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Sì, così con due “z”.
Così Trilussa intitolò un sonetto con il quale raccontava l’elezione del 1912.
Roma all’epoca era tutta un’altra cosa, era stata “invasa” dai Piemontesi. Erano lontani i bombardamenti e le atrocità della Prima Guerra Mondiale ma si sentivano ancora gli echi della Breccia di Porta Pia: il Papa era chiuso nelle mura del Vaticano e si viveva in una situazione dove il riconoscimento era unilaterale, quello che, “umanamente”, potremmo definire rancoroso.
Non a caso utilizzo l’aggettivo “invasa” per Roma, perché anche per i romani più liberali e progressisti, la nuova Intellighenzia risultava essere quasi aliena, completamente “di importazione”.
Per dare un riferimento, solo l’anno prima fu inaugurato il Monumento a Vittorio Emanuele II, quello che ora chiamiamo il Vittoriano o l’Altare della Patria, per commemorare i 50 anni dell’Unità d’Italia che era – appunto – un corpo estraneo nella normale struttura urbanistica romana. Per completezza, una seconda inaugurazione si ebbe poi nel 1935 a conclusione di altri lavori che avevano demolito un intero quartiere e messo in luce altri reperti storici per realizzare Viale dell’Impero (ora Viale dei Fori Imperiali).

Nel 1912, dicevo, si svolsero le elezioni politiche e questa è la poesia che Trilussa, con il suo tono tagliente e sarcastico, dedica a quel momento.

Pubblico il sonetto perché fra pochi giorni, l’8 e il 9 Giugno, si svolgeranno le elezioni europee.
  

Trilussa_15

L’Elezzione
 
Se nun pagava sprofumatamente
te pensi che votava quarchiduno?
Nu’ j’è tornato conto a fa’ er tribbuno,
povero amico! Adesso se la sente!
E spenni e spanni, nu’ lo sa nessuno
li voti ch’ha comprato! Solamente
quelli der Commitato Indipendente
je so’ costati trenta lire l’uno!
Fra pranzi, sbruffi e spese elettorali,
c’è Pietro lo strozzino che cià in mano
quarantamila lire de cambiali!
Un’antra de ‘ste sbiosse, bona notte!
La volontà der popolo sovrano
je costa cara quanto una coccotte!

Sempre con molto piacere diamo spazio alle iniziative del progetto “Ricomincio da TRE”, un ECO-Tour sulla sostenibilità consumerista. Il prossimo 19 Maggio il Tour farà sosta a Soave con il suo Bio-bus. Quello del Bus è un viaggio che si snoda su 40 città italiane, con l’obiettivo di sensibilizzare le varie comunità sulla necessità di adottare pratiche più sostenibili.

Anche per questo il Bus è “Bio”: è alimentato con il Bio Carburante HVO grazie anche al supporto e all’impegno dei partner Bus Italia, Trenitalia e ENI.

Il progetto è promosso dalle Associazioni dei consumatori ADICONSUM, ADUSBEF, ASSOUTENTI, CASA DEL CONSUMATORE, CODACONS, CODICI, CONFCONSUMATORI, CTCU, MOVIMENTO CONSUMATORI e MOVIMENTO DIFESA DEL CITTADINO, e Finanziato del Ministero MIMIT.

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La fase dello specchio è un concetto centrale nella teoria psicoanalitica di Jacques Lacan, che offre una visione unica e provocatoria sull’origine e lo sviluppo dell’identità individuale. Secondo Lacan, la fase dello specchio è un momento cruciale nella formazione della coscienza e dell’immagine di sé, che si verifica nei primi mesi di vita di un bambino.

Durante questa fase, il bambino si trova di fronte a uno specchio e osserva la sua immagine riflessa. Lacan sostiene che in questo momento il bambino percepisce se stesso come un’unità coerente e completa, nonostante la sua mancanza di consapevolezza completa del proprio corpo e delle proprie capacità motorie. Questa percezione unitaria è creata attraverso l’identificazione con l’immagine riflessa, che diventa il punto di riferimento per la formazione dell’identità.

Tuttavia, Lacan sottolinea che questa immagine riflessa non corrisponde alla realtà oggett

iva del bambino, ma piuttosto rappresenta un’idealizzazione o una proiezione dell’io desiderato. In altre parole, il bambino non si identifica con la sua vera immagine corporea, ma con un’immagine idealizzata di sé stesso, conforme agli ideali culturali e sociali dominanti.

Ciò che rende la fase dello specchio così significativa è che Lacan la interpreta come il momento in cui l’individuo entra nell’ordine simbolico, abbandonando l’illusione di completezza e unità e affrontando la frammentazione e la mancanza che caratterizzano l’esperienza umana. Questo processo segna l’inizio della costruzione del sé come soggetto linguistico e sociale, poiché l’identificazione con l’immagine riflessa implica anche l’internalizzazione delle norme e dei valori della cultura circostante.

Tuttavia, la fase dello specchio non è solo un momento di integrazione e riconoscimento, ma anche di alienazione e perdita. Lacan suggerisce che l’immagine riflessa diventa un oggetto di desiderio e idealizzazione, alimentando un senso di inadeguatezza e insoddisfazione che permea la vita adulta. In questo senso, la fase dello specchio è anche il momento in cui l’individuo sperimenta la divisione tra il sé ideale e il sé reale, dando origine a tensioni e conflitti interni che influenzano il suo sviluppo psicologico e le sue relazioni interpersonali.

In conclusione, la fase dello specchio rappresenta un momento cruciale nella formazione dell’identità individuale, segnando il passaggio dall’unità illusoria alla consapevolezza della mancanza e della frammentazione che caratterizzano l’esperienza umana. Attraverso l’identificazione con l’immagine riflessa, l’individuo entra nell’ordine simbolico, iniziando il processo di costruzione del sé come soggetto linguistico e sociale. Tuttavia, questa identificazione porta anche con sé un senso di alienazione e insoddisfazione, poiché l’immagine riflessa diventa un oggetto di desiderio e idealizzazione, creando tensioni e conflitti interni che influenzano la vita adulta dell’individuo.

Tema davvero molto delicato quello del riconoscere e del riconoscersi. Tema delicato perché riguarda l’individuo e quello che ha intorno, riguarda la propria esperienza di vita e riguarda la sfera decisamente personale, quella idiosincrasia che è peculiare dell’individuo.
Pensando a come descrivere questo viaggio personale, mi è venuto in mente che uno dei modi sarebbe potuto essere quello di dare uno sguardo a quelle varie “interpretazioni” che – per forza di cose – cerca di farsi “messaggio universale”, ossia il Cinema: come il Cinema ha trattato, negli anni, questo tema.

Ecco 10 film che potrebbero esprimere al meglio tutto quello che io, con le mie sole parole, non riuscirei mai ad esprimere. Più un bonus al quale sono particolarmente legato.

1) “The King’s Speech” (2010) – Si concentra sulla lotta di un re per superare il suo balbettio con l’aiuto di un terapeuta non convenzionale.

2) “Girl, Interrupted” (1999) – Basato su una storia vera, il film esplora la vita in un ospedale psichiatrico e le relazioni tra i pazienti.

3) “Little Miss Sunshine” (2006) – Una commedia che segue una famiglia disfunzionale in un viaggio verso un concorso di bellezza, affrontando le loro debolezze e rafforzando i legami familiari.

4) “American Beauty” (1999) – Affronta temi di identità, desideri repressi e crisi di mezza età attraverso i personaggi principali.

5) “Eternal Sunshine of the Spotless Mind” (2004) – Un film che esplora le complessità delle relazioni e la memoria emotiva.

6) “Good Will Hunting” (1997) – Racconta la storia di un giovane prodigio che affronta i suoi traumi emotivi con l’aiuto di un terapeuta.

7) “Silver Linings Playbook” (2012) – Segue le vite di due persone che cercano di affrontare i propri problemi mentali e le loro relazioni interpersonali.

8) “A Beautiful Mind” (2001) – Basato sulla vera storia di John Nash, un genio della matematica che combatte contro la schizofrenia.

9) “The Perks of Being a Wallflower” (2012) – Esplora le difficoltà dell’adolescenza e la ricerca di identità attraverso il protagonista Charlie.

10) “Inside Out” (2015) – Un film d’animazione che personifica le emozioni per esplorare il processo di crescita emotiva e l’accettazione di sé stessi.

Il bonus è il film di François Truffaut “I 400 colpi”: il racconto – poetico e diretto – del passaggio della fanciullezza all’età adulta di Antoine, un ragazzo di 12 anni.
Mi piace pensare di chiudere questo articolo, con la stessa immagine che chiude il film, con lo sguardo fisso verso la camera, verso lo spettatore, con il rumore delle onde del mare che fanno da musica di sottofondo.

“Ne usciremo migliori”, si diceva, ma a più di 3 anni dal momento da quando lo slogan fu coniato ci sentiamo particolarmente lontani da come eravamo prima del Covid-19 e sembra che il raggiungimento di un equilibrio non sia affatto un processo semplice. Per avere un’idea più completa, ho contattato una persona che – per lucidità di visione e per professionalità – avesse la capacità di aiutarmi in questo percorso: Emilio Mordini.

(Foto dell’Ospite)

Emilio Mordini è laureato in medicina e in filosofia, si è formato come psicoanalista ed è stato tra i primi psicoterapeuti medici abilitati dall’Ordine dei Medici di Roma. Esercita l’attività clinica come psicoanalista da circa quarant’anni. I suoi interessi scientifici si focalizzano sui rapporti tra individuo e inconscio sociale e sulla nozione di Einheitpsychose. Dal 1994 al 2005 Emilio Mordini ha insegnato bioetica presso la II Scuola di Specializzazione in Ostetricia e Ginecologia dell’Università di Roma La Sapienza. Negli stessi anni è stato membro e segretario scientifico della Commissione di Bioetica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), membro della Commissione di Bioetica dell’ Ordine dei Medici di Roma, tesoriere e segretario generale dell’ Associazione Europea dei Centri di Etica Medica (EACME), membro del Consiglio di Amministrazione dell’International Association of Bioethics (IAB), membro del Comitato Etico e docente nei corsi di etica della Società Italiana di Psichiatria (SIP) e ha tenuto corsi di bioetica e di psicoanalisi in varie università italiane e straniere. Dal 2002 al 2013 Emilio Mordini ha diretto il Centro per la Scienza, la Società e la Cittadinanza (CSSC) di Roma, per conto del quale ha partecipato come principale investigatore o coordinatore a più di trenta progetti di ricerca internazionali promossi dalla Commissione Europea e ha diretto due workshop del programma Science for Peace della NATO. Nello stesso periodo è stato membro di vari comitati di esperti della Commissione Europea e delle sue agenzie. Dal 2014 al 2020 ha diretto Responsible Technology, una società di consulenza con sede a Parigi. Attualmente è research fellow dell’Health and Risk Communication Center dell’Università di Haifa in Israele.  Nell’Unione Europea, presta la sua opera nel CERIS Expert Group (Community for European Research and Innovation for Security).  Fa parte del comitato editoriale di numerose riviste scientifiche internazionali, tra le quali il “Journal of Ethics in Mental Health”, “IET Biometrics“, “Somatotechnics” e la “Revue Française d’éthique appliquée”. Ha pubblicato più di centosessanta articoli e monografie su riviste scientifiche internazionali, numerosi articoli divulgativi e curato quattordici volumi collettanei. È socio di varie società scientifiche, tra cui la Società Italiana di Psichiatria (SIP) e l’Association for the Advancement of Philosophy and Psychiatry (AAPP).  Raggiungo telefonicamente il professore in Friuli, a San Vito al Tagliamento, un paese tra Venezia e Trieste, dove ora vive ed esercita la sua attività clinica.

Domanda:
Com’è la situazione degli italiani dopo il covid riguardo alla loro salute psicofisica? In questi anni c’è stato un investimento importante, anche con il così detto “bonus psicologi” ma questa iniziativa è servita o no? Com’è lo stato attuale?

Risposta:
Le posso rispondere come medico e psicoanalista, non come epidemiologo, cioè le posso parlare di mie impressioni e riflessioni, non di dati statistici. Dal mio punto di vista, non ritengo che il Covid abbia cambiato molto la salute degli italiani. Eventualmente quello che ha cambiato la salute degli italiani, e non solo quella mentale, è il progressivo degrado dei servizi sanitari che era già in corso ben prima del Covid e che con l’epidemia ha avuto un’accelerazione. Il COVID è stato preso a pretesto per promuovere tutta una serie di processi di trasformazione che erano già in corso ma che avrebbero avuto – senza epidemia – tempi ben più lunghi.  Il primo e più importante processo è stata una progressiva e massiccia digitalizzazione dei servizi sanitari pubblici e privati. La digitalizzazione e l’automazione della sanità permettono di ridurre in modo drastico i costi (che sono per la gran parte imputabili ai costi del personale) e migliorare l’efficienza complessiva del sistema. Però ci sono anche aspetti negativi.

Quali?

Sta accadendo alla sanità quello che è già accaduto in altri settori (si pensi ad esempio al mondo dei servizi bancari e finanziari dove le agenzie bancarie funzionano praticamente senza personale) e che sta accadendo nel mondo dell’istruzione e dell’educazione, con la didattica a distanza e la formazione online. L’obiettivo è quello di arrivare a una sanità “ad alta automazione”, un po’ come quei caselli autostradali privi di ogni presenza umana. Per realizzarsi un processo del genere, è stato necessario però il realizzarsi di alcune condizioni.

A cosa si riferisce?  
Le farò un discorso un po’ lungo per cui le chiedo scusa. Sono convinto, però, che il momento che stiamo attraversando sia una svolta storica non solo nel modo in cui si esercita la professione medica ma nell’idea stessa di salute e nella funzione politica e sociale del concetto di salute.

