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Di solito la fine dell’anno è il momento dei bilanci, è quel momento nel quale ci si concede un pò il tempo per andare ad analizzare quello che è stato e quello che avrebbe potuto essere. A volte non è che ci si concede il tempo, ma è il tempo stesso che suona la campanella interiore che ci dice che l’ora è finita e che quindi prima di passare alla lezione successiva è necessario chiudere i quaderni e i libri. Converrete con me che, almeno a volte, quello della campanella non sia proprio un suono così piacevole.
Insomma il momento del bilancio quando arriva, arriva. E il momento della pubblicazione di quest’ultimo numero di Condivisione Democratica, è proprio un momento nel quale fare un bilancio.
Un bilancio, ma forse anche più di uno: un bilancio dell’anno in corso, un bilancio degli ultimi 10 anni – 2 lustri! Non avrei mai immaginato che saremmo potuti arrivare a tagliare questo traguardo – un bilancio del lavoro che si sta svolgendo, un bilancio della vita che si sta conducendo, così come la si sta conducendo, un bilancio sulle proprie aspettative e di come le abbiamo alimentate, un bilancio delle cose che ci danno soddisfazioni e di quelle che ci portano frustrazioni.

Ho imparato ai tempi della scuola la Partita Doppia.
Mi sono reso conto che per molti questo concetto è o considerato astruso – e quindi ignorato – oppure è banalizzato – e quindi abbandonato – in particolare per questi ultimi vorrei far sapere che la Partita Doppia non dice che c’è un elenco “del Dare” e un elenco “dell’Avere” – assolutamente no, quella è la Partita Semplice! – ma ci sono contemporaneamente movimenti che riguardano il Dare e l’Avere, nell’aspetto Economico e nell’aspetto Patrimoniale. Contemporaneamente. Detto così sembra difficile – e potrebbe: in effetti il primo a descriverlo fu Luca Pacioli un Matematico (nel suo “Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalita” nel 1494) – ma non disperate assolutamente, perché proverò a cercare altre parole.
La Partita Doppia non è un elenco di soldi che si devono Dare e di soldi che si devono Avere, questo, come dicevo, è la Partita Semplice, con una “contabilità” così non verrebbe fuori il valore intrinseco delle cose. Non emergerebbe quanto vale quello che abbiamo comprato: ipotizziamo di aver pagato il macellaio per la sua merce, diciamo 100€, ma non è riportato il valore di quello che abbiamo avuto in cambio. 100€ di carne risponderebbero i più. Beh no, perché quella carne che abbiamo pagato 100€ probabilmente finirà nella cella frigorifera, e potrò consumarla un pò per volta da solo o tutta in un’unica grigliata con gli amici oppure ancora, se la cella frigorifera si dovesse rompere o se dovessi attendere troppo, potrebbe anche andare tutta a male e finire direttamente nel cestino dell’umido. Tutto questo, quello che avviene dopo “l’azione dell’acquisto”, dove verrebbe riportato, se avessi solamente segnato il “movimento” ma non il “valore”?
Più chiaro ora?
Il bilancio non è solamente un elenco di elementi, di soldi, di immobili, di merce, ma la loro storia, di come si siano mossi all’interno dell’azienda. Come i singoli movimenti economici si siano trasformati in qualcosa di diverso, di come siano diventati degli uffici, dei capannoni – quindi degli elementi del Patrimonio – o la merce che nei capannoni è stoccata, di come siano diventati dei contratti di lavoro, di come siano riusciti a creare delle plusvalenze, quel “valore aggiunto” economico che in ultima analisi è la ragion d’essere di una azienda, di una impresa.
Ecco il bilancio, anzi i bilanci, che vorrei fare e che vorrei proporre, sono focalizzati sul “Patrimonio” e sul “Valore Aggiunto”. Su quegli aspetti che rimangono comunque, perché duraturi, e quegli aspetti che danno il senso di quello che si sta facendo, anche se possono essere effimeri.
Tracciamo una linea quindi, e facciamo i nostri ragionamenti.
Permettetemi poi un gioco di parole sciocco: nella vita, a differenza dei bilanci aziendali, i valori Patrimoniali non sono Immobili, ma mobili, in continuo movimento evoluzione, ma così come i primi anche i secondi, non sono acquisiti “per sempre”, proprio come un bellissimo edificio, senza manutenzione può diventare in un tempo breve, un luogo abbandonato, dimenticato. Lo abbiamo visto (o potete vederlo, a seconda se questo sia il primo o l’ennesimo articolo che leggete su questo numero) negli altri articoli: luoghi un tempo pieni di vita, possono “deperire”, diventare dei veri ruderi.
Invece di focalizzarmi sul fatto che si chiude un’era voglio quindi focalizzarmi su quello che resta “dopo”. Dopo Condivisione Democratica, ad esempio, resta questo bel gruppo che è la redazione e l’amicizia che si è formata al suo interno – questo direi che sia davvero da considerarsi un patrimonio – e resta la voglia di condividere e di comunicare in modo efficace – forse questo lo possiamo considerare un pò come patrimonio e un pò come “Valore Aggiunto” – resta l’idea che si possa far bene, alzando l’asticella della difficoltà di quello che si vuole fare – questo è sicuramente un elemento del patrimonio.
Sotto la linea che abbiamo tracciato io vedo quindi tanti elementi positivi che possono essere ben investiti in un’altra realtà, che ne possa prendere le sfide, il “testimone” ideale, per poterle portare avanti.

Di solito si arriva a questi “anniversari” dicendo “10 anni e non sentirli”. Forse si potrebbe anche provare a parafrasare quell’aforisma di Wilde che enunciava che “La tragedia della vecchiaia non è di essere già vecchi, ma di essere ancora giovani.”
E invece non è così: sono passati 10 anni da quando è nata Condivisione Democratica e li sento tutti. Ne sento il peso, ne sento la fatica.

All’inizio fu un’idea di Gerry, non solo una scintilla ma una vera intuizione, il dare voce alla necessità di avere uno spazio di discussione, di rappresentazione delle idee, un laboratorio di idee – ancora non andava di moda chiamare “Think Tank” queste cose. Gerry col suo entusiasmo ha coinvolto un gruppo di amici e così è nata questa Testata Giornalistica. Non un blog, non un sito, non una pagina Facebook, ma una vera e propria testata giornalistica, che è molto più vincolante, che è un progetto molto più “ambizioso” – diciamolo.

In questi 10 anni sono cambiate tante cose – non mi dilungo a fare l’elenco, ma esorto a pensare a cosa è accaduto nel frattempo, partendo proprio da quel 2012 arrivando fino ad oggi, sia sul lato “pubblico”, “internazionale e nazionale”, ma anche “privato e personale” – e questo progetto ci sta un pò “stretto”. Quella necessità di rappresentazione delle idee, di darle forma, di elaborarle e di condividerle, non è venuta meno, anzi è aumentata, è accresciuta e si è piano piano strutturata in modo diverso. Quindi è arrivato il momento di dare una nuova veste a tutto.
E’ ancora presto per raccontare “cosa sarà”, ma sicuramente è arrivato il momento di salutare “cosa è stato”.
Condivisione Democratica per me è stato un grande progetto, è stato un bel laboratorio, dove sono cresciute nuove esperienze e nuove alchimie. Potrei perdermi nei ringraziamenti – l’elenco delle persone sarebbe davvero lunghissimo, con le persone che sono nella redazione o ne hanno fatto parte in questo lungo percorso, le persone che hanno dato un contributo scrivendo proprie testimonianze e anche le persone che ho avuto l’opportunità di intervistare – e quindi mi limito a dire che ho scoperto, in questo progetto, quale fosse il vero significato di “Condivisione”. A parole forse lo conosciamo tutti, ma “sperimentarlo” ha fatto la differenza. Dentro di me.
Sono stati 10 anni bellissimi.
Ma, come amo citare spesso, “The Best is yet to come”.

In questo numero, in questo ultimo numero, di Condivisione Democratica parliamo di “Luoghi abbandonati” e di “Luoghi dell’abbandono”.
Poco prima della pubblicazione, rileggendo gli articoli che avevo scritto mi sono accorto che in tutti c’era un filo – a volte molto più di un filo o di un velo, un vero e proprio diluvio! – di nostalgia. Un pò quel senso di nostalgia dei tempi che furono, dei bei tempi andati, che poi può sfociare nel “si stava meglio, quando si stava peggio”.

