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Il Consiglio dei ministri ha approvato, poche ore fa, le nuove norme sull’uso delle mascherine.

Queste andranno sempre indossate, in tutti i luoghi all’aperto ad eccezione dei casi in cui sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento da altre persone (ad esempio se si va in campagna o nei boschi), nonché in tutti i luoghi chiusi, fatta eccezione per le abitazioni private. Tutti dovremo indossarle sia che si cammini per strada o in piazza, che ci si sieda su una panchina all’aperto o che si aspetti il bus: l’unico esonero è per chi svolge attività fisica/sportiva all’aperto (running, bici, attività a corpo libero). 

Per quanto attiene agli ambienti chiusi, resta l’obbligo, già in vigore, di indossarle negli uffici, nelle palestre, nei negozi, sui mezzi pubblici, nei cinema e nei teatri, nei ristoranti e nei bar (durante l’entrata, l’uscita e gli spostamenti interni al locale), in macchina in presenza di amici e di persone non conviventi.

Per chi non rispetta le nuove prescrizioni verranno comminate multe da 400 a 1000 euro: gli importi restano dunque invariati rispetto a quanto già previsto nelle precedenti disposizioni di legge.

Il soggetto al quale viene applicata la multa potrà fare ricorso al Prefetto o al Giudice di pace, al fine di contestare la sanzione, ma il ricorso dovrà essere supportato da validi motivi, cioè dimostrare di rientrare nella categoria delle persone esonerate dall’obbligo.

Sono infatti esonerati i bambini al di sotto dei sei anni; le persone disabili con patologia incompatibile con la mascherina o un suo accompagnatore; le persone che si trovavano in una delle circostanze in cui la mascherina all’aperto può essere abbassata (per bere, per mangiare, per fumare, durante l’attività sportiva intensa come jogging o bici); le persone che si trovavano in luoghi desolati, ovvero spazi aperti dove non c’è nessuno, come boschi, campagne etc. 

Il ricorso va inoltrato alle Autorità indicate, entro trenta giorni dalla ricezione della sanzione, via Pec o tramite raccomandata A/R, con l’indicazione espressa dei motivi, dei dati anagrafici del ricorrente, della copia fronte/retro di un documento di identità.

Se la multa per il mancato utilizzo della mascherina è stata emessa dai Vigili Urbani, la contestazione dovrà essere inoltrata al Comune; se è stata emessa dalla Polizia provinciale, alla Provincia; se invece è stata emessa da Polizia di Stato, Guardia di Finanza e Carabinieri, andrà inoltrata al Prefetto o al Giudice di Pace.

Ad eccezione del caso in cui il ricorso sia stato presentato direttamente al Giudice di pace, qualora l’Autorità adita rigetti ed emetta un’ordinanza di ingiunzione (con l’applicazione di una sanzione raddoppiata rispetto all’importo originale), nei successivi trenta giorni dalla notifica del rigetto, il ricorrente potrà presentare ulteriore ricorso dinanzi al Giudice di pace. 

Le multe non riguardano, in ogni caso, solo il soggetto che non indossa la mascherina ma potranno estendersi anche a chi, gestore di un locale, non faccia rispettare al suo interno i divieti o gli obblighi previsti. Oltre alla multa da 400 a 1.000 potrebbe essere applicata la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni.

Per chi viola la quarantena, la sanzione resta quella della multa da 400 a 1000 euro, mentre il mancato rispetto delle restrizioni per chi sa di avere il virus, può comportare – all’esito di un processo penale per epidemia colposa – l’applicazione della sanzione penale dell’arresto da 3 a 18 mesi, oltre che dell’ammenda da 500 a 5.000 euro.

Questa è la conclusione a cui è giunta la Procura di Velletri all’esito dell’autopsia sul corpo di Willy, da cui è emerso che i colpi non sono stati inferti a caso, ma con l’intento di provocare lesioni mortali.

