Lotta, un termine antico che richiama il combattimento. Ma in senso più lato richiama la lotta per la sopravvivenza, per il riconoscimento, per la verità. C’e’ anche filosoficamente una lotta amorosa. Ma procediamo per gradi. Fin dalle origini la specie umana ha dovuto lottare per la sopravvivenza. Il Sapiens sapiens, a cui apparteniamo, è quello che è meglio riuscito nell’adattamento, ma già dalle prime comunità umane fino alle moderne società si sono presentati conflitti tra tribù, gruppi e classi sociali, rappresentati dal concetto marxista di lotta di classe, oggi ormai non più in voga. Occorre anche ricordare le guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa per secoli e che tuttora continuano a seminare odio e terrore nel mondo, spesso al servizio di interessi politico-economici.
Nel mondo globalizzato assistiamo a disparità più o meno evidenti in tutto il pianeta, che si stanno sempre più accentuando con il procedere dello smantellamento degli stati sociali e dei sistemi di welfare. Seppur nel mondo l’Europa ha una maggior capacità redistributiva, l’Italia e’ quella che ha l’indice di Gini più alto (indicatore che misura le diseguaglianze: più è basso e più ci si avvicina ad una situazione di uguaglianza) del Vecchio Continente. Siamo comunque in una situazione di concentrazione delle ricchezze in mano di pochi, pari a quella di un secolo fa.
La lotta per ridurre le diseguaglianze e’ sicuramente una priorità a livello mondiale anche se i segnali non vanno purtroppo in tal senso. Sembra che gli egoismi continuino a dominare anzi, si stiano maggiormente diffondendo e radicando nei popoli stessi.
C’e’ poi, la lotta per il riconoscimento, su cui non mi vorrei dilungare perché è stato il tema di un nostro recente numero di Condi-Visioni (gennaio-febbraio 2024).
Il riconoscimento e’ un concetto trattato in molte discipline, tra cui la sociologia, la psicologia e la filosofia. Oltre alla hegeliana lotta per la vita e la morte tra auto-coscienze, culminante nella dialettica servo-padrone, vorrei solo ricordare la “Lotta per il riconoscimento” di Axel Honneth, eminente sociologo e filosofo erede della scuola di Francoforte, come grammatica dei conflitti sociali e processo storico continuo di ricerca dei diritti dovuti alle esclusioni, alle violenze e alle umiliazioni.
Venendo alla lotta per la Verità, possiamo dire che la filosofia è ricerca stessa della verità, anche se questo è un concetto limite, irraggiungibile. In termini pratici, in un mondo dominato dalle fake news, dalle echo chambers dei social, dai negazionismi e dai complottismi, la lotta per la ricerca della verità è una questione quanto mai attuale e urgente. Si pensi ad esempio alle vicende no vax, alle più recenti discussioni sui cambiamenti climatici o alle verità sui genocidi. Andando in tempi meno recenti, alle stragi attuate durante la strategia della tensione in Italia, che ancora attendono risposte. In questi giorni è scomparsa Licia Pinelli, moglie del partigiano, ferroviere, anarchico Pino, morto nel dicembre del 1969 per una “caduta” da una finestra della Questura di Milano; ella ha sempre lottato per la verità nella Notte della Repubblica. Ci sono tantissimi altri casi grandi e piccoli che qui vorrei citare, come quello di Pietro Orlandi, che lotta per la verità sulla scomparsa della sorella Emanuela avvenuta ormai nel lontano 1983, ma la lista sarebbe lunghissima.
Voglio solo evidenziare, reduce da un recente viaggio in Argentina, che le madri di Plaza de Mayo a Buenos Aires, costituitesi in Associazione, marciano ininterrottamente da oltre 40 anni, tutti i giovedì di ogni settimana, chiedendo verità per i desaparecidos della dittatura che governò l’Argentina dal colpo di stato del 1976 fino al passaggio a un governo eletto dai cittadini nel 1983. Un esempio di lotta tenace e indefessa.
Per lasciarci con un messaggio di speranza, c’è anche quella che il grande psicopatologo e filosofo Karl Jaspers chiama lotta amorosa. E’ nella genuina comunicazione tra esistenze che avviene quella ricerca vera di intesa reciproca e comprensione comune che dovrebbe essere la dimensione non di un ingenuo e scontato stare in comunità ma di una dimensione che ci veda tutti impegnati in questa lotta della comunicazione dove trovano spazio la fiducia e la solidaristica umana, con l’esclusione di qualsiasi forma di potere: la lotta amorosa.
