Con l’esplosione dei mass media, e ancor più con i social networks ci ritroviamo a riflettere sulla questione dell’apparenza, su come la comunicazione venga strumentalizzata, le immagini ci mostrino realtà patinate, edulcorate o crude, ma sempre rappresentazioni parziali dell’intero, che formano un pensiero, un concetto, che a sua volta forma quello che siamo e come percepiamo e come ci rapportiamo a ciò che ci circonda. Questioni molto attuali viene da pensare, beh ma erano attuali, in un certo senso, anche nel V secolo a.C. per un signore di nome Platone, che nel libro VII della “Repubblica” ci introduce al Mito della Caverna, una potente allegoria sulla condizione umana e la conoscenza, ma anche di come l’apparenza delle cose a volte possa allontanarci da questa.
Platone descrive alcuni prigionieri incatenati fin dalla nascita in una caverna, costretti a guardare solo le ombre degli oggetti che si trovano alle loro spalle, ombre proiettate da un fuoco sulla parete che hanno difronte. Gli schiavi conoscono le ombre come unica realtà, perché non hanno mai potuto vedere gli oggetti che le generano. Un giorno, uno dei prigionieri riesce a liberarsi, scopre la fonte delle ombre e scappa via dalla caverna. Inizialmente è accecato dalla luce, ma gradualmente si abitua e realizza che il mondo esterno è molto più complesso rispetto alle ombre e così cambia anche la sua percezione del reale. Torna nella caverna per liberare gli altri, ma viene deriso, osteggiato, e infine ucciso, poiché gli altri prigionieri non riescono a cogliere una realtà diversa da quella delle ombre, né sentono il dovere di affrontare le difficoltà descritte per vedere la realtà nella sua interezza. Le ombre sono la loro realtà.
Il mito illustra il percorso dall’ignoranza alla conoscenza e la difficoltà di accettare nuove verità. Platone usa questa allegoria per spiegare la teoria delle idee e la distinzione tra il mondo sensibile e il mondo delle forme intelligibili.
Egli, dunque, ritiene che le apparenze (doxa) siano ingannevoli e che mascherino la vera natura delle Idee. Secondo lui, ciò che vediamo nel mondo sensibile è solo un’ombra della realtà perfetta e immutabile delle Idee a cui dovremmo tendere. Ma ve lo immaginate il suo disappunto difronte alle fake news o alle manipolazioni delle immagini o delle notizie? Forse, se il suo pensiero si fosse mai spinto fino ai giorni nostri, questo pensiero ci avrebbe voluti un po’ meno schiavi e un po’ meno ancorati alle mere proiezioni. E invece, mio caro Platone, siamo ancora nella caverna, però la caverna ora è ben arredata, abbiamo tanti magnifici schermi in cui creiamo volutamente delle ombre, ombre in 4k, ombre con risoluzioni magnifiche e alle quali associamo hashtag. Potremmo dire che c’è poco da opporsi alla natura umana.
Concordiamo tutti che l’apparenza gioca un ruolo cruciale nella comunicazione, influenzando percezioni, giudizi e interazioni. Naturalmente sono diversi i filosofi e i teorici che si sono spesi per affrontare il tema dell’apparenza e del giudizio. Un grande fil rouge interpretato a seconda della sensibilità intellettuale di ognuno.
Immanuel Kant ci parla di Fenomeni e Noumeni, distinguendo tra il mondo fenomenico (ciò che appare ai nostri sensi) e il mondo noumenico (la realtà in sé, che non può essere conosciuta direttamente). Le nostre percezioni sono mediate dalle categorie della mente umana. Questo ci introduce molto bene il mito del Velo di Maya di Schopenhauer: la realtà che percepiamo è solo una rappresentazione, il velo nasconde ai nostri occhi la vera essenza del mondo, ovvero l’apparenza che ci inganna, mascherando la verità.
L’ esistenzialista Sartre enfatizza la libertà individuale e l’autenticità. L’apparenza può essere una scelta consapevole, ma può anche portare a una “cattiva fede” (mauvaise foi) quando gli individui si nascondono dietro ruoli sociali e maschere e, parlando di maschere non possiamo non nominare Erving Goffman e la sua Prospettiva Drammaturgica. Goffman, sociologo canadese, analizzò la vita sociale attraverso la metafora del teatro. Nella sua opera “La vita quotidiana come rappresentazione” (1959), descrive come gli individui mettano in scena ruoli per gestire le impressioni altrui. Goffman sottolinea che la comunicazione si svolge sempre in un contesto fisico, sociale e culturale specifico. La comprensione della comunicazione richiede di considerare sia il microcontesto (la specifica situazione di interazione) sia il macrocontesto (il contesto più ampio e pluridimensionale). Goffman distingue tra “ribalta” (dove è presente un pubblico) e “retroscena” (luogo privato senza pubblico). Con le tecnologie moderne, la comunicazione può essere asincrona e despazializzata. L’atteggiamento dei partecipanti (favorevole, ostile, neutrale) e l’aspetto fisico possono influenzare la comunicazione. La struttura status-ruoli della società influenza le relazioni comunicative. Ogni individuo proietta una definizione della situazione. La comunicazione intra- e interculturale è influenzata dalle diverse culture e contesti di background.
Goffman sostiene che l’identità è composta da più strati e si forma continuamente nelle interazioni con gli altri. Gli individui presentano se stessi attraverso tre modalità principali:
Facciata personale: equipaggiamento espressivo, come l’abbigliamento e i tratti stabili (sesso, età, etnia).
Simboli di status: emblemi dello status sociale o professionale.
Ambientazione: lo scenario in cui avviene la comunicazione.
L’identità può essere confermata, rifiutata o disconfermata dagli altri, e il consolidamento dell’identità personale richiede la presenza di una struttura di plausibilità o consenso. Ma come viene guidato il giudizio degli altri? La psicologia e le scienze sociali ce lo spigano attraverso i bias cognitivi.
L’effetto alone (Halo effect) è un bias cognitivo in cui una caratteristica positiva di una persona (ad esempio, l’aspetto fisico) influisce positivamente su altre percezioni, come l’intelligenza o la competenza. Questo effetto può portare a giudizi superficiali e inaccurati.
L’ Effetto Pigmalione, collegato all’effetto alone, si riferisce al fenomeno per cui le aspettative di una persona influenzano le sue performance. Ad esempio, se un insegnante crede che un alunno sia particolarmente intelligente, è più probabile che quest’ultimo performi meglio.
I bias cognitivi sono scorciatoie mentali che il cervello utilizza per prendere decisioni rapide, questo può portare a errori di giudizio e interpretazione. Alcuni dei principali bias includono:
– Conferma: Tendiamo a cercare informazioni che confermano le nostre preesistenti convinzioni.
– Disponibilità: Valutiamo la probabilità di eventi in base alla facilità con cui possiamo ricordare esempi di tali eventi.
– Ancoraggio: Ci affidiamo troppo alla prima informazione ricevuta (l’ancora) quando prendiamo decisioni.
Il giudizio sugli altri, basato sull’apparenza, è profondamente influenzato dai bias cognitivi e dalle modalità di presentazione del sé. Goffman e altri filosofi ci offrono strumenti per comprendere come le apparenze e i contesti sociali influenzino le nostre interazioni. Riconoscere l’influenza dei bias cognitivi può aiutarci a migliorare la nostra capacità di giudizio e a sviluppare una comprensione più profonda e autentica degli altri.
Ad ognuno la sua scelta: se restare fermi ad osservare le ombre, dando loro il senso del tutto o se esporre i nostri occhi al dolore accecante e necessario per mettere a fuoco le figure che generano quelle ombre.
Gio mi apre la porta e mi invita ad entrare dentro casa sua. I suoi occhi, scuri e profondi, riescono ad avere sempre un’incredibile luminosità. Lo abbraccio con affetto, quell’affetto che lega due anime in sintonia. C’è così tanta bellezza attorno a me che ne rimango estasiata, ogni oggetto è pregno di arte ed ha una storia tutta sua che vorrebbe raccontare. Una cosa in particolare mi rapisce lo sguardo: uno splendido cuore sacro incorniciato. “Adoro gli EX voto” gli dico. “Adoro i cuori” mi risponde lui, ed è in quel momento che spuntano, come richiamati all’appello, tantissimi cuori, in ogni sorta di materiale, forma o colore. Ci accomodiamo sul divano, mi offre una birra e iniziamo la nostra chiacchierata. Mi trovo qui perché non ho potuto non pensare al suo lavoro artistico riflettendo sul significato della parola “insolito” e perché lui è stato carino ad accogliere con entusiasmo una proposta fatta senza il minimo preavviso.
Salvatore Giò Gagliano, per gli amici Giò è un artista vercellese, un educatore presso ANFFAS onlus Vercelli e un arte-terapeuta. Classe 1977, ama definirsi un diversamente fotografo, la sua passione è catturare la bellezza umana, la sua arte è vederla anche dove gli altri non sanno farlo, e incanalarla nelle sue foto, per renderla fruibile e leggibile a tutti. Lontano da stereotipi e discriminazioni, ci insegna ad abbracciare la diversità, che è una ricchezza inestimabile per tutti noi, e a tenere viva la curiosità per le tante storie che le sue immagini narrano. Dal 2000 lavora come educatore e ha partecipato a diverse mostre collettive e personali, sia in Italia che all’estero.
Origini
Come è nata la tua passione per la fotografia e cosa rappresenta per te? È una passione che ho fin da piccolo, quando, per la prima comunione mi hanno regalato una macchinetta della kodak con cui ho iniziato a sperimentare, coinvolgendo mia cugina che mi faceva da modella. Il vero lato artistico, però, è arrivato nel 2000, dopo un percorso accademico nel quale mi sono cimentato prima con la pittura e la scultura. Precisamente durante la preparazione di una mostra, una triennale di giovani artisti, che in quell’anno affrontava il tema della guerra. Mi ricordo che avevo a disposizione degli oggetti specifici per costruire un’istallazione: delle cassettine di legno e plastica, che rappresentavano le guerre del passato e le guerre presenti, alle quali ho aggiunto un collage di fotografie in cui avevo immortalato tutti i miei familiari, intervenendo infine a livello pittorico. È stato lì che ho realizzato il grande potere della fotografia per comunicare agli altri quello che avevo dentro, quando la pittura e la scultura non mi bastavano. Ho capito che in questo modo sarei potuto andare oltre e da quel momento le foto sono diventate il mio mezzo artistico.
Nel 2004, con “I Volti della Passione” sono riuscito ad unire le mie due vocazioni: l’arte ed il sociale, ambito nel quale avevo appena iniziato a lavorare. Questo progetto è nato per la Biennale del Mediterraneo. Mi sono reso conto che in tutta la storia dell’arte nessuno aveva mai affrontato il tema delle disabilità, se non per mettere in ridicolo i suoi soggetti, come facevano nel Settecento, per esempio. Ho subito pensato alla Pietà del Michelangelo, come passione, coinvolgendo Roberta, una ragazza con la sindrome di down, e Andrea, un ragazzo spastico, nei panni di Cristo, per vedere cosa ne uscisse fuori. Gli abiti vennero realizzati da mia madre e da mia zia, io ricreai il calice del Bacco del Caravaggio mettendo insieme un candelabro con un piatto di vetro sopra, e gli scatti furono effettuati tutti in analogica. Questo progetto è durato fino al 2009, quando ho realizzato la mostra. Grazie al Comune di Vercelli sono stati diffusi più di 30 cataloghi in tutta Italia e le mie foto sono arrivate a svariati giornali di arte. Negli anni a seguire, altri fotografi hanno trattato progetti simili, alcuni con mezzi e sponsor anche molto importanti, ottenendo grande risalto.
Parlami dei tuoi progetti. Attualmente mi sto dedicando a Kouros, un progetto benefico che ha come protagonista Marco. Marco è un ragazzo ventenne, che due anni fa ha perso la gamba destra in un incidente in moto. Io sono venuto a conoscenza di questa storia un anno dopo, leggendo l’articolo su Facebook, in cui si parlava anche di una raccolta fondi “una mano per una gamba”. Naturalmente mi sono sentito in dovere di dare il mio contributo, ma rendendomi subito conto che fosse una goccia in mezzo al mare. Volevo fare di piu. Ho contattato Marco su instagram, dicendogli che mi avrebbe fatto piacere conoscerlo e sostenerlo, con l’unico mezzo di cui disponessi, ovvero la fotografia. Oltre a questo, il mio desiderio era quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sul fatto che anche senza una gamba si può fare, come ha fatto Marco, e, contemporaneamente dimostrare che un arto mancante non priva un corpo della sua bellezza.