Questa sensazione, anzi questo sentimento, la nostalgia è sempre stato con l’uomo: Ulisse che navigava nei mari tra mille peripezie in un viaggio lungo 10 anni, aveva nostalgia della sua Itaca.
“nóstos” e “álgios”, il “dolore per il viaggio”, “il desiderio, quasi doloroso, di ritornare”. Conosciuta dall’antichità, quindi, ma definita in tempi – tutto sommato – recenti. Era alla corte del Re Sole il medico che coniò il termine scrivendo il suo “Dissertatio medica de nostalgia” per raccontare il senso di depressione dei mercenari svizzeri che non tornavano nelle valli da tanto tempo.
Un pò la storia di Heidi e della sua malinconia per le Montagne e del Nonno, la storia dei giocatori di calcio brasiliani che hanno la Saudade mentre giocano in Europa, e se vogliamo il sentimento che animava Cicerone mentre scriveva rimpianti strazianti per la Roma di Catone, così come Tacito per quella di Cicerone.
E’ un sentimento, la Nostalgia, che nasce da una inquietudine per il presente, che ci fa sentire, insieme al rimpianto malinconico per il passato, la gioia per quel passato che invece è sfuggito, come se in quel passato le cose fossero più giuste, più belle, quasi perfette. Come un Paradiso Perduto, come un’età dell’oro ormai lontana.
Tra l’altro Eric Hobsbawm dà un significato, un ruolo, a questo sentimento per spiegare il processo di consolidamento della cultura (e del potere) nel suo “Invenzione della Tradizione”, perché è un “ingranaggio” di un meccanismo ben definito, ben avviato, ben oliato.
Ma la Storia non è scritta solo guardando indietro, anzi. Gli storici scrivono cercando i segni nel passato, mentre “chi fa la Storia” per lo più guarda in avanti, poi cercando riferimenti a ritroso, prova a consolidarla. Penso a coloro hanno segnato la storia moderna, come Napoleone Bonaparte o Otto Von Bismarck tanto per fare due nomi, che hanno sempre guardato al presente “spingendo” la Storia a prendere la direzione che volevano, come questa fosse un nuovo letto per un fiume. Concetti come la “Tradizione” o la “Consuetudine”, così come la “Nostalgia” erano utilizzati per ammantare il proprio operato senza strappi, mentre ce n’erano e tanti. Forse il campione in questo è stato Augusto che della “Tradizione” fu fermo sostenitore e paladino, sconvolgendola, di fatto, completamente.
Quando penso alla Nostalgia mi viene sempre in mente un personaggio in particolare. Non un personaggio così famoso, così conosciuto, ma nella sua storia c’è quella apertura al mondo, al futuro che è proprio l’opposto della Nostalgia. Penso a Luis de Torres.
Era imbarcato sulla Santa Maria con Cristoforo Colombo, che lo volle con sè come interprete.
Colombo, lo sappiamo, aveva convinto (ma forse non fino in fondo) i regnanti di Castiglia a finanziare una spedizione che potesse affrontare l’Oceano Atlantico per raggiungere l’Asia, le Indie, il Catai e il Cipango. Da uomo del medioevo, qual era, riteneva di poter raggiungere i territori del “Khaghan”, descritti da Marco Polo 200 anni prima. Il Catai dovrebbe essere la Cina sud-orientale, mentre il Cipango, quello che è l’attuale Giappone. Di sicuro – come sostenevano i suoi detrattori – aveva sbagliato le misure (Colombo stimava 4.400Km, mentre nella realtà sono oltre 20.000 i km che dividono la Spagna dal Giappone) e per puro caso trovò un Continuente completamente sconosciuto nel mezzo.
Ma Luis de Torres in questa avventura era l’interprete.
L’interprete in una terra che nessuno conosceva, se non attraverso quel racconto quasi “cavalleresco” che è Il Milione, con popoli che nessuno conosceva, e che praticavano usanze sconosciute.
Alla nascita (probabilmente) si chiamava Yosef ben HaLevi HaIvri ed era un ebreo convertito al cattolicesimo, conosceva Ebraico, Aramaico, Arabo e Portoghese, oltre ovviamente allo Spagnolo. Non era solo la conoscenza dell’Aramaico a far ritenere a Colombo che fosse la persona giusta per questo compito. Il Genovese pensava ci potessero essere, in quei territori lontanissimi, le 10 tribù semite disperse e l’Aramaico antico poteva sicuramente far comodo. No, quello che fece di Luis de Torres un interprete per un mondo sconosciuto era il suo sguardo nel futuro. E a ragione: è stato capace di comunicare con gli indios senza conoscere assolutamente nulla di loro. Fu il primo uomo a fare una “ambasciata” presso quei regnanti: al primo contatto tornò dopo 4 giorni trascorsi nel villaggio dove scoprì ad esempio l’uso del tabacco.
Questo spirito di avventura, l’idea non solo di trovare nuove terre da conquistare – come avrebbe potuto avere qualsiasi marinaio e mozzo sulle tre caravelle – ma di trovare un modo per comunicare, per entrare in contatto con nuove realtà, di proiettarsi nel futuro, questo mi sembra l’opposto della Nostalgia che si può provare a guardare il passato e i luoghi abbandonati.
L’idea che davanti a noi ci siano nuove possibilità e nuove realtà, ci siano nuove forme e nuove esigenze, nuovi continenti con i quali venire in contatto, in un modo ancora incognito.

(L’approdo di Colombo. Cristoforo Colombo e altri mentre mostrano oggetti ad uomini e donne native americane sulla spiaggia. Wikiquote.)

Città fondate e cresciute, raffazzonatamente, durante la “febbre dell’oro” in Klondike o in California, le cui case ora sono riempite dalla sabbia del deserto e contengono un’aria polverosa che vortica, riempendo solo di rumori quello spazio altrimenti silenzioso e vuoto.
Antiche costruzioni erette dalla sapiente opera dei Popoli Antichi. Mura, a frammenti, che hanno respinto barbari per secoli e ora nulla possono contro l’edera e la natura che le vince con nuove foglie e nuovi fiori.
Questo, forse, abbiamo in mente quando pensiamo ai “luoghi abbandonati”.
Forse.

(Immagine dal Web)

Pensando ai Luoghi Abbandonati, mi vengono anche in mente diversi luoghi che ho attraversato – rigorosamente a piedi – avendo dentro quella strana sensazione di vivere in un mondo post-olocausto atomico, con tutta la popolazione svanita nel nulla, cose se fossi un sopravvissuto. Attorno a me un silenzio assordante.
Non c’è bisogno di arrivare in Klondike o di visitare Pompei. E’ stato così entrare in un ospedale durante il periodo di “Lockdown stretto”, a Marzo 2020, ed è stato così tornare all’Università nel periodo estivo di quell’anno terribile, è stato così prendere il treno al mattino presto, in una Stazione Termini popolata solo di qualche “invisibile” e di qualche “vigilantes” schivo.
Una sensazione stranissima.
Del resto – pensai proprio su quel treno preso prestissimo – quei luoghi sono stati proprio creati per ospitare persone, e tante, hanno significato intrinsecamente “Antropico” e senza di loro, senza gli essere umani, ne sono snaturati. Sono luoghi che mantengono “tracce di vita” anche se lì di vita non ce n’è più. Se ne può sentire l’impronta, il segno del passaggio dell’essere umano, degli esseri umani. Forse è questo che mi colpisce molto: vedere il segno di quello che l’uomo riesce a fare per adattare lo spazio a sè stesso, a proprio uso e consumo. Mentre lo viviamo ci sembra “naturale”, funzionale per noi, e quindi non ne percepiamo gli effetti, così come quando camminiamo sulla spiaggia pensiamo a mettere un passo avanti all’altro e non pensiamo alle orme che lasciamo dietro di noi. Ma questi luoghi abbandonati sono delle enormi impronte che pian piano la natura ricopre, così come il mare fa sparire le orme sulla sabbia.

Confesso che ho sempre provato un grande fascino per questi luoghi abbandonati.

(Immagine dal Web)

Quando ci penso mi vengono in mente gli attraversamenti dei loro “confini”. Penso alle Reti o ai Muri da superare, passandoci sotto – sfruttando qualche buco nella recinzione – oppure sopra – stando attenti a non graffiarsi con il filo spinato o con i luccicanti cocci di bottiglia rotti impastati nel cemento – oppure attraverso. Sento ancora la sensazione dei mattoni, spaccati e sbrecciati, o di un pezzo di rete ricurvo, che mi graffiano il petto, la schiena, i fianchi, che lacerano la maglietta o i pantaloni. “Se ci passa la testa, poi ci passa tutto il corpo” mi dicevano i miei cugini che mandavano avanti me, il più piccolo, per incitarmi. Sento ancora la fatica e l’impegno di voler raggiungere quei luoghi, per poterli visitare, per poterci passeggiare dentro, per guardare attraverso i vetri delle finestre ormai opacizzati dal tempo. Per cercare di capire a cosa servissero i macchinari ormai decisamente obsoleti.

Oltre a questi luoghi fisici, a pensarci, ci sono poi anche luoghi dell’anima, luoghi che sono dentro la nostra anima e che – per qualche motivo – non frequentiamo più, non visitiamo più, eppure hanno lasciato una impronta dentro di noi.
Forse non li frequentiamo più per paura, forse perché presi dal tran-tran quotidiano, forse perché non più coerenti con quello che siamo diventati nel frattemppo. Anche questi luoghi – penso – a visitarli, daranno la stessa strana sensazione: costruiti nell’arco degli anni per ospitare persone, per ospitare voci, luci, per ospitare risate fragorose o lacrime silenziose. Luoghi con la propria “impronta antropica” dentro.

Così come per i luoghi fisici – con le loro stanze polverose, i loro saloni dai vetri rotti, le fessure delle mura dalle quali sparare con gli archibugi, i loro macchinari bloccati, le bobine antiche, i ganci sul soffitto – cerchiamo di capirne il significato, la funzionalità, cerchiamo di capire come camminassero gli uomini, come corressero i legionari sui camminamenti, come vivessero quegli spazi.

Ecco, dopo tanti anni ho capito che quella esortazione forse fisicamente non era proprio vera ma, “Se ci passa la testa, poi ci passa tutto il corpo” è proprio vero.

Cosa determina un abbandono?
Io personalmente non so come descriverlo, ma ho trovato nella mia memoria un monologo scritto da Alessandro Baricco che lo racconta attraverso le parole del suo personaggio Novecento.

(copertina del libro “Novecento” – Feltrinelli)

Non voglio “spoilerare” nulla del libro, ma vorrei farvi conoscere solo un minimo chi stia “parlando”: Novecento è un pianista. Un pianista che accompagna le traversate lunghissime dei passeggeri di una nave che attraversa l’oceano. Un personaggio che vive tra le persone seppur rimanendo in completo isolamento.

Vale la pena leggere questa opera di Baricco, piena di poesia, piena di riflessioni sulle cose che cambiano e una lettura intima di come si vive la vita. Questo tempo che scorre e che viviamo.

Ma lascio lo spazio a Novecento:

“A me m’ha sempre colpito questa faccenda dei quadri.

Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran.

Non c’è una ragione.

Perché proprio in quell’istante? Non si sa. Fran.

Cos’è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C’ha un’anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un’ora, un minuto, un istante, è quello, fran.

O lo sapevano già dall’inizio, i due, era già tutto combinato, guarda io mollo tutto tra sette anni, per me va bene, okay allora intesi per il 13 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d’accordo, allora buonanotte, ‘notte.

Sette anni dopo, 13 maggio, sei meno un quarto, fran.
Non si capisce.

È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto.

Quando cade un quadro. Quando ti svegli un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi che è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio.

Quando, in mezzo all’Oceano, Novecento alzò lo sguardo dal piatto e mi disse: “A New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave”. Ci rimasi secco. Fran.”