Pertanto, l’iniziale accusa a carico dei quattro indagati, si è tramutata da omicidio preterintenzionale in volontario, aggravato dai futili motivi: contestazione questa dalle notevoli ripercussioni in termini di gravità della pena che, in caso di condanna, verrebbe irrogata ai colpevoli.

Ma da cosa nasce la scelta del magistrato di mutare il tipo di delitto e che significa che l’omicidio che si contesta non è più preterintenzionale ma volontario?

Nella relazione medico legale il dr. Saverio Potenza parla di «colpi assestati e non casuali». Calci e pugni mirati su organi vitali: al torace, sulla pancia, sul collo. Dunque, la morte è stata un evento voluto.

L’omicidio preterintenzionale si ha, contrariamente, quando chi cagiona la morte vuole solo, ma intenzionalmente, percuotere o ledere, e da tali condotte ne è derivato, causalmente, l’evento letale.

In tal senso il codice penale parla di delitto “oltre l’intenzione”, in quanto dalla propria azione (in questo caso dalle percosse o dalle lesioni) è derivato un evento dannoso più grave di quello voluto.

Per essere ancora più chiari – inizialmente – l’Accusa contestava agli indagati di aver ucciso il povero Willy senza volerlo, ovvero che costoro volessero solo picchiarlo e percuoterlo e che la sua morte sarebbe derivata, causalmente, in conseguenza dei numerosi colpi inferti. Ma l’autopsia ha invece ribaltato i fatti, essendo emerso che il ragazzo è stato vittima di una aggressione prolungata e che i colpi sono stati inferti – anche con armi contundenti – in precise aree del corpo e dunque con l’unico intento di uccidere.

Dati scientifici che per gli investigatori sarebbero stati rafforzati anche dalle dichiarazioni rese dai vari testimoni e dai precedenti penali di alcuni degli indagati.

Dunque, se la versione dell’Accusa dovesse essere confermata e provata anche nel corso del processo, la pena che si prospetta per i responsabili potrebbe essere l’ergastolo.

Ma al di là dei tecnicismi giuridici, che sicuramente incideranno notevolmente (in termini sanzionatori) qualora gli imputati dovessero essere ritenuti colpevoli al termine del  giudizio, resta il fatto che, purtroppo, ancora una volta, la cronaca ci pone davanti a episodi di inaudita violenza, ad esplosioni di aggressività assolutamente ingiustificate e ingiustificabili da parte di giovani contro altri giovani, dove la vita sembra aver perso qualsiasi valore, dove è tutto un gioco portato all’estremo di cui non si comprendono o non si vogliono vedere le conseguenze, dove ciò che conta è solo la “caccia” al diverso, al debole, a chi non si piega alle ingiustizie, a chi lotta per la propria libertà.

E allora ben venga la pena dura, la pena esemplare che ristabilisca gli equilibri rotti dalla violenza futile e priva di logica, che restituisca alle famiglie delle vittime giustizia e non vendetta, ma senza mai dimenticare che il vero impegno sta nella prevenzione, nella cultura della legalità e del rispetto, nella comprensione e nell’accettazione, nell’accoglienza delle differenze e nell’integrazione, perché, se l’unico rimedio a cui appigliarsi è il carcere e la pena, significa che ogni tentativo precedente ha fallito. 

Significa che tutti noi abbiamo fallito perché non siamo stati capaci di comprendere, diffondere e mettere in atto quella “cultura del rispetto verso l’altro” che potrebbe impedire tanti inutili atti di violenza e trasformarci in uomini e donne più consapevoli, in genitori/insegnanti ed educatori attenti, in cittadini migliori e più responsabili.E’ importante che la pena torni ad essere un deterrente e una extrema ratio, come dicevano i primi legislatori, e che si investa in prevenzione e formazione, altrimenti le cronache continueranno a rimandarci l’infinito film di violenze gratuite, fini a se stesse, rivolte ai più fragili e , forse, evitabili.