(Immagine dell’Ospite)

La medicina è stata per secoli, dalla sua nascita sino alla seconda metà dello scorso secolo, soprattutto “artigianato”, basato sulle conoscenze cliniche, sull’esperienza e intuizione dei singoli medici e delle équipe curanti. Era una medicina che sbagliava spesso, curava poco, difficilmente evitava la morte e che era guardata con diffidenza dai pazienti, anche se l’alternativa erano solo maghi e fattucchiere che erano ancora peggio. Ci fu poi, agli inizi del 1900, il periodo dei grandi clinici e della medicina ospedaliera di massa: le cose cominciarono ad andare un po’ meglio anche grazie a farmaci più efficaci, alla scoperta dell’asepsi in chirurgia, all’avvento dei vaccini. Però, sino a dopo alla Seconda guerra mondiale, non è che i medici riuscissero a salvare molte vite. Spesso i trattamenti non erano efficaci se non addirittura dannosi.
Nel ventennio tra il 1950 e il 1970, avvennero due fatti fondamentali tra loro correlati: da un lato l’industria farmaceutica divenne un colosso produttivo con un’influenza finanziaria crescente, dall’altra si affermò l’idea di provvedere tutti i cittadini con un’assicurazione sanitaria, prevalentemente pubblica in Europa, principalmente privata negli USA. Nacque, cioè, il concetto di “diritto alla salute” che, come altri “diritti sociali”, fu la risposta del blocco sovietico alla critica che gli rivolgevano gli stati occidentali. Nazioni e forze politiche che si riferivano più o meno al mondo comunista iniziarono a contrapporre ai “diritti civili e politici” tutta una serie di altri diritti, “sociali” appunto, come il “diritto alla salute”. Questo diritto divenne un principio fondante l’Organizzazione Mondiale della Sanità e, in genere, tutte le organizzazioni delle Nazioni Unite, così come divenne centrale per le grandi socialdemocrazie europee e la nascente Unione Europea. In questo mondo fondato sul diritto universale alla salute (e dominato dalle case farmaceutiche) poteva andare ancora bene la vecchia medicina clinica e ospedaliera degli inizi del 1900?  Ovviamente, non poteva. Serviva una medicina di massa, territoriale (i cui costi farmaceutici crescenti fossero affrontati dai servizi sanitari pubblici o privati e fatti ricadere sull’intera collettività) e basata su metodi di validazione statistici, cioè una medicina che avesse come obiettivo non tanto lo stato di salute del singolo paziente quanto della comunità considerata nel so insieme. Nasce così, verso la fine degli anni 1970, la cosiddetta “medicina basata sull’evidenza” (EBM).
La 𝗘𝗕𝗠 𝗮𝗳𝗳𝗲𝗿𝗺𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝗻𝗲𝘀𝘀𝘂𝗻𝗮 𝗽𝗿𝗼𝗰𝗲𝗱𝘂𝗿𝗮 𝗱𝗶𝗮𝗴𝗻𝗼𝘀𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗼 𝘁𝗲𝗿𝗮𝗽𝗲𝘂𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗱𝗲𝗯𝗯𝗮 𝗿𝗶𝘁𝗲𝗻𝗲𝗿𝘀𝗶 𝘃𝗮𝗹𝗶𝗱𝗮𝘁𝗮 se non dopo un’esperienza empirica che la sostanzi. Nei fatti si rigetta ogni appello al principio d’autorità (“l’ha detto quel medico, quindi deve essere vero”), così come ogni convinzione aneddotica (“nella mia esperienza ha sempre funzionato”, “ci sono numerosi casi in cui sembra essere efficace”), invece ci si rifà rigorosamente a osservazioni controllate, alla riproducibilità delle esperienze, al consenso tra specialisti.  Il movimento della EBM si presenta, quindi, come un grande movimento, che non si oppone pregiudizialmente a nessuna pratica medica, né quelle convenzionali, né a quelle non-convenzionali, ma pretende che ogni trattamento che si proclami “efficace” sia sottoposto a un rigoroso controllo. 𝗜 𝘀𝗼𝘀𝘁𝗲𝗻𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶 𝗱𝗲𝗹 𝗺𝗼𝘃𝗶𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝗵𝗮𝗻𝗻𝗼 𝗱𝗶𝗰𝗵𝗶𝗮𝗿𝗮𝘁𝗼 𝗰𝗵𝗲 𝘀𝗼𝗹𝗼 𝗹𝗮 𝗘𝗕𝗠 𝗽𝘂𝗼̀ 𝗰𝗼𝗻𝘀𝗲𝗻𝘁𝗶𝗿𝗲 𝗮𝗹 𝗽𝗮𝘇𝗶𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗱𝗶 𝗮𝗰𝗰𝗲𝗱𝗲𝗿𝗲 𝗮𝗱 𝗶𝗻𝗳𝗼𝗿𝗺𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗼𝗯𝗶𝗲𝘁𝘁𝗶𝘃𝗲 e non di parte, perché medici e pazienti si troverebbero a disporre di una stessa fonte neutrale di informazioni. Medici e pazienti sarebbero messi in grado, di decidere insieme, su base paritaria. Nelle intenzioni proclamate, l’EBM dovrebbe fondare un meccanismo razionale e condiviso di distribuzione delle cure, evitando diseguaglianze tra gli utenti e impedendo lo spreco di risorse su trattamenti inefficaci quando non addirittura nocivi. Agli inizi degli anni 2000, l’EBM si afferma universalmente come standard delle cure mediche e, nel ventennio successivo, diventa progressivamente la sola filosofia accettata dai servizi sanitari pubblici e privati, dalle società scientifiche mediche e dalle istituzioni sanitarie statali. La funzionalità dell’EBM sembra essere testimoniata dai risultati: dove è stata adottata, il livello complessivo di efficacia delle cure mediche è aumentato, almeno secondo tutti gli indicatori statistici. Il problema, però, è proprio questo: la EBM è una medicina fatta da manager sanitari per manager sanitari e politici che hanno bisogno di citare numeri; non è una medicina per i pazienti a cui importa poco che le statistiche migliorino se loro, come singoli individui, ricevono servizi sempre più spersonalizzati e anonimi.   
In questi ultimi vent’anni, è accaduto un altro importante fatto, che non ha riguardato solo la medicina ma che sta avendo sul mondo sanitario un impatto devastante. Mi riferisco alla crescente capacità di catturare, immagazzinare, interconnettere e processare quantità enormi di informazioni. Tutto ciò è diventato possibile man mano che la tecnologia ha permesso di trasformare informazioni qualitative in quantitative, detto in maniera più semplice: via via che la tecnologia ha creato strumenti per misurare ogni cosa ed esprimere in dati numerici qualsiasi evento. Questo processo è quello che è chiamato comunemente “digitalizzazione” (termine preso dall’inglese che significa, letteralmente, “numerizzazione” così come infatti lo traducono i francesi). Questa capacità, che è cresciuta di giorno in giorno con una velocità impensabile sino a qualche tempo fa, ha generato un approccio scientifico (anche alla medicina) molto diverso da quello tradizionale: la cosiddetta “scienza dei dati”. Una delle caratteristiche principali della “scienza dei dati” è la sua capacità di produrre “previsioni senza comprensione”. La scienza convenzionale, quella che era nata nel 1600 con Galileo Galilei, era deterministica, cioè, mirava a produrre spiegazioni basate sul principio di causalità (A causa B = B è un effetto di A). La scienza moderna (quella che si era affermata nel 1900) era invece probabilistica, cioè si basava si basava ancora sul principio di causalità, ma ammetteva un certo grado di incertezza. Nella scienza probabilistica (come era, agli inizi, anche quella della “Medicina Basata sull’ Evidenza”) si cercavano correlazioni statistiche e, una volta scoperte, si cercava di stabilirne le cause più probabili. Questa ipotesi causale veniva confrontata di nuovo con i dati empirici e il processo veniva ripetuto fino a quando non si era in grado di arrivare a una qualche comprensione dai dati (il verificarsi di A è strettamente associato al verificarsi di B = ci sono x probabilità che A provochi B).  
La scienza dei dati è simile alla scienza probabilistica in quanto anch’essa ricerca correlazioni e modelli, ma non è più interessata a trovare un senso, cioè, a stabilire relazioni di causa-effetto. La scienza dei dati, proprio perché la tecnologia le mette a disposizione una quantità di informazioni enorme, si accontenta di individuare configurazioni di fatti (al fatto A segue prima o poi il fatto B).  La scienza dei dati non si interessa delle cause: si limita a identificare i primi segnali della comparsa di un fatto in modo tale che si possa agire preventivamente. Applicata alla medicina, questa scienza produce la “medicina post-COVID” che stiamo imparando a conoscere. Si tratta di una medicina che può essere considerata l’evoluzione della EBM. Come la Medicina Basata sull’Evidenza, anche la medicina basata sulla scienza dei dati non si interessa alla clinica ma analizza grandi numeri di pazienti. L’obiettivo, però, non è soltanto quello di modificare le condizioni di salute di una comunità, ma di riuscire ad applicare modelli matematici e statistici generali anche ai singoli casi. Questo diventa possibile non perché si individuino specifiche correlazioni causali e fisiopatologiche, ma perché si identificano pattern da cui trarre indicazioni specifiche di azioni da compiere per ottenere il risultato voluto. Per spiegarlo in un modo più semplice e forse comprensibile: la medicina basata sulla scienza dei dati è molto simile al modo in cui funzionava il “servizio pre-crimine” in un film di fantascienza di qualche anno fa, Minority Report.

Quindi il degrado della medicina post-COVID sarebbe la conseguenza della “medicina Minority Report”?

Quello che le ho descritto è il processo principale, le cui conseguenze, però, sono poi il frutto del concomitare di altri sottoprocessi. Via via che la medicina statistica e poi quella basata sui dati hanno preso il sopravvento, è diminuita parallelamente l’importanza del fattore umano e quindi della preparazione del personale sanitario, dei medici in particolare.
Stiamo assistendo a una progressiva de-professionalizzazione dei medici che ha almeno tre componenti. La prima, più generale, riguarda la qualità della formazione fornita dalla scuola primaria e secondaria. I giovani giungono al momento della scelta universitaria in una condizione di ignoranza impensabile qualche decennio fa. Il COVID, con la didattica a distanza, ha portato agli estremi questo processo di disfacimento educativo. Spesso i “nuovi medici” sono persone di un’ignoranza generale che fa rabbrividire. Sono persone che non hanno mai letto un’opera letteraria in vita loro, che non hanno mai visto un film che non sia prodotto da Netflix o simili, che non hanno mai visto uno spettacolo teatrale che non sia quello di un comico televisivo, che si informano su Instagram, che ascoltano i Måneskin e vestono Zara. Non differiscono, in questo, dai loro coetanei che fanno altre professioni. Ma fossero, ad esempio, ingegneri potrebbero forse essere decenti professionisti lo stesso; invece, è impossibile che lo siano facendo il medico.  Senza l’esperienza formativa di quelle nel mondo anglosassone sono chiamate “humanities”, cioè le scienze umane, e senza essere stati formati artigianalmente da un maestro, che li abbia accompagnati al rapporto diretto con il malato, questi giovani medici mancano i fondamenti umani e psicologici per curare un paziente.  Del resto, la loro funzione nei sistemi sanitari moderni perde sempre più di importanza e il fatto che mancano delle necessarie qualità umane non è avvertito dagli amministratori come un problema di cui preoccuparsi.
A questo si aggiunge un secondo processo: la superspecializzazione e l’ignoranza degli aspetti della medicina diversi dal proprio.  I giovani medici conoscono (quando conoscono) il loro settore specialistico ma quasi ignorano tutto il resto, sia perché lo hanno studiato poco e male già durante il corso di laurea, sia perché – diventati medici – se ne disinteressano completamente. Si arriva così alla situazione attuale in cui i pazienti non hanno più un medico che voglia e sappia seguirli complessivamente, ma liste di specialisti interessati all’organo o apparato di loro competenza, come fossero carburatoristi o elettrauto. Questi medici super-specialisti si integrano perfettamente nel sistema della medicina tecnologica basata sui dati, perché diventano loro stessi simili a macchine o a esami di laboratorio: si trasformano in “generatori di informazione medica” che sarà poi analizzata da altri o, sempre più spesso, dagli algoritmi dell’intelligenza artificiale. In questo senso, è quasi meglio che non pensino e non si prendano cura del paziente: altrimenti disturberebbero i veri decisori che non sono più loro ma le macchine (in teoria – nel sistema italiano – il medico che riunisce tutte le informazioni ci dovrebbe essere ed è il medico di base, ma spesso questa è solo un’illusione. Purtroppo, i medici di base finiscono di frequente a essere burocrati che smistano il paziente tra vari specialisti ed esami, cercando di contenere i costi).
Infine, c’è un terzo processo che spiega la perdita di qualità professionale di molti giovani medici. Mi riferisco alla crescente produzione di linee guida e protocolli di cura. Questo fenomeno è direttamente legato alla medicina basata sull’evidenza e alla sua moderna versione basata sui dati. Più, infatti, le decisioni mediche scaturiscono non dalla clinica ma dall’analisi biostatistica di informazioni fornite da macchine, più è logico che queste decisioni si basino su alberi decisionali e algoritmi. A ciò si aggiungano una serie di ragioni medico-legali e amministrative, che – in Italia anche attraverso specifiche leggi nel 2014 e 2016 – hanno sempre più vincolato i medici all’osservanza di protocolli e le linee guida stabilite da istituzioni scientifiche statali, quali l’Istituto Superiore di Sanità o il Ministero della Sanità, e società scientifiche riconosciute. La legge lascia un margine di discrezionalità ai medici, che hanno ancora in teoria la libertà di cura.  Tuttavia, se un medico si discosta da protocolli e linee guida, deve giustificare questo scostamento e sincerarsi che il paziente sia d’accordo con queste sue scelte. Questo principio, la necessità di un consenso informato ogni qual volta un medico non segua linee guida fissate, è in teoria comprensibile, non fosse che spesso un malato avrebbe voglia di dover non essere chiamato a decidere ma di avere consiglio. A tutto ciò si aggiungono una serie di problematiche amministrative e contrattuali specifiche per i medici che lavorano nel sistema sanitario nazionale, i quali – se non rispettano protocolli e linee guida – corrono il rischio di perdere le proprie coperture assicurative ed esser soggetti a provvedimenti disciplinari.

