e amministrative, che – in Italia anche attraverso specifiche leggi nel 2014 e 2016 – hanno sempre più vincolato i medici all’osservanza di protocolli e le linee guida stabilite da istituzioni scientifiche statali, quali l’Istituto Superiore di Sanità o il Ministero della Sanità, e società scientifiche riconosciute. La legge lascia un margine di discrezionalità ai medici, che hanno ancora in teoria la libertà di cura. Tuttavia, se un medico si discosta da protocolli e linee guida, deve giustificare questo scostamento e sincerarsi che il paziente sia d’accordo con queste sue scelte. Questo principio, la necessità di un consenso informato ogni qual volta un medico non segua linee guida fissate, è in teoria comprensibile, non fosse che spesso un malato avrebbe voglia di dover non essere chiamato a decidere ma di avere consiglio. A tutto ciò si aggiungono una serie di problematiche amministrative e contrattuali specifiche per i medici che lavorano nel sistema sanitario nazionale, i quali – se non rispettano protocolli e linee guida – corrono il rischio di perdere le proprie coperture assicurative ed esser soggetti a provvedimenti disciplinari.
Ma lei, dunque, è contro le “linee guida”?
No, assolutamente. Possono essere utilissime affiancate al ragionamento clinico. La questione è che ogni essere umano è un caso a sé stante e va valutato come tale. Che cosa chiede un paziente? Di essere riportato nell’ambito di parametri statistici di normalità e di salute? Ma proprio per niente. Un paziente chiede di che ci qualcuno si prenda cura di lui. C’è una differenza fondamentale tra “curare” e “prendersi cura”. “Curare” vuol dire riparare un carburatore che non funziona ed è quello che accade spesso oggi: la medicina tecnologica basata sui dati lo sa fare bene, non c’è dubbio. “Prendersi cura” significa, invece, domandarsi cosa sia per quella specifica persona la “salute”, quale sia il suo “bene”. Si tratta di una questione complicata, non c’è dubbio che il medico debba essere umile, debba evitare l’arroganza di decidere da solo quale sia il bene del paziente, Un medico onesto deve sapere di non sapere: sempre porsi domande e porre domande. Eppure, in ultima istanza, se il medico non cerca di capire cosa sia il bene per il malato che si è rivolto lui e non cerca di realizzarlo, diventa un truffatore perché non rispetta il contratto terapeutico. Cos’è il bene per quel mio determinato paziente? Avere il colesterolo LDL entro i valori fissati dalle ultime linee guida dell’American College of Cardiology (società, per altro, sponsorizzata da case farmaceutiche produttrici di farmaci per abbassare la colesterolemia) oppure avere il colesterolo un po’ più alto ma godersi un piatto di formaggio e un bicchiere di vino ogni tanto? Ho fatto un esempio banale, ma credo che si capisca cosa intendo. Del resto, se un medico si limita ad applicare in maniera pedissequa linee guida create da altri o dall’intelligenza artificiale, non si capisce cosa serva più. Se un medico è solo un esecutore di algoritmi, allora le macchine possono farlo in maniera molto più efficace e sicura.
Quindi lei crede che il problema sia la “disumanizzazione” della medicina moderna?
Sì e no. Non c’è dubbio che la medicina tecnologica basata sui dati sia “disumanizzata”, ma non ne consegue automaticamente che ciò dispiaccia ai pazienti. La medicina tecnologica è una medicina che ha conseguito risultati straordinari in termini di guarigioni dalle malattie. In questo senso, i pazienti sono soddisfatti dei suoi risultati. Poi, non si scordi tutte le cose che le ho detto in precedenza, in particolare rispetto alla perdita di qualità “umana” dei medici. I pazienti si rendono conto che spesso i medici oggi sono disinteressati umanamente a loro, incapaci di entrare in relazione, di provare simpatia (preferisco questa parola a quella che va più di moda, “empatia”). È molto difficile affidarsi a qualcuno se non abbiamo piena fiducia nella sua “umanità”. In un contesto in cui ci si fida poco dei medici è allora molto meglio la medicina tecnologica. I pazienti a volte preferiscono medici frettolosi, poco attenti al rapporto umano, ma almeno scientificamente efficiente e aggiornati. Nella mia professione di psicoanalista, vedo abbastanza bene questo tipo di contraddizione: non pochi pazienti oggi chiedono soprattutto farmaci o rapidi interventi comportamentali che siano in grado di riportarli a un discreto funzionamento psicologico senza troppe complicazioni. L’idea che è un trattamento psicologico possa e debba andare oltre la risoluzione immediata dei sintomi è oramai molto lontana da tante persone. Per loro, il medico, persino quel quello che fa lo psicoterapeuta, deve essere solo un meccanico che ripristina una funzione alterata.