Negli ultimi giorni non è infrequente sentire parlare i mass media o leggere notizie in merito ai pericoli del “deep o del dark web”: termini che, seppur sconosciuti ai più, sono invero ben noti a molti tra i più giovani – spesso minori – attratti dalla navigazione in una rete “profonda”, torbida e fitta di pericoli.

Solo qualche giorno fa, infatti, i Carabinieri di Siena dopo essere riusciti ad accedere – dietro pagamento in criptovalute, ed esattamente di bitcoin – a siti nascosti nel deep web, hanno scoperto l’esistenza di “stanze virtuali” ove gli spettatori, oltre che assistere a violenze sessuali e torture, praticate in diretta, da adulti su minori, potevano anche interagire con gli aguzzini, richiedendo specifiche “sevizie” da applicare a piccolissime vittime.

Tra gli spettatori e i partecipanti, molti erano giovani e adolescenti, che avevano ben pensato di diffondere alcune delle immagini e dei video nelle chat o nei gruppi whatsapp.

Deep web

Vediamo innanzitutto cosa si intende per deep o dark web. Si tratta di parti “nascoste” del web – non indicizzate (basta pensare che i motori di ricerca come Google indicizzano solo 2 miliardi di siti web, cioè meno della metà dei contenuti disponibili, stimati in circa 550 miliardi) – utilizzate sia da soggetti in stati dittatoriali senza libero accesso al web -per reperire o diffondere informazioni spesso censurate o non diffuse al pubblico – che, con sempre maggior frequenza – da organizzazioni criminali per amplificare i propri traffici illeciti, grazie all’anonimato pressochè totale con cui è possibile navigare.  

In queste parti di rete è possibile trovare ad esempio dei “dark market”, cioè veri e propri portali e-commerce dove acquistare (il più delle volte in bitcoin) droghe, armi, killer su commissione, gioielli, oro, film pedopornografici, virus informatici, dati trafugati, credenziali aziendali e bancarie, etc.

A tali contenuti, nel deep web, si accede spesso con un login, mentre nel dark web solo con particolari browser.

Particolarmente allarmante è soprattutto la tipologia delle immagini e del materiale che “venditori e acquirenti” si scambiano in particolari forum: si tratta spesso delle cd immagini “gore”, ovvero video/foto raffiguranti suicidi, mutilazioni, squartamenti e decapitazioni di persone, in qualche caso di animali, violenze sessuali, atti pedo-pornografici (etc) condivise dietro pagamento o per il solo gusto di guardarle. 

Foto che, come è successo per i due diciassettenni scoperti dai Carabinieri di Siena finivano poi nelle chat e nei gruppi whatsapp e telegram, con le ovvie conseguenze che tale diffusione può portare. 

Come è facile intuire si tratta di un mondo pericoloso, dove è possibile acquistare di tutto e incontrare chiunque: problematiche queste che toccano da vicino moltissime famiglie chiamate a monitorare (talvolta senza sapere cosa o come) i propri figli sempre più abili a navigare e ad accedere a realtà pericolose e da cui è difficile difendersi o uscirne.

Il rischio maggiore è che incauti adolescenti o minori, attratti dal “proibito” o spinti dalla curiosità di conoscere realtà poco note ai più – di cui potersi vantare con gli amici -, finiscano invece per incappare in giri di pedo-pornografia; per essere adescati o ricattati a seguito della condivisione di determinati video/foto; convinti ad acquistare sostanze stupefacenti, o ancora, ad accettare sfide al limite della vita. Senza contare che non è per nulla difficile che tali ragazzi, oltre che vittima di determinati reati, possano a loro volta diventarne ignari autori.

E’ importante dunque che i genitori, ma tutti i formatori in genere, si aggiornino su certe tematiche, per poter fare una prevenzione reale, così da poter monitorare davvero la navigazione in rete dei propri figli o dei propri studenti, mettendoli in guardia dalle insidie di strumenti tutt’altro che virtuali, ma anzi in grado di fagocitarli e stritolarli.