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“Quando la Patria chiama!…” tuonò il pingue e rubizzo podestà del piccolo borgo, al microfono della tribuna d’onore del campo sportivo. Davanti a lui, l’intero paese, riunito, come ogni sabato, per assistere alle manifestazioni di romana virilità dei suoi giovani, ardimentosi, figli.

“Speriamo che resti senza voce!”, urlò, dalla prima fila, uno dei più ardimentosi, prima che l’uomo potesse proseguire il suo stentoreo sermone.

Il ragazzo venne, ovviamente, fermato, identificato e portato via. Lo attendeva una punizione esemplare: sospeso da tutte le scuole del Regno.

Era il 1938 e aveva da poco compiuto sedici anni. Ventitré anni più tardi, sarebbe diventato mio papà.

Ogni volta che certa retorica torna a lordare di sé la realtà – spezzando le reni alla verità, imbellettando tutto e tutti di un’epica posticcia e ridicola, e trasformando l’informazione in indecente propaganda – ripenso alla lucidità e al coraggio di quel ragazzino (che, cinque anni dopo, si sarebbe unito alla Resistenza) e mi dolgo di non essere mai stato alla sua altezza. A questo punto, è evidente che non lo sarò mai. Mea culpa.

Ho scritto centinaia di articoli e due romanzi per denudare e denunciare l’ipocrisia subdola, velenosa e profondamente antidemocratica dei “benpensanti”. Eppure, malgrado tutti i miei sforzi, nulla in quella montagna di pagine ha la forza e l’efficacia di quel “speriamo che resti senza voce!”, urlato da un ragazzino, durante una delle ore più buie, dolorose e nefaste della Storia italiana.

Le parole sono banconote: hanno un “valore nominale” e uno “reale”. Quando il secondo non corrisponde al primo – cosa che accade con raccapricciante frequenza – non sono che carta straccia.

Se dico “ti amo” ma, in realtà, voglio solo indurti a fare sesso con me, l’amore di cui parlo non esiste. Evocarlo, non è altro che un modo immondo per riuscire a estorcerti ciò che – senza mentire, blandire e frodare – non riuscirei mai a ottenere da te.

Insieme a Dio e famiglia, patria è tra le parole più inflazionate in assoluto. Non solo da noi, a dire la verità. Ma questo non consola affatto. Al contrario: deprime e fa infuriare ancora di più.

Il “valore nominale” è altissimo; il “valore reale”, bassissimo. Talmente basso che, spesso, rasenta lo zero. E, a volte – come sta accadendo in questi ultimi anni – precipita addirittura sotto zero.

La parola patria è stata, infatti, ridotta a specchietto per le allodole: un vetrino colorato che viene spacciato per diamante, con l’unico scopo di convincerci a sacrificarci per un simulacro, vuoto e inutile come un dente cariato. Un “vitello d’oro”, che dei gran sacerdoti senza fede e senza scrupoli ci spingono ad adorare, consapevoli del fatto che, solo in nome di parole come Dio, patria e famiglia, riusciranno a farci commettere ogni genere di bassezza e scelleratezza.

Non lasciamoci incantare, quindi, dall’apparente nobiltà di quella parola. Di mera apparenza si tratta, appunto. Di nobile, infatti, è rimasta solo la parola. “Flatus voci”: una breve emissione di fiato e un suono che durano un secondo e, un secondo dopo, si disperdono nel nulla, come fumo di sigaretta.

Chi si serve di quella parola, lo fa per un unico obiettivo: servirsi di noi. Ci chiama “figli” ma si guarda bene dal riconoscerci ruolo e dignità di figli. A meno che non ci sia qualcuno convinto che figlio significhi suddito o servo.

Eppure questo squallido giochetto psicologico fa breccia facilmente in quel che resta delle nostre teste e coscienze. Teste e coscienze lobotomizzate da decenni di tv spazzatura, di informazione compiacente – che, in molti casi, da controllore del potere, si è trasformata in scendiletto dei potenti (nel 2024, secondo il World Press Freedom Index di Reporters Without Borders, l’Italia si è posizionata al 46° posto nella classifica internazionale della libertà di stampa), dall’orgia di stupidità, ignoranza, follia e odio dei social media e da un consumismo senza controllo, che ci spinge a desiderare – come una droga – pagandolo profumatamente, l’inutile e a fuggire – come la peste – tutto ciò che potrebbe dare senso, valore e profondità alle nostre vite, persino quando è gratis.
“Panem et circenses”: ricetta millenaria ma, ahimè, sempre efficace.

E, così, quando ci chiamano figli (valore nominale altissimo, valore reale inesistente), ci sentiamo, istintivamente, obbligati a “onorare il padre” (patria deriva, appunto, dall’aggettivo latino patrius «paterno», «del padre»). E, dunque, a fare tutto ciò che gli astuti cantori del culto della patria ci chiedono. Nefandezze e follie incluse.

E noi onoriamo il padre senza chiederci chi egli sia davvero, dimenticando che il comandamento cristiano (dietro al quale i predicatori senza scrupoli del falso patriottismo nascondono le loro inconfessabili intenzioni) ha valore unicamente se rispettiamo, davvero e in toto, la Parola di Cristo.