Venti di guerra e tentativi di pace. La chiesa cattolica è punto di riferimento per chi prova a proporre un trattato che possa assicurare pace anche in questo difficile conflitto, ma già da tempo, già prima che scoppiasse questo conflitto in seno all’Europa, il Sommo Pontefice aveva proposto di mettersi in cammino per la pace, parlando di chi si impegna a costruirla la pace.

Per parlare di questo incontro Vittorio Gruzza che è uno di quei “Portatori di Pace” che Papa Francesco a chiamato nella chiesa.

Trentino, classe 1980, laureato in Giurisprudenza all’università degli studi di Trento. Dopo aver lavorato per 10 anni nell’industria del gaming occupandosi di compliance aziendale a 360°, dal 2018 è analista finanziario indipendente. Oggi risiede a Roma dal 2011 con la sua famiglia e da quasi due anni fa parte dell’equipe pastorale della parrocchia San Giovanni De La Salle, costituita in risposta al progetto di Papa Francesco per rinnovare e riformare la Chiesa.
Interessi: macroeconomia e finanza, musica e trekking. In generale “cercare di far del bene ed essere utili, laddove si può”.

(Foto dell’Ospite)

L’azione avviata in tutte le diocesi, in tutte le parrocchie è partita da diversi mesi: «Tutti siamo chiamati ad essere costruttori di pace», ha detto il Santo Padre. Ma che vuol dire effettivamente essere Costruttori di Pace?
Personalmente credo che essere “costruttori di pace” significhi essenzialmente essere portatori unilaterali e senza impegno di perdono, disinteresse, ascolto e semplicemente amore. Tutto gira intorno a questa parola. Saper amare è chiave fondamentale per portare la “pace”. Quella vera, quella che tocca il cuore e sa accogliere e placare il mare mosso che ognuno di noi porta dentro, inevitabilmente.

Il Papa ha invitato tutti i fedeli nell’occasione del Mercoledì delle Cenerdì a partecipare ad un momento di Digiuno e di Preghiera per la Pace, per percorrere ogni sforzo possibile. La Quaresima inizia proprio sotto venti di guerra. Che sforzi si possono fare? Serve la Preghiera?
Credo che la cosa giusta da fare sia mettersi a disposizione per quel che si necessita, a cuore aperto. Dire “io ci sono, se serve sono qui” e tenere gli occhi e le orecchie attenti per cogliere queste occasioni. Tuttavia, davanti ad eventi tragici come una guerra, credo che purtroppo le cose da fare che possano effettivamente controbattere alla drammaticità che un tale evento scatena nelle persone che la vivono, siano ben poche. E’ un aiuto, non è un rimedio. C’è un passo del Vangelo in cui Gesù ci dice che se pregassimo con fede avremmo il potere di ordinare alla montagne di spostarsi. La Madonna più volte ci ha ricordato in questi anni che la preghiera ha la forza di fermare le guerre e le leggi naturali. Per quanto tutto questo possa sembrarci lontano dalla materialità del nostro mondo, Io ci voglio credere.  Quante volte abbiamo sentito che la vita di un essere umano è stata salvata da una cosa invisibile come una parola detta al momento giusto? La preghiera è uguale. Viaggia con “parole” scaturite dal cuore dell’uomo che vanno a bussare alla porta del cuore di Dio, nostro Padre. Oggi crediamo ad ogni cosa ci venga propinata sia in tv che alla radio senza minimamente verificare spesso le fonti. Credo sia giunto il momento di credere anche alla Parola di Dio.

(Immagine dal Web)

Mi ha molto colpito vedere l’immagine del Cristo messo in sicurezza dai cittadini, quando hanno difficoltà a mettere in sicurezza loro stessi. Come se quel Cristo fosse effettivamente parte delle proprie vite, delle proprie identità.
E’ un immagine che insegna molto su ciò che può contare davvero nella vita delle persone. E’ una preghiera fatta con le mani e con il corpo. E’ un voler dire al mondo “stiamo perdendo tutto ma non siamo disposti a perdere la nostra fede e la nostra speranza”. Ci sono poche parole secondo me per carpire la profondità di questo gesto ed anche la sua disperazione. Ma il sapore ultimo che provo nel guardarla, non è certo di disperazione, semmai di coraggio, forza e fede. Grande esempio.

La guerra in Ucraina ci ha riportato alla mente situazioni fosche che hanno sconquassato l’Europa e che abbiamo sentito dai nostri nonni – come la Seconda Guerra Mondiale – oppure abbiamo visto nell’ex-Jugoslavia ma che abbiamo pensato relegata ad un momento storico particolare e irripetibile. E invece già l’Ucraina è stato territorio di guerra 8 anni fa. Come si fa ad assicurare la pace? E si può assicurare la pace?La pace si fa nel momento in cui si rinuncia a pestare i piedi al tuo prossimo per trarne un vantaggio. Al di là di posizioni geopolitiche o storiche, peraltro rilevanti, il fondamento di tutto questo sta ancora una volta, nel cuore. Non può esserci pace tra gli uomini se nel cuore dell’uomo ci sono altri idoli. Purtroppo basta guardarsi intorno per capire che oggi, qui, su questa terra, dal teenager che “posta” un video su Instagram e che fa del numero dei suoi follower la sua ragione di vita fino ad arrivare alla banca centrale di qualche paese che dietro la scusa della stabilità economica e dei prezzi opera in modo discutibile attraverso certe politiche monetarie, ciò che conta è il potere, il denaro e il controllo. Finché gli dei saranno questi, non avremo mai vera pace.

(Foto dell’Ospite)

Nel mondo ci sono tanti e tanti teatri di guerra, non solo l’Ucraina. Il Santo Padre si è speso molto per quei territori abbandonati. Ricordo con toccante commozione il gesto umilissimo, con il respiro affaticato di un uomo anziano, che chiede di mantenere la Pace, davanti ai leader del Sud Sudan, sbigottiti e colpiti. Perché la pace non è solo da costruire ma è anche da mantenere, da custodire.
(NdR: questo è il momento al quale ci riferiamo, avvenuto ad Aprile 2019 https://www.youtube.com/watch?v=ZMl_Wf-0jmE)
Assolutamente si. La pace è un dono prezioso e santo. E come ogni cosa santa il demonio ce la vuole distruggere, rubare e portar via. E’ nostra responsabilità mantenere la pace donataci da nostro Padre in cielo, un giorno alla volta, con le nostre libere scelte. Sapendo di essere figli imperfetti e fratelli lunatici. Fa parte del gioco esserlo. L’importante, è avere ben chiaro la sacralità di ciò che la pace contiene e genera.

Lei, Vittorio, coordina un gruppo di una parrocchia a Roma e si spende in prima persona per questo obiettivo che è decisamente immenso. Non si sente un pò una goccia in un mare in burrasca?
Io, insieme a mia moglie Nadia, abbiamo solo dato il nostro piccolo “si”, come altri dell’equipe pastorale e certamente, sono meno di una goccia. Anzi io non sono nulla. Ma il mio nulla è sufficiente nelle mani di Colui che risorge i morti, di Colui che dà la vista ai ciechi e che guarisce gli ammalati. Se penso alla possibilità che Dio, possa usarmi anche per pochi secondi della mia esistenza per agire o toccare il cuore del mio prossimo che non a caso ho davanti, quanto, come e dove dice Lui, mi basta per essere in pace. Alla fine siamo solo strumenti. Tutti noi. Ma come dicevo prima, quando Dio opera credo lo faccia rapidamente. Pochi secondi per resuscitare un morto e ancor di meno per guarire un sofferente.
Bastano pochi secondi per fare del bene. Lasciamo decidere a Lui, il quanto, il dove e il come.

Mi sembra che tutti noi siamo prigionieri in un tempo che scorre, allo stesso momento veloce e lentissimo.
Prigionieri di una nostra condizione di “sospensione” al di là del tempo.
Rileggo questo numero del nostro giornale, ché è anch’esso uno strumento per leggere il tempo che trascorre, come fosse un orologio, e così passiamo dal Carnevale alle notizie relative alla Guerra in Ucraina, quasi senza soluzione di continuità.

(Immagine ESA)

La situazione è sicuramente molto complessa: la Pandemia ha spezzato tanti equilibri e ora, anche se è passato quel primo momento di “stupore” e abbiamo imparato a conoscerlo il virus, la sensazione di paura e di sospetto non ci ha completamente abbandonati, i venti di guerra sono tornati a soffiare in Europa e l’invasione Ucraina ci ha posto davanti ad altri interrogativi e dubbi, e paure.
Eppure sento che le immagini scorrono senza lasciare un segno dentro, come un film proiettato alle nostre spalle.

Viviamo in un intorpidimento della nostra coscienza?
Viviamo in un intorpidimento della nostra mente?
Viviamo in un intorpidimento delle nostre energie?

A mio avviso viviamo in uno stato di mancata percezione del tempo che scorre e quindi sentiamo meno la pressione a “fare qualcosa”, l’impellenza di voler superare quegli equilibri spezzati e quella paura sopraggiunta.
Eppure dall’inizio dell’anno, da quel Primo Gennaio che abbiamo festeggiato pieni di buoni propositi, pieni di pensieri sull’anno che si stava per aprire davanti a noi, da quella mezzanotte la nostra cara vecchia Terra ha fatto un quarto del suo giro attorno al sole.
Lei ha fatto parte del suo viaggio, ha percorso un quarto della sua rivoluzione e ora sta a noi, a ciascuno di noi, fare – almeno in parte – la nostra rivoluzione.

Il mio T9 appena scrivo “masc” mi suggerisce “mascherina”, tanto per sottolineare quanto questo momento storico sia pieno del sistema di protezione individuale che copre bocca e naso, ma per un lungo periodo la “mascherina” era usata per coprire gli occhi e parte del volto, come sistema di protezione individuale sì, ma non dalle malattie, ma dalle rappresaglie dei gendarmi.