Mi colpisce questa rappresentazione. Da informatico resto quasi turbato da questo: eravamo convinti che gli strumenti informatici ci avrebbero liberati dagli errori, mentre ci siamo ritrovati con delle macchine dalle quali siamo dipendenti. Qual è lo scenario visto dal punto di vista medico?
Sui motivi per cui la nostra società si è sviluppata soprattutto in senso tecnologico sono stati versati i leggendari fiumi di inchiostro. Economisti, sociologi, filosofi, teologici, antropologi: ciascuno ha fornito la sua spiegazione. Dal mio punto di vista, mi sembra che la tecnologia sia servita e serva agli esseri umani soprattutto per evitare i lavori più faticosi, noiosi, meno gratificanti, tant’è che il suo sviluppo coincide grossomodo con la fine della schiavitù. Le macchine servono a fare cose che gli esseri umani non hanno voglia di fare, una volta che non ci sono più schiavi da impiegare al posto loro. L’esempio che faccio spesso è quello della nascita delle macchine calcolatrici. Il primo calcolatore nasce nel 1600 ed è un’invenzione di Pascal. Blaise Pascal fu uno dei più grandi matematici (contribuì, tra l’altro, alla nascita del calcolo delle probabilità), filosofi e teologi dell’epoca barocca. Pascal era figlio di un esattore delle tasse nell’Alta Normandia, sotto il regno di Luigi XIV. Quando il giovane Blaise aveva diciannove anni, il padre lo mise a verificare i conti, così il poverello fu costretto a passare le sue notti a rifare i calcoli per controllarli. Immagini quanto un giovane di meno di vent’anni fosse contento di trascorrere le serate in questo modo. Probabilmente io o lei avremmo cercato di “imboscarci” ma Pascal, che era un genio, cercò invece una soluzione diversa: inventare una macchina che facesse i calcoli al posto suo. Questa macchina – che ora è in un museo a Parigi e fu in seguito chiamata “Pascaline” – fu il primo calcolatore meccanico nella storia dell’umanità e ancora i calcolatori degli anni 1960 funzionavano secondo i suoi principi. Questa storia divertente spiega bene qual è la spinta a creare nuove tecnologie: far fare da macchine compiti che noi troviamo noiosi e che le macchine possono fare più rapidamente e con meno errori di noi. L’intelligenza artificiale alla fine è soltanto uno strumento di calcolo potentissimo al di là di ogni immaginazione ma che nulla ha a che vedere con l’intelligenza vera. Esattamente come un microscopio elettronico, che vede cose per noi impensabili. Ma lei direbbe mai che un microscopio elettronico “vede”? No, perché un microscopio elettronico non vede nulla, permette a noi di vedere. Lo stesso fanno un telefono cellulare o una macchina da corsa: le tecnologie sono protesi che permettono agli esseri umani di fare quello che, senza tecnologia, non sarebbero in grado di fare. L’intelligenza artificiale è un amplificatore della nostra capacità di calcolo: non sostituisce l’intelligenza, ma ci leva la fatica di calcolare, attività in sé stessa fondamentalmente noiosa pure per i matematici di professione.
Però c’è un aspetto importante e complicato, ed è quello riferito alla gestione dei big data. Ricordo che all’università, ormai sono passati più di vent’anni, durante il corso di intelligenza artificiale, si considerava la valutazione delle potenziali patologie associate ai segni. Uno degli esempi che si faceva, ripeto su uno studio prima del 2000, riguardava l’individuazione della tubercolosi, partendo da questa considerazione: i medici statunitensi non erano più in grado di conoscere i segni perché pensavano ad altre patologie. Allora, trovare correlazioni già predeterminate permette di fare espandere la conoscenza. Ma quando invece la correlazione viene fatta in modo automatico e noi, gli esseri umani, ne perdono il controllo, lì entriamo in un altro mondo.