Questa coppia di concetti è inscindibile, a partire dalla coincidentia oppositorum eraclitea che vede l’unità e identità degli opposti. Per la psicoanalisi l’Io prende la forma dall’Es indistinto, nel suo processo di formazione attraverso il Super-Io, il censore, il moralizzatore che rappresenta l’altro generalizzato. Ma l’Io è essenzialmente memoria, un filo che collega le esperienze nel tempo, per cui fragile e mutevole. Oggi l’identità, in gran voga nella politica, è un termine molto abusato, che chiama in causa modo anacronistico l’”identitario”: la nazione, l’etnia, il suolo di nascita, la religione, il colore della pelle e così via. Anacronistico perché a tre secoli circa dalla Rivoluzione Francese, sembravano acquisiti gli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza che si accompagnavano ad un certo cosmopolitismo. Anche il filosofo Kant, di cui celebriamo quest’anno i 300 anni dalla sua nascita, da buon illuminista richiama nella sua opera “Per la pace perpetua” (1795), oltre che la forma repubblicana, un diritto internazionale basato su un federalismo di Stati la cui libertà è garantita dal non intervento di altri Stati esterni.
Arriviamo al nostro Mazzini, figura semi-dimenticata, oggetto di un recente revival della destra, che da sempre cerca di appropriarsene in malo modo, mistificando il suo messaggio patriottico in nazionalistico. Come ha ben spiegato Maurizio Viroli (Nazionalisti e Patrioti. Editori Laterza, 2019), filosofo e storico alla Princeton University, il primo si richiama valori repubblicani di tipo etico-politico difendendo i legittimi interessi dei cittadini ma elevandoli agli ideali del convivere libero e civile, l’altro si richiama a valori omogenei etnico-culturali legati a vincoli di sangue (si vedano le recenti diatribe tra Ius sanguinis, Ius solis e Ius culturae), a una visione contrapposta “noi-loro” che vuole generare sentimenti di distinzione e superiorità.
La società del rischio ha portato incertezze, paure, smarrimento, sentimenti su cui prosperano le destre in tutta Europa e nel mondo, portatrici di supposti messaggi securitari che passano attraverso la difesa dell’identità (non a caso abbiamo più volte ascoltato il refrain della “sostituzione etnica”). Le conseguenze sono autocrazie, chiusure degli stati in sé stessi, che tendono a negare diritti civili e conquiste che sembravano acquisite per sempre, nazionalismi e guerre fratricide (basti pensare agli attuali conflitti che si stanno allargando in modo incontrollato.)
Venendo alla società liquida, teorizzata da Baumann, che vede non solo le relazioni ma anche un Io sempre più liquido, esasperatosi con i social media, si è affermata in modo estensivo la messa in scena di sé. Possiamo definirci attraverso i profili con identità multiple, in grado di rappresentarci secondo quello che desidereremmo essere o, come vorremo essere visti dagli altri, il che acuisce quel processo di diffrazione dell’Io e di dissociazione esistenziale quale fenomeno già in atto da tempo con l’avvento della post-modernità. Emblematico in tal senso il Pirandello di Uno, nessuno e centomila con la cessazione da parte del personaggio principale dei contrasti tra l’Io ed il mondo e la “rinuncia” a quest’ultimo. Alla liberazione dell’Io moderno e a queste sue forme, riconducibili anche alla condizione umana, resta in tutta la sua problematicità la ricerca dell’Opera della street artist Laika, dal titolo “Italianità” autenticità e di un rinnovato rapporto con il mondo che non può non passare per la veridicità delle relazioni con l’Altro ma, soprattutto, attraverso il suo riconoscimento. È la relazione che cura le lacerazioni della contemporaneità e sviluppa in modo armonioso l’identità.
In quest’estate calda e torrida, proponiamo questa bella poesia di Umberto Saba, “Meriggio d’estate”, tratta dalla sua opera Il Canzoniere (1921), che ci richiama alla natura, alla pace e all’armonia ma, al contempo, ci riporta alle gravi problematiche dei cambiamenti climatici in corso.
Silenzio! Hanno chiuso le verdi persiane delle case. Non vogliono essere invase. Troppe le fiamme della tua gloria, o sole! Bisbigliano appena gli uccelli, poi tacciono, vinti dal sonno. Sembrano estinti gli uomini, tanto è ora pace e silenzio… Quand’ecco da tutti gli alberi un suono s’accorda, un sibilo lungo che assorda, che solo è così: le cicale.