Ci siamo incontrati e lui mi ha raccontato la sua storia. Io non lo sapevo, ma la ASL passa una protesi, la cosiddetta “gamba di legno”, che come si può facilmente intuire è una protesi molto rigida, che limita i movimenti. Per avere una “gamba” che gli conceda dei movimenti normali e fluidi è necessario un bell’investimento economico: la cifra è di 58 mila euro, ogni anno prevede circa 2 mila euro di manutenzione e ogni 5 anni andrebbe cambiata. Sono rimasto colpito dalla serenità con cui ha affrontato tutto questo: quando Marco si è risvegliato ha pensato di essere fortunato e che sarebbe potuta andare peggio. Era grato per essere rimasto in vita. Questo per me è stato come una pugnalata nel cuore. Per me lui è un eroe, un mito e da qui nasce la connessione con le antiche statue greche, con la loro eterna bellezza, seppur private di una gamba o un braccio. La rappresentazione visiva è il Kouros: questo giovinetto che mantiene sempre una posizione molto eretta e che ha la particolarità di avere la gamba sinistra leggermente avanti rispetto a quella destra, come nel caso di Marco, in cui la sinistra è quella sana. Non credo alle coincidenze, ma credo che le cose capitino in un preciso momento, per un preciso motivo, per farti fare qualcosa di particolare. C’era bisogno di un progetto forte! Non volevo fare delle fotografie in studio, fine a se stesse. Ho pensato che il Museo Leone potesse essere perfetto con i suoi reperti archeologici. Il museo, non solo ha accolto con grande entusiasmo il progetto, ma ci ha messo a disposizione tutto lo spazio possibile per scattare, ci ha concesso l’utilizzo di reperti che raffigurano gambe, piedi o braccia (come rimando al nome della raccolta fondi “Una mano per una gamba”) ed ha riservato grande attenzione nei confronti di Marco. Inoltre ha esposto 6 delle 27 fotografie all’interno del museo vero e proprio, dislocando addirittura un’anfora antica per collocare una nostra foto. La mostra sta andando bene ed è di sostegno alla raccolta fondi, a cui partecipa anche la vendita all’asta delle foto. Il progetto vercellese si concluderà il 2 giugno, ma il mio desiderio è quello di portarlo anche fuori e dargli quanta più visibilità possibile.
Un altro progetto in partenza è “Corpus”, un altro progetto benefico a cui sono stato invitato e che probabilmente partirà in autunno al museo del Duomo di Vercelli. Per questo lavoro sto creando un libro d’artista, un percorso sulle persone e la pelle che abitano, con le sue cicatrici, imperfezioni, con le sue malattie, con i suoi vissuti e la sua forza. Saranno 300 fotografie con la copertina in ecopelle rilegata con i fili di sutura. Ogni pagina sarà uno zoom, senza nessun riferimento al soggetto, ma solo con la descrizione delle peculiarità di quella pelle. Ho fatto una ricerca sui social per raggiungere l’ambizioso numero di soggetti da ritrarre e sono rimasto stupito delle risposte positive che ho avuto già in breve tempo.
Ricordi un momento preciso o un incontro specifico che ha cambiato il tuo modo di vedere il mondo attraverso l’obiettivo? Attraverso I’obiettivo no, ma ci sono stati degli eventi durante le mostre che mi hanno toccato, uno in particolare, durante la mostra “I Volti della Passione” al Palazzo del Moro a Mortara. In questo spazio c’erano due ingressi: un’entrata ed un’uscita. Ad un certo punto due signore, anche un po’ trasandate, sono entrate dall’uscita e si sono fatte un giro piuttosto rapido della mostra. Il mio pensiero è stato “queste non hanno nemmeno capito di essere ad una mostra”.
Le signore, alla fine del giro si sono avvicinate a me per condividere le loro impressioni. Mi sono sentito come se mi avessero preso a schiaffi, perché con uno sguardo veloce avevano colto tutta l’essenza della mostra e della mia arte. Siamo esseri umani, capita a tutti di peccare, perfino a te, che del non fermarsi all’apparenza ne hai fatto il pilastro portante del tuo lavoro e della tua arte. Da quel momento, ogni volta che faccio un pensiero del genere mi torna in mente quel ricordo e mi riprendo. È cambiato il mio modo di approcciarmi agli altri, non che prima giudicassi, perché sono sempre stato molto aperto, ma cerco di evitare questi scivoloni. Le differenze mi hanno sempre affascinato. Da piccolo ero ammaliato dai cinesi e dai loro occhi a mandorla ed ero incuriosito dal mio compagno delle elementari che aveva un ritardo mentale. Per me è ciò che ci rende diversi gli uni dagli altri a rappresentare il punto di forza dell’umanità.
PROCESSO CREATIVO Come descriveresti il processo che segui per entrare in contatto con i tuoi soggetti? Come costruisci una relazione di fiducia con loro? Qual è il segreto per cogliere l’autenticità e la personalità dei tuoi soggetti?
Sono io che mi faccio condurre da loro, non sono io che conduco, come ho fatto con i miei ragazzi ( i ragazzi dell’ Anffas di Vercelli). Quando ho costruito “I Volti della Passione”, ho scelto i quadri sia per somiglianza che per caratteristiche, perché sapevo di andare a tirare fuori qualcosa da quella persona. Rosetta, per esempio, è appassionata di gioielli e bigiotteria, metterle quel orecchino di perla la faceva stare bene. E così ho fatto sempre, sia con i miei ragazzi, sia con gli altri modelli con cui ho lavorato. Solitamente sono io che chiedo agli altri cosa vorrebbero fare e quali sono i loro limiti. Anche con Marco è andata così, mi sono fatto guidare da lui, dai suoi movimenti. Intervenivo per suggerirgli di fermarsi solo quando la posizione mi sembrava giusta. Io mi fido e mi affido agli altri. È così che nasce il mio processo creativo. In base alle loro abilità e alla loro capacità di darmi fiducia a loro volta. Mi piace creare la relazione, è un momento intimo. È come fare l’amore: ti devi fidare e affidare, perché, che tu sia vestito o svestito, davanti all’obiettivo sei comunque nudo e vulnerabile. Vedo tante foto in giro che sono perfette a livello tecnico, ma che non trasmettono nulla.
Che cosa è per te la bellezza? Non posso essere ipocrita e negare che la parte estetica non mi tocchi, ma io sono sempre stato affascinato dalla bellezza interiore, da quello che mi trasmettono gli occhi e il sorriso. Quello che viene da dentro rende bello il fuori. Ho fotografato tempo fa un soggetto fisicamente molto bello, eppure non ho sentito nulla guardando quelle foto, quella persona non mi è arrivata, vuoi perché non si è creato il giusto feeling, vuoi perché quella persona lì in quel momento non aveva nulla da trasmettere. La bellezza è sentire l’essenza di una persona e le sue fragilità, la bellezza è come si parla, come ci si muove, il profumo, la generosità nel dedicarsi agli altri.
EVOLUZIONE PERSONALE Come è cambiata la tua visione del mondo e della bellezza attraverso il tuo lavoro? È stato un cambiamento enorme, io mi sono aperto sempre di più. L’arte mi ha aiutato e mi ha liberato dalle catene che io stesso mi ero messo. Mi ha dato il coraggio di espormi e di dichiararmi omosessuale. Mi ha liberato dal bisogno di mettere sempre delle etichette. L’arte mi ha aiutato anche nel periodo della pandemia, nel primo lockdown ho pensato di non farcela: casa lavoro, lavoro casa; a lavoro mi avevano tolto la parte più bella che è quella degli abbracci e a casa ero da solo. Mai come in quel momento ho sentito il bisogno di comunicare con l’esterno attraverso le immagini, ed è così che è nato il progetto “Hope”. L’arte aiuta sempre. Questa è una cosa che mi appartiene sin da piccolo, quando tornavo a casa da scuola arrabbiato mi mettevo a disegnare, invece di parlare con mia mamma. L’arte per me è sempre stata un grande veicolo e negli anni mi ha aiutato ad aprire ancora di più la mia mente, a mettere da parte i pregiudizi e le paure, a migliorare il rapporto con il mio corpo e con lo specchio, a liberarmi dai condizionamenti sociali che ci vengono inculcati fin dall’infanzia. Prendi l’Eurovision, per esempio, la vittoria di Nemo quanta critica ha sollevato perché lui è non binario, perché ha indossato degli abiti femminili, e siamo nel 2024.
Il tuo modo di comunicare attraverso l’arte racchiude dei messaggi che hanno un grande valore umano e sociale. Questo sicuramente ha portato con sé delle difficoltà.
Ho fatto posare una ragazza down nuda – e sorride. Il lavoro fotografico con la disabilità è stato non solo quello di dimostrare che un ragazzo con la disabilità ha anche delle abilità, ma anche quello di scardinare il canone estetico. Il primo impatto con una persona è visivo e io voglio far vedere un corpo non perfetto in modo perfetto e poi riparlarne. Un grande lavoro è stato quello di affrontare con le scuole, e soprattutto con i licei, il mio progetto “I Volti della Passione”. C’è bisogno di lavorare con i ragazzi in età scolastica in questo senso. Trovo che nel mondo attuale due cose non funzionino più tanto: la famiglia e la scuola, perché tutte e due hanno perso un ruolo importante che è quello di educare. La scuola distribuisce nozioni, la famiglia è assente tende a giustificare ogni pecca del proprio figlio, perché altrimenti dovrebbero ammettere le proprie mancanze e le proprie colpe. Venendo meno questi ruoli, abbiamo una società allo sbaraglio e dei ragazzi che sono stanchi, delusi e annoiati dalla vita. La vita non è tutta rose e fiori, è una continua gavetta e ti mette costantemente in difficoltà.
A proposito di famiglia e di difficoltà, mi stavo chiedendo se avessi mai incontrato degli ostacoli nei progetti che includevano i tuoi ragazzi. Penso soprattutto quando hanno posato nudi, come hanno risposto le famiglie che hanno dovuto darti il consenso? Quando ho creato “I Volti della Passione” ci sono stati solo due genitori che non hanno dato il consenso. Uno non ha aderito a priori, trattandosi di un nudo, e una mamma ha deciso di ritirarsi dal progetto successivamente perché non si è sentita a suo agio a vedere la figlia ritratta così. Un aneddoto particolare che invece vorrei raccontarti riguarda la rassegna internazionale d’arte moderna sul tema delle streghe, tenutasi a Benevento nel Palazzo Paolo V, poco prima della pandemia. Avevano accettato il mio lavoro con Roberta, esponendolo, per poi ritirarlo a causa delle lamentele di alcuni genitori, che fraintendendo il significato del mio progetto, hanno pensato che associarsi la sindrome di down al concetto delle streghe. Ma Roberta è sempre stata una mia modella e musa, e in quanto tale ha sempre interpretato qualsiasi tipo di ruolo.
Se un giovane artista o fotografo venisse da te a chiederti dei consigli cosa gli diresti. Intanto io non mi considero un vero e proprio fotografo, mi piace definirmi diversamente fotografo. Un consiglio che darei ai giovani in generale è di non sentirsi mai arrivati. Fino all’ultimo giorno della tua vita tu non sarai arrivato. Bisogna volare bassi e non perdere mai la curiosità, quella di visitare mostre e di conoscere la realtà che ti circonda. Queste cose sono fondamentali. Se non viaggi e non conosci non ti puoi approcciare agli altri. Un altro consiglio, ma mi rendo conto che fa parte del mio modo di lavorare, è quello di creare una relazione. Per me è fondamentale non essere a senso unico, perché è un processo basato contemporaneamente sul dare e sul ricevere. Ho l’impressione che le nuove generazioni, rispetto alla mia, si brucino tutto subito. Io faccio arte perché è il mio ossigeno, il mio bisogno di comunicare con gli altri, ma mi sento il signor nessuno. Ora c’è il bisogno di emergere subito, anche senza alcuna dote né dedizione.
Pensi che i social possano essere in qualche modo responsabili di questa cosa? Mah, credo che i social siano stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La mia convinzione è che tutto sia partito da un esperimento sociale, che personalmente ho trovato molto interessante e ho amato: il grande fratello. Secondo me questo ha portato alla creazione dei social e di tutto ciò che ne è seguito: delle persone sconosciute, senza nessun talento, entrano in questa casa, e una volta uscite da lì si ritrovano ad essere dei grandi personaggi. Questo ha fatto credere a tutti quanti, che pur essendo nessuno e pur non avendo delle capacità o talenti particolari, sarebbero riusciti lo stesso ad ottenere la fama. Tanti tra questi però sono finiti nel dimenticatoio, anche quelli che si pensavano intoccabili. Forse bisognerebbe scendere dal piedistallo. Forse solo la storia, se tu hai seminato bene, può acclamarti un grande artista. Gli artisti eterni sono quelli che non si sentono mai arrivati e che non sentono la rivalità, ma che si esplorano e si reinventano continuamente.
Vi è mai capitato di avere l’impressione che sia la vostra vita a vivere voi? Di sentirvi scorrere tra le dita infiniti attimi tutti uguali a se stessi? Di sentirvi come su un treno in corsa con destinazione sconosciuta, talmente veloce da impedirvi di godere del paesaggio e nella totale impossibilità di scendere? Sul volto l’espressione dell’urlo di Munch: la disperazione di chi non riesce a ricordare da dove viene e dove sia diretto. L’eterno inconsolabile perché la causa del suo dolore è sconosciuta. Nausea e vertigine. Trappola mortale dell’anima. Un’ombra tra le mille sfumature della fragilità umana.