Guardi, le ripeto in un diverso contesto quello che le ho già detto a proposito delle linee guida. Io non ho proprio nulla contro l’intelligenza artificiale: se è utile, ben venga. Quando io mi sono laureato, nel 1981, nel reparto dell’ospedale San Giacomo di Roma dove ero assistente, per evitare di mandare troppi esami del sangue in laboratorio, alcuni di questi esami li facevamo direttamente noi in reparto. Uno di questi, l’esame emocromo, lo si faceva al microscopio ottico, usando un particolare vetrino retinato che, una volta colorato il campione, permetteva una conta probabilistica degli elementi corpuscolati, globuli rossi e bianchi. Un lavoro molto noioso che certo non faceva il primario ma che toccava a noi neolaureati. La precisione, ovviamente, era abbastanza approssimativa e sono sicuro che diminuisse progressivamente più noi ci si annoiava e che avesse poi veri crolli se, per caso, uno di noi aveva fretta di terminare per andare, magari, al cinema. È chiaro che nel momento in cui si mette la provetta dentro una macchina, e la macchina conta con precisione assoluta tutti i globuli rossi e bianchi, è meglio no? Non dobbiamo rinunziare a questo. Però questo progresso dovrebbe dare al medico il tempo, magari, di parlare col paziente. Potrebbe essere un guadagno per tutti. Però, se invece, una volta che ho una macchina che fa l’emocromo, il tempo che risparmio io lo uso per stare su Instagram a guardarmi i reel, allora c’è qualcosa che non gira in questa storia. In realtà ho soltanto perso tempo e non l’ho acquistato.
Questa è la visione, una visione quasi di profondità perdendo completamente la visione periferica, quella che poi ci permette di allargare la visuale su quello che è la qualità della vita, quello che è il rapporto col paziente. Veramente molto interessante. Questo poi mi colpisce, e metto la mia visione da informatico. Ho sempre utilizzato le videoconferenze, le call conference, per parlare con i colleghi, ma non mi rendevo conto di quanto invece il rapporto umano, quello che poi si aveva comunque in ufficio, fosse fondamentale nel mantenimento del team, nel mantenimento dei rapporti di reciproca stima e fiducia. Questa cosa è cambiata, passando tutti e solo in videoconferenza è stato veramente un rapporto completamente diverso. E qui mi interessava anche rispetto alla sua professione, quanto c’è di diverso nell’avere rapporti virtualizzati rispetto ad averli di persona?
Bella domanda. La presenza è una questione che non riguarda nessuna modalità sensoriale precisa. La presenza è qualcosa di sfuggente che ha al suo interno tantissime componenti, se volessimo scomporle si potrebbe forse anche: si va dall’odore, ai ferormoni, alle vibrazioni fisiche, quelle dovute al movimento dell’aria che un corpo provoca, allo sguardo, ai rumori impercettibili che ogni corpo genera, alla proxemica, e così via. Questa infinità di elementi si ritrova nella comunicazione umana. Non è necessario fare grandi discorsi complicati, basta riferirsi a un’esperienza che chiunque di noi può fare. In una sala concerti, in un jazz club, in un teatro, ci si rende ben conto come la presenza sul palcoscenico di un attore oppure di un suonatore o un cantate, sia un’esperienza profondamente diversa dal vedere o ascoltare un programma registrato. Anche semplicemente se si è tra amici e uno si mette al pianoforte a strimpellare o prende la chitarra e canta, si crea una profondità comunicativa che nessun metaverso riuscirà mai a replicare. Perché? Perché in qualche modo, c’è qualcosa che riguarda proprio la nostra intima umanità. Pensi che un bambino di pochissimi giorni, già al secondo o al terzo giorno di vita, conosce e riconosce gli occhi di chi si prende cura di lui ed è in grado di reagire con un sorriso o con una smorfia a seconda di come quegli occhi si muovono e che cosa gli comunicano. Non riconosce ancora la persona, perché ha una difficoltà di messa a fuoco: se dovesse vedere il profilo della madre, o del padre, o dell’infermiera, non li riconoscerebbe. Eppure, reagisce allo sguardo. Cos’è la presenza degli occhi? Ci pensi, provi a rispondere se ci riesce.