Niente è come sembra, niente è come appare, perché niente è reale, così recita una famosa canzone di Franco Battiato. Cosa sia la realtà è un problema, forse il più antico, su cui i filosofi, tra realisti e anti-realisti, si arrovellano da oltre 2.500 anni.
Sicuramente, dopo le rivoluzioni scientifiche del Seicento è prevalsa la visione scientista che ha portato ad una visione del mondo calcolante ed utilitaristica che vede l’uomo signore e padrone del mondo e la natura come un grande fondo da sfruttare.
Qua nessuno è antiscientista e si riconoscono i grandi benefici apportati dalla ricerca scientifica all’umanità. Il problema è che non possiamo vedere il mondo solo con questa lente, quella dello sguardo scientifico. L’essere si dice in molti modi, la realtà non è unitaria e non si può pretendere di spiegarla nel solo modo scientifico.
Mi è capitato recentemente di imbattermi su un testo che parla della “brocca” (La questione della brocca, a cura di Andrea Pinotti. Mimesis, Milano 2007) che contiene saggi di diversi filosofi su questo oggetto. E’ interessante vedere come un normale oggetto quotidiano, il cui uso diamo per scontato, possa in realtà avere una sua “verita’” al di là della correttezza offerta dalla scienza fisica di un contenitore di liquidi, un sua “cosalità” che, oltre a un senso estetico può richiamare il suo apparire come portatrice di un dono. A riguardo, Heidegger, con un pensiero poetante, ci parla addirittura della “quadratura” che nel dono da versare o offrire, unisce cielo e terra, mortali e divini.
Insomma, si possono guardare le cose in un altro modo e il mondo può essere visto con occhi diversi.
Questo ci porta direttamente al tema dell’apparenza che è la percezione sensibile di un fenomeno nella sua contrapposizione a una realtà e presunta verità. Ovviamente la nostra esperienza ci dice che c’è una realtà fuori di noi, di cui ovviamente siamo parte, ma autoevidente alla nostra coscienza, che è il mondo della vita quotidiana. Questo mondo, che ci è dato, secondo la tesi dei sociologi Berger e Luckmann, è costruito socialmente, frutto della cultura: la realtà come costruzione sociale.
Ovviamente con l’accelerazione della tecnica e l’avvento dei social network, questa costruzione sociale si è ulteriormente artificializzata e resa ancor più manipolabile, basandosi su processi di auto-socializzazione sempre più individualizzanti ed anomici, con una situazione che è sotto gli occhi di tutti.
Anche le relazioni sono diventate virtuali e apparenti. Proprio l’altro giorno una persona si lamentava del fatto che il suo vicino di casa non gli avesse dato l’”amicizia” su Facebook, come se il “mezzo” o, meglio l’apparenza, fosse più importante della relazione quotidiana di chi ti vive nella porta accanto. Il che è emblematico della situazione che stiamo vivendo: ormai l’apparenza vale più della sostanza. Anche in Politica, la rappresentazione ha sostituito la rappresentanza.
Siamo oltre il problema filosofico, siamo alla mistificazione e alla mercé di chi vuole governare il consenso e, di chi è sottomesso, affidandosi o facendosi assorbire da queste false sirene.
Per non parlare degli scenari che si aprono con l’Intelligenza Artificiale dove l’irrealtà rischia di diventare la realtà. Ci sarebbe così la chiusura del cerchio e la domanda sulla realtà diventa inutile.
Come per la brocca, c’è necessità di uno sguardo diverso, non dando per scontata la realtà che ci circonda ed avvolge.
Insomma, problematizzare la quotidianità e superare l’ovvio con fantasia e senso critico, esattamente quello che ci siamo posti con Condi-visioni, che non a caso richiama i due termini di “condivisione” e “visioni”, uno sguardo plurale e critico sulla realtà che vorrebbe dare un seppur piccolo contributo alla riflessione.Chiudo sempre con Battiato, augurandovi una buona estate, On a solitary beach, magari in compagnia di un brocca con una buona e fresca bevanda di acqua, limone e menta, dissentante e disintossicante dalle apparenze della vita quotidiana (probabilmente la reminescenza irriflessa a cui ho ceduto, di un vecchio slogan pubblicitario che recitava contro il logorio della vita moderna…).