Una Parola che, non solo ci impone di amare il nostro prossimo come noi stessi (Mc. 12,29-31) ma, addirittura, di amare i nostri nemici: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano” (Mt. 5,44).

Due richieste, queste ultime, che nessuno dei gran sacerdoti del falso culto della patria condivide, né ci chiederebbe mai di rispettare, per due ragioni evidenti persino ai ciechi: essi odiano ogni genere di prossimo: negri, ebrei, musulmani, migranti, stranieri, omosessuali, intersessuali, transessuali, transgender, queer, gender fluid, gender creative, non-binari, pansessuali, demisessuali, ma anche donne, giovani, vecchi e poveri; non fanno altro che creare nemici: interni o esterni, reali o presunti. Secondo costoro, infatti, non esiste patria senza un nemico. Nemico che non solo noi figli non dobbiamo azzardarci ad amare ma che ciascuno di noi deve imparare a odiare con tutto sé stesso.

Un figlio può benissimo decidere di amare comunque suo padre, pur sapendo che egli è un assassino, un violento (dentro e fuori la famiglia), un ladro, un bugiardo, un cialtrone, un ruffiano. Tale scelta, però, è una scelta individuale che impegna solo quel figlio.

Un cittadino, invece, non è affatto tenuto a onorare una patria “solo chiacchiere e distintivo”, che non lo ama, non lo rispetta, e non solo non fa assolutamente nulla per lui ma, spesso, lo vessa e lo danneggia pesantemente.

Il celebre chiasmo con il quale, il 20 gennaio 1961, John Fitzgerald Kennedy chiuse il suo discorso di insediamento – «Non chiedete cosa può fare il vostro Paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese» – rappresenta, senza dubbio, un’invenzione retorica di grande forza e fascino.

Dato, però, che Kennedy usa la parola “country” [paese] e non “nation” [nazione] o “homeland” [patria], il vincolo morale che egli richiama non è né basato sul diritto di nascita (nazione deriva dal verbo latino “nasci”: nascere) né di territorio. Si tratta, semmai, di un vincolo che potremmo definire sociale, nel senso che ci viene dalla parola latina socius: «socio», «unito», «partecipe», «alleato». Un legame paritario ed egualitario, dunque, fondato su riconoscimento, rispetto e solidarietà reciproci tra tutti coloro i quali – a qualunque titolo e da qualunque parte del mondo provengano – danno vita alla comunità di quanti vivono in un certo Paese.

Non un vincolo sbilanciato, nel quale il soggetto forte (la patria) può tutto e il soggetto debole (il cittadino) può nulla o quasi; il primo è titolare di tutti i diritti, il secondo, solo di doveri; il primo vive alle spalle del secondo per soddisfare i capricci del primo.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non farebbe gravare su di noi un debito pubblico stratosferico, giunto a un passo da quota 3mila miliardi (2.918mld): il 137% del nostro PIL, pari a 49.450 euro di debito per ogni “figlio”.
Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe un’evasione fiscale scandalosa: tra i 90 e i 100 miliardi di euro l’anno, secondo le stime interne. Stime internazionali, invece, la valutano tra i 100 e i 120 miliardi (Fondo Monetario Internazionale) se non, addirittura, 200-250 miliardi (EU Tax Observatory).
Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe di accumulare, nel cosiddetto “magazzino della riscossione”, più di 1.200 miliardi di euro (più di 6 volte il PNNR) di tasse dovute e mai riscosse, il 90% delle quali lo Stato non vedrà mai.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non lascerebbe che il peso dell’Irpef si scaricasse, per oltre l’80%, sulle spalle di lavoratori dipendenti e pensionati.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe che i salari medi degli italiani fossero tra i più bassi d’Europa. Secondo Eurostat, i salari medi in Italia sono significativamente inferiori rispetto a quelli di molti altri paesi dell’Unione Europea. Il salario medio annuale in Italia si aggira intorno ai 31mila euro, contro una media dell’UE di circa 33.500 euro. In confronto, paesi come Lussemburgo e Danimarca registrano salari medi significativamente più alti, rispettivamente oltre 72mila euro e 63.300 euro. Anche in Francia e Germania i salari medi superano i 40mila euro annui, evidenziando una differenza di circa 14-15mila euro rispetto all’Italia.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe né la cultura androcentrica e ottusamente misogina alla base di un fenomeno drammatico e ingiustificabile come la violenza sulle donne. Secondo l’Istat quasi 7 milioni di donne (6,8mln) hanno subito, nel corso della loro vita, violenza fisica o sessuale: il 31,5% (quasi una su tre) delle donne italiane tra i 16 e i 70 anni. La Relazione annuale del Ministero dell’Interno, inoltre, segnala che, nel 2022, si sono registrati oltre 15mila casi di stalking e violenza sessuale (in media, 41 al giorno; 1,7 ogni ora); secondo l’associazione D.i.Re – Donne in Rete contro la Violenza, infine, una delle forme più comuni di violenza contro le donne è la violenza domestica. Nel solo 2023, più di 23mila donne si sono rivolte ai centri antiviolenza. In media, 63 al giorno, 2,6 ogni ora.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe la follia dei femminicidi, più della metà dei quali attribuiti a partner o ex partner e circa il 20% ad altri parenti: 4 omicidi su 5 avvengono, quindi, nell’ambito familiare. Nel 2023, i femminicidi sono stati 120 (quasi 1 ogni 3 giorni); 80 nei primi otto mesi di quest’anno. Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe il fatto che le donne italiane guadagnino meno (4,2% secondo Eurostat; 5- 7% secondo Istat, 10,7% secondo ODM Consulting) dei loro colleghi uomini, in un Paese che – secondo il Global Gender Gap Report 2023 del World Economic Forum – si posiziona al 79° posto su 146 paesi nella classifica generale della disparità di genere, che comprende partecipazione economica e opportunità, accesso all’istruzione, salute e sopravvivenza, empowerment politico.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe un tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) del 22-23%, né accetterebbe che il 14,9% dei giovani tra i 15 e i 29 anni rientri nei cosiddetti NEET (“Not in Education, Employment, or Training”): giovani che non studiano, non lavorano e non seguono alcun tipo di corso di formazione. Un tasso, quello italiano, significativamente superiore alla media UE, che si attesta sull’11,2%.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Tutto questo, senza parlare della scandalosa situazione della giustizia nel nostro paese (spesso ridotta a questione di protezioni politiche & Co. o di disponibilità economiche dei singoli), del folle smantellamento della sanità pubblica (già oggi tra i 4,7 e i 7 milioni di italiani hanno rinunciato a curarsi, per problemi economici, liste d’attesa troppo lunghe, difficoltà di accesso alle strutture sanitarie, eccessiva distanza dalle strutture mediche), della totale mancanza di attenzione, rispetto e risorse per scuola pubblica, università e ricerca scientifica.
Alla luce di tutto questo, la domanda che dobbiamo porci è: dove diavolo è il sedicente “padre” di tutti questi “figli”?