Ma lei, dunque, è contro le “linee guida”?

No, assolutamente. Possono essere utilissime affiancate al ragionamento clinico. La questione è che ogni essere umano è un caso a sé stante e va valutato come tale. Che cosa chiede un paziente? Di essere riportato nell’ambito di parametri statistici di normalità e di salute? Ma proprio per niente. Un paziente chiede di che ci qualcuno si prenda cura di lui. C’è una differenza fondamentale tra “curare” e “prendersi cura”. “Curare” vuol dire riparare un carburatore che non funziona ed è quello che accade spesso oggi: la medicina tecnologica basata sui dati lo sa fare bene, non c’è dubbio. “Prendersi cura” significa, invece, domandarsi cosa sia per quella specifica persona la “salute”, quale sia il suo “bene”. Si tratta di una questione complicata, non c’è dubbio che il medico debba essere umile, debba evitare l’arroganza di decidere da solo quale sia il bene del paziente, Un medico onesto deve sapere di non sapere: sempre porsi domande e porre domande. Eppure, in ultima istanza, se il medico non cerca di capire cosa sia il bene per il malato che si è rivolto lui e non cerca di realizzarlo, diventa un truffatore perché non rispetta il contratto terapeutico. Cos’è il bene per quel mio determinato paziente? Avere il colesterolo LDL entro i valori fissati dalle ultime linee guida dell’American College of Cardiology (società, per altro, sponsorizzata da case farmaceutiche produttrici di farmaci per abbassare la colesterolemia) oppure avere il colesterolo un po’ più alto ma godersi un piatto di formaggio e un bicchiere di vino ogni tanto? Ho fatto un esempio banale, ma credo che si capisca cosa intendo.
Del resto, se un medico si limita ad applicare in maniera pedissequa linee guida create da altri o dall’intelligenza artificiale, non si capisce cosa serva più. Se un medico è solo un esecutore di algoritmi, allora le macchine possono farlo in maniera molto più efficace e sicura.

Quindi lei crede che il problema sia la “disumanizzazione” della medicina moderna?

Sì e no. Non c’è dubbio che la medicina tecnologica basata sui dati sia “disumanizzata”, ma non ne consegue automaticamente che ciò dispiaccia ai pazienti. La medicina tecnologica è una medicina che ha conseguito risultati straordinari in termini di guarigioni dalle malattie. In questo senso, i pazienti sono soddisfatti dei suoi risultati. Poi, non si scordi tutte le cose che le ho detto in precedenza, in particolare rispetto alla perdita di qualità “umana” dei medici.  I pazienti si rendono conto che spesso i medici oggi sono disinteressati umanamente a loro, incapaci di entrare in relazione, di provare simpatia (preferisco questa parola a quella che va più di moda, “empatia”).  È molto difficile affidarsi a qualcuno se non abbiamo piena fiducia nella sua “umanità”. In un contesto in cui ci si fida poco dei medici è allora molto meglio la medicina tecnologica. I pazienti a volte preferiscono medici frettolosi, poco attenti al rapporto umano, ma almeno scientificamente efficiente e aggiornati. Nella mia professione di psicoanalista, vedo abbastanza bene questo tipo di contraddizione: non pochi pazienti oggi chiedono soprattutto farmaci o rapidi interventi comportamentali che siano in grado di riportarli a un discreto funzionamento psicologico senza troppe complicazioni. L’idea che è un trattamento psicologico possa e debba andare oltre la risoluzione immediata dei sintomi è oramai molto lontana da tante persone. Per loro, il medico, persino quel quello che fa lo psicoterapeuta, deve essere solo un meccanico che ripristina una funzione alterata. 

Mi colpisce questa rappresentazione. Da informatico resto quasi turbato da questo: eravamo convinti che gli strumenti informatici ci avrebbero liberati dagli errori, mentre ci siamo ritrovati con delle macchine dalle quali siamo dipendenti.  Qual è lo scenario visto dal punto di vista medico?

Sui motivi per cui la nostra società si è sviluppata soprattutto in senso tecnologico sono stati versati i leggendari fiumi di inchiostro. Economisti, sociologi, filosofi, teologici, antropologi: ciascuno ha fornito la sua spiegazione. Dal mio punto di vista, mi sembra che la tecnologia sia servita e serva agli esseri umani soprattutto per evitare i lavori più faticosi, noiosi, meno gratificanti, tant’è che il suo sviluppo coincide grossomodo con la fine della schiavitù. Le macchine servono a fare cose che gli esseri umani non hanno voglia di fare, una volta che non ci sono più schiavi da impiegare al posto loro. L’esempio che faccio spesso è quello della nascita delle macchine calcolatrici. Il primo calcolatore nasce nel 1600 ed è un’invenzione di Pascal. Blaise Pascal fu uno dei più grandi matematici (contribuì, tra l’altro, alla nascita del calcolo delle probabilità), filosofi e teologi dell’epoca barocca. Pascal era figlio di un esattore delle tasse nell’Alta Normandia, sotto il regno di Luigi XIV. Quando il giovane Blaise aveva diciannove anni, il padre lo mise a verificare i conti, così il poverello fu costretto a passare le sue notti a rifare i calcoli per controllarli. Immagini quanto un giovane di meno di vent’anni fosse contento di trascorrere le serate in questo modo. Probabilmente io o lei avremmo cercato di “imboscarci” ma Pascal, che era un genio, cercò invece una soluzione diversa: inventare una macchina che facesse i calcoli al posto suo. Questa macchina – che ora è in un museo a Parigi e fu in seguito chiamata “Pascaline” – fu il primo calcolatore meccanico nella storia dell’umanità e ancora i calcolatori degli anni 1960 funzionavano secondo i suoi principi. Questa storia divertente spiega bene qual è la spinta a creare nuove tecnologie: far fare da macchine compiti che noi troviamo noiosi e che le macchine possono fare più rapidamente e con meno errori di noi.
L’intelligenza artificiale alla fine è soltanto uno strumento di calcolo potentissimo al di là di ogni immaginazione ma che nulla ha a che vedere con l’intelligenza vera. Esattamente come un microscopio elettronico, che vede cose per noi impensabili. Ma lei direbbe mai che un microscopio elettronico “vede”? No, perché un microscopio elettronico non vede nulla, permette a noi di vedere. Lo stesso fanno un telefono cellulare o una macchina da corsa: le tecnologie sono protesi che permettono agli esseri umani di fare quello che, senza tecnologia, non sarebbero in grado di fare. L’intelligenza artificiale è un amplificatore della nostra capacità di calcolo: non sostituisce l’intelligenza, ma ci leva la fatica di calcolare, attività in sé stessa fondamentalmente noiosa pure per i matematici di professione.

Però c’è un aspetto importante e complicato, ed è quello riferito alla gestione dei big data. Ricordo che all’università, ormai sono passati più di vent’anni, durante il corso di intelligenza artificiale, si considerava la valutazione delle potenziali patologie associate ai segni. Uno degli esempi che si faceva, ripeto su uno studio prima del 2000, riguardava l’individuazione della tubercolosi, partendo da questa considerazione: i medici statunitensi non erano più in grado di conoscere i segni perché pensavano ad altre patologie.
Allora, trovare correlazioni già predeterminate permette di fare espandere la conoscenza. Ma quando invece la correlazione viene fatta in modo automatico e noi, gli esseri umani, ne perdono il controllo, lì entriamo in un altro mondo.

Guardi, le ripeto in un diverso contesto quello che le ho già detto a proposito delle linee guida. Io non ho proprio nulla contro l’intelligenza artificiale: se è utile, ben venga. Quando io mi sono laureato, nel 1981, nel reparto dell’ospedale San Giacomo di Roma dove ero assistente, per evitare di mandare troppi esami del sangue in laboratorio, alcuni di questi esami li facevamo direttamente noi in reparto. Uno di questi, l’esame emocromo, lo si faceva al microscopio ottico, usando un particolare vetrino retinato che, una volta colorato il campione, permetteva una conta probabilistica degli elementi corpuscolati, globuli rossi e bianchi. Un lavoro molto noioso che certo non faceva il primario ma che toccava a noi neolaureati. La precisione, ovviamente, era abbastanza approssimativa e sono sicuro che diminuisse progressivamente più noi ci si annoiava e che avesse poi veri crolli se, per caso, uno di noi aveva fretta di terminare per andare, magari, al cinema.  È chiaro che nel momento in cui si mette la provetta dentro una macchina, e la macchina conta con precisione assoluta tutti i globuli rossi e bianchi, è meglio no? Non dobbiamo rinunziare a questo. Però questo progresso dovrebbe dare al medico il tempo, magari, di parlare col paziente. Potrebbe essere un guadagno per tutti. Però, se invece, una volta che ho una macchina che fa l’emocromo, il tempo che risparmio io lo uso per stare su Instagram a guardarmi i reel, allora c’è qualcosa che non gira in questa storia. In realtà ho soltanto perso tempo e non l’ho acquistato.

Questa è la visione, una visione quasi di profondità perdendo completamente la visione periferica, quella che poi ci permette di allargare la visuale su quello che è la qualità della vita, quello che è il rapporto col paziente. Veramente molto interessante. Questo poi mi colpisce, e metto la mia visione da informatico. Ho sempre utilizzato le videoconferenze, le call conference, per parlare con i colleghi, ma non mi rendevo conto di quanto invece il rapporto umano, quello che poi si aveva comunque in ufficio, fosse fondamentale nel mantenimento del team, nel mantenimento dei rapporti di reciproca stima e fiducia.
Questa cosa è cambiata, passando tutti e solo in videoconferenza è stato veramente un rapporto completamente diverso. E qui mi interessava anche rispetto alla sua professione, quanto c’è di diverso nell’avere rapporti virtualizzati rispetto ad averli di persona?

(Immagine dell’Ospite…con Isotta)

Bella domanda.  La presenza è una questione che non riguarda nessuna modalità sensoriale precisa. La presenza è qualcosa di sfuggente che ha al suo interno tantissime componenti, se volessimo scomporle si potrebbe forse anche: si va dall’odore, ai ferormoni, alle vibrazioni fisiche, quelle dovute al movimento dell’aria che un corpo provoca, allo sguardo, ai rumori impercettibili che ogni corpo genera, alla proxemica, e così via.  Questa infinità di elementi si ritrova nella comunicazione umana. Non è necessario fare grandi discorsi complicati, basta riferirsi a un’esperienza che chiunque di noi può fare. In una sala concerti, in un jazz club, in un teatro, ci si rende ben conto come la presenza sul palcoscenico di un attore oppure di un suonatore o un cantate, sia un’esperienza profondamente diversa dal vedere o ascoltare un programma registrato. Anche semplicemente se si è tra amici e uno si mette al pianoforte a strimpellare o prende la chitarra e canta, si crea una profondità comunicativa che nessun metaverso riuscirà mai a replicare. Perché? Perché in qualche modo, c’è qualcosa che riguarda proprio la nostra intima umanità. Pensi che un bambino di pochissimi giorni, già al secondo o al terzo giorno di vita, conosce e riconosce gli occhi di chi si prende cura di lui ed è in grado di reagire con un sorriso o con una smorfia a seconda di come quegli occhi si muovono e che cosa gli comunicano. Non riconosce ancora la persona, perché ha una difficoltà di messa a fuoco: se dovesse vedere il profilo della madre, o del padre, o dell’infermiera, non li riconoscerebbe. Eppure, reagisce allo sguardo. Cos’è la presenza degli occhi? Ci pensi, provi a rispondere se ci riesce.

Nel Medioevo ci fu un periodo in cui il potere centrale, del re o dell’imperatore, era molto debole mentre era grande il potere dei feudatari, delle città stato e dei comuni. Se l’autorità centrale si fosse limitata a pubblicare editti senza mai mostrarsi, dopo un po’ nessuno avrebbe più obbedito e pagato le tasse.   Non i contadini, ma i nobili, perché un nobile che non vedeva il re o l’imperatore, dopo un po’cominciava a sperare di esserselo levato di torno per sempre. Allora tutti i grandi sovrani, come i sovrani di Francia, una volta l’anno – normalmente in primavera, quando arrivava il bel tempo – si muovevano nel loro Regno andando a benedire di qua e di là i sudditi. Dopo che erano stati fisicamente in un posto, allora lasciavano frequentemente un segno, ad esempio una statua o un dipinto, che era il modo dell’epoca per essere presente virtualmente. Però, prima, era necessaria la presenza fisica. Questo è esattamente il problema che abbiamo oggi. Si può fare una videoconferenza – ci mancherebbe altro – o l’insegnamento a distanza, così come un medico, persino uno psicoanalista, può curare un paziente a distanza. Si può fare tutto, se le circostanze lo impongono. Ma il virtuale ha senso soltanto se c’è stata una presenza prima, se la persona ha percepito almeno una volta la presenza fisica del corpo dell’altro. Questo perlomeno è valido per tutte quelle professioni dove il rapporto umano è fondamentale.

Devo dire, che questo è vero anche per l’informatica, come ho notato personalmente: manca il concetto del team. Cioè, non si lavora più “in team”, dopo più di due anni praticamente sempre a distanza, e non ci si vede personalmente, ma si lavora come somma di individualità.