Certo non parlo di rapinatori o di assassini che cercano di non essere riconosciuti dai poliziotti, ma di quelli che sbeffeggiavano i potenti e, al pari di rapinatori e assassini, potevano essere perseguiti dalla giustizia.
Il Carnevale ha avuto questo ruolo sociale per molti anni, per secoli. Tanto da poter avere proprio un momento preciso dell’anno dedicato.
Sembra che il nome derivi da “Cernem Levare“, cioè “eliminare la carne” che è quello che si faceva durante la cena dell’ultimo giorno del periodo quando si approssimava il Mercoledì delle Ceneri ed iniziava la Quaresima della Pasqua. Ma le origini sono ancora più lontane e senza andare a pensare ai babilonesi o agli antichi greci, pensiamo agli antichi romani che avevano il Calendario che terminava proprio alla fine di febbraio (il giorno in più, quel 29 Febbraio, infatti prima era un giorno aggiuntivo messo proprio alla fine dell’anno) e in quei giorni potevano festeggiare con il sovvertimento dell’ordine normale delle cose, delle convenzioni sociali. Un pò a ricreare il caos primordiale da quale il nuovo anno può nascere.
Il Servo diventa padrone e il Padrone serve i propri schiavi.

Il caos vissuto forse anche come segno apotropaico in una società così strutturata come quella romana e completato da una rigenerazione che può essere il processo, con una condanna e con un funerale.

Una distruzione prima della ricostruzione.

Mi sembra effettivamente di buon auspicio, soprattutto per questo 2022 che è iniziato “in salita”.

Il Carnevale ora è una sfilata di travestimenti e di costumi che possano far ridere o che facciano in qualche modo far sentire di “appartenere” ad una comunità che ha una passione in comune. Basta vedere i costumi che indossano i ragazzi per capire: tantissimi supereroi (da Spiderman a Ironman, passando per Hulk e Thor), qualche anime (vado per supposizione, perché non ne conosco nessuno) e qualche personaggio di Film “cult” o delle serie TV Netflix (le maschere di Dalì diventate famose per La Casa di Carta, tanti personaggi StarWars ad esempio), tanti animaletti simpatici (essenzialmente cani e gatti, ma ho visto anche una mucca) e poi personaggi esotici (ballerine di flamenco, odalische che indossavano la mascherina chirurgica prima che fosse su tutti i nostri volti, agghindatissime Frida Kahlo, Antichi romani,…).

(Immagine dal Web)

Una volta però il Carnevale era la sfilata delle maschere del teatro popolare e che, per un periodo dell’anno, diventavano quasi personaggi “normali”, accolti nella società e ancora più ascoltati. Rappresentazioni macchiettistiche e caricaturali dei vizi e dei costumi, ma anche dei “potenti”. Nello “sberleffo” verso il signorotto locale o verso la “classe dirigente”, il Carnevale svolgeva la propria funzione sociale. Da questo nascono le nostre “maschere nazionali”. Ne abbiamo tante, ne cito solo qualcuna, andando sù e giù per lo stivale. C’è Arlecchino che nasce a Bergamo ed era il servo svogliato ma furbo che si ingegnava in mille truffe e imbrogli per diventare ricco e c’è Pulcinella, nato tra i vicoli di Napoli che col primo condivide l’indole furba e truffaldina, ma con un tratto distintivo: non riesce proprio a tenere un segreto e dice sempre la verità anche se in modo strambo. Uno che indossa un vestito completamente colorato mentre l’altro uno completamente bianco, con la caratteristica mascherina nera. A Roma Meo Patacca e Rugantino erano sempre pronti ad attaccar briga, uno scontroso bullo trasteverino il primo, un gendarme il secondo, anche se comunque di estrazione popolare.
I veneziani prendevano in giro i ricchi facendoli rappresentare da Pantalone che è vestito in modo superbo, ma è di una avarizia esagerata, Bologna faceva il verso ai suoi dotti facendoli diventare dei Dottor Balanzone pedanti, vestiti con la toga e sempre pronti a metter giù citazioni dotte, anche se senza né capo né coda.
A Milano è Meneghino, a Firenze è Stenterello, a Perugia è Bartoccio, a Genova Capitan Spaventa il personaggio che in modo a volte sbruffone ed esageratamente vanaglorioso tira fuori le sue doti cercando di impressionare.
Tutti uomini?
E no, abbiamo anche Colombina e Corallina, Giacometta e Rosaura che spesso in tutto questo “carnevale” delle commedie dell’arte hanno un ruolo di primo piano come tessitrici di intrecci complicati ed esilaranti.

Tante maschere, tante storie che si intrecciano, ma un unico scopo, quello di prendersi un pò meno sul serio e capire che anche i potenti, quelli che sembrano infallibili, sono in realtà fallibili e hanno tanti e tanti vizi, oltre alle proprie virtù e – almeno per una volta all’anno – se ne può parlare tranquillamente. Con o senza maschera sul volto.

Il 27 Gennaio è svolta la Giornata della Memoria. Ho scritto questo articolo mentre mancavano pochi giorni al triste ricordo e le preparazioni erano ancora in atto. Sui social network iniziavano ad apparire i primi post con delle immagine evocative, nelle scuole si iniziavano a preparare delle ore nelle quali saranno stati ospiti i – pochissimi superstiti – o le loro testimonianze sarebbero state proiettate ai ragazzi.

E’ un nostro dovere civile ricordare quello che è effettivamente successo, quello che è stata una macchia nera per l’umanità. Un’assoluta mancanza di valore morale e di valore civile che sono non su una fazione politica, non su un popolo, ma sul mondo intero, sul genere umano: non una colpa da espiare, ma un monito per ricordare che tipo atrocità può perpetrare l’uomo sull’uomo.

Prima di tutto cosa ricordiamo?

Il 27 gennaio del 1945, il Maresciallo Ivan Konev e la sua 60ª Armata delle truppe sovietiche impegnate sul “1º Fronte ucraino” scoprirono per primi il campo di concentramento nazista vicino alla città polacca di Oświęcim (in tedesco Auschwitz).

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Non era il primo campo di prigionia e il primo campo di concentramento dedicato alla “Soluzione Finale” liberato – 6 mesi prima era stato liberato il campo di Majdanek e anche i campi di Belzec, Sobibor e Treblinka che erano stati smantellati nel 1943 dai nazisti – ma la scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente, per la prima volta, al mondo intero l’orrore del genocidio nazista.
Anche Auschwitz era stato abbandonato dai nazisti, scappati freneticamente circa dieci giorni prima portando con loro tutti i prigionieri sani in quella che fu una “Marcia della Morte”, visto che molti prigionieri morirono durante la marcia stessa.

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L’ONU – Organizzazione delle Nazioni Unite – il 1° Novembre 2005 scelse questa data per ricordare la Shoah, lo sterminio del popolo ebraico.

Un dovere morale ricordare.
Sarebbe molto più facile non accogliere questa eredità pesante dai nostri nonni, facendo finta che non sia accaduto, in una sorta di rimozione collettiva, anche un pò auto-assolutoria. Come a pensare che si sia immuni dal vortice di Odio e di Indifferenza, di empatia verso le sofferenze altrui.
Il dovere morale infatti è anche quello di “raccontarlo bene”, di farlo acquisire alle giovani generazioni perché l’odio è insito nell’essere umano e solo comprendendolo è possibile liberarsene.

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Mentre stavo scrivendo questo pezzo, che poteva benissimo concludersi nel capoverso precedente, mi è caduto l’occhio su una notizia: La statua di Theodore Roosevelt è stata rimossa dall’ingresso del Museo di Storia Naturale a New York.
Ora capiamoci, la statua è davvero interessante a livello statistico e capisco per quale motivo il movimento “Black lives matter” ne abbia chiesto la rimozione.
Theodore Roosevelt è stato il 26° Presidente degli Stati Uniti d’America, dal 1901 al 1909, un militarista convinto – anche a discapito del Premio Nobel per la Pace che gli fu consegnato nel 1906 – un “Cowboy” senza tanti scrupoli e giri di parole. Un personaggio quasi fumettistico – non è possibile dimenticare il fratello “pazzo” di Mortimer Brewster in “Arsenico e Vecchi Merletti” che si credeva per l’appunto Roosevelt tanto da farsi chiamare Teddy – che chiuse la propria carriera da Presidente andando in Africa per un viaggio di caccia dal quale ritornò con più di tremila trofei (seguito e acclamato dai giornali statunitensi).
Insomma Roosevelt in questa statua è ritratto a cavallo con accanto un Pellerossa e un Africano che lo seguono a piedi. A piedi nudi. I tratti somatici marcati, gli ornamenti tipici delle tribù nordamericane o centro africane e, quei piedi nudi, segni dell’assoggettamento, della schiavitù.
pLa statua è stata rimossa per poter essere esposta nella nuova “Theodore Roosevelt Presidential Library” di Medora, in Nord Dakota, che aprirà nel 2026.

Non è la prima volta che questa situazione si presenta. Le opere artistiche, i fregi sui palazzi, le statue nelle piazze, i templi nelle città.
Sono stati distrutti fregi fascisti o nazisti in Europa, distrutte statue di Stalin o Lenin nelle piazze ex-sovietiche o le statue di Saddam Hussein a Bagdad. Segni dell’oppressione anti-democratica sistemate nelle piazze, rimosse dopo con una nuova coscienza di cittadinanza. O con una nuova coscienza civica, che è quella che ha fatto restituire all’Italia la Stele di Axum che prima era nei pressi del Circo Massimo a Roma, fino a vent’anni fa.

La Damnazio Memoriae ai quali i regnanti erano destinati nel caso di malgoverno o di “crimini contro il proprio popolo” (che poi a volte potrebbero anche essere riletti come crimine contro una casta dei vincitori) era un modo per eliminare storia da quei libri che sono i monumenti artistici.
Nella nostra epoca – dove si scrive e si legge più di tutto quello che si sia mai scritto e letto nel passato, sommato – che senso ha effettivamente eliminare un segno? Certo sicuramente può essere meno “ostentato”, perché a ben guardare le piazze sono un luogo “attuale” e non musei da mantenere inalterate nei secoli.

L’eredità che abbiamo ricevuto dal passato, visto che parliamo di questo, a volte non è proprio “politicamente corretta”, non è “allineata con il sentimento” attuale, non è accettabile con il sentimento attuale democratico o religioso che sia.