Ognuno di noi interroghi la propria coscienza.
Un fatto, però, emerge con indubitabile, dolorosa, chiarezza: fino a quando la patria non comincerà a parlare con voce di libertà, giustizia, eguaglianza, diritti e pari opportunità per tutti i suoi figli, attuando – nei fatti e non negli slogan elettorali – il mandato costituzionale (Art. 3) che recita “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, non sarà davvero patria.

E ogni volta che ci chiamerà, più che il diritto, avremo il dovere di urlare: “speriamo che resti senza voce!”

Non so se esista un angolo di mondo la cui popolazione sia completamente autoctona e il suo sangue non si sia mai mischiato a quello di nessun’altra etnia. Ammesso e non concesso, però, che esista, una cosa è certa: non è l’Italia. Per fortuna, aggiungo, visti gli inquietanti rischi, mentali e fisici, connessi all’endogamia. Sessuale o culturale che sia, non fa molta differenza. Senza considerare che, se un posto del genere esistesse, sarebbe arido, deserto e triste, e destinato a una fine di solitudine e dolore.

Diversità è ricchezza
Ci piaccia o no, infatti, diversità è ricchezza. Mettiamocelo in testa una volta per tutte. Capirlo è facile. Non serve aver letto un milione di libri. Basta guardarsi intorno: ce lo insegna la Natura. Che mondo sarebbe il nostro con un solo fiore, un solo frutto, un solo pesce, un solo uccello, un solo essere umano, magari brutto, sporco e cattivo?

Non solo: che musica si potrebbe mai scrivere con un’unica nota? Quale poesia, romanzo, opera teatrale, sceneggiatura con un’unica parola? Quale tela si potrebbe dipingere con un unico colore? Quale danza o balletto, potrebbe nascere da un unico passo?

Noi italiani siamo fortunati, quindi – molto fortunati – a poter vantare (il verbo non è scelto a caso) di essere il frutto dell’incontro e della fusione di così tante grandi culture, visioni, lingue, voci, tradizioni, storie, fedi.

Identità parola plurale, dinamica, aperta
La Storia stessa del nostro Paese ci insegna che – come dicevano i latini – identità è, di fatto, un “pluralia tantum”: una parola che ha soltanto il plurale. Esistono, infatti, le identità ma non l’identità, per la semplice ragione che ogni identità – anche la meno articolata e complessa – è sempre la sintesi di più identità diverse.

Sintesi dinamica, tra l’altro, dal momento che nessuna identità è data una volta per tutte. Le identità non smettono mai di evolvere. Esattamente come quella di ciascuno di noi. È a tutti evidente, infatti, che ciò che siamo oggi è diverso sia da ciò che eravamo ieri che da ciò che saremo domani.

Le identità evolvono da sempre, dunque. Ed evolveranno per sempre. Per fortuna, aggiungo. Altrimenti, sul nostro pianeta vivrebbero 8 miliardi di “homo sapiens”. E i 200/300mila anni che ci separano dal nostro antenato più simile a noi sarebbero trascorsi inutilmente.

E, dato che è plurale e dinamica, identità è, inevitabilmente, una parola aperta. Apertissima, anzi, dal momento che è il frutto di centinaia di migliaia di anni di incontri, inclusioni, fusioni.