“L’epoca delle passioni tristi” è un libro complesso scritto da due psichiatri, Miguel Benasayag e Gerard Schmit, che ha l’obiettivo di portare alla luce un malessere diffuso, un senso di impotenza e di incertezza, segno di una cultura occidentale malata. La sua complessità sta proprio in un’analisi della crisi storica, che non si ferma quindi solo al mero aspetto psicologico o sociologico e che secondo loro risiede nel non ascolto del disagio giovanile. La tristezza è dunque l’emozione predominante e una condizione sociale. A causarla sarebbero fattori esterni, come la perdita di fiducia nelle istituzioni, problemi globali come la disuguaglianza, l’ingiustizia sociale e l’alienazione. Invitano a riflettere su come questo possa diventare uno strumento per mantenere lo status quo e impedire un cambiamento sociale, ma contemporaneamente suggeriscono di aprirsi alla possibilità di trasformare queste emozioni in una forza trasformativa sociale ed individuale.
Umberto Galimberti ci aiuta nell’analisi, sostenendo che l’ottimismo dell’occidente è finito e che il Dio di Nietzsche è veramente morto. La nostra cultura ha due antiche radici: quella greca, unica cultura, secondo Galimberti, che avesse davvero il coraggio di guardare i faccia il dolore, senza ricorrere a speranze ultraterrene, ma che rappresentava un ottimo incentivo per godere del momento, e quella giudaico-cristiana, costruita interamente sulla promessa di salvezza eterna, nella concezione che il passato è il male, il presente è possibilità di redenzione e il futuro è salvezza. Per quanto possa suonare paradossale, lo stesso pensiero lo ritroviamo in Marx, con la differenza che il futuro salvifico è, in questo caso, rappresentato dalla nobile azione umana della rivoluzione, come condizione di riscatto e miglioramento. Il Dio di Nietzsche a questo punto è già tecnicamente morto, nel senso che non è più la chiave di volta, ma in questo contesto storico, i concetti portanti come la scienza, la rivoluzione e l’utopia rappresentano ancora il lume dell’ottimismo.
Oggi la scienza non è più in grado di mantenere le sue promesse e c’è una presa di consapevolezza che il suo sviluppo non coincide con quello della felicità. La rivoluzione, che per Marx era una contrapposizione di volontà, sembra non essere più una possibilità, in quanto è venuta meno la contrapposizione stessa: ora tutto è sottoposto alle regole del mercato.
Il futuro, dunque, da promessa è diventato minaccia e la nostra psiche accoglie le ricadute e la disperazione di un’epoca. I vincoli sociali e affettivi sono al collasso nel nome di un individualismo sfrenato. Per quanto riguarda i giovani e il rapporto con i genitori, possiamo leggerlo nella chiave di un contrattualismo, in cui una mentalità mercantile diventa una modalità educativa.
Alessandro D’Avenia ha definito quest’epoca delle passioni tristi come “questo nostro tempo ebbro di emozioni di superficie, ma assetato di amori profondi, esangue e spento per mancanza di destini tesi a diventare destinazioni…” Questo splendido giovane autore, nel suo libro “L’arte di essere fragili”, ci parla del rifiuto della vita, di “una generazione ora in ansia, ora in fuga dall’esistenza che le è toccata” e si chiede “ma dove sono finite le passioni felici, profonde e durevoli?”
D’Avenia ci confessa che il segreto della felicità gli è stato svelato da qualcuno a cui mai avrebbe pensato: Giacomo Leopardi. Parlando di Leopardi pensiamo subito a due cose: la gobba e il pessimismo. Anni e anni di letteratura tra i banchi di scuola, con la complicità di docenti forse poco sensibili, non sono stati clementi con l’immagine di questo poeta del XIX secolo , segnata nell’immaginario comune da sofferenza e isolamento. Ma Leopardi è lontano dall’essere solo un “poeta malato”. È stato un osservatore acuto del mondo che lo circondava, della bellezza e della grandezza della natura. Leopardi, anche nei suoi momenti più bui, ci trasporta in un viaggio attraverso il sublime, rivelando la sua capacità di cogliere l’infinito nel finito e di vedere l’eterno nel transitorio. Il suo superpotere è stato quello di accettare le sue difficoltà e trasformarle in poesia. Attraverso la sua sensibilità e il suo coraggio, si erge come un modello e come un maestro, soprattutto per i giovanissimi. In un’epoca in cui la società ci fornisce solo istruzioni tecniche, Leopardi ci ricorda l’importanza di vivere appieno, di abbracciare le passioni e i sentimenti che ci rendono umani.
D’Avenia scrive: “Leopardi ebbe presa sulla realtà come pochi altri, perché i suoi erano sensi finissimi, da predatore di felicità. A guidarlo era una passione assoluta. La custodiva dentro di sé e la alimentò con la sua fragilissima esistenza nei quasi trentanove anni in cui soggiornò sulla terra; per questo ebbe un destino scelto e non subito, pur avendo tutti gli alibi per subirlo o per ritirarsi da qualsiasi passione. Fu invece un cacciatore di bellezza, intesa come pienezza che si mostra nelle cose di tutti I giorni a chi sa coglierne gli indizi, e cercò di darle spazio con le sue parole, per rendere feconda e felice una vita costellata di imperfezioni.”
Riguardo alla passione di Leopardi per i cieli stellati:
“Nessuno di noi si sottrae al rito delle stelle cadenti, perché almeno una notte ogni trecentosessantacinque tutti vogliono sentirsi parte di una storia infinita, nella quale al cadere di una stella si leva un desiderio, come se i nostri sogni fossero collegati con i movimenti dell’universo secondo una logica perfetta. Gli antichi, infatti, dicevano che se le stelle non determinano i fatti della vita almeno li influenzano. In quell’istante, immersi nel buio che copre il brutto vizio di non sentirci all’altezza della vita, siamo finalmente titolati a esprimere nel silenzio del nostro cuore ciò che per noi più conta, ciò per cui desideriamo vivere. Quella scia silenziosa di fuoco penetra attraverso i nostri occhi e con il suo ultimo sussulto di fiamma innesca le polveri inerti del nostro cuore, provocando un’esplosione ed espansione inedita. In quel momento sentiamo di meritare la bellezza, proprio per la sua gratuità, e si fa strada in noi la fiducia che la vita quotidiana possa diventare il terreno fertile per coltivare i nostri desideri, perché fioriscano. Sono attimi che mi piace definire di “rapimento”, improvvise manifestazioni della parte più autentica di noi, quel che sappiamo di essere a prescindere da tutto: risultati scolastici, successi lavorativi, giudizi altrui e l’esercito minaccioso di fatti che vorrebbero costringerci entro i confini della triste regione dei senza sogni. In una notte di stelle la parte più vera di noi cerca di farsi spazio.”
Nasciamo tutti con un fuoco che ci brucia dentro, questo fuoco può essere speranza o disperazione, ma forse possiamo attingere alla bellezza delle stelle, dell’arte e della poesia per trasformare questo fuoco in luce viva per il nostro cammino e per aiutarci a vedere ciò che veramente siamo e ciò che siamo in grado di realizzare.
Una domenica davanti ad un prosecco mi ritrovo a chiacchierare con Elisa di cose normali come il lavoro, e immediatamente salta fuori una questione inaspettata: l’ansia da prestazione.
Non ci sarebbe nulla di insolito pensando ad un universo fatto di adulti, carriera, uffici, piuttosto che della vita privata, ma che invece è tristemente riferito ai bambini. Nasce rapidamente in me la necessità di approfondire la questione e di chiarire, innanzitutto a me stessa le dinamiche che portano a questa condizione che ha tutta l’aria di essere una piccola silente sofferenza della nostra epoca e che porta passivamente con sé la promessa di creare una società fragile e intrisa di solitudine, una macchina con degli ingranaggi scollegati. Elisa Alaimo ha 43 anni, anche se ha il viso fresco e raggiante di una ragazzina. Lavora nell’ambito dell’educazione dal 2006. Dopo la laurea in Filosofia, con una tesi in antropologia culturale sulla Comunità Eritrea di Milano e sulle sue dinamiche di integrazione nel contesto urbano contemporaneo, c’è l’incontro con i Minori nelle comunità di accoglienza e i ragazzi nei corsi di formazione professionale, dove svolge il ruolo di docente di sostegno. Al riguardo mi dice: “Attraverso la relazione educativa con i giovani allievi e il supporto di docenti illuminati sono riuscita ad avvicinarmi al significato di reale inclusione (in anni in cui non era ancora un concetto così tanto diffuso), superando così quello di integrazione.“ L’esperienza tra i laboratori di elettronica ed elettrotecnica finisce circa dieci anni più tardi, quando arriva l’esigenza di fare un salto verso nuove conoscenze, apprendimenti e visioni. Ed è così che per i cinque anni successivi ricopre il ruolo di coordinatrice pedagogica ed educatrice per i più piccoli, per quella che è la “fascia 0-6”.
Cosa ti sei portata a casa di quegli anni? “Sono stati anni decisivi e fondamentali, di visioni nuove, aperte davvero alla centralità della persona, dei suoi bisogni, con i propri tempi e con i propri processi. Gli anni insieme ai bambini, vissuti all’altezza dei loro sguardi mi hanno ridato l’energia e la sicurezza per tornare nel mondo degli adolescenti, così tanto vicini, così tanto lontani, così sollecitanti.“ Attualmente sei docente di sostegno specializzanda presso l’Università di Torino (TFA VIII° ciclo), come descriveresti questa esperienza? “A dir poco impegnativa! | nostri docenti definiscono noi studenti in vari modi: acrobati tra le nostre vite, ponti tra le istituzioni, ma la definizione che preferisco è “attivista dei diritti umani”, perché lavorare per un mondo più inclusivo e più giusto è davvero ciò che finalmente rende piena la mia vita, chiara e colma di significato.“ Quando abbiamo chiacchierato quella domenica mi ha colpito molto il fatto che tu abbia fatto riferimento all’ansia da prestazione dei giovanissimi, ho sentito la stessa sensazione di quando fai degli esami approfonditi e il dottore ti conferma una diagnosi, che sospettavi ma che speravi in fondo di poter scongiurare: quell’impressione che la società in cui viviamo non goda proprio di ottima salute. Che cosa sta accadendo? “L’ansia da prestazione è assai diffusa tra le nostre classi, fin dai primi anni della scuola primaria. lo stessa, da docente, sono testimone quasi quotidianamente del disagio che i bambini provano di fronte ad un insuccesso, ad un voto non corrispondente alle aspettative, alla paura di deludere gli affetti più significativi. La paura più grande è quella di perdere valore dinnanzi ai propri genitori. Come se l’affetto e l’amore famigliare fosse commisurato al giudizio a seguito di una prova. Ciò non corrisponde alla realtà, eppure nel bambino si fa, spesso, strada questo pensiero. | fattori sono molteplici, da una società sempre più competitiva, al tempo passato in famiglia, che tra i vari impegni di genitori e figli è sempre meno. Molte volte confrontandomi con i genitori e raccogliendo i racconti dei bambini mi sembra che mamma, papà e figli si conoscano (o riconoscano) davvero sempre meno, così il voto o il risultato di qualunque prova diventa il dato tangibile del “chi si è?”. La mia è sicuramente un’opinione ma ritengo abbastanza ‘verosimile che le famiglie facciano molta fatica a capire i reali bisogni dei propri figli, a comprendere i processi che sottendono all’agire dei loro bambini e quindi le loro personalità. Forse se si iniziasse a dare valore e significato ai processi più che ai risultati (e uso il noi perché, a mio avviso, anche noi docenti dovremmo ricordarcelo di più) potremmo vedere bambini più sereni, consapevoli e sicuri del fatto che loro valgono non per quello che fanno ma per quello che sono.” Qual è la differenza nell’apparato scolastico ed educativo della generazione attuale rispetto alla nostra? “La scuola di oggi è una scuola che si mette sicuramente più in discussione rispetto ad un tempo. Ai docenti che si stanno specializzando si chiede di accettare, accogliere la trasformazione, di andare oltre all’ “abbiamo sempre fatto così”, di superare l’idea che certe teorie e pratiche non si toccano. Il lavoro educativo ci obbliga a rimanere nella complessità (di tempi complessi), la scuola di oggi inizia a riflettere sul fatto che ogni esperienza proposta ai ragazzi deve essere pensata, riflettuta. Uno stesso approccio non va bene per tutti, per sostenere un ragazzo nell’apprendimento è necessario riflettere sui suoi bisogni, riconoscerlo, accettarlo, accoglierlo incondizionatamente.”