Ma questo è il compito della nostra generazione: sta a noi preservare quella memoria per non far finta che non ci sia mai stata. Non si può riscrivere il passato, come si faceva nell’universo distopico di “1984” di Orwell o in quello di “Fahrenheit 451” di Bradbury, e non lo si può semplicemente nascondere, perché i fatti del passato sono destinati, prima o poi, a riemergere se non assimilati, se non elaborati, e se non si ha la capacità di contestualizzarli.
Leopoldo II del Belgio e Winston Churchill hanno avuto un passato non proprio specchiato, se rapportato al pensiero attuale, ed è giusto non nascondere i loro lati oscuri, quando non addirittura spregevoli, ma questo per farne persone a tutto tondo, com’è giusto che si possa fare a “distanza storica”.

Per poter lasciare una eredità migliore, dobbiamo arricchirla delle nostre conoscenze, renderla più elaborata, più complessa, più profonda.

Baden-Powell, o meglio, con tutto il titolo Sir Robert Stephenson Smyth Baden-Powell, primo Barone di Gilwell, è il fondatore del movimento dello Scoutismo a livello mondiale. Una personalità che andrebbe studiata e non solo raccontata: Generale delle British Army, Educatore, Scrittore. Un inglese della Londra bene che da militare diventa una guida, un esploratore, tanto da essere temuto dagli indigeni dell’Africa nera che lo temevano, tanto da dargli il nome di Impeesa, il lupo che non dorme mai, per il suo coraggio e la bravura nell’esplorare e nel seguire le tracce.

Uno dei tanti insegnamenti che ha lasciato ai suoi Scout e a tutte le generazioni a seguireè:

“Treat the Earth well. It is not inherited from your parents, it is borrowed from your children.”

Che potremmo tradurre come:

“Noi non abbiamo ereditato il mondo dai nostri padri, ma lo abbiamo avuto in prestito dai nostri figli e a loro dobbiamo restituirlo migliore di come lo abbiamo trovato.”

Un insegnamento antico, mutuato da un detto di quel popolo orgoglioso che sono i Masai.

Ma è così a pensarci: quello che noi ora abbiamo, quello che oggi gestiamo e utilizziamo, proviene a noi e siamo destinati a lasciarlo.
Se pensassimo fino in fondo a questo principio, non ci comporteremmo con fare da parassiti, come fanno gli animali o gli agenti patogeni parassitari che consumano tutto quello che c’è pensando poi di abbandonare l’ospite per andare a colonizzarne un altro. Un altro corpo da infettare, da consumare, per riprendere il ciclo.
Abbiamo fatto così con il nostro pianeta, finché c’erano altri territori da conquistare e da colonizzare – a pensarci anche Baden-Powell entrava in questo meccanismo, alla sua epoca – ma ora che sappiamo che abbiamo solamente questo pianeta, abbiamo delle risorse che stanno per finire, dovremmo proprio cambiare paradigmi di ragionamento.
Le risorse sono nella terra da quando si è formata o ha origini lontanissime nel tempo: il petrolio, giusto per citarne uno, ha una formazione nel Giurassico, tra i 200 e i 145 milioni di anni fa. Milioni di anni fa.
I nostri genitori lo hanno usato per il loro progresso e noi lo stiamo continuando ad usare per avere sempre più energia.
Loro, i nostri genitori, hanno avuto un momento di riflessione – l’austerità per la difficoltà nell’approvvigionamento del petrolio – ma non l’hanno ascoltato, ora tocca a noi. E’ un ragionamento grande, straordinamente “alto”, che ci parla di risorse energetiche, di approvvigionamenti, di strategie industriali, di piani nazionali o europei, sicuramente. Ma ci parla anche delle semplici cose, dei comportamenti che abbiamo quotidianamente. A volte è sufficiente fare un piccolo gesto per generare un grande cambiamento, come quando si mette, tutti i giorni una moneta in un salvadanaio per creare qualcosa da lasciare in eredità dopo.

Come diceva Martin Luther King, “È sempre il momento giusto per fare la cosa giusta.“.

Antonio Longo è una persona decisa e dalla visione limpida e netta, lo si percepisce al primo sguardo, dai suoi occhi che guardano intensamente l’interlocutore con il suo sorriso gentile. Lo incontro – virtualmente – alla scrivania del Movimento Difesa del Cittadino (MDC) del quale è divenuto Presidente da alcune settimane con un voto unanime dei rappresentanti. Laureato in Scienze Politiche, Specializzato in Sociologia della Comunicazione, giornalista professionista dal 1991, Antonio Longo ha dedicato la prima parte della sua carriera all’attività giornalistica e a prestare consulenza ad istituzioni pubbliche ed aziende private sulle problematiche della comunicazione.
Con il tempo, si è avvicinato al mondo del consumerismo e ai relativi diritti dei cittadini ed utenti, fino ad aderire al Movimento Difesa del Cittadino, diventando uno dei massimi esperti nazionali, e fondando nel 2003 Help Consumatori, la prima e unica agenzia quotidiana d’informazione sui diritti dei cittadini-consumatori e sull’associazionismo organizzato che li tutela. Tutt’ora ne è il direttore.
E’ stato Presidente nazionale del Movimento dal 1998 al 2016, successivamente Presidente Onorario, dal 2016 al 2021.
Per dieci anni, con due mandati consecutivi, è stato componente del Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE). A Bruxelles ha rappresentato i consumatori italiani su indicazione unanime delle associazioni nazionali e in questi anni ha redatto pareri e presieduto gruppi di lavoro su varie tematiche, tra cui i diritti dei consumatori, le nuove tecnologie, Tlc, energia, protezione dei minori su internet e pagamenti elettronici. Dal 2015 al 2018 ha presieduto il Gruppo permanente Agenda digitale.

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Dal gennaio del 2020 ha riabbracciato MDC con una nuova energica presenza, dimostrando il suo immutato attaccamento verso l’associazione, accettando il delicato incarico di Coordinatore Generale Nazionale. Nel dicembre del 2021 viene eletto nuovamente Presidente nazionale del Movimento Difesa del Cittadino, con il desiderio di rafforzare l’Associazione, intensificando la presenza sul territorio, promuovendo progetti, studi e campagne di sensibilizzazione rivolte alla tutela dei consumatori.

Un lungo Curriculum il suo, dedicato alla Comunicazione e alle organizzazioni dei consumatori. Direi quasi un precursore del mondo del consumerismo. Com’è iniziata questa avventura? Perché dalla comunicazione è passato a questo tema?

Una avventura davvero, iniziata con due telefonate: a metà del 1998 mi chiamano Altero Frigerio, direttore del Salvagente, il settimanale dei consumatori, ed Ermete Realacci, presidente di Legambiente. Altero era un mio amico dai tempi dell’università, Ermete lo conoscevo dagli anni del mio lavoro come conduttore e caporedattore di Italia Radio, l’emittente All news del PCI-PDS.

Mi parlano di una associazione che ha bisogno di una guida, un presidente, perché chi la dirigeva aveva preso altre strade. Mi informo meglio e scopro che il Movimento Difesa del Cittadino (MDC) aveva illustri natali, da Giorgio Ruffolo a Enzo Mattina, da Pierre Carniti a Carlo Caracciolo. Inoltre in quel periodo andavo alla ricerca di un lavoro  extra giornalistico, perché avevo lasciato la radio con altri redattori nel 1994, quando era stata venduta al Gruppo Espresso e facevo consulenze per Centri di ricerca economici e sociali.  Quindi ho accettato e a ottobre del 1998 sono stato cooptato ed eletto presidente nella sede di Piazza Cola di Rienzo.  In fondo potevo continuare a scrivere, a comunicare con i cittadini, impegnandomi sul versante consumeristico proprio quando era stata appena approvata dal Parlamento la legge 281 che riconosceva le associazioni consumatori, costituiva il Consiglio nazionale consumatori e utenti (CNCU) presso il Mise e quindi faceva diventare le stesse associazioni protagoniste riconosciute non solo dai cittadini, ma anche dalle Istituzioni. Era una bella sfida!

Torna ad essere il Presidente del Movimento Difesa del Cittadino dopo 5 anni, dopo esserlo stato dal 1998 al 2016 e dopo esser stato Presidente Onorario. Questo numero di Condivisione Democratica è dedicato al concetto dell’eredità, intenso anche come senso della responsabilità e dell’impegno che deriva dal gestire pro-tempore non “proprio” ma “comune”, “collettivo”. Come responsabile di una associazione, come una comunità di persone, come vive questa eredità?

Dopo aver trascorso 18 anni come presidente MDC, nel 2016 avevo deciso di lasciare la presidenza per favorire un ricambio che portasse energie e idee nuove. Ero impegnato dal 2010 anche in Europa, essendo stato designato dal Governo italiano, dopo il voto del CNCU, a rappresentare i consumatori italiani nel Comitato Economico e Sociale Europeo, l’Istituzione comunitaria in cui è rappresentata la società civile organizzata e cioè imprese, sindacati e associazionismo. E nel 2015 ero stato confermato all’unanimità dal CNCU per un secondo mandato europeo. Volevo quindi dedicarmi di più e meglio alle tematiche comunitarie che hanno nei problemi della tutela dei consumatori uno degli ambiti più complessi ma anche più affascinanti del dibattito e dell’azione europea.

Nel 2020 sono stato invitato a tornare nel Movimento, che era in difficoltà economiche e organizzative, e ho accettato con grande entusiasmo. Non potevo abbandonare l’associazione che avevo contribuito a decollare e far crescere, facendola diventare una delle più importanti e autorevoli nel mondo consumeristico. Da questo punto di vista quindi si è trattato davvero di una presa di consapevolezza che l’eredità non poteva essere mandata al macero, mi richiedeva un nuovo impegno per superare le difficoltà e rilanciare il nome e il prestigio del Movimento. Ho accettato, a titolo gratuito e senza alcuna formalizzazione, di presiedere un Comitato di risanamento e insieme con il Comitato di Presidenza ho ripreso in mano la situazione economica e finanziaria, riorganizzando lo staff della sede nazionale, riannodando fili che erano interrotti con altre associazioni consumatori, aziende e istituzioni. I dirigenti mi hanno chiesto nel 2021 di tornare a rivestire il ruolo di presidente. Ho riflettuto molto  prima di accettare, anche perché ho superato i 70 anni… e alla fine ho accettato, in coerenza con la mia convinzione che bisogna partecipare alla gestione dei beni comuni, alle battaglie per la tutela dei cittadini-consumatori.