Inclusioni – attenzione – non esclusioni. Che non sono solo assurde e incomprensibili: sono, soprattutto, impraticabili. Oggi ancora più di ieri. Chiudersi in un’ottusa e ridicola pretesa autarchica, significherebbe, infatti, condannarsi all’estinzione, prima ancora che all’insignificanza politica, economica, sociale e culturale.

Migriamo da 2 milioni di anni…
Gli esseri umani non hanno cominciato a migrare agli inizi degli anni Novanta, per sbarcare a Lampedusa, conquistare lo stivale e imporci il loro Dio, occupare le nostre case, portarci via lavoro e donne e turbare i sonni di noi benestanti/benpensanti, “cattolici da pasticceria” (come li ha definiti il capo della cattolicità), come proclamano le voci – scriteriate, storicamente infondate e irrazionali – della galassia nazionalista, patriottica, sovranista, sciovinista, protezionista, anti-globalista, autarchica e identitaria.

Piccola parentesi: a proposito di Dio, vale la pena ricordare che Ebrei, Cristiani e Musulmani credono tutti nello stesso Dio. Inoltre, i cattolici antisemiti farebbero bene a non dimenticare che Gesù, insieme a tutta la sua famiglia e agli apostoli, era ebreo. Chiusa parentesi.

… per soddisfare bisogni primari
Gli esseri umani hanno cominciato a migrare circa 2 milioni di anni fa, quando l’Homo erectus ha lasciato l’Africa e ha iniziato a diffondersi in Asia e in Europa. Le sue migrazioni erano guidate da bisogni primari fondamentali: terra, acqua, cibo, focolari sicuri e accoglienti, protezione dai predatori (animali e no) e la necessità di assicurare una progenie in grado di garantire la sopravvivenza della specie.

Siamo tutti africani.
Sì, siamo tutti africani: facciamocene una ragione. I primi ominidi, infatti, sono apparsi nel cuore dell’Africa circa 7-6 milioni di anni fa. E, sempre in Africa, è emerso il genere Homo, il cui primo rappresentante – Homo habilis, considerato un progenitore dell’Homo erectus – è vissuto circa 2,8/2,4 milioni di anni fa. I suoi fossili sono stati trovati principalmente in Africa orientale, in Tanzania e Kenya. Prove fossili e genetiche (analisi del DNA mitocondriale e del cromosoma Y) indicano, infine, che tutte le popolazioni moderne discendono da un gruppo di umani – Homo sapiens – che si è evoluto in Africa circa 300mila anni fa.

L’orco Globalizzazione
Anche l’orco Globalizzazione, che tanto ci terrorizza, non è nato – come qualcuno vuole farci credere – dopo la caduta del Muro di Berlino. Chi lo sostiene ha gioco facile. Dopotutto, si tratta di indottrinare teste sempre più vuote e coscienze sempre più aride. Combinazione ideale per infestare l’opinione pubblica con i venefici frutti della malapianta della paura.

La globalizzazione è nata millenni fa. E non per il capriccio di qualche capotribù proto-buonista/comunista o paleo-turbo-capitalista. È nata per un bisogno vitale, ineludibile: la sopravvivenza. Un dettaglio tutt’altro che trascurabile, non vi pare? Rinunciare alla prima, dunque, significa, di fatto, rinunciare anche alla seconda.

Autarchia è follia.
Ecco perché, a terzo Millennio avviato, l’idea di chiudersi in una sorta di autarchia2.0 non è soltanto anacronistica e stupida: è letale. Oltre che oggettivamente impraticabile. E non da oggi: da sempre. Non lo dico io: lo dice la Storia. Quella vera, non una delle mille bufale revisioniste, messe in giro ad arte dal, sempre più nutrito, consorzio dei nostalgici delle più grandi follie del recente passato.
Nessuno, in nessun angolo del pianeta, può, infatti, illudersi di essere completamente e felicemente autosufficiente. Sarebbe una follia. Follia ancora più grande in un Paese come il nostro, che dipende così tanto dagli altri, per materie prime e beni indispensabili alla sua stessa sopravvivenza.

Dipendiamo dalle risorse degli altri…
A causa della limitata disponibilità di risorse naturali e dell’elevata domanda interna, infatti, ogni anno, noi italiani, spendiamo, a seconda delle fluttuazioni nei prezzi internazionali e delle quantità dei beni di cui abbiamo bisogno (tra questi: petrolio e derivati, gas naturale, macchinari industriali e apparecchiature tecnologiche, automobili e componenti per l’industria automobilistica, ferro, acciaio, rame e altre materie prime metallurgiche, prodotti chimici e farmaceutici, grano e cereali e persino frutta esotica e verdure fuori stagione) tra i 140 e i 217 miliardi di euro, rispettivamente il 7% e il 10,85% del PIL, una cifra che equivale al nostro Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Scusate se è poco.

La domanda è: saremmo mai in grado di produrre tutti questi beni “in casa nostra”?