Genitori, scuola e società formano la comunità educante di ogni individuo fin dalla più tenera età, quanta responsabilità ha ciascuno di questi attori? “Sappiamo bene che con “comunità educante” si intendono tutte quelle istituzioni che concorrono alla crescita di un ragazzo e non solo, dalla famiglia alla scuola allo sport, fino ad arrivare al quartiere, ai servizi offerti dalla città etc… Con comunità educante si intende attualmente davvero un cerchio molto ampio. Ad esempio se so che un mio allievo, che sta manifestando disagio a scuola in svariati modi, va a prendere il caffè prima del suono della campanella in un determinato bar, io da docente devo essere consapevole che il mio allievo entra in classe con il bar. Per intenderci, gli incontri che ha avuto, i quotidiani sfogliati, i discorsi ascoltati possono essere indicatori del perché prova o manifesta disagio. E io, come docente, e quindi parte della comunità educante, così come il barista, posso attingere alla rete interna della comunità per capire la situazione e quindi intervenire sollecitando altri nodi della comunità. Se questo senso di rete fosse più condiviso probabilmente anche le famiglie potrebbero sentirsi meno sole e quindi supportate in un percorso di crescita che coinvolge tutti collettivamente.“ Pensi che la nostra generazione fosse più libera e dunque più serena? “Non so dire se la nostra generazione (anni 90-2000) fosse più libera delle nuove generazioni, sicuramente avevamo un sentimento della libertà diversa. Per me la libertà si manifestava nella Scelta. La mia generazione poteva scegliere, sapeva cosa scegliere, si esponeva dichiarando cosa volesse. Talvolta gli obiettivi si raggiungevano con facilità, altre volte lottando (con la famiglia, la scuola, con le aspettative della società), altre volte lasciando perdere o cambiando strada. Con o senza compromessi. Ora mi chiedo se le nuove generazioni si sentono libere di sognare. Mi domando se esistono ancora i desideri“
Questo mondo ci vuole altamente performanti, forse ancora prima di riuscire a maturare la nostra identità ed espressività, e non curandosi del nostro bagaglio emotivo, o banalmente dei tempi filologici individuali. e per questo che si parla sempre di più di burnout? È vero che questa condizione vede vittime sempre più giovani? Come fare per invertire questa tendenza? “Il burnout è una malattia e come tale deve essere trattata. Il burnout si manifesta quando il nostro mondo intimo, quello dei sogni, delle ambizioni, dei modi in cui la nostra personalità si presenta al mondo brucia letteralmente. E brucia davvero. Ciò riguarda tutti, dai ragazzi che non si sentono riconosciuti nel loro valore, ai giovani adulti che sperimentano la frattura tra ciò che sono e l’ambiente che li circonda, spesso vittime di rapporti con datori di lavoro, manipolatori e perché no? Anche sadici. Ma ci sono anche lavoratori in prepensionamento che trascinano la loro giornata lavorativa al termine, senza esserci realmente (spesso generando una catena di malcontento e disagio tra colleghi, che potrebbero al loro volta sperimentare quel vuoto che genera il burnout stesso). lo non ritengo che il burnout sia legato direttamente al livello di performance o alle richieste esterne, credo che nasca da un profondo disagio esistenziale, che richiede un cambiamento, uno svoltare di cui spesso si ha paura o non si ritiene di averne le forze. Eppure quante storie conosciamo di lavoratori sofferenti che per scelta o necessità hanno cambiato contesto e si sono ripresi in mano la loro vita? E’ necessario monitorare i luoghi di lavoro (o di studio) con criteri adeguati e precisi, che mostrano chiaramente quali sono gli indicatori per un ambiente sano e favorevole al benessere.“
In diversi studi si fanno analogie sul comportamento tra la generazione degli adulti di oggi e quelle che l’hanno preceduta, affermando che ci si trova in un adolescenza estesa fino alla soglia dei 40, cosa implica questo atteggiamento, lo possiamo collegare al nostro discorso? “Sì, ritengo che ci sia una correlazione tra i ragazzi adolescenti e gli adulti ritenuti (o che si ritengono) adolescenti a 40 anni ed è molto semplice, i quarantenni adolescenti sono tali perché non sono riusciti a superare le grandi paure dei ragazzi, cioè quelle di non essere amati, non accettati per quelli che sono, di essere lasciati soli.“ Per concludere, non posso esimermi dal domandarti cosa ne pensi del metodo Montessori. “Il metodo Montessori ha dato la libertà ai bambini di scegliere e di conseguenza attraverso la scelta di manifestarsi nella loro personalità. L’ambiente, ordinato, preciso, leggibile della Casa dei Bambini porta il fanciullo a scegliere con serenità lo spazio con le proposte più adeguate al suo sentire. Con il metodo viene messo l’accento sulla centralità del bambino, che sperimenta sempre di più diventando via via più consapevole ed autonomo. Sono innumerevoli le possibilità che offre il metodo, ma ho voluto focalizzarmi sulla libertà di scelta perché, come già detto, la ritengo una facoltà che stiamo perdendo. Anche il metodo Montessori ha il suo limite, che sta proprio nel concetto di metodo. Il metodo non deve essere considerato una “lista della spesa” o come consigli per gli acquisti da applicare in ogni occasione, ma va pensato, valutato, ripensato nella complessità.“
Abbandonare non è lasciare, lasciare è un’azione pensata, calibrata, ponderata… Abbandonare è un atto viscerale, un’esigenza inevitabile e improrogabile. Un’azione imposta alla persona o all’oggetto che la subisce. Lasciare qualcuno, invece, prevede un confronto, uno scambio dialettico, prevede l’atto di informare l’altro di ciò che sta accadendo.
Nella città in cui vivo c’è un luogo incredibilmente affascinante e misterioso: il vecchio manicomio, uno dei più grandi d’Italia, venti padiglioni e un parco di 125 mila metri quadri.
Nato nel 1937 come Ospedale Psichiatrico Nazionale e chiuso nel 1978 con la legge Basaglia, legge promulgata dal dott. Besaglia, neurologo e psichiatra, che pose al centro la questione dei diritti umani e ricollocò questi individui come pazienti, e non più come detenuti. Certo, questa legge vide anche una massiccia contrazione delle spese pubbliche, ma preferisco pensare che non fosse la priorità. Alcuni padiglioni rimasero ancora attivi come A.S.L. fino al 1991, quando in città venne inaugurato il nuovo ospedale, dopodiché fu definitivamente abbandonato a sé stesso (e agli appassionati di urbex). Naturalmente non è aperto al pubblico, ma questo non è mai stato un freno per i numerosi gruppi di curiosi, che spesso arrivano anche da fuori confine, attraversando campi, orti e reti metalliche per potersi introdurre all’interno e tuffarsi nella magia dell’esplorazione. Questo luogo ripaga di tutti gli sforzi. Addentrandoci troviamo ancora le vasche, i lettini, i tavolini autoptici, un’infinità di libri e articoli scientifici, le cinghie di contenimento, fino alle schede dei pazienti e ai registri, scritti a mano, con quella calligrafia così anacronistica. Sorvolando (anche se un po’ contro la volontà) sul fatto che tutto il materiale contenente dati sensibili andasse conservato in maniera più idonea, archiviato con maggiore attenzione o distrutto, rimane quel senso di incredulità e fascinazione a trovarsi circondati da oggetti come questi.
Sì chiamano luoghi abbandonati o luoghi fantasma,
eppure non manca mai qualche amante che faccia loro il filo. C’è sempre una forza di attrazione che ci
spinge a voler esplorare ciò che un tempo era vitale e attivo, e la
fascinazione che subiamo di fronte a questo passato pieno di interrogativi,
pronto a raccontarci storie incredibili e che in fondo è un po’ in nostro
terriccio, da dove le nostre radici traggono nutrimento (e si spera anche
qualche insegnamento).
Ripercorrendo i corridoi del vecchio manicomio,
contemplando la violenza che il passare del tempo può esercitare anche sulle
cose inanimate, e respirando quell’odore di muffa e di marciume, in questa
cornice dove il passato è sospeso, e dove le pareti sembrano voler soffocare il
grido degli orrori vissuti, è difficile non fantasticare su come vivessero la
quotidianità tra quelle mura medici e infermieri, ma soprattutto i pazienti. Quale
fosse l’ingrediente in eccesso nella ricetta, che li facesse passare agli occhi
delle persone comuni come “pazzi”?! E se fossero stati solo dei sognatori
cronici? Vittime inghiottite dal mondo Onirico? Uomini e donne riluttanti ad
una realtà troppo complicata? O semplicemente persone in qualche modo scomode,
da dover privare della propria libertà… E mi domando se anche la nostra psiche
non sia un po’ come uno di questi luoghi abbandonati. Un universo infinito, da
esplorare con cautela, ma dal quale non farsi inghiottire completamente,
mantenendo il ponte con la realtà, un luogo in cui avventurarsi in punta di
piedi , con la giusta attrezzatura e poi uscirne, possibilmente integri.
Secondo Jung, fondatore di uno dei due
approcci principali della psicoanalisi, il centro della nostra psiche è
l’inconoscibile sé, che se esplorato e indagato può diventare una straordinaria
forma di libertà e autodeterminazione. Come si può farlo vi chiederete voi? In
un modo bellissimo: attraverso i sogni. Quelle immagini folli e apparentemente
senza senso che si sviluppano quando dormiamo e lasciamo andare le redini. Il linguaggio
dell’inconscio, e quindi dei sogni, non è facilmente fruibile al conscio perché
non è razionale, si esprime attraverso immagini, metafore e simboli,
esattamente come fa il linguaggio artistico.
E cosa succede quando questo luogo non lo
esploriamo e lo consegniamo all’incuria? Quando diventa il luogo dei potenziali
irrealizzati? Quando non siamo armonizzati con il sé? Ebbene c’è il rischio di
sviluppare sintomi, inquietudine o addirittura nevrosi. Ma analizzando questo luogo,
spesso dimenticato, abbiamo una guida per realizzare il nostro destino.
Penso all’inconscio come ad un luogo
abbandonato perché i sogni mirano ai nostri lati oscuri, non a ciò che già conosciamo,
non sono l’espressione dei nostri desideri e delle nostre paure. Associare o
proiettare eventi accaduti nei sogni a cose che conosciamo nella realtà può
rivelarsi incorretto o impreciso. I sogni hanno una struttura ed un linguaggio
a sé e ciò può rende complicato fare un’autoanalisi.
Abbiamo detto che è importante comunicare con
il proprio inconscio attraverso i sogni, ma sappiamo bene che non è così facile
registrarli prima ancora di analizzarli e tradurli. Molte persone fanno fatica
a ricordare i propri sogni. Ci vuole un po’ di allenamento, in effetti, ma
anche l’impegno di scriverli non appena svegli. Perché questi, al mattino, con
il primo raggio di luce che contempliamo,
svaniscono come una folata di vento.
Una buona tecnica sarebbe quella di prendere
un foglio e dividerlo in due, come si faceva con i temi alle superiori. Nella
parte sinistra registriamo il sogno e nella parte destra annotiamo le nostre
associazioni, quello che il sogno ci ha evocato. E bisogna farlo nel modo meno
razionale possibile. Lasciare la mente libera di vagare e lasciar parlare le
immagini, come se fossimo di fronte al Trittico del Giardino delle Delizie di
Hieronymus Bosch. Opera complessa, sublime ed assolutamente folle agli occhi
severi della razionalità.
I sogni sono spontanei e imprevedibili eppure
tutti presentano una struttura identificabile nella quale si organizzano.
La psicologia junghiana ci permette di
esaminare il sogno dividendolo nelle sue tre componenti strutturali: introduzione
o ambientazione, azione e conclusione (obiettivo del sogno, la
fase che fornisce la soluzione inconscia). Ma alle volte semplicemente non
esiste una libera associazione. E qui è il caso di alzare l’asticella e passare
al livello superiore, prendendo in considerazione i sogni archetipici. Gli
archetipi sono dei modelli di comportamento primitivi, che l’umanità ha
sviluppato nel tempo attraverso l’adattamento all’ambiente. Dei veri e propri
centri di gravità dell’inconscio collettivo. Hanno quindi un significato
mitologico, che prescinde dall’individuo stesso.
Spesso quando sogniamo qualcuno, magari qualcuno
che non c’è più, ci abbandoniamo a un senso di nostalgia e/o pensiamo che lo
spirito di quella persona voglia comunicare con noi. Qui bisogna stabilire su quale piano ci
troviamo: oggettivo o soggettivo. Mi spiego meglio, se nel sogno compare il nonno,
interpretarlo sul piano oggettivo vuol dire che le azioni di questo personaggio
appartengono davvero a lui, mentre su un piano soggettivo le attribuisco ad una
parte di me, che può avere delle affinità con la figura rappresentata (il nonno
può essere il lato maschile della mia personalità, per esempio). Nella
stragrande maggioranza dei casi, la giusta interpretazione ha carattere
soggettivo!
Solitamente nella prima metà della vita i
sogni riguardano maggiormente l’andamento della vita esteriore terreno e
materiale Nella seconda metà invece il modello onirico induce l’individuo a
occuparsi del suo mondo interiore, a sviluppare una certa saggezza, a prendere
coscienza dell’aspetto profondo dell’esistenza. A rendere il sé un luogo non
completamente abbandonato.