Il nostro mondo sta procedendo verso la digitalizzazione e dematerializzazione di tutto.
A partire dal denaro, sino ai rapporti umani, all’educazione, alla medicina, noi viviamo in un mondo che si sta progressivamente dematerializzando, persino il sesso è per buona parte dematerializzato e masturbatorio.
Le persone saranno pure soddisfatte, non lo discuto, ma sono anche sempre più rincretinite.
E, oltre un certo livello di stupidità, viene minacciata anche la felicità, perché la felicità richiede comunque un minimo di intelligenza per apprezzare le cose che abbiamo intorno. Per apprezzare il piacere della vita, un po’ di intelligenza ci vuole e invece più si dematerializza, più si diventa stupidi e infine infelici. Quindi, per concludere tornando alla sua domanda iniziale sullo stato di salute degli italiani, la mia risposta è che, se la salute ha a che vedere in qualche modo con la felicità, allora c’è davvero da essere preoccupati.

Non è così facile riconoscersi negli errori che facciamo. Non ci riconosciamo nei clamorosi abbagli che hanno cambiato il corso della nostra vita, né nei piccoli errori di valutazione che commettiamo tutti i giorni nostro malgrado. Poi se a far notare l’errore è un’altra persona, beh allora possiamo arrivare anche a negare il fatto stesso che sia un errore o possiamo essere più o meno accoglienti o accondiscendenti in base al grado di intimità che abbiamo con quella persona. Ma in generale quel “noi stessi” che erra, che sbaglia, che fallisce, che si trova in un percorso lontano dal proprio obiettivo, è una entità dalla quale ci si vuole distaccare, senza riconoscerla. Neghiamo la possibilità di fallire o, forse più propriamente, neghiamo che possiamo fallire.

Mi viene in mente il dipinto di Magritte dove un uomo si guarda allo specchio, ma non si può riconoscere nella figura specchiata perché è girato di spalle. Lo specchio non lo riflette, non lo riproduce (in effetti il titolo del quadro è “Non Riproducibile”)

La nostra società è attratta dal successo – che è obiettivamente l’opposto dal fallimento – ma stigmatizza il fallimento come un carattere perentorio, una valutazione sulla storia della persona che ha fallito.

Da qui certo non voglio dire che il fallimento sia una cosa da desiderare, ma una cosa da guardare in faccia, senza il terrore di provarlo.

In Informatica si è sviluppato un paradigma nuovo.
Per l’Agile Development un’avventura imprenditoriale è quella che “riconosce il fallimento” e cerca di massimizzare la velocità di apprendimento data dal fallimento e di ridurne al minimo le conseguenze. Sì perché chi meglio del fallimento ci da la possibilità di apprendere come raggiungere l’obiettivo che cerchiamo?
Il motto di questo metodo è “fail fast, fail often” – fallire presto, fallire spesso – perché si cerca di guardare in ogni percorso quelle caratteristiche che potrebbero far fallire il progetto e far “fallire” quel percorso, invece che l’intero progetto.

Mi piace ricordare che Enzo Ferrari nella fabbrica di Maranello aveva voluto una teca con tutti i pezzi che avevano fatto perdere una gara. Ogni pezzo rotto, ogni pistone crepato, ogni ammortizzatore spezzato, ogni radiatore bucato, ogni valvola divelta dalla potenza del motore, ogni turbo progettato male era lì, conservato con un cartellino con una data e una località, come fossero Coppe, medaglie, Trofei: una teca dove guardare in faccia l’errore e farsi ispirare da quello ogni volta.

    Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento palle, ventisei volte i miei compagni di squadra mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato.
    Ho fallito. Molte, molte volte.
    Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto.

    Michael Jordan

Nel corso della vita, tutti noi affrontiamo dei momenti di “ritorno”. Possiamo ritornare a casa dopo un lungo viaggio, ritornare alla routine dopo le vacanze, ad esempio.
Il ritorno descrive i percorsi in modo “circolare”, una ruota che fa la sua rivoluzione per tornare nella stessa situazione di prima, ma è davvero così? Tornando, ci troviamo a confrontarci con il nostro passato e a misurare quanto siano cambiate le cose nel frattempo, anche quanto siamo cambiati noi. Un’opportunità di riflessione e di crescita.

(Foto di Carlo Bavagnoli alla mostra fotografica “Costantino Nivola. Ritorno a Itaca”. )

Il Ritorno a Casa

Sicuramente il tipo di ritorno più comune. Possiamo esser stati lontani per poco tempo – come una giornata lavorativa – o per un periodo lungo, la girare la chiave nella serratura e poi aprire la porta è sempre associato ad un momento di emozione. E’ un’occasione per rivedere la luce ed il profumo del proprio posto, per rivedere amici e familiari, ma può portare con sé anche un senso di nostalgia e una riflessione su quanto siano cambiate le cose per come ce le ricordavamo.
Ma se il viaggio, la distanza è stata alquanto lunga, al ritorno a casa si possono notare differenze anche sulle strade della nostra città natale, la si può trovare più bella o più sporca, più frenetica, più piacevole da vivere a passare nei suoi locali e si può essere accompagnati dalla sensazione di confronto tra la persona che siamo diventati e quella che eravamo quando l’abbiamo lasciata. Perché forse a cambiare siamo stati noi.

Il Ritorno alla Routine

Il ritorno alla routine quotidiana dopo un periodo di pausa, come le vacanze estive, può essere un’esperienza altrettanto significativa.
Durante le vacanze, si “stacca la spina” dalla solita routine, e il ritorno alla normalità può suscitare sentimenti contrastanti.
Da un lato il ritorno alla routine può portare con sé un senso di stabilità e comfort, mentre dall’altro può anche farci riflettere su come impieghiamo il nostro tempo e se stiamo perseguendo ciò che è veramente importante per noi. Questo può spingerci a fare cambiamenti significativi nella nostra vita.

Il “ritorno” è un tema universale, che tocca la vita di ognuno di noi, che tutti noi abbiamo sperimentato.
E’ una bella opportunità per la riflessione, la crescita e il cambiamento. Se affrontato con apertura e consapevolezza, il ritorno può portare a nuove prospettive e a una maggiore comprensione di noi stessi e del mondo che ci circonda.

Forse il “ritorno” ci da l’idea di non avanzare davvero, ma forse non importa dove ci porterà questo viaggio, perché in ogni passaggio c’è un’esperienza che ci aiuta a crescere e a scoprire chi siamo veramente.

Come informatico call conference e meeting on-line sono da anni nel mio piano di lavoro quotidiano. Ci si incontrava con i colleghi che – in particolare nel fine settimana – tornavano verso città natale a trovare i genitori, ma continuavano a lavorare e, insieme, si valutavano gli avanzamenti, ci si incontrava con i fornitori, spesso, soprattutto se si trattava di aziende “dislocate” fuori dal territorio romano o, in genere, italiano. Con i Clienti questo approccio avveniva più di rado, perché “una stretta di mano” ha sempre una sua importanza e perché a volte “a quattr’occhi” ci si capisce meglio.


Poi con il 2020 tutto è cambiato.
Anche gli aperitivi tra amici sono diventati virtuali, le visite ai genitori e ai parenti sono state sostituite da video chiamate. Mancava il calore di un abbraccio, ma è vero anche che ha permesso di aumentare il numero delle “visite” e alle parole per telefono si è aggiunto anche il viso in “primo piano”. Anche le persone più in la con gli anni, si sono adattate e hanno trovato il modo di addentrarsi nel mondo virtuale. Quanti nonni impacciati, consigliati dai nipoti, nativi digitali.

(Immagine Creative Commons)

E cos’è accaduto al mondo del lavoro?

Microsoft ha recentemente condiviso alcuni numeri estratti dall’uso della piattaforma di videoconferenze e attività di lavoro Teams. Tra il 2021 e il 2022 le riunioni sono complessivamente aumentate di numero, ma sono diventate più brevi e occasionali, perché cambiata la finalità. Le riunioni rapide e senza ricorrenze sono diventate il 64% del totale. Riunioni da meno di 15 minuti sono diventate più del 60 per cento delle riunioni programmate sulla piattaforma, mentre quelle della durata di un’ora o più, sono diminuite di molto.

Sulla base dei numeri forniti da Microsoft si può vedere che le riunioni costituiscono praticamente un giorno alla settimana (7,5 ore di riunione sui 5 giorni lavorativi settimanali).

Il Wall Street Journal riassume il tutto in «Le riunioni possono essere le sabbie mobili della giornata di lavoro» in questo articolo uscito qualche giorno fa. E citando un sondaggio condotto su oltre 2.000 dipendenti riporta che dopo 15 minuti si perde l’attenzione e le riunioni che durano oltre l’ora (quelle dedicate allo Stato di Avanzamento dei Lavori) risultano essere meno produttive di quelle sotto questa soglia.

Fatta questa premessa, arrivo all’attualità.
Il ritorno in ufficio.
E sì perchè se Settembre è, in genere, il mese del ritorno in ufficio dopo la pausa estiva, dopo l’abbronzatura sulle spiagge o dopo le lunghe passeggiate in montagna, il Settembre di quest’anno è stato il mese del rientro in ufficio, in presenza. Si sono infatti ridotte drasticamente le ore di “Smart Work“, relegate ad essere al più 8 giorni al mese o proprio zero. Andare in ufficio è tornato ad essere normale. So che in molti se ne sono accorti dal traffico che si trova sulle strade di scorrimento, specificherei sul Raccordo e sulle “consolari” per chi come me vive nella capitale, dove gli incolonnamenti hanno raggiunto vette che non ricordo di aver vissuto prima.
Il piacere di rivedere i colleghi, di avere insieme una pausa caffè al bar o anche più modestamente alla “macchinetta”, ha preso lo spazio temporale che prima era dedicato alla cura del proprio animale domestico o alla lezione di yoga seguendo un corso on-line o anche solo a prendere le cose con più lentezza.

Vediamo le differenze sul nostro quotidiano: spendiamo più tempo nel traffico, ma penso si possa dire che le riunioni in presenza siano più produttive, anche se il numero dei “task” eseguite, il numero delle pratiche lavorate, è sostanzialmente aumentato di pochissimo. Sarebbe interessante chiedere a qualche specialista, uno psicologo o un sociologo, quali siano le realtà che si vedono con delle lenti più focalizzate a cogliere queste differenze.

Ma c’è chi non crede e non ha mai creduto al lavoro fuori delle mura dell’ufficio: Elon Musk. Il miliardario statunitense è stato sempre contrario all’uso dello SmartWork anche in piena autonomia. In quel momento ricordava che “As a basis for comparison, the risk of death from C19 is vastly less than the risk of death from driving your car home” – che posso tradurre come “Come base di confronto, il rischio di morte per Covid19 è molto meno che il rischio di morire guidando verso casa“.
Si potrebbe obiettare che in effetti aumentare il traffico veicolare, aumenta il rischio di incidenti mortali, ma sorvoliamo.

Dall’account Twitter di “Internal Tech Email

Questa frase la scrisse a Marzo del 2020 – mentre in Italia entravamo in Lockdown e ci riunchiudevamo in casa – mentre dopo due anni aggiunse che «Chiunque voglia fare smart working deve comunque essere in ufficio per almeno (sottolineo almeno) 40 ore la settimana, altrimenti lasci Tesla»
Evidentemente convinto che il detto italiano “L’occhio del padrone ingrassa il cavallo” aggiunse anche che «È il motivo per cui passo così tanto tempo in azienda […], se non l’avessi fatto SpaceX sarebbe andata in bancarotta già molto tempo fa», esortando così i suoi dirigenti: «Più è alto il vostro livello nell’azienda, e più la vostra presenza dovrà essere visibile»

Ma lavorare in mobilità, fuori dall’ufficio non è mai stato chiamato “comfortable work” – lavoro comodo – ma “smart work” – lavoro intelligente – perché cerca di coniugare il più possibile la produttività con la gestione del tempo non solo speso all’interno del posto di lavoro, ma anche al suo esterno. Ogni ora che non si perde nel traffico può essere impiegata per la cura dei propri cari, ad esempio. Secondo alcune stime si può parlare di 190 ore all’anno che si trascorrono all’interno dell’auto, nel traffico (questo a Roma, una delle medie più alte in Europa).

Da tutto questo direi che per trasformare lo “Smart Work” in un “Wise Work“, per renderlo saggio e non solo furbo, intelligente. Dobbiamo coniugare queste varie variabili: non impiegare tempo in riunione poco produttive e che – in fondo – ci fanno sbadigliare (e a videocamera spenta e microfono spento sono sicuro qualcosa l’abbiamo fatto tutti), cercare di coniugare al meglio il tempo personale con quello per il lavoro. Cercando di rimanere imbottigliati nel traffico il meno possibile.

Che siano buoni propositi per questo nuovo inizio.

Si racconta una storia molto carina su questa nave, su la nave più bella del mondo.

Era un giorno del luglio 1962. Mare aperto, nel Mediterraneo orientale, uno dei ragazzi sulla portaerei statunitense “USS Independence”, usa il lampeggiante e in codice morse – strumento desueto con un linguaggio desueto, per mandare una segnalazione alla nave che segue più o meno la stessa rotta a distanza. Di solito queste segnalazioni avvengono via radio e di solito vi è una dichiarazione sul “diritto di precedenza” sull’incrociare la rotta. Invece in quel giorno di Luglio del 1962, parte il messaggio: «Chi siete?». La risposta dall’altra nave: «Nave scuola Amerigo Vespucci, Marina Militare Italiana».
«Siete la più bella nave del mondo».

Ecco, la nave più bella del mondo è la Amerigo Vespucci.

Il motto di una nave è scritto in una targa che è accanto al timone, una frase che poi viene ripetuta negli “Hip Hip Hurrà” e nei saluti tra i cadetti. Quando fu varata – il 22 febbraio 1931, quasi 100 anni fa – la nave era accompagnata dal motto “Per la Patria e per il Re”, che fu cambiato, dopo la trasformazione dell’Italia in Repubblica, in “Saldi nella furia dei venti e degli eventi”.
Il primo Luglio di quest’anno la nave è tornata in mare aperto per fare il giro del mondo.
E un pò un viaggio intorno al mondo, me lo immagino un pò così, con la ciurma sempre concentrata nonostante le intemperie e le avversità.
Ma in realtà dal 1978, il motto della nave è diventato “Non chi comincia ma quel che persevera”.