… e dalle braccia degli altri
Per non parlare del bisogno, ormai patologico, di manodopera straniera, soprattutto per tutti quei lavori che noi italiani non vogliamo più fare: raccolta di frutta e verdura, ad esempio (si stima che, ogni anno, l’agricoltura abbia bisogno di 300/350mila stagionali); manovali, muratori, carpentieri, posatori di pietre, addetti a scavi e demolizioni, montatori di ponteggi (si stima che il 30-40% della forza lavoro nell’edilizia sia costituita da immigrati); cura e assistenza degli anziani (sono circa 850mila le/i badanti, in larga maggioranza immigrati); pulizie domestiche e di edifici pubblici, alberghi, ristoranti; camerieri, lavapiatti, aiuto-cuochi; camionisti, trasportatori, rider…

Una dipendenza, questa dalla manodopera straniera, destinata a crescere, soprattutto per due motivi:

  1. le preoccupanti dinamiche demografiche: abbiamo uno dei tassi di natalità più bassi al mondo (in media, circa 1,24 figli per donna: un valore ben al di sotto del livello di sostituzione – 2,1 figli per donna – necessario per mantenere stabile la popolazione nel lungo termine) e una popolazione sempre più anziana: circa il 23% degli italiani hanno un’età pari o superiore ai 65 anni, cosa che ci colloca tra i paesi più anziani a livello globale;
  2. le esigenze del mercato del lavoro, per il quale – secondo alcune stime – l’Italia avrebbe bisogno di 200/300mila lavoratori immigrati all’anno, per coprire le carenze di manodopera in settori chiave come quelli ricordati sopra.

Domanda: supponendo di rimandare a casa tutti gli immigrati che, attualmente, lavorano da noi (per lo più sfruttati, senza diritti e senza tutele) e di chiudere le frontiere ai migranti, chi di noi sarebbe disposto a rinunciare al proprio lavoro e a dedicarsi, per il bene di tutti, a una vita di fatica, sfruttamento, povertà ed esclusione sociale?

Un popolo di migranti.
Non so se siamo mai stati davvero – come voleva la retorica fascista – un “popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di navigatori, di colonizzatori, di trasmigratori”. Una cosa, però, è certa: siamo stati e siamo ancora un popolo di migranti. Si stima, infatti, che, tra metà Ottocento e metà Novecento, tra 25 e 30 milioni di italiani siano emigrati all’estero: uno dei più grandi flussi migratori della storia moderna.

Le principali ondate migratorie sono state tre:
1861-1915: tra 9 e 14 milioni di italiani (circa il 31%-48% della popolazione media di quel periodo) lasciarono il Paese, dirigendosi verso l’America Latina (in particolare Argentina e Brasile), gli Stati Uniti e l’Europa;
1916-1945: tra 6 e 10 milioni di italiani (circa il 14,8%-24,7% della popolazione media di quel periodo) emigrarono negli Stati Uniti, in Europa e in Sud America;
1946-1960: tra 5 e 6 milioni di italiani (circa il 10,5%-12,6% della popolazione media di quel periodo) emigrarono verso l’Argentina, l’Australia, il Canada, il Venezuela e altri paesi europei.

Un pianeta di italiani.
Migranti produttivi. In tutti i sensi, visto che si calcola che, oggi, in giro per il mondo, ci siano tra i 60 e gli 80 milioni di persone di origine italiana. Un’Italia-figlia, persino più popolosa della sua madrepatria, che conta solo 59 milioni di figli.

Tra i 25 e i 30 milioni di questi nostri “cugini” e “nipoti” vivono in Brasile (10/15% della popolazione), tra i 20/25mln in Argentina (40%/50%), 17/18mln negli Stati Uniti (5/6%), 1/2 mln in Venezuela (3/7%), 1,5mln in Canada (4%), 1/1,5mlm in Francia (2/3%), 1,4 milioni Uruguay (40%), 1 mln in Australia (4%), 700mila in Germania (0,85%) e 500mila in Svizzera (6%).

Due domande:

  1. Se i suddetti Paesi adottassero politiche anti-stranieri/immigrati, e decidessero di liberarsi di tutta quella gente e rimandarla a casa sua, noi dove ce li metteremmo?
  2. Se tutti questi italiani di seconda/terza generazione decidessero – in base allo ius sanguinis, così caro ai nostri sovranisti/nazionalisti – di richiedere la cittadinanza italiana (la trasmissione della cittadinanza non ha un limite di generazioni) e trasferirsi da noi, come gestiremmo l’ingresso nel nostro Paese di milioni e milioni di migranti legali?

L’identità italica non esiste

Siamo sicuri che i tratti somatici di tutti questi italo-brasiliani/argentini/statunitensi/venezuelani/canadesi/francesi/uruguaiani/tedeschi/svizzeri rappresentino l’italianità?
Ma, soprattutto: cos’è questa fantomatica italianità?
Un fantasma, appunto, dal momento che non esiste alcuna “identità italica”. E non per chissà quale pregiudiziale ideologica, ma per la semplice ragione che la Storia ci dice che il nostro Paese è uno tra i melting pot più antichi e ricchi di “bio”-diversità di tutto il pianeta.