Se anche tu sei sensibile al fascino dei luoghi
abbandonati e nello stesso tempo sei cresciuto con i film western devi
assolutamente attrezzarti per questa esplorazione. Si parte per la California, sulla
Sierra Nevada, tra lo Yosemite National Park e il lago Tahoe. Siamo a Bodie,
per la precisione Bodie State Historic Park, quella che era una comunità
mineraria ai tempi della corsa all’oro. Dobbiamo percorrere una strada
polverosa, accidentata, lenta, lunga 20 chilometri fuori dalla State Highway
395, ma finalmente all’ingresso, dopo essersi imbattuti nel relitto di qualche automobile d’epoca, troviamo una targa che
dice:
“è
stato designato un landmark storico nazionale registrato secondo le
disposizioni dell’historic sites act del 21 agosto 1935. Questo sito possiede
un valore eccezionale nella commemorazione e nell’illustrazione della storia
degli Stati Uniti. Servizio dei parchi nazionali, dipartimento interno degli
Stati Uniti. 1963
Bodie
L’oro qui fu scoperto nel 1859 da W.S. Bodey,
da cui la città prende il nome. Una volta la metropoli più fiorente della
contea di Mono. Le miniere di Bodie produsse oro per il valore di più di 100
milioni di dollari. Duro come unghie. L’uomo cattivo di Bodie porta ancora
le sue pistole e il coltello Bowie nelle pagine della storia occidentale… 12settembre1964”.
Nel 1861 a Bodie fu fondato un mulino, nel 1876
si trasformò in un centro isolato di pochi ricercatori, per poi arrivare
nell’arco di pochi anni fino a quasi 10.000 abitanti e 2 mila fabbricati.
C’erano: la miniera sopra alla collina, due banche, diversi giornali, la
ferrovia, una prigione, una chiesa, un cimitero, le scuole, la palestra e
perfino un quartiere a luci rosse e contava ben 65 saloon. Nel 1880 la città
brulicava di famiglie, rapinatori, minatori, proprietari di negozi, pistoleri,
prostitute e persone di ogni parte del Mondo.
Le presse della città sformavano i lingotti che venivano trasportati alla zecca a Carson City o a San Francisco.
Ben presto però l’oro cominciò a scarseggiare, però, e la cittadina divenne sempre più pericolosa, con risse e omicidi a causa dei numerosi giocatori d’azzardo, ladri e gangster. Nacquero tra i saloon e i bordelli anche le case di malaffare, le sale da gioco e le fumerie d’oppio. Ogni sorta di intrattenimento per i minatori che cercassero dello svago dopo le dure ore in miniera o come consolazione per il lavoro che scarseggiava. I giornali hanno riferito, come se fosse una sorta di leggenda, che i cittadini al mattino chiedessero “abbiamo un uomo per colazione?!” per sapere se quella notte ci fossero dei morti in città. La criminalità aumentava e a partire dai primi anni del ‘900 Bodie iniziò a spopolarsi.
Nel 1913 compare ancora sulle guide turistiche
come città mineraria, nel 1917 la ferrovia fu abbandonata, ma mantenne ancora
una modesta ma permanente popolazione fino al 1942.
Bodie, diventata sito storico nel 1963, si
trova ora in una condizione di Arrested Decay, ovvero decadenza
arrestata, nel senso che la piccola parte (circa un centinaio di fabbricati)
sopravvissuta all’incuria e all’incendio del 1932, è stata conservata intatta,
congelata, con gli edifici e i loro rispettivi contenuti, come nel momento in
cui è stata definitivamente abbandonata, senza alcuna opera di restauro, ma
preservandola nel tempo.
Questa cittadina permette di fare esperienza
in maniera autentica ed evocativa delle atmosfere western e di immergersi nella
vita, congelata dei suoi abitanti, a
cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Affacciandosi alle finestre delle
abitazioni sì può scorgere , oltre al mobilio, agli utensili e agli effetti
personali, anche le conserve abbandonate nelle credenze, i vetri rotti, i
detriti e tutto ciò che non ha rappresentato una priorità nel momento della fuga,
e tutto rigorosamente conservato sotto ad un importante strato di polvere. Un
luogo fantasma, abbandonato, ma non dimenticato perché in qualche modo riprende
un po’ vita negli occhi curiosi dei visitatori e negli scatti “rubati”
all’interno delle abitazioni. Sì ha quasi l’impressione che gli abitanti si
siano smaterializzati contemporaneamente, lasciando tutto lì, sotto il sole
cocente e sotto quel cielo esageratamente blu per condividere con noi il loro
affascinante e colorato mondo.
Tu lo sai cosa significa “inspiration porn”? No?! Molto bene, perché non vedevo l’ora di raccontartelo… hai presente Maria Chiara Giannetta sul palco dell’Ariston? Il monologo sui ciechi che ha stuzzicato i tuoi dotti lacrimali, ma senza portare a casa il risultato, perché di ste robe alla fine non se ne può quasi più. Come? Ti è sfuggito qualcosa? Ora ti spiego tutto: dopo quattro puntate di Sanremo a qualcuno è sembrato doveroso trattare il tema delle disabilità. La giovane e talentuosa attrice interpreta una detective cieca (ma con il superpotere di un udito infallibile) nella fiction “Blanca”. Per far aderire meglio il suo personaggio si è fatta aiutare da quattro persone non vedenti, che le hanno mostrato come vivono la loro quotidianità. L’attrice, munita delle migliori intenzioni, ha voluto condividere con gli spettatori questa intensa esperienza, ma come nella maggior parte dei casi, la prospettiva è quella degli abili, oggettivando per l’ennesima volta delle persone, persone cieche, a cui su quel palco è stata tolta anche la voce, a favore di questo monologo forzatamente strappalacrime, tenuto della stessa Giannetta, su quanto siano meravigliosi, incredibilmente coraggiosi e di grande ispirazione i suoi “custodi”, i suoi “angeli”. Praticamente dei cuccioli di foca dietro al vetro di un acquario. Cuccioli a cui è stata fatta una carezza e a cui dedicare degli occhi commossi ed una voce tremolante. Questo approccio mainstream non è altro che una visione dichiaratamente pietistica della rappresentazione delle persone con disabilità che diventano fonte di ispirazione proprio per la loro disabilità.
Nulla togliere alla bravissima attrice, ma hai mai pensato che
la parte di un disabile possa essere interpretata da… (rullo di tamburi)… un Vero
Disabile? Perché questa cosa a me riporta alla mente il teatro elisabettiano, quando
le donne venivano interpretate (a gran fatica) dagli uomini perché considerate degli
esseri dall’emotività troppo instabile e assolutamente non adeguate al palco.
Hai mai pensato che un disabile possa esistere anche senza dei superpoteri che compensino i suoi limiti, che lo rendano una “persona speciale”, come se per giustificare la sua esistenza, si debba per forza elevare a protagonista di imprese straordinarie o eventualmente a creatura straordinaria nel compimento di azioni quotidiane del tutto ordinarie. Hai mai pensato a come il termine “diversamente abile” si faccia carico di aspettative corrotte? Ti manca la capacità di camminare, di sentire, di vedere, o hai problemi mentali, ma io devo per forza trovare in te qualcosa che compensi questa imperfezione, perché non puoi farmi sentire a disagio per questo. Non è accettabile. Devi sicuramente avere qualche super qualità che ti restituisca una dignità. Il problema in questo è proprio la parola “io”, nucleo portante dell’universo. Chiusura selettiva alla possibilità di immaginare di vestire i panni dell’altro, ma per davvero, non solo per farti sentire meno peggio. Da spettatore, quando guardi questi siparietti, non ti scappa di pensare che forse l’altro sia un soggetto vero e non un personaggio di fantasia, che abbia delle emozioni proprie e non sia messo lì a solleticare le tue e a farti stare più sereno? Ti viene mai il dubbio che questi momenti si possano trasformare in cultura invece che la conferma dell’ennesimo stereotipo?
Valentina Tomirotti (https://instagram.com/valetomirotti?utm_medium=copy_link) al riguardo scrive sul suo profilo Instagram: “Non si fa! (Non è banale, è reale) è questione di rispetto dell’essere umano: la gente non capisce che queste gag sono deleterie per i diritti civili di ognuno di noi. L’insulto non è solo la parolaccia, è nel gesto, nell’idea, nell’atteggiamento.”
Non posso fare a meno di chiedermi perché ci faccia stare così bene tirare fuori il nervo scoperto della pena, della pietà, di questa empatia dozzinale, perché ci faccia stare bene raccontare con stupore che una persona non vedente riesca ad alzarsi al mattino, farsi il letto e prepararsi il caffè. Perché vedere prima i limiti per poi elevarsi in uno slancio di ammirazione. Perché abbiamo sempre bisogno di qualcosa che ci aiuti a digerire la disabilità, come se fosse il pranzo di Natale a casa di zia Lina. Forse perché ci fanno sentire a disagio? Indegni di ciò che abbiamo e di cui non siamo comunque mai contenti?
Ora ti sarà sicuramente più facile capire a cosa si riferisca l’Inspiration Porn (pornografia motivazionale), termine usato per la prima volta da Stella Young , attrice, scrittrice e attivista per i diritti dei disabili, che, durante il suo TED speach, nel 2014, ha deliberatamente utilizzato il termine “porn” per sottolineare che il meccanismo è lo stesso dei film a luci rosse, ovvero quello di oggettivare un piccolo gruppo di persone, in questo caso disabili, a beneficio di un grande gruppo di persone.
Lo scopo è quello di motivare ed ispirare, in modo che tu possa pensare: “Beh, per quanto brutta sia la mia vita, potrebbe essere peggio. Potrei essere quella persona.”
Ma, come giustamente fa notare Stella Young, cosa accade se
tu sei quella persona? Se devi costantemente diluire la tua disabilità per chi
ti sta intorno, per confortarlo, per alleviare il disagio nei suoi occhi?
Quando non puoi esistere perché sei troppo concentrato a pensare a come gli
altri ti percepiscono.
Alex Dacy (https://instagram.com/wheelchair_rapunzel?utm_medium=copy_link)
in una campagna di sensibilizzazione su Instagram dice “Sono orgogliosa di
essere disabile. Il momento in cui ho smesso di annacquare la mia disabilità
per placare lo sguardo abile è quando la mia vita è iniziata davvero.
La campagna è del 2020 e si chiama “Disabile DesiderAbile”, pensata e promossa da MySecretCase (nato come e-commerce di sex toys fino a diventare un portale di educazione sessuale, intesa come un vero e proprio diritto per il benessere psicofisico) per infrangere il tabù della sessualità legato alla disabilità. Una campagna fatta di tante voci e tante storie che parlano del bisogno di ognuno di noi: vivere una sana sessualità, oltre i pregiudizi, oltre l’ossessione della perfezione estetica, o l’ansia di performare. E come potrà essere una strada che parte dal pietismo per arrivare al desiderio? Lunga e scoscesa. Perché è difficile pensare di avere delle risposte istituzionali senza che prima vengano abbattuti certi muri. Credo che il cambiamento sia più facile e rapido nel singolo individuo, che nella comunità, quindi ogni singolo individuo si ritenga responsabile dell’influenza che ha sulla società in cui vive. Ogni singolo individuo si senta in dovere di fare un passo in avanti, di aprirsi al dialogo, di mettere in discussione ciò che vede, di cambiare prospettiva, di non fermarsi in superficie.
Tra l’abilismo e l’inspiration porn, ci sono molte bucce di
banana su cui si rischia di scivolare, non sempre per mancanza di sensibilità o
per cattiveria, il più delle volte si cade a causa di un’inadeguata educazione.
C’è ancora molto da fare per edificare una società davvero inclusiva, per
riconoscere che siamo tutti esseri umani con caratteristiche eterogenee e che
abbiamo il diritto di pari opportunità e trattamento. Credo che un buon punto
di partenza sia la comunicazione, quella vera, quella costruita sull’ascolto,
sull’onestà, sull’empatia, sull’apertura verso l’altro. E credo che la buona
comunicazione richieda la collaborazione di tutte le parti coinvolte.
Eredità, in diritto, indica generalmente il patrimonio ereditario, globalmente considerato d’una persona fisica, che alla sua morte passa nella titolarità giuridica d’un altro soggetto, l’erede, per successione a causa di morte. Il fenomeno ereditario rappresenta da sempre un aspetto cruciale dell’organizzazione istituzionale e sociale.
Molte culture hanno da sempre adottato un meccanismo successorio che privilegia la linea paterna. Per molto tempo anche in Italia il fenomeno successorio ha seguito il ‘diritto di primogenitura’, attribuendo il patrimonio ereditario al primo figlio maschio della persona deceduta.
E le donne? Per parlare dell’eredità delle donne scomodiamo nientepopodimeno che il libro della Genesi.