Sintetica poesia di come si possano affrontare le difficoltà, di come si può prestare il viso a quei venti e quegli eventi, saldi, nella perseveranza del raggiungere il proprio risultato.

Ora, mentre scrivo, l’Amerigo Vespucci si trova a Pier Mauá, il porto porto di Rio de Janeiro, quasi pronta a partire alla volta di Buenos Aires. Verso quella terra e verso quei cittadini italiani che a Roma hanno regalato un faro – posto sul promontorio del Gianicolo – per dare la luce a tutti gli italiani.

Mi fa piacere seguire il percorso in questo viaggio che durerà più di un anno e mezzo – 20 mesi per la precisione.

Certamente Condi-Visioni non è propriamente il primo magazine ad occuparsi del concetto del “ritorno”. Tantissime persone prima di noi, tantissimi giornalisti prima di noi, tantissimi artisti prima di noi hanno affrontato questo tema, condividendo con gli ascoltatori, i lettori, gli spettatori le sensazioni e le riflessioni.
Da cinefilo, faccio un elenco di 10 film che hanno dato una loro chiave di lettura.

Forrest Gump” (1994) – Tutta la storia della vita di Forrest Gump ha inizio dal suo ritorno a Greenbow, sua città natale in Alabama, e mentre riflette sulla sua vita passata, nel suo modo candido, racconta la sua storia.

(Forrest Gump – 1994)

Il Padrino – Parte II” (1974) – Il sequel de “Il Padrino” di Francis Ford Coppola esplora il ritorno alle origini di Michael Corleone nella città di Corleone in Sicilia. Questo ritorno è una parte cruciale della trama e offre una prospettiva sul suo passato e sul suo futuro.

Into the Wild” (2007) – Il concetto del ritorno alla natura e alla semplicità è centrale nella trama. Basato su una storia vera, il film segue la vita di Christopher McCandless, un giovane che decide di abbandonare la sua vita precedente e intraprendere un viaggio attraverso l’America.

Big Fish – Le storie di una vita incredibile” (2003) – Una commedia drammatica di Tim Burton. Si seguono le vicende William Bloom mentre torna nella sua città natale per stare al fianco di suo padre morente. Il film esplora le dinamiche familiari e il concetto di ritorno.

Rain Man – L’uomo della pioggia” (1988) – Questo film diretto da Barry Levinson segue il personaggio di Tom Cruise, Charlie Babbitt, mentre intraprende un viaggio per riconnettersi con suo fratello autistico, Raymond, interpretato da Dustin Hoffman. Il ritorno di Charlie nel mondo di suo fratello porta a una profonda trasformazione nella sua vita.

Into the Woods” (2014) – Questo adattamento cinematografico del musical di Stephen Sondheim mescola le storie di diversi personaggi delle fiabe che intraprendono un viaggio per ottenere i loro desideri, ma alla fine devono affrontare le conseguenze dei loro atti mentre tornano alle loro vite quotidiane.

La Ricerca della Felicità” (2006) – Basato su una storia vera, questo film segue il viaggio di Chris Gardner, interpretato da Will Smith, un uomo senza casa che cerca di costruire una vita migliore per sé e suo figlio. Il suo ritorno alla stabilità finanziaria è un tema centrale nella trama.

Il Ritorno di Mary Poppins” (2018) – Questo sequel del classico Disney “Mary Poppins” vede il ritorno della tata magica, interpretata da Emily Blunt, alla famiglia Banks. Il film esplora come il ritorno di Mary Poppins influisce sulla vita dei protagonisti.

Un Giorno di Pioggia a New York” (2019) – In questo film scritto e diretto da Woody Allen, un giovane coppia interpretata da Timothée Chalamet e Elle Fanning torna a New York City per un fine settimana e si imbatte in avventure inaspettate mentre riflettono sulle loro vite.

Ritorno al Futuro” (1985) – Come potrebbe mancare questo film? Il giovane Marty McFly (il giovanissimo Michael J. Fox) torna indietro nel tempo con l’aiuto di un eccentrico scienziato, interpretato da Christopher Lloyd, e deve assicurarsi che i suoi genitori si incontrino per garantire il suo futuro.

Commedie, drammi, fantascienza, tante chiavi interpretative per raccontare il concetto del ritorno. Tanti spunti di riflessione, da vedere o – certamente – da rivedere.

L’altra parte del globo terrestre è sufficientemente lontano per non avere i problemi che attanagliano la nostra penisola? A quanto pare no. Anche in Argentina ci si interroga su cosa sia la Mafia e quali siano gli strati sociali che ne permettono il radicamento e la diffusione.

Riceviamo da Gabriele Paolo Smeriglio, che ringraziamo, una riflessione e una recensione del nuovo libro di Maria Soledad Balsas, e la pubblichiamo con molto entusiasmo.


Quanto merito ha chi dà il là a una nuova specifica linea di ricerca? Quanto vale reggere gli urti, pubblicare e – soprattutto – farsi leggere nonostante mercantilizzazione e monopoli della conoscenza? Secreto a voces. Mafias italianas y prensa en la Argentina di María Soledad Balsas è un’opera necessaria. Ha il coraggio di dar voce a un dibattito già esistente su uno degli elementi costitutivi dello Stato-nazione: le mafie. Allo stesso modo, si fa carico di un bel fardello perché decide trattare un argomento su cui in Argentina, come ammette la stessa autrice, diversamente da altri paesi del mondo anglosassone in cui vi è una consistente presenza di italiani e nelle cui università la storia delle mafie è spesso scientificamente trattata, si sa ancora molto poco. 

Al giorno d’oggi, scrivere di mafia e sulla mafia è arduo, soprattutto in un contesto in cui un’iperinflazione discorsiva ad essa dedicata rende difficile comprendere il significato stesso del termine. Balsas (2021) ne parla nel suo lavoro sulla copertura giornalistica delle mafie italiane in “Clarín” tra il 1997 e il 2020 in cui sostiene che la nozione di mafia non è sufficientemente delimitata nell’agenda pubblica locale e spesso finisce per essere banalizzata e assimilata a qualsiasi forma di clientelismo o corruzione. Balsas si prende l’onere di fare chiarezza, una responsabilità accentuata dal grande vuoto accademico sull’argomento in Argentina.

Parlare di mafia significa anche farsi dei nemici, evidenziare i limiti autoimposti di quei giornali a larga diffusione che, piaccia o no, esercitano un’influenza nei confronti di larghe fette della popolazione degli stati moderni. L’autrice, ha il merito di sviluppare coerentemente le tematiche promesse in sede di ricerca e, non meno rilevante, di non annoiare il lettore. Riesce a farlo mettendo insieme ingredienti fino a ieri studiati spesso solo singolarmente. Nel suo libro si riferisce all’esaltazione onnipresente della figura del mafioso come leader carismatico, portatore di un certo charme, protagonista assoluto del genere giornalistico della cronaca, soprattutto quella dei crimini violenti. Infatti, è spesso presente un fascino perverso legato a un modo di costruire la notizia che mette in risalto il male e l’illegalità a scopo di vendita. Cosa nostra risulta, secondo quanto appurato da Balsas, essere la più citata delle quattro espressioni territoriali mafiose, la sacra corona unita la meno usata. Tuttavia, l’etichetta “mafia” non è usata solo per riferirsi alla versione siciliana, ma è estesa in modo generico a tutte le altre. 

Alla base del lavoro di Balsas è fortemente presente una riflessione difficilmente non condivisibile. Ovvero, nell’epoca delle mafie globalizzate, risulta ingenuo, se non empiricamente falso e forse ideologicamente di parte, sostenere che le potenti organizzazioni criminali nate in Italia e proiettate nel mondo non abbiano riscontro nel Paese che ospita il maggior numero di italiani residenti fuori dall’Italia. Così come continuare a ritenere che i tre milioni di italiani arrivati in Argentina tra la metà dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del Novecento, a cui si aggiungono i flussi più recenti, abbiano portato con sé solo capitali e conoscenza all’arricchimento del Paese. Una revisione critica di questi temi non può, ad avviso dell’autrice, evitare di interrogarsi sull’identità in Argentina, né può ignorare un’analisi delle condizioni sociali, politiche e culturali attraverso le quali il negazionismo mafioso è diventato egemone.

Premesso ciò, generare dati scientificamente validi sulle mafie italiane in Argentina non è certo un compito facile. Oltre alla scarsità di ricerche di base, vi è una carenza di fonti di informazione affidabili a causa della natura sfuggente dell’argomento. Secondo Balsas, gli sviluppi presentati dal libro sarebbero di interesse non solo nel campo specifico della ricerca sulla comunicazione come disciplina scientifica, ma potrebbero essere potenzialmente utili anche per altre aree di conoscenza correlate. Il giornale è portatore sano di un potenziale comunicativo che va ben oltre il significato grafico. Gli articoli non vanno semplicemente letti e le immagini osservate. Il messaggio, infatti, non inizia e finisce lì, ma deve presupporre una comunicazione preliminare, se non un vero e proprio repertorio di conoscenze condivise.

L’analisi, corpo centrale dell’opera di Balsas si basa su tre casi giornalistici. Il percorso proposto, come afferma l’autrice, non è certamente esaustivo, ma all’interno di esso ognuno dei tre casi costituisce una delle tre tappe fondamentali che, per azione o per omissione, hanno contribuito a modellare l’attuale immaginario mafioso del Paese. L’attenzione al framing, definito come l’insieme dei principi cognitivi culturalmente condivisi che agiscono a livello simbolico nella strutturazione significativa del mondo sociale, è molto rilevante in questo contesto. Tale approccio cerca di spiegare l’interpretazione di una situazione inedita presentata dai media in relazione alle cognizioni pregresse del pubblico. Come ricorda Balsas, se è vero che la statura morale di un organo di informazione è percepita tanto o più da ciò che omette che da ciò che pubblica è quindi necessario prestare attenzione sia ai modi in cui si racconta, sia a ciò che non si può o non si vuole raccontare, e persino a ciò che si racconta senza volerlo. È il caso, aggiunge, anche del concetto di agenda cutting, che si riferisce a questioni che non attirano l’attenzione a causa della scarsa o nulla copertura mediatica, dovuta a restrizioni di spazio, pressioni interne e/o esterne o pregiudizi del giornalista. L’omissione, la mancata copertura o il trattamento volutamente subordinato o penalizzato di specifici eventi, oggetti o persone da parte della stampa avrebbero effetti cognitivi, cumulativi e radicati nel tempo, che incidono sui sistemi di conoscenza che il pubblico struttura in modo duraturo.

Il lavoro d’archivio alla base del lavoro di ricerca di Balsas è stato caratterizzato dalla disponibilità di fonti presso l’Hemeroteca de la Biblioteca Nacional de la República Argentina. In generale, è stata privilegiata la traduzione dei testi italiani nella trascrizione letterale in lingua originale per la stessa ragione per cui è stato scelto uno stile più vicino al saggio che alla monografia accademica, ovvero ampliare il pubblico a cui il lavoro si rivolge. Nella prima sezione si propone un’analisi comparativa di tre giornali in lingua italiana – “L’Italia del Popolo”, “La Nuova Patria” e “Il Mattino d’Italia” – pubblicati a Buenos Aires nella prima metà del Novecento in relazione al caso Ayerza, con l’obiettivo di problematizzarne le posizioni politico-editoriali. In questo modo, Balsas cerca di offrire nuovi spunti allo studio del rapporto tra mafie italiane e media in Argentina con riferimento a un caso emblematico, già studiato in relazione alla stampa argentina.

Il secondo capitolo si occupata della recensione del film La Maffia, di Leopoldo Torre Nilsson, da parte della stampa argentina, apparsa nei supplementi dedicati allo spettacolo di “Clarín”, “La Razón” e “La Prensa” il giorno successivo alla prima a Buenos Aires. Successivamente, Balsas esamina la definizione del frame utilizzato per presentare il caso ne “L’Eco dei Calabresi”, senza trascurare la sua ripercussione ne “La Nación”. Infine, problematizza la discussione sulla presentazione degli interessi della comunità italiana e calabrese a partire dagli elementi interpretativi messi in campo ne “L’Eco d’Italia”.

Infine, l’autrice riflette sul modo in cui la Strage di Capaci, in cui il giudice Giovanni Falcone, la moglie e le sue guardie del corpo furono assassinati per ordine della mafia il 23 maggio 1992, fu riportata dai giornali “Clarín” e “La Nación”. Balsas si chiede in che modo la stampa nazionale argentina elaborò l’evento che segnò una svolta nella storia della lotta antimafia in Italia; quale importanza gli fu data; quali frame furono utilizzati nella presentazione della notizia. In contrapposizione, sulla sponda italiana, Balsas analizza sono le caratteristiche del trattamento dell’eventi nella stampa di lingua italiana in Argentina.

Dal primo capitolo si apprende come tra la fine del 1932 e l’inizio del 1933 l’opinione pubblica argentina fu scossa dal rapimento e dal successivo omicidio di Abel Ayerza. Questi fu rapito il 23 ottobre 1932 a Corral de Bustos, nel sud-est della provincia di Córdoba, mentre si trovava in vacanza in una tenuta di Marcos Juárez con alcuni amici. La famiglia Ayerza pagò il riscatto richiesto dal clan di Giovanni Galiffi poco dopo il rapimento, ma a quel punto Ayerza era già morto, fu assassinato il 1° novembre 1932. Dalle ricerche dell’autrice si evince che il caso provocò la mobilitazione di alcuni settori della destra nazionalista che, sulla base della provenienza dei responsabili, manifestarono il loro biasimo per una migrazione che definivano indesiderata. In termini generali, afferma Balsas, la stampa argentina, che aveva sperimentato una strutturale mancanza di esperienza e di conoscenza nella definizione dei termini simbolici degli eventi mafiosi fin da quando questi cominciarono a essere rilevati in alcune aree urbane verso la fine del XIX secolo, nel trattare il caso fu permeabile al modello cinematografico allora diffuso nel giornalismo di polizia. 