Sono davvero tanti, infatti, i popoli non italici che hanno contribuito a renderci quelli che siamo oggi. Impossibile non ricordare almeno i più importanti: Fenici (popolo semitico originario di una regione che corrisponde all’attuale Libano, con colonie che si estendevano in parte della Siria e lungo le coste del Mediterraneo), Greci, Celti (tribù indoeuropee emerse in una regione dell’Europa centrale che comprendeva le attuali Austria, Svizzera, Germania meridionale e Francia orientale), Goti (originari dell’attuale Svezia meridionale: si divisero in due rami: i Visigoti, che, dopo aver attraversato i Balcani, si stabilirono in Gallia [l’attuale Francia] e nella Penisola Iberica [Spagna e Portogallo] e gli Ostrogoti, che si stabilirono nelle regioni orientali dell’Europa, intorno al Mar Nero, in un’area che corrisponde all’attuale Ucraina, Moldavia e Romania, per poi migrare in Italia), Longobardi (originari dello Jutland, oggi parte della Danimarca, che migrarono attraverso la Germania settentrionale), Vandali (probabilmente originari anch’essi della Scandinavia o della penisola dello Jutland), Unni (provenienti dalle steppe dell’Asia centrale o dalla Mongolia), Normanni (Vichinghi originari di Norvegia, Danimarca e Svezia, che si stabilirono nella Normandia in Francia prima di espandersi in altre parti d’Europa), Arabi, Franchi, Spagnoli, Francesi e Austriaci.
Ci piaccia o no, dunque, nel nostro sangue c’è il sangue di tutte queste genti. Impossibile, quindi, parlare di italianità. A meno che non ci sia qualcuno in grado di stabilire quale percentuale di sangue “italianamente puro” (vale a dire non fenicio, greco, celtico, gotico, visigotico, ostrogotico, longobardo, vandalico, unno, normanno, arabo, franco, spagnolo, francese e austriaco) sia necessaria per potersi dire effettivamente italiani. Cinque per cento? Dieci? Quindici? Trenta? Cinquantuno per cento?
Non scherziamo, per favore. Possiamo anche continuare a ignorare – o fingere di ignorare tutto questo – ma al nostro patrimonio genetico non interessano le nostre credenze, convinzioni, elucubrazioni. Possiamo strillare quanto vogliamo, ma lui resta quello che è: il prodotto di millenni di incroci avvenuti in un Paese che, per la sua posizione geografica nel Mediterraneo, è stato, fin dall’antichità, un crocevia di grandi popoli, grandi culture, grandi commerci.

È scientificamente dimostrato, infatti, che il nostro DNA è un mosaico di influenze genetiche e culturali diverse e che noi italiani condividiamo marcatori genetici con popolazioni del Mediterraneo orientale, del Nord Africa, dell’Europa centrale e settentrionale, e del Medio Oriente. Le cose stanno così: accettarlo o no, non le cambia.

Lingua italiana?
Per tutto questo, neanche la lingua italiana è al 100% italiana. Il nostro alfabeto, ad esempio, ha origini fenicie (1200 a.C.), è stato poi modificato dai Greci (IX secolo a.C.), ha influenzato l’alfabeto degli Etruschi (che vivevano nell’Italia centrale, prima dell’ascesa di Roma) e, infine, è stato adottato dai Latini. Con l’espansione dell’Impero Romano, l’alfabeto latino si è diffuso in gran parte dell’Europa e in alcune parti dell’Africa e del Medio Oriente. Dopo la caduta dell’Impero Romano, l’alfabeto latino è rimasto in uso grazie alla Chiesa cattolica, che lo utilizzava (e ancora lo utilizza) per la scrittura dei testi religiosi, e si è evoluto nelle lingue romanze, tra cui l’italiano.

Per non parlare del nostro lessico, che ospita più di 23mila parole di origine straniera. Parole di uso così comune e frequente, che non sappiamo nemmeno che provengono da greco, inglese, francese, spagnolo, tedesco, arabo, russo, provenzale, giapponese, portoghese, turco, longobardo, ebraico, hindi, sanscrito, cinese e persiano. Cosa vogliamo fare? Bandire tutte queste parole dai nostri vocabolari e rinunciare a usarle, solo perché non presentano i caratteri dell’italianità?

Numeri italiani?
E cosa dovremmo fare, allora, dei numeri che utilizziamo, visto che provengono dall’antico sistema numerico indiano (primo/sesto secolo d.C.), successivamente adottato e perfezionato da studiosi arabi e persiani, i quali li diffusero nel mondo islamico e, attraverso di esso, in Europa?
Vogliamo rinunciare anche a loro?

Già che ci siamo, allora, perché non rinunciare anche ad aritmetica, algebra e geometria, visto che sono arrivate a noi dopo un processo di sviluppo millenario, che ha coinvolto civiltà decisamente non italiche come Sumeri, Babilonesi, Egizi, Greci, Arabi, Persiani e Indiani?

Città italiane?
E cosa vogliamo fare delle molte, importanti, città italiane fondate da popolazioni non italiane? Qualche esempio? Ancona, Catania, Messina, Napoli, Reggio Calabria, Siracusa, Taranto (Greci), Cagliari e Palermo (Fenici), Milano e Torino (Celti), Trieste (Illiri). Ma la lista, ovviamente, è molto più lunga di così. Potremmo sempre raderle al suolo, per farle ricostruire da veri italiani. Ma, oltre alla incommensurabile perdita di bellezza, arte, storia e cultura, e tralasciando questioni come tempi e costi, e il problema di dove ospitare gli oltre 5 milioni di persone che vivono in quelle città, la domanda è: siamo davvero sicuri che riusciremmo a trovare tutta la manodopera italiana di cui avremmo bisogno?