All’inizio il Dio degli ebrei aveva creato Adamo e Lilith. “Insieme li creo, uomo e donna li creo”, non uno dalla costola dell’altro. Furono creati insieme. Così è scritto nella scrittura originaria della Genesi. E così, in seguito, si ebbe la prima censura della storia. I rabbini presero un bisturi e rimossero sapientemente questa parte. E insieme a questo la sua collera, perché nell’atto sessuale Adamo pretendeva sempre di stare sopra di lei. Rimossero la pretesa di parità da parte di Lilith nell’alternanza del potere. Rimossero il disgusto di Adamo nel vederla coperta di saliva e di sangue, simbolo della grande energia vitale. Rimossero la sua forte carica sessuale e la potenzialità aggressiva nella difesa delle proprie ragioni. Lilith avrebbe potuto non esistere fin dall’inizio, ma evidentemente la sua esistenza era necessaria a segnalarne la conseguente oppressione. La parte rifiutata dell’archetipo femminile. La prima donna a caricarsi del simbolismo dei divieti posti sul desiderio femminile, e non solo quello sessuale.
Come scrive Romano Sicuteri in “Lilith e la luna nera”: “su di essa vanno ad aggregarsi tutte le influenze culturali, religiose e psicologiche trasformandola in un vero tabù”.
Togliendo di mezzo lei, questa parte della femminilità si inabissa nell’inconscio collettivo. Lilith, proprio perché rifiutata, diventa cattiva, sfrenata, violenta e nemica degli uomini che volevano sottometterla. Finisce nel mondo dei diavoli in una sorta di inferno senza possibilità di redenzione. La Bibbia la toglierà di mezzo, ma nell’immaginario delle popolazioni giudaico-cristiane sopravviverà a lungo, almeno fino al sedicesimo secolo, come diavolessa che uccide i maschi colpendoli nel sonno. In questo mito non si fa altro che raccontare la forza aggressiva delle donne e il loro desiderio di essere alla pari nella costruzione del mondo e nella trama della relazione. Attenzione però a caricare la parola aggressività del significato più appropriato e questo significato lo troviamo nel libro “l’aggressività femminile” di Marina Valcarenghi, psicoanalista di formazione junghiana, docente di psicologia analitica e psicoanalisi degli aggregati sociali:
“Con la parola aggressività intendo quella disposizione istintiva che orienta conquistare e a difendere un proprio territorio fisico, psichico e sociale nelle sue forme più diverse; o, in altri termini, quell’istinto che guida a riconoscere, ad affermare e a proteggere la propria identità. Con lo stesso significato, del resto, il termine aggressività è utilizzato nel linguaggio dell’antropologia e dell’etologia, oltre che della psicoanalisi. In nessun caso mi riferisco qui all’aggressività come Intesa nel linguaggio corrente con il significato di aggressione di uno spazio altrui.”
L’istinto aggressivo dipende dalla qualità del soggetto, dalla sua coscienza, dal suo inconscio e dal modello sociale in cui vive, perché l’aggressività, come qualunque forma dell’istinto, non contiene in sé un codice etico. Il punto è che l’aggressività umana è malata e oscilla fra due poli distruttivi, la rimozione e la depressione da una parte, e l’aggressione dall’altra. Che poi coincidono con l’incapacità di difendere il proprio territorio o l’incapacità di riconoscere il territorio altrui. Da qui forse ha origine anche quella confusione terminologica fa aggressività e aggressione, che induce a semplificare la complessità dell’istinto e ignorare la differenza culturale fa violenza e autodifesa.
Questa è la fondamentale premessa che fa Marina Valcarenghi nella sua introduzione.
È stata percepita per molto tempo un’inferiorità di genere ed è lì che deve essere cercata l’origine del deficit aggressivo che viene considerato, in modo erroneo, del tutto naturale, perfino in ambito scientifico. La Valcarenghi riscontra nelle pazienti una condizione di ipoaggressività o iperaggressività per compensazione. In altre parole due diverse manifestazioni sintomatiche di uno stesso problema: la difficoltà a riconoscere e a proteggere la propria identità e il proprio progetto di vita. Due manifestazioni che portano allo stesso risultato: l’inevitabile sconfitta della donna. Vi chiederete dunque come è possibile che si consideri naturale un modo di essere che genera sofferenza è che produce sintomi. Nella personalità maschile le cose non stanno così. Hanno tendenzialmente un rapporto più confidenziale con la loro aggressività e un meccanismo di autodifesa più naturale.
Secondo Konrad Lorenz, padre dell’etologia, il deficit aggressivo comporta l’impossibilità di affrontare compiti e problemi, la caduta di autostima e la perdita drammatica del senso dell’umorismo. Stiamo dunque parlando di una patologia del l’istinto aggressivo, non indagata proprio perché ritenuta normale anche dalle donne e scientificamente irrilevante da una psicologia arretrata. La stessa che considerava naturali il masochismo e il narcisismo nella sfera femminile. Ipotizzare che le donne non siano in grado per natura di difendere la propria identità significa affermare che le donne non siano pienamente soggetti e quindi in grado di esprimersi come tali nel mondo. Ma come mai questo deficit aggressivo, presunto naturale, comporta sofferenza e sintomi? Eppure questa ipotesi, oltre ad essere sostenuta dalla medicina e dalla psicologia del profondo, è stata imposta dalla religione e dalla politica, con la forza delle armi, del rogo, della tortura, da una legge che ha sancito per un tempo immemorabile l’inferiorità è la debolezza delle donne. Questa legge non è stata sostenuta solo da uomini, ma anche dalle donne, e ancora oggi in parte lo è. Ma non è mai stato dimostrato che le donne siano prive di un istinto aggressivo, Ne consegue dunque che ne siano state sistematicamente private. Un istinto però non è eliminabile può essere il massimo represso, respinto nell’inconscio dal quale invia segnali di disagio.
Ma perché le donne ne sono state private? Già da un tempo così lontano da non averne più memoria. E cosa ha convinto tutti che questa fosse la normalità?
“Se una donna è frigida, questo è un suo problema, ma se quasi tutte le donne sono frigide e la frigidità femminile è un valore sociale perché testimonia la temperanza e buona educazione, allora diventa naturale essere frigide. E infatti così è stato. Oppure se una donna non parla in pubblico, questo è un suo problema, ma se quasi tutte le donne non parlano in pubblico perché il silenzio è un lodevole segno di modestia o perché non sono adeguate, o sono intellettualmente inferiori, o non hanno niente da dire, allora per le donne diventa naturale non parlare in pubblico. E invece non è naturale per niente. Nei due esempi proposti l’aggressività rimossa genera l’inibizione della spinta autoaffermativa sia nella sfera sessuale sia in quella sociale, ma questa operazione non è indolore, appunto perché non deriva dall’istinto ma dalla sua perversione. Ora è noto che i traumi non sono solo personali e che l’inconscio collettivo registra i traumi collettivi provocando conseguenze nella vita delle aggregazioni umane. Lo studio dell’intreccio fra l’inconscio collettivo (formato dal sedimento di traumi ed esperienze rimosse da un gruppo) e la coscienza collettiva (formata dall’insieme cosciente dei fondamenti economici, politici, religiosi e culturali di un gruppo) costituisce quella che io chiamo psicanalisi sociale (e che è quindi altro dalla psicologia sociale) e che potrebbe aiutare a rendere ragione di fenomeni antichi e complessi e, quando sia il caso, a trasformarli … In altre parole noi donne siamo all’interno di un processo in cui non possiamo avviare una liberazione personale senza spezzare le catene di un condizionamento collettivo e viceversa. La questione dell’aggressività sembra al centro di questo processo.“
Le donne non sono state le uniche vittime di questa repressione, ma sono state certo l’unica maggioranza ad esserne colpita, e in modo così diffuso e sistematico da corrompere la propria identità individuale e sociale causando una caduta verticale dell’aggressività, in quanto non si può difendere un territorio che non c’è. E questo territorio ci è stato negato a partire da una fase dell’evoluzione molto lontana. È il caso di ritrovare il coraggio di sentirci soggetti nell’indagine e a riconoscere la nostra inequivocabile complicità in quella repressione.
Chiudete gli occhi, immaginatevi il padre della psicanalisi all’inizio del ‘900 e tutta la scienza de profondo impegnata a indagare la mente umana e l’inconscio. La donna ha iniziato ad essere considerata un rompicapo in un’indagine unilateralmente definita da un modo maschile di pensare, che non ha mai dato la possibilità alla donna stessa di contribuire a spiegarsi in quanto soggetto. Jung fece un piccolo passo avanti indagando pioneristicamente la differenza di genere muovendosi nell’area delle competenze per territorio, che vede le facoltà degli uomini più sviluppate nella sfera intellettiva e spirituale e le donne nell’ambito delle pulsioni e del sentimento. Seguendo il suo principio della complementarietà degli opposti nella psiche, Jung pensava che le donne avessero il compito di sviluppare la loro parte inconscia definita Animus e collegata al pensiero, e che gli uomini, al contrario, avrebbero dovuto di conoscere i loro aspetti femminili, definiti Anima, collegati alla sfera dei sentimenti e della vita naturale.
Ora sappiamo che l’intensità pulsionale, emotiva e intellettiva è uguale in entrambi i generi, ma in forme diverse dell’energia.
Due modi complementari di prendere contatto con l’esperienza e non due modelli, entrambi mutilati, di vivere l’esperienza. Andremo così ad associare il pensiero maschile ad uno schema analitico, logico-deduttivo e penetrativo e il pensiero femminile ad un meccanismo sintetico, induttivo e ricettivo. Come è ben noto tutta la cultura occidentale è fondata sulla definizione greca di Logos, che circoscrive il pensiero maschile per eccellenza, eclissando quasi completamente il pensiero femminile, di cui ne restano vaghe tracce nella mitologia e nella storia. Basti pensare che le prime parole del Debello Gallico sono: “ Gallia est omnis divisa in partes tres”. Questo ci indica come il pensiero maschile delimita il suo oggetto di indagine, per penetrarlo ed arrivare a possedere una conoscenza. È rapido, lucido, preciso.
Il pensiero femminile è aggregativo, parte dalla contemplazione dell’insieme, non è orientato a penetrare, ma ad assorbire l’oggetto della conoscenza, senza isolare i diversi aspetti di un contesto, ma esaminandoli nelle loro reciproche relazioni (deduzione, non intuizione). Non cataloga, ma crea analogie, non è veloce né sempre preciso, ma è attento alle variabili. Può sembrare disordinato e distratto ma arriva a grandi livelli di profondità proprio perché è paziente.
Ecco, ora facciamo un altro salto in avanti e pensiamo a quelli che abbiamo definito come pensiero maschile e femminile come a processi mentali che appartengono a entrambi i generi, solo con padronanza e intensità differenti.
È sbagliato dunque parlare di uguaglianza tra uomo e donna, il punto di forza infatti è proprio la diversità. Il pensiero ricettivo e il pensiero penetrativo sono complementari, e insieme partecipano ad una funzione mentale completa e armoniosa. Nella storia questa disparità ha portato ad una sorta di delirio di onnipotenza del processo mentale maschile e alla debolezza e alla tendenza caotica del pensiero femminile, il quale respinto nell’inconscio ha assunto spesso forme irrazionali, superstiziose e paralizzanti. Lasciandolo capeggiare però, il processo mentale maschile è diventato un tiranno convinto che l’universo conoscibile sia modellato sulla sua forma. È stato avvelenato dai suoi stessi eccessi, diventando ossessivo, dispotico e paranoico. Ma sì sa che gli ossessivi finiscono per essere giocati dal loro stesso sintomo.
Marina Valcarenghi afferma infatti con una certa sicurezza che “questo sistema maschile ormai da troppo tempo inflazionato, in grado di distruggere il pianeta ma non di sfamarlo, creerà un sacco di guai in un imminente futuro se non sarà affiancato, con pari dignità, dal pensiero femminile.”
Anche nella sfera sessuale esistono due forme opposte di espressione: accogliere e penetrare. Non sono diversi il desiderio è l’appagamento, ma il modo in cui vengono vissuti. Nel corso dei secoli la repressione femminile ha vincolato l’istinto sessuale al senso di colpa, radicato nell’inconscio collettivo tanto da farne perdere le tracce alla coscienza individuale. Il conflitto fra istinto e senso di colpa provoca sintomi, come blocco del desiderio e frigidità. L’incapacità di sopportare la tensione sessuale interrompe il circuito libidico. Naturalmente questo senso di colpa è inconscio e può agire anche in contrasto con le convinzioni personali del soggetto, che può avere opinioni perfino trasgressive da questo punto di vista e nello stesso tempo essere drammaticamente incapace di provare un orgasmo. La perversione che ne deriva sposta la libido dalla sua direzione naturale verso comportamenti compensatori, come un’iperattività coatta, ansia per traguardi sociali o economici, l’identificazione insidiosa della sessualità con l’amore e l’eccesso di senso materno. La perversione più sottile però è quella che associa la sessualità in maniera univoca all’amore, come se quel sentimento elevato dovesse giustificare e liberare dal senso di colpa una naturale pulsione fisiologica, un naturale desiderio. Questa artificiale purificazione dell’istinto ha costretto tante donne a convincersi di essere innamorate anche quando avevano solo voglia di fare l’amore.