Nel Medioevo ci fu un periodo in cui il potere centrale, del re o dell’imperatore, era molto debole mentre era grande il potere dei feudatari, delle città stato e dei comuni. Se l’autorità centrale si fosse limitata a pubblicare editti senza mai mostrarsi, dopo un po’ nessuno avrebbe più obbedito e pagato le tasse. Non i contadini, ma i nobili, perché un nobile che non vedeva il re o l’imperatore, dopo un po’cominciava a sperare di esserselo levato di torno per sempre. Allora tutti i grandi sovrani, come i sovrani di Francia, una volta l’anno – normalmente in primavera, quando arrivava il bel tempo – si muovevano nel loro Regno andando a benedire di qua e di là i sudditi. Dopo che erano stati fisicamente in un posto, allora lasciavano frequentemente un segno, ad esempio una statua o un dipinto, che era il modo dell’epoca per essere presente virtualmente. Però, prima, era necessaria la presenza fisica. Questo è esattamente il problema che abbiamo oggi. Si può fare una videoconferenza – ci mancherebbe altro – o l’insegnamento a distanza, così come un medico, persino uno psicoanalista, può curare un paziente a distanza. Si può fare tutto, se le circostanze lo impongono. Ma il virtuale ha senso soltanto se c’è stata una presenza prima, se la persona ha percepito almeno una volta la presenza fisica del corpo dell’altro. Questo perlomeno è valido per tutte quelle professioni dove il rapporto umano è fondamentale.
Devo dire, che questo è vero anche per l’informatica, come ho notato personalmente: manca il concetto del team. Cioè, non si lavora più “in team”, dopo più di due anni praticamente sempre a distanza, e non ci si vede personalmente, ma si lavora come somma di individualità.
Il nostro mondo sta procedendo verso la digitalizzazione e dematerializzazione di tutto. A partire dal denaro, sino ai rapporti umani, all’educazione, alla medicina, noi viviamo in un mondo che si sta progressivamente dematerializzando, persino il sesso è per buona parte dematerializzato e masturbatorio. Le persone saranno pure soddisfatte, non lo discuto, ma sono anche sempre più rincretinite. E, oltre un certo livello di stupidità, viene minacciata anche la felicità, perché la felicità richiede comunque un minimo di intelligenza per apprezzare le cose che abbiamo intorno. Per apprezzare il piacere della vita, un po’ di intelligenza ci vuole e invece più si dematerializza, più si diventa stupidi e infine infelici. Quindi, per concludere tornando alla sua domanda iniziale sullo stato di salute degli italiani, la mia risposta è che, se la salute ha a che vedere in qualche modo con la felicità, allora c’è davvero da essere preoccupati.
Non è così facile riconoscersi negli errori che facciamo. Non ci riconosciamo nei clamorosi abbagli che hanno cambiato il corso della nostra vita, né nei piccoli errori di valutazione che commettiamo tutti i giorni nostro malgrado. Poi se a far notare l’errore è un’altra persona, beh allora possiamo arrivare anche a negare il fatto stesso che sia un errore o possiamo essere più o meno accoglienti o accondiscendenti in base al grado di intimità che abbiamo con quella persona. Ma in generale quel “noi stessi” che erra, che sbaglia, che fallisce, che si trova in un percorso lontano dal proprio obiettivo, è una entità dalla quale ci si vuole distaccare, senza riconoscerla. Neghiamo la possibilità di fallire o, forse più propriamente, neghiamo che possiamo fallire.
Mi viene in mente il dipinto di Magritte dove un uomo si guarda allo specchio, ma non si può riconoscere nella figura specchiata perché è girato di spalle. Lo specchio non lo riflette, non lo riproduce (in effetti il titolo del quadro è “Non Riproducibile”)
La nostra società è attratta dal successo – che è obiettivamente l’opposto dal fallimento – ma stigmatizza il fallimento come un carattere perentorio, una valutazione sulla storia della persona che ha fallito.