Ginevra Amadio è giornalista e addetta stampa. Interessata al rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta, ha proseguito i suoi studi in Scienze umanistiche, laureandosi con lode in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con tesi magistrale dal titolo Da piazza Fontana al caso Moro: gli intellettuali e gli “anni di piombo”. Collabora con diverse testate e riviste, occupandosi prevalentemente di letteratura otto- novecentesca, cinema e rapporto tra le arti. Per Treccani.it – Lingua Italiana ha pubblicato un contributo dal titolo Quarant’anni fa, anni di piombo, sulle derive linguistico-ideologiche che segnano l’immaginario dei Settanta.
Ginevra, partiamo dalla stretta attualità. Visto che ti sei occupata specificatamente di queste tematiche, in particolare degli intellettuali e gli “anni di piombo”, cosa pensi del tweet di commiato alla brigatista Balzerani della prof.ssa Donatella Di Cesare, che ha sollevato tante polemiche e critiche? È stato veramente frainteso? Un problema di linguaggio? O un periodo che è stato tabuizzato come sostiene la Di Cesare? A scanso di equivoci, precisiamo che lei ha evidenziato che “malinconia” non significa “nostalgia” e che “le vie” sono state ben diverse, come testimonia tutta la sua storia personale e professionale. Ma infuriano ancora le polemiche.
È proprio dal linguaggio che vorrei partire. La celebre frase pronunciata da Nanni Moretti in Palombella Rossa, “le parole sono importanti”, è ormai modulo locutivo comune e fotografa bene il senso di quanto si discute. Gli anni Settanta, formidabili e tragici, sono stati un periodo di violenza e furore, ma anche una delle fasi in cui si è maggiormente concretizzata la partecipazione alla vita pubblica. Gustavo Zagrebrelsky li ha indicati come il decennio di massima realizzazione dei principi della Carta Costituzionale: si pensi, ad esempio, al referendum sul divorzio e a quello sull’aborto, allo Statuto dei lavoratori, alla Legge Basaglia. Eppure, per qualche ragione che sfugge alla razionalità, si è scelto di collocarli in una lunga parentesi non ancora transitata dalla cronaca alla Storia. Ciò contribuisce a veicolare una narrazione parziale, che costeggia il campo dell’immaginario che per sua natura è una zona dai contorni ambigui, mai pacificati, in cui è possibile gettare ami e pescare ciò che più conviene. Giovanni Moro, figlio del Presidente DC ucciso dalle Brigate Rosse osserva che «a proposito degli anni Settanta abbiamo un linguaggio difettoso, fatto di parole ed espressioni che per lo più mancano di una sintassi che le connetta e le doti di significato». La stessa locuzione “anni di piombo” (che deve la sua fortuna al film del 1981 Die bleierne Zeit di Margarethe Von Trotta) innesca un cortocircuito in grado di censurare le bombe neofasciste e ricondurre in un unico fenomeno tutte le sigle della galassia armata dei Settanta, dalle Brigate rosse ai Nar. Ne deriva un’immagine dimidiata del decennio, che appiattisce sulla violenza politica un’esperienza più complessa, che vide coesistere molteplici forme di partecipazione, intervento e militanza, spesso radicalmente distanti da quelle dei gruppi armati. È in questa prospettiva che va letto il tweet della professoressa Di Cesare e la polemica che ne è seguita. Non si riesce, in questo Paese, a fare i conti con una fase storica complessa, a suo modo insondabile, “smarginata”, come tutto ciò che di contraddittorio esiste. Si ventilano complotti internazionali, manovre, giochi di Palazzo. E si dimentica la vita comune, i percorsi delle persone che a volte seguono tracciati terribili, sbagliati, incomprensibili. Con quelle parole, Donatella Di Cesare ha ricordato che una parte di Paese si è opposta a uno stato delle cose iniquo, ha combattuto la violenza neofascista e certe falde sotterranee delle istituzioni. Chi l’ha fatto ricorrendo alle armi ha compiuto un doppio errore: di azione e prospettiva. Non si può essere d’accordo con chi ha contribuito a imporre a quegli anni lo stigma del sangue. Ma parlare di “rivoluzione”, nella prospettiva della filosofa, equivale a un’altra cosa.
Molti intellettuali e accademici sono, a vario titolo, sotto “attacco”, Luciano Canfora, Donatella Di Cesare, Tomaso Montanari, Roberto Saviano, solo per citarne alcuni. Sono scaramucce mediatiche o c’è qualcosa di più profondo, magari un voler intimorire gli intellettuali come alcuni sostengono o un voler porre fine all’egemonia culturale di sinistra?