Perché la repressione della sessualità femminile, pur avendo origini così lontane, ha ancora delle ripercussioni in un’epoca di ostentata libertà e permissivismo edonistico come la nostra? Vivere liberamente la propria sessualità restituisce alle donne la dignità del soggetto, mentre vivere la sessualità in dipendenza dal desiderio altrui costringe nella posizione di oggetto, senza identità, desiderio o aggressività. Le donne hanno imparato a vivere in funzione degli uomini, ed ora, correggere un’abitudine radicata nell’inconscio collettivo genera angoscia. Questo rende più facile ad una donna spogliarsi in pubblico e prendere l’iniziativa sessuale, che non abbandonarsi al piacere, perché nel primo caso rimane nella condizione di oggetto e nella seconda no. Al contrario, l’istinto sessuale maschile ha visto uno sviluppo ipertrofico, ma contemporaneamente si è visto privato del suo valore, nel momento in cui la religione cattolica ha generato anche qui i sensi di colpa, mentre i movimenti per la liberazione sessuale di fine anni ’60 hanno riportato alla luce il corpo sia maschile che femminile, però più come oggetto di consumo. Infine la cultura edonistica e permissiva, sovrapponendosi alla tradizione sessuofobica, ha collocato il corpo tra oggetto di culto e fonte di vergogna e disagio.
Viviamo nell’epoca delle quarantene, dell’isolamento, dove il tempo sembra fermarsi e le finestre di casa sembra che sviluppino le grate in totale autonomia. Rischi di essere travolto da un senso immenso di noia o di essere assordato dal rumore dei tuoi pensieri, i tuoi veri pensieri, senza l’alibi dell’organizzazione dell’inutile e frenetica routine. Questa insolita esperienza prevede l’attraversamento di varie fasi, capitanate in maniera universalmente riconosciuta dalla fase rappresentata dall’autocommiserazione alienante sui social, seguita a ruota dall’accoppiata vincente netflix e schifezze (o comfort food se vi sentite raffinati) e che poi si dirama a seconda delle personalità e dello stile di vita. Io ho scelto il pacchetto lettura distratta, scrittura e tuffo rovesciato con doppio avvitamento nella nostalgia, che prevede il tentativo di riordinare le foto sull’hard disk. 689 miliardi di foto su 76 terabyte che ti danno quel vago senso di vertigine. Ti arrendi prima ancora di aver movimentato anche un solo file, ma non puoi resistere alla tentazione di buttarci un occhio. Ed eccole lì, le tue emozioni, tutte le persone che sei stata in questa folle vita, tutte le persone che hai incontrato e quei posti che “wow, ma ci sono stato davvero?”. Il fidanzatino del liceo, “oddio, ma come eravamo vestiti?!?”.
Le sbronze con le amiche, tuo marito (meno stempiato) che abbraccia una che ha approssimativamente la tua faccia, ma senza rughe, con qualche chilo in meno. La foto di te, che dormi abbracciata al cuscino di un hotel in Francia, con il sole del mattino che ti accarezza il viso. Il tuo cane, che era appena un cucciolo. Quei volti raggianti, immortalati prima di un bacio o prima di fare l’amore. La risata di un amico che non c’è più (pugnalata inaspettata in mezzo alle scapole). E poi ci sono le foto della tua infanzia, testimonianza ineluttabile che tutti ne abbiamo avuta una, e ti sembra ancora di sentire l’artificiale senso di protezione e sicurezza della tua famiglia, che pur non essendo quella della mulino bianco, sapeva sorreggerti in qualche modo, prima che tu ti armassi e preparassi le ali per spiccare il volo. Ci sono le foto del cibo, che hai scattato compulsivamente in ogni ristorante in cui sei stato, con la complicità dell’amica invasata con Instagram o lo scherno di chi questo sport non lo pratica. E poi tra queste immagini ci sono anche le foto delle foto dei nonni, rigorosamente in bianco e nero.
Tre o quattro foto, quante ne bastavano una volta a racchiudere tutta la storia di una vita.
Siamo intorno agli anni ’50, loro giovani, innamorati e incredibilmente rigidi, in una posa probabilmente infinita, due statue scolpite nella pietra, come se stessero facendo la cosa più solenne della vita, quello che noi facciamo più e più volte al giorno. Abbiamo un’evoluzione della fotografia, da evento grandioso, concesso ben poche volte nella vita, ed eseguito rigorosamente da un professionista, a istantanee pronte a cogliere qualsiasi frammento della quotidianità e renderlo instagrammabile. Spesso questi due estremi condividono il manierismo, che da eccesso di emozione si è trasformato in disperata ostentazione. Capita che ci sia un po’ di finzione dietro ad una foto. Ma non sempre. Le foto che preferisco infatti sono quelle che non pubblico, quelle che faccio quando mi perdo in qualche posto, quelle dove il soggetto è venuto male perché stava ridendo troppo, quelle dove l’emozione non è patinata, ma grottescamente reale. Dietro ad ogni foto, in ogni caso c’è una storia, un vissuto, un’eredità di emozioni, che riceviamo o tramandiamo. Questo ha la capacità di congelare la bellezza, metterla al riparo dal tempo e farcela ripescare all’occorrenza. Una buona fotografia è come una vita vissuta bene, la ricerca della luce perfetta e un sapiente utilizzo delle ombre. È basata sull’aprire la mente alla bellezza, in tutte le sue manifestazioni. Questo in qualche modo richiama l’arte, la sua capacità di colpire dritto all’anima e di ribellarsi al tempo, alla mutevolezza e all’entropia. È il nostro spicchietto di immortalità.
E se si parla di arte fotografica, non posso non pensare a Suzanne Stein, fotografa americana di professione e supereroina di vocazione. Il suo potere è mettere poesia nelle immagini più devastanti che una mente possa immaginare, il degrado della società americana, il lato oscuro del sogno americano. Suzanne trasforma in arte quello che gli umani abitualmente non accettano nemmeno nel loro campo visivo, i suoi soggetti sono quelli che non vuoi vedere, ma che esistono e che hanno bisogno che gli venga restituita una dignità. Uno dei suoi principali campi d’azione è Skid Row, quartiere losangelino, (da cui prende il nome di un noto gruppo musicale degli anni ’80), che segna in maniera prepotente il confine di Downtown, la zona centrale dedicata agli uffici.
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Tra questi due quartieri esiste una specie di varco spazio temporale, tra uomini e donne d’affari, nei loro completi fatti su misura e lo scenario post-apocalittico degli ultimi, degli abbandonati, degli emarginati, di chi è stato masticato con gusto e sputato a terra, come un pezzo di gomma insapore. Chi ha visitato bene Los Angeles sa di cosa sto parlando. Interi marciapiedi occupati da senza tetto, approssimativamente cinquemila anime, tra cui reduci di guerra, persone con handicap fisici, tossicodipendenti. Anime abbandonate da una società abilista e spietata, per la quale il valore di una persona è calcolato in base alla sua produttività. Addentrarsi in questo folle mondo non è facile ed è pericoloso, ma con grande determinazione e pazienza, ma soprattutto con grande umanità Suzanne ci è riuscita, riportando alla luce del mondo storie di vite importanti, né più né meno della nostra. Testimonianza di un’eredità sociale malsana, assordante grido di aiuto, non lanciato dalla fotografa, né dai suoi soggetti, ma dalle nostre coscienze di spettatori. La fotografia è un potente mezzo, le immagini sono come freccette conficcate nel cervello, questa è l’istantanea dell’eredità ricevuta, che non deve necessariamente essere l’ereditarietà che lasceremo noi.
Sono le 22 di un lunedì sera, anzi del lunedì sera prima di Natale, attendo Marta mentre preparo due calici di Valpolicella, dopo queste giornate intense in profumeria, è più che meritato. Marta, con il suo ciuffo colorato e lo sguardo vivace, sembra che non conosca il significato della parola “stanchezza”, entra in casa con il suo solito entusiasmo. Il cane le abbaia, il freddo pungente le è rimasto incollato addosso. Prendo il quaderno e la biro e ci accomodiamo. Iniziamo con un brindisi a noi. La ringrazio per avermi concesso questa serata, quest’intervista a cui tengo particolarmente. Marta, che passa le giornate insieme a me tra profumi, creme e prodotti di bellezza, in realtà inizia il suo lungo percorso come criminologa e contemporaneamente, sostenuta da una continua instancabile formazione, si occupa anche di uno sportello antiviolenza. Stasera, insieme, proviamo a scoperchiare questo “vaso di Pandora” come ama definirlo lei.
L’associazione per cui lavora è la AIED (Associazione Italiana Educazione Demografica), che ha sede a Roma, e nasce nel lontano 10 ottobre 1953 ad opera di un gruppo di giornalisti, scienziati e uomini di cultura, di diversa estrazione politica, ma con una comune ispirazione laica e democratica.
Sul sito ufficiale dell’AIED (www.aied-roma.it) tra gli obiettivi posti troviamo:
• diffondere il concetto ed il costume della procreazione libera e responsabile;
• promuovere e sostenere iniziative rivolte a migliorare la qualità della vita ed a tutelare la salute della persona umana, a livello sia individuale che collettivo;
• combattere ogni discriminazione tra uomo e donna nel lavoro, nella famiglia, nella società, ed ogni forma di violenza sessuale e di violenza sui minori, fornendo assistenza e tutela -anche legale- alle persone che ne siano vittime;
• promuovere e realizzare attività di formazione e di aggiornamento professionale sulle tematiche dell’educazione sessuale del personale docente delle Scuole e degli Istituti di istruzione di ogni ordine e grado, promuovendo altresì corsi di educazione sessuale per alunni e genitori.
La AIED si occupa inoltre di vari progetti nelle scuole primarie, come il riconoscimento delle emozioni, l’educazione affettiva, il riconoscimento dell’altro (empatia). Progetti che secondo Marta andrebbero fatti ovunque.
Marta, tu fai un secondo “lavoro” bellissimo, e sono davvero contenta di poterne finalmente parlare con te. Lavori già da parecchi anni presso lo sportello antiviolenza dell’AIED, a Novara, l’unico centro antiviolenza dell’associazione. Raccontami come funziona.
È principalmente uno sportello d’ascolto, che lavora in sinergia con il CAV (Centro Anti Violenza) gestito dal comune, a cui compete poi l’effettiva messa in protezione delle donne, perché banalmente è l’unico che ha i fondi per farlo. All’AIED arriva solo una piccolissima parte dei soldi stanziati dalla regione e naturalmente non sono mai sufficienti. Noi siamo 5 operatrici di sportello, di cui una assistente sociale (l’unica retribuita) e due psicologhe. Abbiamo un telefono, al quale siamo reperibili tutto il giorno, che teniamo a turno, mentre siamo raggiungibili fisicamente il lunedì dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 18 e giovedì dalle 9 alle 12, solitamente su appuntamento.
C’è inoltre un numero nazionale, il 1522, che dà alle donne i riferimenti della zona, che può attivare comunità o gli alloggi del comune. Per quanto riguarda noi, la donna ci contatta e noi ci occupiamo di ascoltare le sue necessità per fare poi una valutazione sulla gravità della situazione e stabilire un piano per andare in contro alle sue esigenze e problematiche. Chiediamo alle nostre assistite quali siano le loro aspettative in merito a questi incontri, se vogliono mettere sé stesse e i figli al sicuro, se vogliono separarsi, o solo essere ascoltate. Si può poi continuare ad offrire uno spazio di ascolto, un aiuto psicologico o un aiuto legale, naturalmente gratuiti. In alcune occasioni riusciamo a creare un gruppo di auto mutuo aiuto, in cui le donne si confrontano e si supportano vicendevolmente, mediate dalla psicologa. In casi gravi, ci si rivolge alle forze dell’ordine, agli assistenti sociali o al CAV, che si attiva per la messa in protezione, attraverso alberghi momentanei, comunità o alloggi.
Spesso vengono familiari o amiche a richiedere il nostro aiuto, ma abbiamo bisogno che sia la vittima a contattarci, altrimenti abbiamo le mani legate. Solo in caso di minori possiamo pensare di fare una segnalazione immediata agli assistenti sociali, che hanno poi la facoltà di intervenire.
L’associazione è di per sé un consultorio, questo ci permette di auto-sovvenzionarci, in parte, ma anche di mantenere un profilo basso (non c’è scritto da nessuna parte che lì si trovi uno sportello antiviolenza). Questo consente alla donna di recarsi da noi in tutta tranquillità, anche nel caso venisse “controllata” dal marito/compagno.
L’obiettivo principale per tutto il tempo in cui abbiamo in carico una donna vittima di violenza è, una volta garantita la messa in sicurezza, il suo EMPOWERMENT, ovvero la conquista della consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni, sia nell’ambito delle relazioni personali sia in quello della vita politica e sociale.
Cos’è davvero la violenza sulle donne? Quando si pensa a questo si pensano a clamorosi fatti di cronaca, a donne picchiate, a ossa rotte e occhi neri.