Da qui certo non voglio dire che il fallimento sia una cosa da desiderare, ma una cosa da guardare in faccia, senza il terrore di provarlo.
In Informatica si è sviluppato un paradigma nuovo. Per l’Agile Development un’avventura imprenditoriale è quella che “riconosce il fallimento” e cerca di massimizzare la velocità di apprendimento data dal fallimento e di ridurne al minimo le conseguenze. Sì perché chi meglio del fallimento ci da la possibilità di apprendere come raggiungere l’obiettivo che cerchiamo? Il motto di questo metodo è “fail fast, fail often” – fallire presto, fallire spesso – perché si cerca di guardare in ogni percorso quelle caratteristiche che potrebbero far fallire il progetto e far “fallire” quel percorso, invece che l’intero progetto.
Mi piace ricordare che Enzo Ferrari nella fabbrica di Maranello aveva voluto una teca con tutti i pezzi che avevano fatto perdere una gara. Ogni pezzo rotto, ogni pistone crepato, ogni ammortizzatore spezzato, ogni radiatore bucato, ogni valvola divelta dalla potenza del motore, ogni turbo progettato male era lì, conservato con un cartellino con una data e una località, come fossero Coppe, medaglie, Trofei: una teca dove guardare in faccia l’errore e farsi ispirare da quello ogni volta.
Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento palle, ventisei volte i miei compagni di squadra mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato.
Ho fallito. Molte, molte volte.
Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto.
Michael Jordan
Nel corso della vita, tutti noi affrontiamo dei momenti di “ritorno”. Possiamo ritornare a casa dopo un lungo viaggio, ritornare alla routine dopo le vacanze, ad esempio. Il ritorno descrive i percorsi in modo “circolare”, una ruota che fa la sua rivoluzione per tornare nella stessa situazione di prima, ma è davvero così? Tornando, ci troviamo a confrontarci con il nostro passato e a misurare quanto siano cambiate le cose nel frattempo, anche quanto siamo cambiati noi. Un’opportunità di riflessione e di crescita.
Il Ritorno a Casa
Sicuramente il tipo di ritorno più comune. Possiamo esser stati lontani per poco tempo – come una giornata lavorativa – o per un periodo lungo, la girare la chiave nella serratura e poi aprire la porta è sempre associato ad un momento di emozione. E’ un’occasione per rivedere la luce ed il profumo del proprio posto, per rivedere amici e familiari, ma può portare con sé anche un senso di nostalgia e una riflessione su quanto siano cambiate le cose per come ce le ricordavamo. Ma se il viaggio, la distanza è stata alquanto lunga, al ritorno a casa si possono notare differenze anche sulle strade della nostra città natale, la si può trovare più bella o più sporca, più frenetica, più piacevole da vivere a passare nei suoi locali e si può essere accompagnati dalla sensazione di confronto tra la persona che siamo diventati e quella che eravamo quando l’abbiamo lasciata. Perché forse a cambiare siamo stati noi.
Il Ritorno alla Routine
Il ritorno alla routine quotidiana dopo un periodo di pausa, come le vacanze estive, può essere un’esperienza altrettanto significativa. Durante le vacanze, si “stacca la spina” dalla solita routine, e il ritorno alla normalità può suscitare sentimenti contrastanti. Da un lato il ritorno alla routine può portare con sé un senso di stabilità e comfort, mentre dall’altro può anche farci riflettere su come impieghiamo il nostro tempo e se stiamo perseguendo ciò che è veramente importante per noi. Questo può spingerci a fare cambiamenti significativi nella nostra vita.
Il “ritorno” è un tema universale, che tocca la vita di ognuno di noi, che tutti noi abbiamo sperimentato. E’ una bella opportunità per la riflessione, la crescita e il cambiamento. Se affrontato con apertura e consapevolezza, il ritorno può portare a nuove prospettive e a una maggiore comprensione di noi stessi e del mondo che ci circonda.
Forse il “ritorno” ci da l’idea di non avanzare davvero, ma forse non importa dove ci porterà questo viaggio, perché in ogni passaggio c’è un’esperienza che ci aiuta a crescere e a scoprire chi siamo veramente.