E’ ancora una volta una sfida che con l’aiuto di tutti gli amici di MDC sono sicuro che vinceremo. Il miglior viatico è stato l’elezione all’unanimità lo scorso dicembre. Spero di onorare al meglio questo impegno. 

Il Movimento Difesa del Cittadino ha una diffusione territoriale su tutta Italia e ha stretti legami anche con altre realtà dell’associazionismo, mi viene in mente, per citarne una, quella con Legambiente. Quanto è necessario essere “vicini” ai cittadini in un mondo così digitale oggi? E’ importante fare un fronte comune?

Venti anni fa una associazione consumatori aveva sostanzialmente un compito preciso e definito: tutelare i cittadini contro gli abusi delle società che fornivano servizi di elettricità, tlc, gas o servizi finanziari come banche e assicurazioni. C’era poi tutta la partita della Pubblica amministrazione con le sue vessazioni. Oggi lo scenario è cambiato profondamente. Con l’avvento delle nuove tecnologie digitali sono esplosi i problemi del digital divide, le fake news, le truffe on line,  l’identità digitale e il conseguente furto di identità, il commercio on line…insomma tutto uno scenario complesso di fronte al quale le competenze tradizionali dei nostri avvocati ed esperti non sono sufficienti a dare risposte adeguate e offrire tutele.

Lo stesso è avvenuto per l’ambiente e la sensibilità di fronte ai problemi del riscaldamento climatico, alla tutela del territorio, dell’aria, dell’acqua. La convergenza di consumatori e ambientalisti è nell’ordine delle cose. Noi come MDC abbiamo da sempre un rapporto strutturato con la maggiore associazione ambientalista italiana, Legambiente, con la quale abbiamo anche una offerta di tesseramento comune, realizziamo progetti, facciamo insieme esposti alle Autorità di regolamentazione.

Da soli faremmo ormai ben poco, insieme con le altre associazioni consumatori, ambientaliste e del volontariato siamo tutti più forti e più adeguati alle crescenti esigenze dei cittadini

Il Movimento che presiede è teso non solo alla protezione dei consumatori, ma è anche impegnato nella promozione di progetti, di studi e campagne sensibilizzazione rivolte alla loro tutela attraverso forme di cittadinanza attiva, la promozione della libertà di informazione dei propri diritti per una gestione consapevole. Quindi non solo consumatori, ma Cittadini a tutto tondo?

Come dicevo sopra le tematiche e le esigenze a cui dobbiamo fare fronte sono diventate più complesse, toccano ambiti che prima ci erano sconosciuti come il digitale e l’ambiente, sono cambiati gli scenari, perché il web e il digitale hanno ampliato enormemente le opportunità per i cittadini, ma anche le possibili difficoltà nei servizi e negli acquisti dei prodotti. La società postmoderna e digitale ha cambiato l’approccio quotidiano alle tematiche del consumo. Emergono continuamente situazioni nuove, pensiamo agli ultimi 20 mesi e alla pandemia con tutti i cambiamenti nella nostra vita quotidiana, dalla DAD per i ragazzi allo smartworking per i genitori, dalle cautele nella vita collettiva col green pass alle pesanti ricadute sulla gestione ordinaria della sanità. A proposito della pandemia, mi piace ricordare che un vantaggio di questa drammatica situazione (forse l’unico, insieme ad uno sviluppo forte della solidarietà in forme anche nuove) è l’aver “costretto” tutte le famiglie e le imprese ad aumentare le competenze digitali, per le prenotazioni dei vaccini, lo scarico dei greenpass, gli acquisti della pizza on line e la conseguente esplosione del commercio elettronico.

La cittadinanza sta diventando un esercizio sempre più complesso, a cui rispondiamo realizzando progetti e iniziative. E’ significativo che gli ultimi progetti finanziati dal Ministero dello sviluppo economico li abbiamo titolati  “E-consumers” e “MDC full digital”. Significativo anche che negli ultimi tempi ci siamo molto impegnati sul tema del sovraindebitamento, a causa della situazione di povertà, perdita del poso di lavoro e precarizzazione crescente causate dalla pandemia. Ecco, il nostro ruolo si sta ridefinendo, si sta ampliando, siamo chiamati a sfide sempre più complicate e dobbiamo attrezzarci adeguatamente.

   

Il Movimento Difesa del Cittadino, forse più di altre realtà del mondo dell’associazionismo, è coinvolto nelle sfide che la digitalizzazione ci pongono ormai da anni e sempre in modo più forte, più profondo, più pervasivo nelle nostra vita quotidiana. Cosa ci dobbiamo aspettare nel futuro di questa sfida?

Per noi le sfide saranno soprattutto nel rendere sempre più MDC una associazione totalmente full digital, come abbiamo titolato il progetto sopra citato. Vogliamo offrire tutto attraverso i canali digitali, dal tesseramento all’assistenza, dall’informazione alla consulenza vera e propria sui vari tempi. Vogliamo approfondire sempre più i temi della tutela dei minori, che vanno guidati nell’uso di internet. Nello stesso tempo ci stiamo già impegnando nell’accrescimento delle competenze digitali delle persone anziane, meno acculturate., aiutandole a superare il digital divide che rischia di isolarle e impedire sia l’esercizio dei loto diritti che l’accesso ai servizi. Pensiamo all’identità digitale, ormai indispensabile per accedere all’agenzia delle entrate, per iscrivere i figli alla scuola o per cambiare il conto corrente di accredito della pensione. Domani potrà arrivare il voto elettronico per il sindaco o il parlamento. Già oggi è possibile firmare per via digitale l’adesione ai referendum abrogativi o alle proposte di legge popolare. Conoscere internet o saper utilizzare la posta elettronica o l’identità digitale è il nuovo alfabeto. 

A volte si sentono toni fantascientifici, quando non proprio distopici, di lotte contro aziende multinazionali più forti degli stessi governi che sembra aver fatto saltare gli equilibri democratici che esistevano negli anni passati. E’ davvero così?

Indubbiamente oggi Facebook o Twitter condizionano l’informazione politica, fanno cadere governi, provocano inchieste giudiziarie. Pensiamo a cosa è successo con Wikileaks, con la pubblicazione di documenti riservatissimi di governi di tutto il mondo, al caso Assange, con informazioni che hanno fatto conoscere trattaive e accordi segreti, manovre per far cadere governi o dare l’assalto a gruppi finanziari…

Molti governi hanno reagito duramente con inchieste penali e proposte di limitazione del diritto di pubblicazione. Parallelamente sono stati denunciati molti tentativi di condizionamento delle elezioni negli USA, Germania, Italia e altri Paesi attraverso fake news e altri interventi sui canali digtali.

Da parecchi anni c’è l’Internet governance forum, una iniziativa dell’ONU alla quale anche io ho partecipato nel 2016 nella sessione tenuta a Istanbul in rappresentanza dei consumatori europei, in cui si cerca di dare delle regole condivise sulla tutela dei minori, contro le truffe informatiche, per la difesa della libertà di espressione e dell’esercizio dei diritti civili e politici. I risultati non sono esaltanti ma è importante che il dibattito continui.

Mi piace concludere tornando al digitale. E’ una rivoluzionaria tecnologia che ha ridotto tempi e spazi, permettendo di fare un acquisto a migliaia di km e da qualsiasi punto della terra, di vedere un familiare che si trova in un altro Paese, di gestire il nostro conto bancario senza muoverci da casa e senza limiti di orario. Ma ha anche prodotto truffe, mobbing, pericoli, minacce. Anche il nucleare piò essere utilizzato per produrre energia o per la bomba atomica o per indagini e terapie mediche prima impossibili e che ora offrono grandi opportunità di salvezza.   La tecnologia è neutra, dipende dall’uso che se ne fa. Non si deve demonizzare né esaltare, ma deve essere usata con intelligenza e sotto il controllo delle istituzioni democratiche.

Il Professor Zamboni ha appena dato alle stampe il suo ultimo libro “Nascoste nella Tela” (Mondadori Editori) nel quale unisce la sua passione per l’arte e il suo proverbiale occhio clinico, sempre mitizzato dai suoi numerosi pazienti. Il suo piacere per la scoperta, per l’indagine scientifica viene versato in questa novità in libreria svelando ai lettori i misteri nascosti nei dipinti di famosi pittori. Ne risulta un testo avvincente rivolto a qualunque fascia di lettori per la immediatezza del linguaggio usato. 

Per me re-incontrare Zamboni è, prima di tutto, un piacere per la sua simpatica schiettezza, tipicamente ferrarese, che rivedo identica. Una immediatezza che è anche in questa opera, non rivolta ai medici ma a tutte le persone attratte dall’arte, e ne diventa un valore aggiunto. 

Il nostro primo incontro risale a diversi anni fa. Fu dopo una presentazione di un suo studio, davvero stupefacente, condotto nello spazio. 

Ora mi fa davvero piacere condividere con i lettori la sua visione della ricerca medica e della comunità scientifica. 

Immagine dall’Ospite

Paolo Zamboni è un chirurgo e ricercatore italiano laureatosi presso l’Università degli Studi di Ferrara dove oggi è professore ordinario di Chirurgia Vascolare. È stato cofondatore e presidente della International Society for Neurovascular Diseases (ISNVD), società scientifica internazionale volta allo studio delle malattie neurovascolari. 

Professore, lei è stato insignito anche del titolo di Commendatore al Merito della Repubblica Italiana in riconoscimento del suo operato in campo medico-scientifico per i suoi studi sull’emodinamica venosa e in particolare per quella cerebrale. Uno studio complesso il suo che ha portato alla definizione della insufficienza venosa cronica cerebrospinale (CCSVI) che continua a essere sotto l’attenzione della comunità scientifica. 