Per spiegarlo con “leggerezza” diciamo, consiglio sempre di vedere il film “TI DO I MIEI OCCHI” di Iciar Bollain perché te lo fa capire prima attraverso le emozioni e poi sul piano razionale. E credo sia importante. Eliminare i pregiudizi per capire a fondo.
La donna subisce violenza quando le viene esercitato potere, controllo, prevaricazione, quando viene agito l’annullamento della persona con superamento dei limiti e quando vi è squilibrio delle posizioni. La violenza domestica è ogni tipo di violenza fisica, psichica, economica e sessuale all’interno di una relazione affettiva attuale o passata. La violenza psicologica, il ricatto emotivo, le intimidazioni sono forme di violenza altrettanto pericolose della violenza fisica, perché minano l’autostima, l’identità, la personalità della vittima. È un’azione reiterata nel tempo che porta la vittima ad una condizione di instabilità emotiva e mentale. Si basa su tecniche, spesso inconsce ma ben precise, di oppressione, privazione di potere, isolamento del partner da altri legami significativi e supportivi, costante svalutazione, derisione, gelosia, minacce ripetute di abbandono e annullamento. Si arriva a creare un vero e proprio clima di terrore (correlato ad un’alta percentuale di suicidi). La vittima cade gradualmente in una spirale di violenza che parte dall’intimidazione e dal controllo, si evolve nella svalorizzazione e nella segregazione, fino all’aggressione fisica e sessuale, per poi avere la riappacificazione (chiamata anche luna di miele) spesso innescata dalla minaccia della vittima di andarsene, e che passa inevitabilmente attraverso il ricatto dei figli. Si chiama ciclo della violenza perché ha una natura ripetitiva, in cui la fase ‘luna di miele” dura sempre meno perché il maltrattante teme l’abbandono, ed in effetti, è il miglior momento per la vittima per chiedere aiuto .
Agita prevalentemente dagli uomini, è una delle più frequenti violazioni dei diritti umani presente in tutti i paesi, culture, etnie, classi sociali, livelli culturali e di reddito e fasce di età. Dal 20% al 50% delle donne ha subìto una qualche forma di violenza da parte di qualcuno dei componenti della cerchia familiare. Troppo spesso la violenza domestica non viene denunciata né documentata per diversi motivi, tra cui le convinzioni culturali, la paura delle ritorsioni, ma anche a causa di operatori non adeguatamente formati per registrare i dati in maniera conforme.
Chi si rivolge al vostro sportello? Qual è il profilo della donna vittima di violenza? E quale è il profilo del maltrattante? Quanta consapevolezza c’è dietro a ciascun ruolo?
Allo sportello si rivolge una media annuale di 60 donne, quasi tutte del novarese. Hanno un’età media compresa tra i 45 e i 50 anni, di etnie diverse e che arrivano da contesti culturali ed economici molto diversi. Ci arrivano donne italiane come donne straniere, in egual misura e quasi tutte hanno figli. In comune hanno tanti anni di isolamento, denigrazione e sensi di colpa. La vittima vive in uno stato di tensione costante perché quello che all’inizio poteva sembrare l’uomo perfetto si trasforma in un trappola fatta di violenza inaspettata, perpetrata da colui che ha scelto la vittima come compagna di vita e sostiene di amarla.
La vittima sperimenta negli anni un crescente senso di inadeguatezza e di disorientamento, che non le permette di fronteggiare in maniera congrua i maltrattamenti, né di sottrarsi alla minaccia di violenza perpetrata costantemente dal partner. La teoria dell’attaccamento di Bowlby e gli approfondimenti sulle funzioni metacognitive contribuiscono a chiarire come la spirale, di cui abbiamo parlato prima, diventi stabile nel tempo e come le emozioni disfunzionali non regolate, tipo la rabbia e la paura, costituiscano i denominatori comuni nei legami di coppia violenti, a prescindere dalla storia di vita e dalle caratteristiche dei partner. La spirale della violenza è dominata dal senso di impotenza della vittima rispetto alla possibilità di modificare la situazione e di uscirne. La teoria dell’attaccamento evidenzia quanto la relazione violenta sia caratterizzata dal fatto che le vittime si sentano spesso legate ai loro partner abusanti. Sono le stesse situazioni di pericolo e paura ad attivare paradossalmente il sistema di attaccamento creando legami forti, anche quando la figura dell’attaccamento è la fonte stessa di minaccia. La vittima sente di non poter ricevere un trattamento migliore in altre relazioni e finisce per incolparsi dell’abuso subìto. Si crea una dipendenza che genera ansia nei confronti della separazione. C’è una grande difficoltà che non viene mai percepita dall’esterno. Molto spesso neanche i genitori o gli amici sono consapevoli di ciò che accade nell’ambito familiare della vittima. E quando c’è un tentativo di richiesta di aiuto spesso viene preso sottogamba, sminuito o addirittura la vittima rischia di essere accusata di essere “eccessiva”. Purtroppo le evidenze italiane parlano di una quota significativa di violenza familiare che resta in ombra, che non viene denunciata alle autorità e non conduce ad una richiesta di aiuto. Un fattore importante da considerare è la prevenzione : la possibilità di individuare il rischio di violenza nelle relazioni di coppia è nevralgica in quanto il fenomeno sta rappresentando una vera e propria emergenza sociale.
Lo scopo principale dei maltrattanti è il totale controllo della donna. La violenza nasce da emozioni disregolate , carenza nella capacità di mentalizzazione e sintonizzazione. Le radici della distruttività vanno cercate nel fallimento della funzione difensiva dell’aggressività e nella fragilità del sé, che può dar luogo a comportamenti violenti verso le parti vissute come minacciose. Ne deriva una perdita della capacità riflessiva, ovvero che considera l’altro come persona in grado di provare effettivo dolore o sofferenza psichica e/o fisica. In questa condizione il controllo degli impulsi aggressivi, che deriva in buona parte dallo sviluppo di capacità empatiche e di identificazione, viene annullato.
Da questo puoi facilmente dedurre quanto in realtà manchi la consapevolezza in entrambi i casi.
Esiste un centro a Torino, che si chiama “Il Cerchio Degli Uomini” che offre una sorta di prevenzione della violenza domestica, ma come puoi immaginare l’affluenza è nettamente inferiore rispetto al corrispettivo femminile. E la partecipazione è assolutamente volontaria. Quando invece bisognerebbe fare molta più prevenzione, partendo soprattutto da alcune categorie sociali, prettamente maschili e che sono in possesso di potere e armi. La sensibilizzazione e l’educazione alle emozioni fin dall’infanzia sono strumenti fondamentali in questa battaglia.
Prima hai detto che quasi tutte le donne che si rivolgono allo sportello hanno figli. So bene che questo è l’argomento che più ci sta a cuore. Nell’immaginario collettivo i figli sono quella cosa che va accudita e protetta dai mali del Mondo. Come crescono questi bambini?
Nel caso dei bambini si parla di violenza assistita intra-familiare, che è l’esperienza di qualunque forma di maltrattamento (fisico, verbale, economico, sessuale) subita da una figura affettivamente significativa (genitori, fratelli, nonni…). Può essere diretta, e vedere il bambino presente agli episodi di violenza, o indiretta, in cui il bambino ne percepisce gli effetti attraverso i segni fisici o comportamentali (paura, ansia, panico). I bambini, nel vedere i genitori, o le figure di riferimento, da cui dipendono, provano disorientamento e paura. Perché hanno, da una parte, una figura minacciosa e violenta e dall’altra disperata, impotente e spaventata. Questi bambini non impareranno a gestire le loro emozioni in maniera corretta, penseranno che sia normale subire minacce, violenza e disprezzo e dunque diventare a loro volta adulti violenti o al contrario sottomessi. Impareranno a minimizzare la propria sofferenza perché sentono di non poter chiedere aiuto ai genitori.
Per analizzare questo dobbiamo pensare prima a tutte le conseguenze negative che la donna deve affrontare: traumatizzazione cronica, sindrome da stress post traumatico e la compromissione delle capacità di accudimento della prole e di attenzione ai loro bisogni.
E, sebbene le madri si preoccupino sempre che i figli non si accorgano delle violenze, vengono giocate da numerose emozioni negative, come sensi di colpa, vergogna, rabbia, paura, umore depresso, innescando in un secondo momento meccanismi di distacco dal proprio sentire, e diventando, anche con i figli insensibili, estraniate dagli altri e disinteressate. Vivono però in uno stato fisiologico di costante vigilanza e allerta e sono ipersensibili ai segnali di pericolo, rischiando di sviluppare reazioni di rabbia a fronte di stimoli lievi.
Un attaccamento sano con il caregiver è importante per lo sviluppo delle capacità fisiche e mentali dei figli. Determina la fiducia negli altri, regola le proprie emozioni, permette di interagire in maniera adeguata con il mondo e permette di prendere consapevolezza del proprio valore come individui. In situazioni di violenza domestica, le figure di attaccamento sono instabili, imprevedibili o addirittura minacciose. Il bambino sente che non può fare affidamento su di esse, che dipende, per la sopravvivenza, da figure che sono una minaccia per la sua salute mentale e fisica e non ha modo di sottrarsene. Sviluppano strategie mentali intense per superare il paradosso e la paura costante.
Durante la crescita si può sviluppare una sintomatologia più o meno grave, che comprende disregolazione delle emozioni (incapacità di tollerare, modulare o superare emozioni negative come paura, rabbia e vergogna), problemi nella regolazione delle funzioni corporee (disturbi del sonno e dell’alimentazione, iperreattività o bassa reattività agli stimoli circostanti e difficoltà di adattamento ai cambiamenti, sintomi dissociativi e bassa consapevolezza del proprio corpo, problemi somatici (mal di testa), difficoltà nel riconoscere e descrivere le emozioni (soprattutto in età adolescenziale), ridotto controllo degli impulsi, mancanza di attenzione, condotte aggressive, costante stato di allerta (ma ridotta capacità di identificare correttamente ed evitare il pericolo), comportamenti di autoconsolazione o autolesionismo, disturbi nella percezione del sé e nelle relazioni ( sentimenti di vergogna cronici, odio verso se stessi, sfiducia, diffidenza e timore verso gli altri e tendenza all’isolamento sociale). Sì possono addirittura avere regressioni a precedenti stati di sviluppo.
Non fatico ad immaginare le difficoltà a cui andate in contro in questa vostra missione, dalla mancanza di risorse, alla burocrazia, all’aspetto umano ed emotivo, con chi si presenta allo sportello e con chi non dà il giusto valore al vostro lavoro. Ci va sicuramente una grande motivazione per andare avanti, considerando anche che il ritorno economico è inesistente nella maggior parte dei casi, dato che parliamo di volontariato, e assolutamente inadeguato come lavoro remunerato.
È un lavoro frustrante in effetti, con rare, ma importanti soddisfazioni. Ti ritrovi a fare i salti mortali tra raccolte fondi e burocrazia, e dopo tanta fatica, noi e queste donne ci vediamo sbattere pure delle porte in faccia. Affrontare processi infiniti. Aspettare l’intervento degli assistenti sociali che sono oberati di lavoro e ai quali manca la specificità necessaria. Non dico niente di nuovo quando sottolineo l’importanza di snellire alcune procedure. Alle volte è di vitale importanza. Pensa ad una donna, che dipende economicamente dal marito, come la maggior parte delle donne vittime di violenza, che ha bisogno di una consulenza legale per sporgere denuncia contro il marito e deve prima andare a fare l’ISEE. Laddove è possibile infatti cerchiamo di indirizzarle verso la separazioni civile, sempre sostenute da una consulenza legale gratuita, perché attraverso la denuncia e i processi si inizia un percorso troppo lungo e complicato, soprattutto per un soggetto fragile. Non molto tempo fa si è rivolta a noi una giovane donna del Congo, che doveva divorziare dal marito e che aveva ancora le carte del matrimonio nel suo villaggio, custodite dal “santone”. Nel mentre lei era in Italia, a vivere in una casa con i bambini e il marito chiuso a chiave in una camera, che le lasciava il frigo vuoto, non le dava soldi per comprare cibo o pannolini per i bambini. Per risolvere situazioni così, devi poterti affidare a tutta una serie di servizi che devono funzionare.
25 novembre, La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ne vogliamo parlare?
Sarebbe un evento meraviglioso, se si facesse meno politica e si pensasse in modo più pratico e propositivo. Per esperienza personale ti posso dire che è davvero inconcludente. Che poi parlarne possa essere una campagna di sensibilizzazione va bene, ma le organizzazioni che si occupano davvero di difendere e sostenere le donne, con migliaia di volontarie, hanno bisogno di fondi, di aiuti concreti, di una gestione più oculata del soldi , che spesso vengono fatti figurare in cose inesistenti. C’è bisogno di formazione, sia sul campo, sia per essere più efficienti nel presentare richiesta per i fondi Europei (conoscere i bandi, poter presentare dei progetti ben strutturati, utilizzare poi i fondi in maniera ottimale).