Nemmeno la cucina italiana è davvero italiana.

L’italianità non esiste nemmeno in cucina, visto che alcuni alimenti che consideriamo testimonial-simbolo della nostra cucina nel mondo non sono affatto italiani: pomodori e patate, ad esempio, originari, rispettivamente, del Messico/Perù e delle Ande; il riso, originario dell’Asia (Cina e India); il mais, anima della polenta, e il peperoncino, anch’essi originari delle Americhe; il basilico, originario dell’Asia tropicale (India, in particolare); la melanzana, originaria dell’Asia meridionale (probabilmente, India); lo zucchero, originario dell’Asia meridionale (India) e persino il caffè, originario dell’Etiopia, che si diffuse in Europa attraverso la penisola arabica e il mondo islamico.

Cosa vogliamo fare? Rinunciare a tutte queste meraviglie poiché non possono vantare natali italiani e alle mille prelibatezze che le nostre bisnonne, nonne e madri hanno creato, grazie ad esse? La nostra cucina, come la nostra identità, è uno straordinario mosaico di influenze ed è proprio questo che la rende unica e inimitabile.

Ha ragione Brandolini

Che dire? Ha ragione Brandolini: “La quantità di energia necessaria per confutare una stronzata è di un ordine di grandezza superiore a quella necessaria per produrla”. Infinitamente superiore, mi permetto di chiosare.

Lo dimostra il fatto che mi ci sono volute ben quattordici cartelle (e dubito fortemente che saranno sufficienti) per provare a spiegare i motivi principali per i quali l’identità – almeno così come concepita e propagandata dai tribuni della galassia identitaria – è un falso storico, una visione anacronistica e completamente impraticabile dell’esistenza. In una parola: una stronzata.
Il fatto che siano in molti – troppi – a darle credito, non significa affatto che essa lo meriti davvero. Non sempre, infatti, un grande successo è sinonimo di grande qualità. Anche Albano e Romina o Toto Cutugno – sia detto con rispetto – hanno venduto milioni di dischi. Questo, però, non li rende certo Elvis né i Beatles. E nemmeno ce li avvicina.
Spesso, il successo di un’idea non dipende dalla sua effettiva grandezza ma dalla piccolezza dei suoi estimatori. Per una formica, anche un bassotto è un gigante. E la Storia, purtroppo, è piena di folle che si sono lasciate sedurre da folli.

Nel solo Novecento, l’Europa ha vissuto sotto il giogo di ben 13 regimi totalitari, più o meno sanguinari, per complessivi 415 anni senza libertà, pace, diritti, democrazia. E, sebbene, i risultati disastrosi e tragici di quelle esperienze siano sotto gli occhi di tutti, certe parole d’ordine continuano ad affascinare legioni di stolti, ignari e creduloni.
Come si spiega? Onestamente, non lo so. E la Storia, ahimè, dimostra che non esiste una ricetta che consenta di liberarsi, una volta per tutte, delle menti tiranniche, oppressive, spietate e sanguinarie che hanno ridotto in cenere Europa, Asia Orientale e Sudorientale, Nord Africa e Pacifico, prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Quello che so è che, rispetto al “secolo breve”, la situazione, oggi, è ancora più critica, a causa di un nefasto allineamento di pianeti: genitori inesistenti, scuole e università che sono l’ombra di quelle della seconda metà del Novecento, più di quarant’anni di tv spazzatura, un’informazione, ormai, ridotta a propaganda e gossip di bassa lega e all’incontenibile strapotere di Internet e dei social media.

A proposito di questi ultimi aveva ragione da vendere Umberto Eco, quando osservava che hanno dato «diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli». «Il dramma di Internet – aggiungeva Eco – è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità».
È vero: siamo in balia degli scemi del villaggio. Ed è un vero dramma. Anche perché il villaggio è ben felice di questo stato di cose, dal momento che si identifica – appunto – negli “scemi” e si sente confortato nella propria mediocrità. Mal comune…

Al pari degli indifferenti, odio gli “identici”, perché, uccidendo le differenze, uccidono la verità. E, con essa, la libertà. E, con la libertà, il senso e il valore stesso dell’esistere.
Chiudo parafrasando un sublime incipit tolstoiano: “Tutte le persone intelligenti, sono intelligenti a modo loro; tutti gli stupidi si somigliano”.
E quella tra gli stupidi non è solamente l’identità più diffusa ma è di gran lunga la più pericolosa che esista in Natura. Come ammoniva l’immenso Dietrich Bonhoeffer, infatti, «Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con la forza […]. Ma contro la stupidità non abbiamo difese. Qui non si può ottenere nulla, né
con proteste, né con la forza; le motivazioni non servono a niente».

Cerchiamo di non dimenticarlo.

Contrariamente a quanto, comunemente, pensiamo, i totalitarismi non nascono mai dalla follia sanguinaria di un leader. Nascono sempre dal
servilismo del primo lacchè di quel leader.
E non ha alcuna importanza stabilire cosa determini quella prima, irredimibile, genuflessione: codardia, paura, credulità, stupidità, interesse personale o desiderio di rivalsa/vendetta nei confronti del resto del mondo.