La definizione del difettoso funzionamento delle vene giugulari, inizialmente da noi descritto nei malati di sclerosi multipla, è stata molto contestata dalla comunità neurologica. In realtà la controversia scientifica non era tanto sulla scoperta vascolare in sé, ma era dovuta alla applicazione di terapie chirurgiche endovascolari su questi pazienti. Nel tempo molti altri ricercatori si sono occupati di CCSVI, trovando impensate correlazioni delle giugulari difettose con cefalea, sindrome di Meniere, Alzheimer, Parkinson ed altre malattie neurologiche, di fatto aprendo una porta fino a quel momento mai varcata dalla comunità scientifica. Una nuova possibilità per contribuire alla conoscenza migliore di malattie in parte ancora misteriose. 

Nell’evento del quale parlavo nell’introduzione, presentò uno studio per degli esperimenti che furono eseguiti da Samantha Cristoforetti sulla base internazionale orbitante. Fu un’avventura davvero incredibile, può raccontarla ai nostri lettori? 

Il progetto Drain Brain fu una fantastica esplorazione scientifica che ci permise di comprendere il contributo della forza di gravità in particolare sulla circolazione cerebrale. La fortuna di poter disporre della collaborazione in orbita di uno scienziato aggiunto come la nostra Samantha Cristoforetti è stato determinante per il successo della missione. Gli esperimenti erano molto complessi dovendo io coordinare da Terra, in una base predisposta dall’Agenzia Spaziale Italiana, tre laboratori dislocati fra Danimarca e Stati Uniti oltre al modulo orbitante nel quale Samantha doveva eseguire gli esperimenti di fisiologia umana su se stessa. Indimenticabile, credetemi. 

Quell’esperienza divenne poi la base di una pubblicazione scientifica, ma del resto di studi scientifici ne ha pubblicati diversi: la ricerca è quella strada che può trasformare una ipotesi e far nascere una terapia. Quante pubblicazioni ha effettuato finora? 

Moltissime. Ma vede le pubblicazioni sono, nella mia testa, un modo di consegnare ad altri scienziati, specialmente ai giovani ricercatori, dati e documenti validati che divengono un patrimonio scientifico per procedere in avanti e migliorare le condizioni di vita dell’Umanità. I nuovi strumenti diagnostici che abbiamo usato nello spazio ad esempio li abbiamo ora adattati e li stiamo usando sulle persone malate. 

Copertina del libro (Mondadori)

Il nuovo libro nasce quando si è reso conto che la sua passione per l’arte non le impediva di avere comunque l’occhio clinico: riconosceva nelle opere pittoriche, malattie e morbi che ora sono conosciuti. Come le è nata l’idea di farlo diventare un libro? 

Il libro di fatto raccoglie tanti anni di osservazioni. Opere pittoriche viste da milioni di occhi in cui si celano segni di malattie dei soggetti ritratti, malattie dello stesso pittore, o addirittura cervelli nascosti in affreschi delle chiese. Non avevo mai avuto il tempo di scriverlo. E’ nato perché gli ho dedicato i lunghi week-end del lock-down. 

L’ osservazione medica ai nostri giorni è sostituita dall’indagini strumentali. Quanto è utile nella diagnosi precoce per le malattie anche una lettura attenta dei segni?

Come nel mio libro la diagnosi medica è un processo indiziario, dove fondamentale è l’osservazione medica ed il colloquio medico. Pensate che molto spesso la risposta di una diagnosi precoce è nel racconto del paziente, nelle sue parole e nelle sue abitudini. Un qualcosa che oggi si tende a trascurare trincerandosi dietro alle tecnologie. Un grandissimo errore e regresso.

Abbiamo parlato di occhio clinico, anche nella lettura delle opere d’arte. Il ricorso al Dottor Google può ritardare la possibilità di una diagnosi corretta?

Caro Gabrielli io credo che l’occhio clinico sia una fusione e di esperienza e di talento del medico. Così come un calciatore puó essere più bravo di un altro a tirare una punizione o a colpire con il tacco o con la testa, così ci sono medici più inclini all’osservazione e a cogliere l’aspetto decisivo. Le tecnologie possono solo servire a confermare il loro sospetto ed il loro ragionamento. Google non puó lontanamente avvicinarsi. Come capirete leggendo Nascoste nella Tela gli occhi vedono solo quello che conoscono.

Questo libro poi – tra le righe – ci racconta quanto le malattie facciano parte della vita, quanto l’emergenza sanitaria per la presenza di una nuova malattia non sia un evento poi così raro, anche se certo una pandemia è un evento meno frequente. Lei ha studiato anche la situazione generata dal Covid 19, giusto? 

Ho fatto orgogliosamente parte del gruppo dei 13 ricercatori italiani che per la prima volta in studi autoptici ho dimostrato il meccanismo delle rarissime complicanze da vaccinazione anti Covid. Quel contributo ha trasformato una drammatica reazione sconosciuta in una condizione ora riconoscibile e trattabile. 

A tutti questi studi, lei affianca anche l’attività accademica di preparazione delle nuove leve in medicina. La Pandemia ci ha mostrato in modo chiaro anche quanto sia fragile la salute e precario il nostro sistema immunitario davanti ad un agente sconosciuto. Cosa si può fare per aiutare il Sistema Sanitario Nazionale a suo avviso? 

Dobbiamo ritornare a pensare che Sanità ed Educazione devono essere le due pietre angolari che lo Stato deve assicurare ai cittadini. Il numero chiuso imposto sulle Lauree in medicina e sulle specializzazioni, ha fatto si che in questo momento di emergenza non abbiamo abbastanza medici sul campo. Non dobbiamo più erodere il miglior servizio sanitario nazionale del mondo.

Non debemus, non possumus, non volumus” è la risposta che Pio VII diede all’ufficiale napoleonico che entrato al Quirinale, richiese la cessione dei territori dello Stato Pontificio all’Impero Francese. Non dobbiamo, non possiamo, non vogliamo. Era l’anno domini 1809.

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Mi sono chiesto, personalmente, quanto questa sensazione sia entrata dentro di me.
E devo riconoscere che le gambe effettivamente sono molli, ma la curiosità di andare avanti, la sensazione che “il meglio deve ancora venire” c’è sempre. Questa esperienza in questa nostra testata giornalistica non ne è solamente un sintomo, ma ne è la misura. Durante tutto il periodo pandemico, durante il Lockdown più duro – quello ci ha visto cantare dai balconi per intenderci – e durante la lunga fase di avvicinamento ad una nuova “normalità”, Condivisione Democratica è stata sempre attiva, anzi si è arricchita di nuove curiosità, di nuove firme, ed è diventata come un prolungamento di quei balconi che abbiamo usato per sentirci più vicini, anche se chiusi ognuno nella propria casa.
Mi è venuto naturale seguire curiosità, vecchie e nuove, e andare in profondità su argomenti che “prima” probabilmente avrei lasciato correre via. Ho reincontrato visi amici, anche se coperti dalle mascherine, e scoperto nuove amicizie, nuove energie.
Certo non è un posto “tranquillo“. Come in ogni redazione ci sono confronti, la documentazione di quello che si vuole portare al lettore, le corse per la pubblicazione, i miglioramenti dell’ultimo minuto sui singoli articoli.

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Anche questo articolo, del resto, nasce da questo processo di approfondimento. Partendo dall’articolo che ho citato prima, sono andato a leggermi altri articoli, studi psicanalitici che hanno cercato di dare una spiegazione a quel senso di abbandono. Sostanzialmente – davvero semplifico brutalmente – questo fenomeno può essere o “il rimbalzo” o un modo diverso di affrontare quello che negli USA hanno chiamato “the Great Resignation“, la “Grande Rinuncia”, un fenomeno che si è visto nei primi periodi del 2020: una impennata nelle cessazioni volontarie dal lavoro ed un aumento repentino delle separazioni e delle cause di divorzio.

Lo shock per il crollo del “tran tran” quotidiano ha dato a tutti noi il tempo di analizzare due false percezioni della realtà, quelle che gli psicologi chiamano Bias Cognitivi:

  • Il “Sunk Cost Bias” – il Bias dei Costi Irrecuperabili – secondo il quale poiché si è già sostenuto un “costo” (economico, di tempo, di emozioni) per ottenere qualcosa, quel qualcosa vada preservato anche se non più adatto, perché quanto profuso non può essere recuperato.
  • L'”Opportunity Cost Bias“, che da una scarsa percezione del fatto che qualsiasi scelta attuata implica sempre e in ogni caso un costo che si affianca al valore o al beneficio che si può avere.

Questi due Bias sono quelli che ci fanno continuare a far fare sempre le stesse cose, sono quelli che ci fanno rimanere nella nostra “Comfort Zone” anche se ci sta un pò stretta. L’insegnamento della Pandemia è che se tutto questo cambia, se la sciagura si abbatte sopra di noi (come in un film sui “disastri”, tanto in voga alla fine degli anni ’70), rimaniamo solo con le nostre forze e dobbiamo ripensare tutto.
E proprio in quel momento può scattare in noi, la risposta che citavo all’inizio: “Non debemus, non possumus, non volumus”.

Questo numero è dedicato al riconoscimento dell’altro, all’apertura verso le altre persone senza nessuna forma di pregiudizio, per questo mi fa particolarmente piacere ospitare il Dott. Sergio Valeri che proprio in questo periodo alla sua professione chirurgica ha affiancato un percorso di sensibilizzazione verso la cura e verso i pazienti, fondando una associazione che verrà presentata a breve e che ha come motto, bellissimo: “Rari, ma non soli”.
Lo incontro nel suo studio ed è sempre un piacere parlare con lui , perché lui, lo scopriremo nell’intervista, è davvero sempre in movimento, con la sua professionalità e il suo travolgente senso dell’ironia.
Ma prima di raccontare quello che ci siamo detti nel pomeriggio passato assieme, un passo indietro per raccontare chi è il nostro ospite: il Dott. Sergio Valeri si occupa principalmente di Chirurgia Oncologica ed in particolare di Chirurgia dei Sarcomi. 