Credo che parlare di egemonia culturale sia oggi un modo per alimentare una polarizzazione strumentale. Da un lato – il caso Scurati è emblematico – ritengo gravissimo l’attacco agli intellettuali, perché quando si arriva a censurare il pensiero critico ci si trova difronte alla meschinità del Potere, a quell’arroganza “ottusa” di cui parlava Pasolini negli anni Settanta. Dall’altro laro, tuttavia, io credo che la destra abbia uno spasmodico bisogno di affermare la sua visione, il suo paradigma, quasi a voler recuperare anni di supposto ritardo iscrivendo nel proprio Pantheon, e nella propria visione, una serie di figure più o meno rapportabili alla propria ideologia. In questa prospettiva, l’ansia di affermazione coincide con un bisogno di “difesa” che comporta, anche, la delegittimazione di quanto percepito come ostile.
Ma ha ancora senso parlare oggi di “egemonia culturale”? Assistiamo ad un paradigma che si vuole sostituire ad un altro. Oppure ci potrebbe essere un modo diverso di fare cultura?
Mi ricollego a quanto detto in precedenza; la sostituzione del paradigma è, per certi versi, una spia di debolezza. Intendiamoci: esistono pensatori di destra che hanno segnato e segnano il dibattito culturale, contribuendo a diffondere uno sguardo altro – si badi bene, non alternativo – per arricchire l’orizzonte interpretativo. Ma è miope contrappore una visione ad un’altra, continuare a lavorare per separazione o sottrazione. Ecco, uno dei mali di questo tempo, a prescindere dall’ideologia, è la parcellizzazione del pensiero, la piena abdicazione al principio di totalità. Ogni argomento, ogni tema, ha bisogno di essere letto nel contesto, di nutrirsi di ramificazioni, di rivoli di motivi, immagini, visioni che contribuiscono a dar vita a un mosaico cangiante, ricco e sfumato. La cultura dovrebbe trovarsi al centro di questa rete o meglio ancora, nascere da questa.
Lavori in modo poliedrico nel mondo della cultura. Cosa significa fare cultura oggi? Come viene recepita dai giovani?
Fare cultura oggi significa confrontarsi con le sfide del presente e del futuro. Da sempre questo orizzonte è stata una porta privilegiata alla comprensione di certe sfide, di alcuni dati che lo stato delle cose impone di indagare. Viviamo un tempo sgangherato, segnato dall’inefficienza della politica, dalla mancanza di punti fermi e/o di riferimento in ambito ideologico-sociale, da drammi come la crisi climatica, migratoria, il ritorno della guerra. È vero, parafrasando Patrizia Cavalli, che le poesie, e dunque l’arte tutta, non cambieranno il mondo, ma possono permetterci di guardare con occhi ‘laterali’ alle urgenze in corso, di adottare uno sguardo sghembo per focalizzare le cose, per abradere la superficie apparentemente piana del quotidiano. I giovani soffrono questa mancanza di riferimenti perché la percepiscono come un’assenza sistemica che produce sfiducia e smarrimento. È necessario nutrire i loro interessi, intercettare i luoghi che abitano (anche quelli virtuali, a partire dai social), indossare le lenti del loro tempo. Solo così sarà possibile costruire un percorso nuovo e comune.
Ritieni che la cultura di genere in questo senso possa portare dei cambiamenti significativi, in particolare verso la percezione del ruolo femminile e più in generale delle diversità?
Senz’altro. Noto con piacere che le nuove generazioni mostrano una sensibilità diversa, e spiccata, verso le tematiche di genere. È un pullulare di pubblicazioni e ripubblicazioni (notevole il lavoro che sta facendo La Tartaruga, in particolare con la riedizione delle opere di Carla Lonzi), di indignazione e sgomento dinnanzi ai fatti di cronaca. Penso che il tema femminicidi stia svelando, finalmente, lo stretto legame tra violenza e fragilità del maschio, tra cultura del possesso e perdita di tale dominio. C’è ancora molto da lavorare, tanto da recuperare. Da molto tempo caldeggio la riscoperta di un filone del femminismo sommerso, ovvero quello delle Operaie della casa – Le militanti del Collettivo Internazionale Femminista, fondato a Padova nel luglio 1972 – che posero al centro della loro lotta il salario per il lavoro domestico “come leva di potere”. Questo, secondo me, è un tassello di storia da elaborare con sguardo al presente.
A riguardo ho letto delle bellissime tue prove letterarie sulla rivista “Cultura e dintorni” sull’impronta dell’amore e contro la violenza di genere. Cosa ti ispira e a chi ti vuoi rivolgere in particolare?