Solo una cosa importa: riflettere sul fatto che, senza lo zerbinarsi di quel primo lacchè, nessun leader diventerebbe mai tale. E, di conseguenza, nessun autoritarismo nascerebbe mai.

Scusate se è poco.
Leader, infatti, significa “guida”, “comandante”, “capo”. È del tutto evidente, quindi, che, senza nessuno da guidare, nessuno da comandare, nessuno a capo del quale mettersi, non può esistere alcun “leader”. E, dunque, nessuna leadership.

Per usare una terminologia social: senza un primo “follower” non può esistere alcun “influencer”. Game over.

Anche se nessuno ci pensa mai, è proprio questo il punto nodale della questione: così come non può esserci un pastore senza pecore o un esercito senza soldati, non può esserci nemmeno un regime senza lacchè. Anche perché, per quanto violento e ben armato possa essere, quanti uomini è in grado di eliminare un uomo solo, prima di essere sopraffatto dalla reazione della moltitudine che gli si oppone?

Per dirla con parole assai più illuminate delle mie (Étienne de La Boétie: “Discorso sulla servitù volontaria”, 1576), il tiranno non ha altra forza che quella che gli uomini gli danno e «ha il potere di danneggiarli unicamente in quanto essi vogliono sopportarlo, che non potrebbe far loro alcun male, se essi non preferissero subirlo, invece di contrastarlo». «Son dunque gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smetter di servire, sarebbero liberi». «È il popolo – dunque – che acconsente al suo male o addirittura lo provoca». Il che dimostra che «la libertà non viene affatto desiderata, per la buona ragione che, se gli uomini la desiderassero, l’otterrebbero».

Aveva ragione il Grande inquisitore dostoevskijano: «Non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura».

Da tutto questo consegue che: se, nell’istante nel quale, nelle folli menti di Mussolini, Hitler, Stalin, Pinochet, Videla o Pol Pot (solo per citare i primi nomi che mi sono venuti in mente) prendeva forma l’idea di trascinare il mondo nell’abisso, accanto a quei sei personaggi in cerca di orrore, ci fosse stato qualcuno in grado di assestare loro un vigoroso e, ovviamente, risolutivo “calcio nel culo” (metaforicamente parlando, s’intende), nessuno dei suddetti signori sarebbe mai riuscito a realizzare il suo folle progetto criminale e il mondo si sarebbe risparmiato decenni di persecuzioni, massacri, torture, lutti e orrori indicibili.
Del resto, qualunque incendio – persino il più devastante che possa deturpare il volto del nostro infelice pianeta – nasce sempre da una prima, minuscola, scintilla.

Per spegnere quella prima scintilla, può essere sufficiente persino un semplice sputo. Per domare un “incendio” delle proporzioni – ad esempio – di una Seconda Guerra Mondiale ci sono voluti, invece, sei interminabili, drammatici anni, e tra i 70 e gli 85 milioni di morti, in gran parte civili (50-55 milioni).

Permettetemi, allora, una domanda: secondo voi, uno sputo e un vigoroso e risolutivo “calcio nel culo” valgono o no sei anni di guerra mondiale e decine di milioni di morti?
Supponiamo che avesse davvero ragione Raskol’nikov (il giovane omicida protagonista di “Delitto e castigo”) e che, in virtù della loro superiorità, alcune persone abbiano il dovere di oltrepassare la legge morale (Raskol’nikov parla, esplicitamente, di “diritto al delitto”), per realizzare la «distruzione del presente in nome del meglio», non credete che – esattamente per quella stessa ragione – chiunque di noi si trovasse accanto a una mente folle, nell’istante nel quale al suo interno scoppia la scintilla dell’orrore, avrebbe il dovere, di soffocare, sul nascere, quella scintilla e fare di tutto per mettere quel folle in condizione di non nuocere?

Perché è così importante capire che, quella del primo lacchè, è la responsabilità più grande di tutte? Perché è così importante sottolineare che è il lacchè, e non il folle, il vero responsabile dello scoppiare di quegli incendi che, per anni – decenni, a volte – mandano in fumo milioni e milioni di chilometri quadrati di libertà, diritti, pace e democrazia?
Perché la tentazione di farsi zerbino può cogliere chiunque di noi, in qualunque momento.

Nessun essere umano ne è immune.
E nessuno di noi può avere la certezza assoluta di non cedere alla paura o alle lusinghe del potere. Vere o false che siano.

Aveva ragione da vendere, allora, Ettore Petrolini – “insuperabile interprete della beffarda anima romanesca” [Treccani] – quando, a teatro, si rivolse a un signore che, fischiando, aveva interrotto la sua recitazione: “Io non ce l’ho con te – disse – ma con quelli che ti stanno vicino e non ti hanno ancora buttato di sotto!”.

Riflettiamo, dunque, sul fatto che, se ciascuno di noi si rifiuterà di genuflettersi per primo, nessuno si genufletterà.
E, se nessuno, si genufletterà, il generale Follia si ritroverà senza esercito e l’unica cosa che riuscirà a mettere a ferro e fuoco sarà il suo putrido, livoroso e velenoso fegato.