Si laurea nel 1995 e si specializza in Chirurgia Pediatrica (2002) e in Chirurgia Generale (2015) e nel frattempo ottiene un Master di II livello in Chirurgia Pancreatica Avanzata (2014) ed uno in Chirurgia dei Sarcomi dei Tessuti Molli (2017), lavorando comunque come Dirigente Medico presso il Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma (dal 2008). Dal 2019 è Referente della Chirurgia dei Sarcomi presso il Policlinico Universitario Campus Bio-Medico. 

Dottore, un Curriculum davvero di tutto rispetto il suo. Immagino che nel frattempo, mentre conseguiva le varie specializzazioni, lei operasse, continuasse la sua instancabile attività in sala operatoria. Quante operazioni esegue? 

Caro Ing. Gabrielli grazie per l’opportunità offerta.

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Lei ha detto il vero; durante il conseguimento delle varie specializzazioni e master, la mia attività operatorio continuava. La mia settimana lavorativa è composta di tre sedute di sala operatoria (8-20) in cui mediamente eseguo 5-6 interventi a seduta. Parliamo quindi di circa 18 interventi a settimana. “Fortunatamente” non si tratta sempre di patologia chirurgica complessa. A questo tipo di intervento infatti, vengono intervallati interventi di piccola e media chirurgia, durante i quali ho la possibilità di insegnare e far crescere i giovani chirurghi che lavorano con me. Non ci dobbiamo infatti dimenticare che lavoro in una struttura universitaria, la fucina quindi dei medici di domani.

A questo unisce le sue attività di divulgazione dentro e fuori le aule universitarie per la preparazione delle “prossime leve”. E’ così importante avere una equipe specializzata nella cura?

Come in parte anticipato nella domanda precedente, ho la fortuna e la responsabilità di un gruppo di lavoro, costituito da giovani medici in formazione a da neo-specialisti. Il gruppo e la realizzazione dello stesso, sono fondamentali. Da soli non si va molto lontano. Ed è per questo che dedico diverso del mio tempo lavorativo alla sua formazione. 

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Solo in questo modo posso avere la certezza che il modus operandi sia sempre lo stesso. 

Ricordo nell’equipe, coordinata dalla Prof.ssa Rossana Alloni, il Dott. Luca Improta, la Dott.ssa Chiara Pagnoni, la Dott.ssa Michela Angelucci, la Dott.ssa Claudia Tempesta e la Dott.ssa Sonia Sabbatini.

Ma il mio obiettivo però non è solo “formare” o far crescere. 

Come dico sempre ai colleghi che lavorano con me, loro devono superare il “maestro”.

Quindi in sintesi direi che per affrontare i Sarcomi sia necessaria la preparazione di una equipe specialistica, ma anche la conoscenza da parte dei medici di base, per avere una tempestiva diagnosi di primo livello.

La ringrazio di questa domanda, che va a centrare due degli aspetti salienti della patologia di cui mi occupo. 

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Il primo è la conoscenza, da parte dei Medici di Base, dell’esistenza dei Sarcomi. Solo in questo modo possono indirizzare il paziente in un centro di riferimento e quindi iniziare il corretto iter terapeutico. Da qui l’esigenza di un evento “formativo”, che ho organizzato ad Ottobre, e rivolto ai Medici di Medicina Generale. L’obiettivo era appunto renderli edotti sulla patologia e sui primi passi da compiere nei confronti di un paziente affetto da sarcoma.

Il secondo è l’importanza del centro sanitario di riferimento volto ad una patologia neoplastica, quale appunto i sarcomi, rara. 

I sarcomi degli adulti rappresentano circa l’1% di tutte le malattie neoplastiche. Per raro però non si fa riferimento alla scarsità di mezzi terapeutici, ma appunto ad un semplice dato epidemiologico. Si apprende quindi come sia indispensabile l’esistenza di un centro sanitario di riferimento, che contempli la presenza di tutte le figure sanitarie coinvolte nella cura dei sarcomi (oncologo, chirurgo, radioterapista, radiologo, anatomo-patologo, psicologo) e che sia collegato a tutti gli altri centri distribuiti sul territorio nazionale. Infatti solo dal confronto clinico tra i vari centri è possibile condividere esperienze, tecnica e evidenze scientifiche, principio cardine alla base della cura di qualsiasi patologia.

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Con questa doppia visione, il Campus Bio-medico è diventato un Centro di riferimento a livello Europeo sul trattamento dei Sarcomi

E’ stato quello, mi riferisco all’inserimento del Campus Bio-Medico nella rete sanitaria internazionale Euracan sul trattamento dei sarcomi, un risultato ottenuto dopo 18 mesi di duro lavoro volti al miglioramento del servizio sanitario erogato ai pazienti con sarcoma, al perfezionamento del PDTA sui sarcomi (percorso diagnostico-terapeutico assistenziale) e successivamente al superamento di tutti i parametri clinici e scientifici posti quale conditio sine qua non per far parte della rete Euracan.

Quanto ha influito la pandemia su questo processo di identificazione tempestiva? L’emergenza Covid ha un po’ monopolizzato gli ospedali: pensa che ne risentiremo a livello di prevenzione?

L’emergenza Covid ha indubbiamente messo a dura prova il Sistema Sanitario Nazionale. Uno dei tanti aspetti emersi durante la pandemia è stato quello, purtroppo, di rallentare un percorso schedulato di follow up di un paziente con patologia neoplastica. A mio avviso però l’esistenza dei centri di riferimento, quale in nostro, ha permesso, con enormi sacrifici, di poter “onorare” la campagna di follow up dei pazienti oncologici.

Questo momento storico ci ha mostrato cosa significa “la salute pubblica”: il Lockdown è stato un modo per proteggerci anche a discapito dell’economia. Ma proteggere la salute è anche un modo per rendere solida la nostra struttura sociale. La tempestiva permette di avere un alto livello di qualità della vita?

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Domanda questa complessa, che non può certo essere evasa con una breve risposta.

La protezione e la salvaguardia della salute pubblica sono elementi imprescindibili alla base di un alto livello di qualità della vita. Ma la protezione della salute pubblica passa per diversi aspetti che vanno sempre garantiti. Mi riferisco alla possibilità di accedere alla cure per tutte le classi sociali, a prescindere dalla “posizione” economica o alla regione di appartenenza. E nello stesso tempo le cure sanitarie DEVONO essere all’altezza dei più alti standard professionali e scientifici. Come ottenere tutto questo? Con investimenti mirati, con una pianificazione “sanitaria” del territorio e con il RISPETTO della meritocrazia

Parliamo di malattie molto impattanti a livello sanitario, per costi elevati, ma anche personale, psichico, familiare.

La diagnosi di malattia oncologica spariglia tutti gli equilibri. 

E mi riferisco non solo a quelli economico-sanitari, ma soprattutto a quelli personali del paziente. Di salute non solo fisica, ma anche psicologica. E al peso che si riversa sulla famiglia. Peso che molto spesso non è possibile “condividere” con la società, in quanto mancante della giusta organizzazione. 

Il fenomeno della cosiddetta “emigrazione sanitaria” ne è un esempio.

Cosa può fare a mio avviso un medico? 

Essere un professionista serio, preparato e coscienzioso. 

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Da qui nasce l’idea dell’Associazione dei Pazienti e dei familiari dei pazienti affetti da Sarcoma.

L’idea dell’Associazione Pazienti sarcomi dei Tessuti Molli nasce dallo stimolo di “dare” qualcosa in più ai pazienti affetti da questa patologia, e ai loro familiari. 

E’ infatti una Associazione di pazienti, rivolta ai pazienti. Il presidente sarà una paziente da me curata. 

L’Associazione si chiamerà SARKNOS. E all’interno del Consiglio Direttivo ci saranno altri pazienti.

Ho sempre pensato che il sentirsi parte di un gruppo, in cui il denominatore comune è la malattia, possa essere di aiuto per tutti i singoli componenti. 

Il mio sogno è che si possa raggiungere una tale alchimia all’interno dell’associazione tale che un singolo paziente che sta attraversando una fase negativa del suo percorso sanitario, possa trovare giovamento e aiuto anche soltanto confrontandosi con un altro paziente, che magari quella fase l’ha già vissuta.

Ci tengo a precisare inoltre che l’aiuto dell’Associazione non sarà “solo” per i pazienti. 

Penso infatti che anche i medici avranno la fortuna di migliorarsi grazie al confronto diretto con i pazienti.

L’associazione verrà presentata a breve con un evento.

L’evento a cui lei fa riferimento e che si terrà con l’inizio dell’anno nuovo, ha diverse finalità. La prima è quella di far incontrare e riunire tutti i pazienti affetti da sarcoma e da me operati presso il Campus Bio-Medico. L’evento infatti è “ritagliato” solo per loro. Al suo interno ci saranno momenti divulgativi, non scientifici, sulla malattia intervallati da momenti di assoluto svago grazie alla presenza di attori comici e cantanti.

Altro motivo è, come detto, la presentazione dell’Associazione con le sue finalità. Mi auguro quindi che ci possa essere la più ampia accoglienza da parte dei pazienti.

Ultima finalità, ma per me molto importante, è il desiderio di poter rivedere tutti i pazienti da me curati. Le confesso che sono un sentimentale e con tutti i miei pazienti sono riuscito ad instaurare un rapporto particolare, intenso, diretto. Il poterli rincontrare sarà per me motivo di gioia.

So che lei ha avuto un tentennamento nella scelta di medicina all’inizio del suo percorso universitario. Ora, da Ingegnere a Medico, ma perché ha scelto la Medicina?

Le confesso che non era un sogno che nutrivo da bambino.

La scelta di fare Medicina la si deve a mia madre. 

All’età di 18 anni, finito il Liceo, dovevo scegliere in quale facoltà iscrivermi. La mia scelta cadde su Veterinaria (ho sempre amato gli animali). A quel tempo la facoltà “migliore” era a Perugia, a circa 180 Km da Roma. Mia madre, donna apprensiva, si oppose alla scelta e opto per Medicina e Chirurgia.

Ora, a distanza di più di 30 anni, ringrazio quel suo materno ”ostruzionismo”.

Per maggiori informazioni si possono consultare i siti internet dedicati al Dott. Sergio Valeri e ai Sarcomi.