Le vicende del caso Ayerza furono al centro di un’intensa trattazione giornalistica in cui, si legge nel capitolo, sono identificabili due diversi regimi simbolici che fanno riferimento, rispettivamente, all’esecutore ideologico del crimine, Giovanni Galiffi, e agli artefici materiali della sua esecuzione, Giovanni Vinti e i fratelli Di Grado. La figura di Galiffi, fondata sul suo percorso migratorio dalla Sicilia per diventare un self-made man di successo nel luogo di approdo, fu costruita dalla stampa argentina secondo i parametri dell’immaginario gangsteristico degli anni Trenta, basato sulla cura dell’immagine pubblica e sulle articolate connessioni politiche. L’angoscia straziante della devota madre di Ayerza rappresentò la chiave di volta e attivò immagini ancestrali piene di risonanze religiose sulla maternità, sull’amore materno e sul vincolo matrimoniale.

La teoria criminologica dell’epoca e citata nel libro forniva strumenti e conoscenze che presupponevano che le caratteristiche biologiche o psicologiche di un individuo fossero la fonte e la conseguenza del suo destino di criminale. Grazie a queste procedure, attivisti politici, criminali comuni e mafiosi vennero indistintamente etichettati come “nemici della nazione”. La forte presenza di fonti storiche nel corso della lettura del capitolo argomenta che tra il 1932 e il 1936 la polizia espulse centinaia di “indesiderabili”, accusati di militanza comunista e anarchica, o di coinvolgimento nella criminalità organizzata. Le espulsioni, inoltre, proseguirono per tutto il decennio, legate all’attività di rappresaglia nei confronti del comunismo e della militanza antifascista.

Come ricostruisce Balsas, a Buenos Aires l’importanza della stampa italiana era già stata dimostrata nel censimento municipale del 1887, quando i giornali italiani di Buenos Aires stampavano 20.000 copie al giorno, mentre dei 65 giornali stranieri pubblicati a Buenos Aires nel 1896, 22 erano italiani. I periodici non solo riportavano gli avvenimenti del Paese d’origine e gli eventi nazionali, ma fornivano anche assistenza e consigli ai migranti. Nel grande panorama della stampa italiana in Argentina, si distinguevano “La Patria degli Italiani”, “Il Mattino d’Italia” e “L’Italia del Popolo” per la continuità raggiunta durante il periodo fascista e per il livello di distribuzione raggiunto. “L’Italia del Popolo” trattò il caso Ayerza a partire dal 25 ottobre 1932.

A riprova dell’attenzione posta dall’autrice a storia e teorie sulle mafie si argomenta che prima che un’organizzazione criminale su base etnica, la mafia sembrava esprimere uno stile di vita maschile ai margini di un’urbanità pericolosa e feroce, segnata dalla miseria. Tuttavia, il caso Ayerza si distacca da una certa predeterminazione della criminalità mafiosa che aveva pervaso la storia fino a quel momento. È infatti ambientato in zone rurali, coinvolge sia uomini che donne di origine italiana, e le sue vittime non sono più cittadini anonimi.

Accanto ai temi presenti nella stampa argentina, ne emergono altri nuovi, che riflettono non solo il diffuso sentimento anti-italiano, ma anche e soprattutto le differenze ideologiche all’interno della comunità italiana in Argentina. Se l’offesa e l’apporto economico dell’emigrazione italiana in Argentina fungono da frame, ciò che viene conteso è la auto-assunta difesa dell’onore degli italiani all’estero da parte delle autorità e, di riflesso, della stampa fascista, in particolare “Il Giornale d’Italia” e “Il Mattino d’Italia”. Per quanto riguarda il trattamento dell’informazione, anche nella stampa argentina si può osservare una certa tendenza alla spettacolarizzazione. Questo sistema di definizione delle notizie mirerebbe ad attirare l’attenzione del pubblico e suscita un’attenzione emotiva. L’uso di caratteri grafici in maiuscolo, così come la scelta di titoli altisonanti per attirare l’interesse del lettore, sono un’ulteriore prova di un modo sensazionalista di concepire le notizie.

Balsas non manca di descrivere brevemente l’origine delle organizzazioni mafiose più diffuse in Italia. Iniziando con la camorra, prima formazione mafiosa conosciuta e presente sulla scena criminale di Napoli. Si trattava di un fenomeno urbano che riuniva i settori che speculavano sulla ricchezza prodotta dal lavoro agricolo, dal furto di bestiame, dalla sorveglianza della proprietà terriera altrui e dall’estorsione del commercio. Inoltre, aggiunge che è opinione comune che la mafia siciliana sia nata dopo l’unità d’Italia. Diversamente dalla camorra napoletana, questa era prevalentemente agricola. La sua attività si concentrava nelle pianure irrigue coltivate a frutta intorno a Palermo, nelle aree minerarie sulfuree del centro-sud e nei grandi latifondi dell’entroterra. Nella Sicilia della seconda metà dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, i grandi proprietari terrieri avevano al loro servizio le guardie mafiose, che con la loro presenza fisica sui terreni non solo garantivano la protezione contro gli atti di banditismo o di rapina e mantenevano la disciplina tra i contadini, osteggiando le loro pretese e assurgendo al contempo al compito di punire i più ribelli, che non volevano piegarsi. Da allora, le prospettive di alcuni gruppi mafiosi si sono internazionalizzate, grazie alle opportunità fornite dal mercato nero e dal contrabbando. 

Per Gambetta (1992), la data più plausibile per l’origine della mafia è il 1812, quando in Sicilia iniziò la dissoluzione del feudalesimo, e nel 1860-61 probabilmente erano già state gettate le basi di questa industria. I cambiamenti indotti nella proprietà terriera dalle riforme politiche introdotte tra il 1860 e il 1885 con l’estensione della democrazia e quando la politica locale si mescolò alle tensioni preesistenti, diedero un nuovo impulso ai “protettori” di professione, allargandone anche gli orizzonti.

Sulla la mafia calabrese, l’autrice afferma che essa sembra essere emersa all’incirca nello stesso periodo dei carbonari e strutturata secondo le stesse linee, poiché il suo modello e il suo rituale sono ancora massonici. La ‘ndrangheta possiede una struttura improntata ai rapporti di parentela dei capobastone, che è stata centrale per prevenire la collaborazione con la giustizia dei suoi membri. Uno dei suoi punti di forza rispetto alle altre organizzazioni mafiose è stata la strategia di diversificazione geografica. Infine, la sacra corona unita rappresenta la più recente delle quattro organizzazioni mafiose classiche italiane. Emersa in risposta alla crescente diffusione territoriale di organizzazioni mafiose provenienti da regioni vicine.

L’autrice afferma che lo studio del trattamento del caso Ayerza nella stampa etnica italiana a Buenos Aires mostra che l’importanza attribuita al caso non è univoca. Tuttavia, data la parzialità delle fonti consultate, non risulta possibile tracciare un quadro esaustivo della questione. Più che da un’origine nazionale condivisa, essa sembra essere determinata dalla posizione politico-editoriale assunta in ciascun caso analizzato. Mentre l’antifascista “L’Italia del Popolo” dedicò più spazio ai dettagli del caso per un periodo di tempo più lungo, la copertura de “La Nuova Patria”, che utilizzava l’ironia come arma principale, era funzionale a un negazionismo patriottico che cercava di sottrarsi alle accuse xenofobe che vogliono associare l’italianità alla mafia. Con uno stile più surrettizio, “Il Mattino d’Italia” denunciò il sensazionalismo e negò per omissione la relazione tra mafia e italianità.

A partire da questi risultati, apprendiamo, leggendo i risultati della ricerca dell’autrice, che è possibile stabilire che la stampa italiana in Argentina non sia riuscita a definire, nel contesto del caso Ayerza, un discorso coerente e strutturato in grado di informare i dibattiti pubblici sulla mafia italiana in Argentina e di proporsi come alternativa all’autoritarismo dominante, sia in Argentina che in Italia. Di conseguenza, conclude l’autrice, furono gettate le basi per un patto xenofobo, da parte argentina, e negazionista, da parte italiana, che, nella misura in cui concorreva a (ri)creare il mito fondante della migrazione italiana in Argentina in termini esclusivamente positivi sembra aver fatto comodo a entrambe le parti in causa.

Il secondo capitolo è egemonizzato dalla pellicola La Maffia, di Leopoldo Torre Nilsson, che uscì il 29 marzo 1972 nei cinema di Buenos Aires, dopo essere stato proiettata nella città di Rosario. Il film, ci ricorda l’autrice, rievocava la storia della mafia in Argentina nella prima metà del XX secolo. Nello stesso periodo, il direttore de “L’Eco dei Calabresi” presentò reclamo alle autorità giudiziarie locali per impedire la proiezione del film nel circuito ufficiale e per rimuovere due scene con riferimenti all’origine calabrese dei membri fittizi di una banda mafiosa situata a Rosario. Sebbene la richiesta non fu accolta, l’evento divise la stampa, sia nazionale che etnica, e fu commentato anche dalla stampa calabrese. In questo capitolo l’autrice intende proseguire sulla linea avviata nel capitolo precedente, attraverso la problematizzazione dei dibattiti sollevati dalla stampa locale – sia argentina che italiana – sul caso.

In generale, come anche il lavoro di Balsas conferma, parlare di mafie vende (Mangiameli, 2016) e parlare di cinema di mafia vende ancora di più. Inoltre, il continuo ricorso a figure di origine cinematografica non è casuale. Santoro (2007) si preoccupa di cogliere la tensione tra la necessità di costruire l’identità e il continuo e costante controllo e regolazione dei flussi comunicativi. Così la mafia, intesa come sottocultura, non è necessariamente riconducibile a una precisa categoria sociale, né a una comunità organizzata, ma dipende da una serie di credenze e pratiche. Le testimonianze giudiziarie, infatti, mostrano come sia proprio attraverso il contatto culturale generato da reti sovrapposte e mediato da scambi di informazioni, in generale da modelli cognitivi e simbolici, che le organizzazioni si sono formate e perdurano. Le organizzazioni mafiose si sono formate e durano.

Il film La Maffia fu pubblicizzato sui principali quotidiani nazionali. Il risalto riservato dalla stampa si tradusse non solo in consistenti spazi pubblicitari, ma anche in una decina di recensioni, cronache e commenti corredati da ritratti di attori e attrici, fotografie della prima serata e scene del lungometraggio. Nel complesso, la critica nazionale accolse con favore la proposta di Torre Nilsson sulle origini della mafia nel Paese. La scelta di ambientare la storia nel passato favorisce l’emergere del suo carattere inventivo, illuminando la dimensione immaginaria.  Anche “La Prensa”, da parte sua, si rallegrò del successo del film all’indomani della prima, un’attitudine che si rifletteva nella scelta di aggettivi e sostantivi che testimoniavano una valutazione positiva del lavoro tecnico del team di produzione del film. “La Razón” sottolineò l’originalità e l’attualità del film nel panorama cinematografico locale.

In tutti i casi, sottolinea Balsas, viene elogiata la bellezza e la sensualità della figura femminile interpretata da Thelma Biral. Come nei film di mafia italiani, anche qui la donna, sia come figlia che come amante, costituisce il punto debole dei protagonisti maschili, la cui virilità è pensata in base alla loro visione del mondo femminile. Eredità di una doppia morale di ispirazione cattolica secondo la quale in privato tutto è permesso mentre in pubblico bisogna mostrarsi irreprensibili.

Pochi giorni dopo la prima de La Maffia, “L’Eco dei Calabresi” pubblicò un editoriale firmato dal suo direttore Pasquale Caligiuri, calabrese di nascita ed emigrato in Argentina nel 1926. Come argomenta Balsas, dalla catena semantica offesa-disprezzo-insulto il frame utilizzato nell’editoriale di Caligiuri attivò il sentimento calabrofobico denunciato dalla stampa italiana in Argentina, in primis nel 1887 da “La Patria degli Italiani”. Il danno percepito provocato dalla diffusione di un’immagine negativa della calabresità in Argentina è mitigato da due principali strategie discorsive. Se da una parte si esagera il contributo culturale, scientifico e commerciale di personaggi calabresi di spicco, dall’altra si invoca la presunta mancanza di conoscenza della lingua italiana.

Varie fonti, argomenta Balsas, riportano la presenza di mafiosi in Argentina negli anni precedenti. Ad esempio, Tommaso Buscetta era emigrato in Argentina con la famiglia nel 1949, dopo essersi unito alla famiglia palermitana di Porta Nuova. Rientrò nel Paese nel 1955, questa volta clandestinamente. Rientrato in Sicilia dopo la seconda esperienza migratoria in Sudamerica, incontrò Lucky Luciano che nel 1946 aveva ottenuto l’autorizzazione a emigrare in Argentina.

Nel corso del capitolo si legge anche che è possibile considerare i dati come un “riflesso” della realtà solo quando la trama narrativa si colloca in geografie e situazioni quotidiane riconoscibili. Ed è forse per questo che, dice l’autrice, pur non essendo l’unico film di mafia destinato a diventare un classico ad essere proiettato nel 1972 a Buenos Aires, La Maffia di Torre Nilsson si rivelò così polemico. Il caso riporta in auge le controversie sull’identità argentina che si sono verificate a partire dalla fine del XIX secolo. Interpretazioni contrastanti del film divisero non solo la stampa argentina ma anche quella etnica, rivelando le lotte interne sulla rappresentazione degli interessi della collettività, che secondo Balsas è ben lungi dall’essere un insieme omogeneo. Le pretese realistiche e documentarie attribuite al film sembrano essere state fondamentali per consolidare l’immaginario della mafia in Argentina come un fatto del passato. Non si può fare a meno di osservare, sottolinea l’autrice, che questo ritorno al passato avviene proprio in un frangente che coincide con l’espansione “imprenditoriale”, a livello internazionale, delle mafie italiane. 

Elemento che non risulta sorprendente in quanto la mafia è parte integrante della classe dirigente, dello Stato, dell’economia capitalista in generale. La sua punta più avanzata si trova in tutti i settori della società: nelle istituzioni, nell’alta finanza, nel terziario e nell’agricoltura. La specifica evoluzione storica, economica e sociale del Sud Italia, che oggi si traduce in deindustrializzazione e sottosviluppo, insieme alle frequenti iniezioni di denaro pubblico ufficialmente destinato, ad esempio, alle campagne elettorali e alle elezioni, hanno trasformato le mafie nell’equivalente di società per azioni, multinazionali armate che investono liberamente in vaste aree del pianeta. Oggi, come detto, le mafie hanno aumentato notevolmente la loro influenza nella dimensione politica ed economica transnazionale.

L’ultimo capitolo parte da una data: il 23 maggio 1992, quando il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e tre delle sue guardie del corpo furono assassinati mentre viaggiavano in auto sull’autostrada dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo. Mesi prima di essere ucciso Falcone si era recato in Argentina. Più fonti – sia argentine che italiane –, afferma Balsas, concordano nell’indicare un suo breve soggiorno a Buenos Aires intorno alla metà del 1991. Tenuto conto della connotazione locale delle connessioni mafiose internazionali su cui Falcone stava indagando nel periodo dell’attentato che gli è costato la vita, nonché della circostanza recente del suo viaggio in Argentina e delle ripercussioni mondiali della notizia della sua morte, secondo Balsas, è di grande interesse analizzare la copertura data dalla stampa nazionale argentina – “Clarín” e “La Nación” – a un evento che ha segnato una svolta nella lotta alla mafia in Italia. Balsas riflette su come si posizionò la stampa etnica di fronte a questa copertura giornalistica.

Non sembrano esserci studi scientifici che facciano luce sul viaggio di Falcone in Argentina come sulle modalità con cui la stampa nazionale ha elaborato la notizia della sua morte. Tuttavia, come dettagliatamente ricostruisce il libro oggetto della presente recensione, fonti giornalistiche, istituzionali e autobiografiche documentano il suo viaggio in Argentina. All’inizio dello stesso anno, il direttore del Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (SISDE), prefetto Angelo Finocchiaro, evidenziò nel corso di un’audizione parlamentare la partecipazione del giudice Giovanni Falcone a un evento tenutosi a Buenos Aires nell’ambito della cooperazione giudiziaria e di polizia. Questo coincide con le memorie recentemente pubblicate dell’ex giudice italiano Ilda Boccassini, che sostiene di aver accompagnato Falcone nel suo viaggio in Argentina.

L’interesse mostrato dai due giornali a maggiore diffusione in Argentina per la tragedia di Capaci non fu uniforme. Secondo l’autrice, il valore attribuito a una notizia è interpretabile in termini di scoop e spettacolarità, di prima pagina e di immagine di grande risonanza, di impatto e di ripercussione sullo spazio pubblico, sulla società e sul potere. Pertanto, se prendiamo in considerazione i criteri che determinano la notiziabilità di un evento, l’omissione di “Clarín” in prima pagina, una sfera di attenzione privilegiata che esprime il contratto di lettura di un giornale, è teoricamente inspiegabile.

Una riflessione che inizia a riordinare considerazioni di carattere conclusivo sul lavoro parte da ciò che viene chiamata catastrofe globale, ovvero l’evento di cronaca per eccellenza. Nello, specifico, visto l’argomento principale, le esplosioni sono descritte da Balsas come rilevanti perché rappresentano il manifestarsi di un allarme nella società, di ciò che non ci si attendeva, di ciò che non doveva accadere. La prossimità geografica, culturale, di classe determina la familiarità dell’evento per definirne la potenziale gravità. Vista la consistente presenza di italiani in Argentina, così come la storia di cooperazione giudiziaria e di polizia tra i due Paesi e la recente visita di Falcone in Argentina, questa assenza per l’autrice è determinante nella costruzione dell’agenda giornalistica del giornale, che gradualmente deposita una lettura della mafia come fenomeno estraneo alla realtà socio-politica nazionale. Questa forma di negazione potrebbe essere interpretata, in definitiva, in termini di paura di reagire all’imponderabile che sfugge al controllo sociale, dove le regole sono deviate. Partendo dal presupposto che i media confezionano un quadro interpretativo che filtra la percezione della realtà, definisce le questioni su cui si deve formare un’opinione e la relativa gerarchia, e che il pubblico si orienta a dare importanza agli argomenti, alle persone e agli eventi a cui i media danno più spazio e più risalto il modo in cui è stato trattato marginalmente il caso Falcone è significativo.

Balsas, inoltre, mettendo mani ai proprii strumenti di ricercatrice evidenzia come tra il 25 e il 29 maggio 1992, “Clarín” dedicò meno di sei pagine a seguire gli eventi di Capaci nella sezione “Internazionale”. Il 28 maggio 1992, “Clarín” si soffermò sui possibili legami internazionali dell’attentato, indicando l’ex Partito Comunista dell’URSS. D’altra parte, l’interesse de “La Nación” si rese evidente fin dalla prima pagina del 24 maggio 1992. L’esplosione come evento di cronaca fu riconosciuta dalla centralità dello spazio ad essa dedicato, modo sensazionalistico di intendere la notizia. Nella figura del “cacciatore”, per riferirsi a Falcone, la mafia fu poi associata a una certa idea di animalità, già riscontrabile nella stampa etnica della prima metà del XX secolo. Il 27 maggio 1992, “La Nación” citò il quotidiano russo Izvestia in un breve articolo della sezione Esteri per parlare dei supposti legami dell’ex Partito Comunista dell’URSS con la mafia e dei suoi investimenti politici in Italia. L’autrice si chiede, in definitiva, come la stampa argentina di lingua italiana descrisse i fatti di Capaci. “Tribuna Italiana” giornale bilingue della comunità italiana in Argentina nel 1992 aveva una cadenza quindicinale. Per questo motivo la notizia dell’attentato di Capaci fu inserita solo nell’edizione del 3 giugno. Pur essendo una storia di copertina, non venne messa particolarmente messa in risalto. Nell’edizione pubblicata successivamente, quella del 17 giugno, una nota enfatizzò l’azione repressiva della mafia da parte dello Stato attraverso l’uso forzato aggettivi qualificativi.

Benché l’azione degli organi giuridici e di polizia viene esaltata come principale destinataria e portatrice di importanza e responsabilità nella lotta alle mafie. Sebbene non manchino i proclami governativi, a tutti i livelli, sulla lotta alla criminalità organizzata e all’infiltrazione delle istituzioni da parte delle mafie, la pratica mostra una totale indisponibilità da parte dei massimi rappresentanti dello Stato a farlo. Invece di attuare piani di sviluppo, occupazione e industrializzazione per il Mezzogiorno e di affrontare realmente la questione meridionale, spesso si sceglie di “salvare” le periferie attraverso la gentrificazione e la militarizzazione del territorio. In questo modo, l’alternativa alla disoccupazione continuerà spesso a essere il reclutamento nelle file delle organizzazioni criminali, che inevitabilmente aumenteranno il loro potere economico e il loro radicamento sul territorio.

La cultura in generale e la cultura mafiosa in particolare sono complessi depositi o repertori di discorsi, definizioni, orientamenti, codici, a cui gli attori sociali attingono e interpretano continuamente. In particolare, si tratta di estendere il campo di studio alle rappresentazioni della mafia, alle immagini che circolano non solo nei media, ma anche tra gli attori che operano nel mondo della mafia commerciale. Ne parla impeccabilmente Balsas nominando pizzerie e ristoranti, ma anche negozi di abbigliamento, gelaterie, parrucchieri, officine e aziende di logistica, in tutta l’Argentina, che mostrano attraverso le proprie insegne i prestiti lessicali che rendono visibile la cultura mafiosa. Oltre a programmi radiotelevisivi, pubblicità, videoclip, film e concerti. Un’inflazione discorsiva basata su un termine generico che può far riferimento a qualsiasi fenomeno di macrocriminalità.

In altre parole, simboli mafiosi sfruttati e utilizzati dai produttori culturali come emblemi di una particolare “cultura esotica”. I mafiosi sono anche utilizzatori, produttori e, naturalmente, manipolatori di simboli, una produzione simbolica che non è necessariamente una creazione individuale o volontaria, ma è spesso collettiva e incondizionata, un processo di ri-creazione, che come tale produce valori vincolanti per i membri di una sottocultura. L’obiettivo è quindi quello di mostrare il potenziale di un’analisi culturale della mafia che enfatizzi l’idea di “circolarità” dell’identità e delle rappresentazioni del mafioso. È l’idea che i simboli possano tornare circolarmente ad agire sulle identità che li hanno originariamente prodotti, dopo essere stati fatti propri da altri per casi diversi, distaccandosi sempre più dalle forme sociali che li hanno prodotti, per essere ri-significati in altri contesti (Santoro, 2007).

Non mancano, inoltre, esempi in cui la mafia viene assunta come argomentazione per attaccare l’avversario nel confronto politico. L’autrice fa riferimento a un caso che toccò il governatore della provincia di Buenos Aires, Axel Kicillof nel marzo del 2021; alle presidenziali del 2019, quando le mafie ebbero un ruolo di primo piano nella campagna elettorale di “Juntos por el cambio”, il partito di governo guidato da Mauricio Macri e al febbraio 2020, quando, a margine della presentazione dei un suo libro alla fiera del libro dell’Avana, a Cuba, la protagonista fu Cristina Fernández. Per ultimo, vengono menzionati da Balsas anche i rappresentanti degli italiani residenti nella sezione sudamericana della circoscrizione Estero del Parlamento italiano, i quali fecero riferimento a uno degli argomenti principali della campagna elettorale denunciando la gestione “mafiosa” delle pratiche necessarie per conseguire la cittadinanza italiana da parte degli italo-argentini.

Balsas chiude ponendo un monito ai lettori. (Si) Chiede se esistono davvero le mafie italiane in Argentina, se si tratta di un fatto del passato o se la loro presenza si estende ai giorni nostri. Le risposte che dà a queste domande sembrano dipendere essenzialmente da cosa si intende per mafia e da quali caratteristiche le si riconoscono. A questo proposito, ricorda che “mafia” e “criminalità organizzata” non sono concetti intercambiabili, anche se talvolta possono essere considerati sinonimi.

Risulta interessante riscontrare che dall’analisi delle testimonianze analizzate emerge l’immagine di un presente sicuro, scevro da presenze mafiose, in antitesi a quella di un passato criminale. A questo proposito, secondo l’autrice, il problema non può essere affrontato esclusivamente nell’ambito della competenza sociale dei mass media. A tal fine, è auspicabile che il mondo accademico si assuma la propria responsabilità sociale in relazione alla questione, poiché solo la scienza può mettere ordine tra ciò che oggettivamente è e ciò che potrebbe essere. Spesso si tratta, invero, proprio della differenza che intercorre tra un articolo di giornale e una pubblicazione scientifica. Riprendendo un concetto espresso da Balsas nel suo libro, nella fattispecie dello studio delle mafie italiane in Argentina, la stampa si presenta come una preziosa chiave di accesso.

Le ultime pagine del libro sono dedicate anche alle origini calabresi dell’autrice e a quanto sia importante allargare lo spettro il più possibile e promuovere una conversazione sociale su un tema scomodo, spesso legato a culture di paura e silenzio. Il libro continua, sino alla sua conclusione, a por(si)re domande, ennesima riprova di quanto esso rappresenti un lavoro necessario e coraggioso, una base scientifica solida per ciò che verrà.

Referencias

Balsas, M. S. (2021). «El país que no miramos». Las mafias italianas según Clarín (1997-2020). Estudios sobre el Mensaje Periodístico, 27 (4): 1035-1042.

Gambetta, D. (1992). La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata. Torino: Einaudi.

Mangiameli, R. (2016). In guerra con la storia: La mafia al cinema e altri racconti. Meridiana, 87: 231-243.Santoro, M. (2007). La voce del padrino. Verona: Ombre corte.

Un evento sportivo amatoriale aperto a tutti, per sensibilizzare e raccogliere fondi per la ricerca sui sarcomi dei tessuti molli. È la SarcRace, la prima corsa o passeggiata campestre benefica organizzata a Roma per le patologie tumorali rare.

L’appuntamento è domenica 18 settembre 2022, con partenza alle 10,00 da via Àlvaro del Portillo, 5, sede del CESA, Centro per la Salute dell’Anziano della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico. Il percorso si svolge all’interno della Riserva naturale di Decima Malafede lungo un tragitto di 5 km. Al termine della manifestazione sportiva è prevista una cerimonia di premiazione, alla quale seguirà un piccolo ristoro offerto dagli sponsor. Ospiti d’onore saranno l’attore Raoul Bova ed il giornalista Filippo Roma che, con la loro presenza, sosterranno le persone affette da sarcomi dei tessuti molli.

SarcRace è organizzata grazie al patrocinio del Municipio IX di Roma Capitale e della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico e realizzata grazie all’Associazione Sarknos.

Le iscrizioni sono aperte al costo di 10 euro, cifra che verrà interamente devoluta per attività di ricerca. Per info e iscrizioni: sarcrace@sarknos.it

Sarknos: la rete per chi è affetto da sarcoma. Sarknos è un’associazione benefica di medici e pazienti, nata per sostenere e supportare le persone affette dai sarcomi dei tessuti molli durante il percorso di diagnosi, spesso lungo, complesso e impegnativo, dal punto di vista fisico ed emotivo. Fondata il 26 marzo 2022 su iniziativa del dott. Sergio Valeri – Responsabile dell’Unità Operativa di Chirurgia dei Sarcomi dei Tessuti Molli presso la Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma – e di un gruppo di pazienti e medici, spinti dal desiderio di voler creare una rete di contatto e unione per quanti sono affetti da questa forma di tumore dalla complessa gestione clinica e per i loro familiari.

La Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, che ospita la sede legale dell’associazione, ha accolto la sua nascita stipulando una convenzione. L’accordo ha l’obiettivo di promuovere l’associazione patrocinandone le attività e supportandone le iniziative. Sarknos sostiene la ricerca scientifica grazie all’organizzazione di eventi di informazione aperti a tutti. Inoltre, favorisce l’incontro e il confronto tra pazienti, familiari e personale sanitario e promuove la socialità, per far nascere idee e stimoli dalle esperienze comuni, abbattendo le barriere dell’isolamento e della paura. Tra i suoi obiettivi, inoltre, c’è quello di sensibilizzare i professionisti sanitari presenti sul territorio in merito all’importanza di un corretto percorso diagnostico e terapeutico, diffondendo la conoscenza dell’Ambulatorio per la Chirurgia dei Sarcomi e contribuendo a garantire un’adeguata presa in carico alle persone con una nuova diagnosi di sarcoma dei tessuti molli, con l’obiettivo di superare gli ostacoli che si frappongono all’accesso al miglior trattamento possibile.

I cambiamenti a volte possono essere inaspettati o a volte possono essere desiderati, possono essere sfide che sembrano insormontabili o possono essere gradini da salire (o da scendere). Ci possiamo sentire persi e disorientati o invece pieni di energie e motivati ad andare avanti.
Può cambiare il terreno sul quale muoviamo i nostri passi, può cambiare il tracciato che stavamo seguendo o che stavamo creando, ma il percorso non si interrompe.

La metafora del “percorso” ci ricorda che la vita è un viaggio, un’esperienza continua di crescita, apprendimento e cambiamento. Nonostante i nostri piani possano essere sconvolti da eventi imprevisti, dobbiamo adattarci e trovare nuove strade per continuare il nostro cammino.

La chiave per affrontare il cambiamento e continuare il nostro percorso è l’adattabilità.
Dobbiamo imparare a lasciar andare vecchi schemi mentali e abitudini che potrebbero ostacolare il nostro progresso. Accogliere il cambiamento e abbracciare l’ignoto, ci apre a nuove possibilità e ci aiuta a costruire una versione migliore di noi stessi. La paura del fallimento o del giudizio degli altri può limitarci, ma dobbiamo ricordarci che i fallimenti fanno parte del percorso. Ogni volta che cadiamo, possiamo imparare qualcosa di nuovo e ottenere la forza per rialzarci.
Affrontare il cambiamento con coraggio ci porta a riscoprire il nostro potenziale nascosto e ci incoraggia a perseguire i nostri sogni con determinazione.

Ma più che il coraggio, aggiungerei “la felicità”, quella felicità che viene nel fare i percorsi fatti di corde e rami, di legno e ferro, come nei parchi per i ragazzi. Sicuramente si sentiranno coraggiosi a cimentarsi in quella sfida, ma penso che la spinta sia il “divertimento”, la voglia stessa di affrontare il percorso. Con un sorriso.

Per ricordarci i passi che abbiamo fatto finora, proviamo a riproporre quì, alcuni passi che, appena ci giriamo all’indietro, si aprono davanti a noi, significativi e densi di ricordi.

Andiamo avanti con lo sguardo rivolto davanti a noi. E le scarpe ben allacciate per affrontare il nuovo terreno.

Dopo lo straordinario successo della scorsa edizione, con circa 400 partecipanti, tra pazienti,
medici, amici, studenti, volontari e cittadini provenienti da tutta Italia, si riaffaccia a Roma la
SarkRace, un evento sportivo amatoriale aperto a tutti, per sensibilizzare e raccogliere fondi per la
ricerca e la cura dei sarcomi dei tessuti molli, rara forma di tumore, dalla complessa gestione
clinica.

L’appuntamento è per domenica 24 settembre 2023, con partenza alle 10,00 da via Àlvaro del
Portillo, 5
, sede del CESA, Centro per la Salute dell’Anziano della Fondazione Policlinico
Universitario Campus Bio-Medico. Il percorso si svolge all’interno della Riserva naturale di
Decima Malafede lungo un tragitto di 5 km.
Al termine della manifestazione sportiva, saranno premiati i primi tre classificati e verranno donati
alcuni gadget ricordo per tutti i partecipanti.
L’evento, ideato ed organizzato dall’Associazione Sarknos, in collaborazione con la Fondazione
Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, è patrocinato dalla Regione Lazio, dal Municipio IX
di Roma Capitale e da F.A.V.O. (Federazione Italiana delle Associazioni di Volontariato in
Oncologia).

Numerose le autorità istituzionali che hanno abbracciato l’iniziativa e non hanno voluto mancare a
questo appuntamento di solidarietà, impegno, testimonianza e sensibilizzazione. Saranno presenti
la Senatrice Paola Binetti (Presidente onorario Associazione Sarknos), l’On. Luciano Ciocchetti
(Vice Presidente XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati), l’On. Massimiliano
Maselli
(Assessore Servizi sociali, Disabilità, Terzo Settore, Servizi alla Persona della Regione Lazio),
l’On. Marco Bertucci (Presidente IV Commissione Bilancio della Regione Lazio), l’Ing. Carlo Tosti
(Presidente della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio Medico), il Dott. Patrizio
Chiarappa
(Assessore Sport e Grandi Eventi Municipio IX Comune di Roma).
La “iena” Filippo Roma, da sempre amico e sostenitore dell’associazione Sarknos, condurrà la
giornata in tutti i suoi momenti e sviluppi.
Le iscrizioni sono aperte al costo di 10 euro. Il ricavato verrà interamente devoluto per le attività di ricerca e di cura del sarcoma.
Per info e iscrizioni: amministrazione@sarknos.it


Sarknos: la rete per chi è affetto da sarcoma. Sarknos è un’associazione benefica di medici e
pazienti, nata per sostenere e supportare le persone affette dai sarcomi dei tessuti molli durante il
percorso di diagnosi, spesso lungo, complesso e impegnativo, dal punto di vista fisico ed emotivo.
Fondata il 26 marzo 2022 su iniziativa del Dott. Sergio Valeri – Responsabile Unità Operativa
Semplice – Chirurgia dei Sarcomi dei tessuti molli presso la Fondazione Policlinico Universitario
Campus Bio-Medico di Roma – e di un gruppo di pazienti e medici, spinti dal desiderio di voler
creare una rete di contatto e unione per quanti sono affetti da questa forma di tumore.
La Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, che ospita la sede legale
dell’associazione, ha accolto la sua nascita stipulando una convenzione. L’accordo ha l’obiettivo di
promuovere l’associazione patrocinandone le attività e supportandone le iniziative. Sarknos
sostiene la ricerca scientifica grazie all’organizzazione di eventi di informazione aperti a tutti.
Inoltre, favorisce l’incontro e il confronto tra pazienti, familiari e personale sanitario e promuove
la socialità, per far nascere idee e stimoli dalle esperienze comuni, abbattendo le barriere
dell’isolamento e della paura. Tra i suoi obiettivi, inoltre, c’è quello di sensibilizzare i professionisti
sanitari presenti sul territorio in merito all’importanza di un corretto percorso diagnostico e
terapeutico, diffondendo la conoscenza dell’Ambulatorio per la Chirurgia dei Sarcomi e
contribuendo a garantire un’adeguata presa in carico alle persone con una nuova diagnosi di
sarcoma dei tessuti molli, con l’obiettivo di superare gli ostacoli che si frappongono all’accesso al
miglior trattamento possibile.

Ufficio stampa SarkNos
Gerry Mottola
Tel. 3332725538
ufficiostampa@sarknos.it

Tanto è passato dalle ultime elezioni politiche, 14 mesi nei quali è nato – e a quanto pare è anche “morto” – un governo e nei quali sono cambiati i rapporti di forza delle due forze che lo sostengono. Almeno per quanto riguarda i sondaggi perché in realtà – dirò una banalità – nel Parlamento le forze in gioco sono esattamente le stesse. Le elezioni si tengono in un tempo che non è quello dei sondaggi, non si rincorrono gli umori e le sensazioni a suon di Tweet o di post su Facebook o anche non si cambiano le composizioni perché in un altro luogo (Bruxelles) il numero dei parlamentari è diverso.

Il numero dei Senatori e dei Deputati è lo stesso di 14 mesi fa e ora Mattarella dovrà riprendere le consultazioni che aveva interrotto dopo la formazione del governo.

Il primo giro di consultazioni finì con un “Braccio di Ferro” della Lega e del M5S che avevano presentato una possibile formazione di Governo con Paolo Savona, noto “Euroscettico” come Ministro dell’Economia e il secco “No” da parte del Presidente della Repubblica che incaricò Cottarelli di fare una consultazione alternativa. A quel punto, mentre il M5S, chiedeva l’impeachment per il Presidente, la Lega lavorò (“ironicamente”) per spostare Savona al Ministero degli Affari Europei e far assumente a Giovanni Tria il Ministero delle Finanze. Così il Primo Giugno 2018, dopo quasi due mesi dalle elezioni, il Governo giallo-verde di Giuseppe Conte ha potuto giurare.

Tre mesi fa Savona è approdato come Presidente alla Consob e a quanto pare ora Mattarella dovrà fare altre settimane di consultazioni per ricompattare la maggioranza o per chiedere che se ne formi una alternativa. Ma sempre partendo dai numeri attualmente in Parlamento.

In una Repubblica Parlamentare, il ricorso alle urne -dirò un’altra banalità- è l’ultima spiaggia all’impossibilità di creare una maggioranza governativa.

La composizione della Camera dei Deputati

La composizione del Senato della Repubblica

Nella Prima Repubblica questo era il periodo del “Governo Balneare”, per dichiarare la fine di un patto e per iniziare a tracciare le linee per il prossimo Governo da farsi poi a Settembre, al rientro, buono per la preparazione della Finanziaria.

Sono cambiate tante cose da quel periodo storico e in questa Terza Repubblica il Governo del Cambiamento è diventato rimasto a Bagnomaria per questo Agosto che è iniziato con un voto parlamentare “surreale” e con una dichiarazione del Ministro degli Interni fuori dal Parlamento. In una dichiarazione dopo questi fatti il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha detto che la Crisi sarà la più Trasparente della Storia.

Il Movimento 5 Stelle ha presentato in parlamento una mozione parlamentare nella quale si dichiarava contrario
(dal voto il M5S era l’unica forza che ha sostenuto la sua stessa mozione) ai lavori per la TAV dopo che il Governo ha presentato una risoluzione alla prosecuzione dei lavori inviando documentazione ufficiale all’UE. La mozione è “surreale” perché la risoluzione è inviata direttamente dal Ministro “Grillino” Toninelli.

Dopo la votazione il leader leghista Matteo Salvini ha dichiarato che non aveva più fiducia del Presidente nel Consiglio e a Parlamento ormai chiuso per ferie ha presentato una Mozione di sfiducia che di fatto apre la crisi di governo che però dovrà attendere la riapertura dei lavori parlamentari per essere discussa.

Quindi per ora tante chiacchiere…e buon riposo 🙂

Direttore di Condi-Visioni, dottore in Scienze e tecnologie della comunicazione, giornalista pubblicista, autore e compositore, produttore artistico, ha curato nel tempo l’attività di produzione discografica e la direzione artistica di numerosi eventi culturali e concerti di musica leggera.

Ingegnere Informatico convinto che l’informazione, la comunicazione, la cultura possano aiutare la crescita personale e la crescita sociale del nostro paese.

Mi chiamo Maria Claudia Mifsud.
Sono personal trainer e massoterapista.
Ed amo il mio lavoro.

A sei anni ho messo per la prima volta il mio “piedino” in un centro sportivo…
Ho praticato pattinaggio artistico per 15 anni. Ho gareggiato in tutta Italia vincendo coppe e medaglie con sacrificio, ma con tanta energia, divertimento e soddisfazione. 

Durante la mia carriera di pattinatrice ho insegnato ai gruppi di junior. La ginnastica per la formazione fisica e le posture era alla base, prima di mettere il pattino e volare in pista !!!

Nel frattempo mi sono diplomata, ho frequentato il  liceo psicopedagogico, ma questo, lo sapevo, non sarebbe stata la mia strada… infatti mi sono dedicata subito dopo allo sport e alla cura del corpo, prendendo specializzazioni e diplomi di estetista e massoterapista. Ho lavorato e lavoro negli studi di medicina estetica.

Nel frattempo, i miei pattini e i miei allenamenti non erano certo “appesi al chiodo”… tutt’altro! Ho continuato la mia carriera di atleta, prendendo diplomi e facendo numerosi  corsi per lavorare nelle palestre come istruttrice. 

Ora insegno fitness, yoga, pilates. 

Lo sport mi dà forza e tanta energia. Che desidero trasmettere ai miei allievi, ai miei interlocutori, al mondo!

La mia attività, inoltre, si muove da sempre anche nell’ideazione e realizzazione di progetti socio – culturali, dove c’è  l’opportunità di sviluppare contatti, sinergie, reti, occasioni di incontro e confronto con persone, enti ed organismi. 

Perché lo sport non è solo salute psicofisica, adrenalina o toccasana per l’umore… Lo Sport è incontro, è Cultura! 

Laureato in Sociologia e Filosofia, si occupa di Informatica dai primi anni ’80, con significative esperienze nel settore ICT presso importanti aziende, tra cui il gruppo Olivetti, dove ha partecipato allo sviluppo di importati progetti di trasformazione ICT per il settore pubblico.

Attualmente impiegato presso la Pubblica Amministrazione, é certificato come Project Manager dal Project Management Institute (PMI), continua ad approfondire i suoi interessi ed i suoi studi nelle scienze umane e sociali.

Iscritto come socio all’ ANS – Associazione Nazionale Sociologi  ed alla SFI – Società Filosofica Italiana (sezione Romana), sta seguendo attualmente un percorso di consulenza e pratiche filosofico-sociali presso l’Università di Roma3.

In Condi-Visioni Walter ricopre il ruolo di Vice Direttore.