Ho sempre poco tempo per dedicarmi alla narrativa e me ne rammarico. È questa la sola forma attraverso cui riesco a esprimere ciò che sento, quanto si agita nella parte che tengo più in ombra: quella delle emozioni. L’ispirazione si nutre di due filoni, ossia l’esperienza e la sublimazione letteraria. Tutto ciò che scrivo afferisce al mio vissuto, ma vien fuori in maniera traslata, esagerata, per il tramite di uno sguardo diverso – sia quello di una bambina, di una donna diversa da me, di un personaggio letterario a cui ridò voce. Mi piacerebbe parlare a un pubblico capace di cogliere le sfumature dell’essere, in grado di accogliere la fragilità, di scoprire attraverso di essa un nuovo modo di intendere le relazioni e la vita. Tutti i miei racconti ruotano attorno a questo aspetto, e nascono da esperienze dolorose. È da queste lacerazioni che ha inizio la rinascita.
Ti occupi del rapporto tra le arti. Qual è, se lo ha ancora, il ruolo dell’estetica nella nostra società? Quali tra le arti prediligi e ritieni più efficaci per comunicare i tuoi messaggi?
Pasolini è stato uno degli anticipatori dei generi “rimescolati” e credo che la sua lucidità di analisi sia consistita proprio in questo: nell’apprendere l’insufficienza di un solo metodo, di una sola prospettiva per raccontare il presente. Indagare il rapporto tra le arti significa cogliere le potenzialità di ciò che si trova negli interstizi e, di conseguenza, può meglio disporsi alla contaminazione. Il mio primo amore resta la letteratura, in prosa e poesia, ma mi rendo conto che per trasmettere messaggi, per far arrivare un’idea in forma “potenziata” sia necessario lavorare sull’intersezionalità. Da questo punto di vista, almeno nel mio lavoro, è l’incrocio di cinema e letteratura quello che trovo più funzionale a certe indagini, specialmente in relazione all’immaginario e alle narrazioni.
Per finire con una nota sul futuro, cosa ne pensi del Metaverso e come cambierà le arti e il loro modo di comunicare?
Metaverso e Intelligenza Artificiale sono diverse interpretazioni dell’esistente. Non ho paura degli sviluppi che possono avere nell’arte, giacché ogni epoca si è trovata a fare i conti con invenzioni potenzialmente “fuori controllo”. Certo, oggi tutto corre velocemente e l’Intelligenza Artificiale rischia di contaminare il dibattito politico, di condizionare l’opinione comune, di generare realtà parallele dominate da fake news e immagini artificiali. Questo mi preoccupa, e molto. Ma sul piano artistico, se ben dominata, può rappresentare uno strumento di elaborazione e arricchimento. Ho valutato positivamente diverse mostre di artisti che lavorano con l’AI. Come sempre, è un discorso di metodo e “controllo”.
Il 22 aprile scorso si è celebrata la giornata mondiale della Terra per sottolineare la necessità della conservazione delle risorse naturali della Terra. Siamo assolutamente convinti dell’eccessivo consumo di risorse, a partire dal suolo, delle acque e dell’atmosfera per non parlare dell’inquinamento e del climate change. Qual è il significato per te come giornalista, tra le altre cose, ambientale, e quali le azioni concrete da mettere in campo?
Confesso un certo sgomento dinnanzi a ciò che sta accadendo al pianeta. Il termine “ecoansia”, cui si ricorre da qualche tempo per indicare forme di disagio, paura e in qualche caso depressione dinnanzi al pensiero di possibili disastri legati al riscaldamento globale e ai suoi effetti ambientali, fotografa bene lo stato d’animo di chi ha capito che siamo a un punto di non ritorno. Resto annichilita dinnanzi alla faciloneria con cui esponenti del governo parlano dei cambiamenti climatici; pensare che il caldo anomalo degli ultimi anni sia semplicemente riconducibile alla nozione di “estate” e che i danni ambientali causati da piogge copiose rientrino negli eventi naturali è un insulto all’intelligenza e sensibilità di molti. Così come il trattamento nei confronti di esponenti di Extinction Ribellion e Ultima Generazione. Il cambiamento parte dalla testa, ma finché i nostri rappresentanti non prenderanno parola su questo tema in maniera seria sarà difficile convincere l’opinione pubblica in maniera massiva. Ciò che si può fare è continuare a protestare, a parlare, a rivolgersi alla stampa più sensibile al tema (gli inserti ambientali dei principali quotidiani sono ottimi, da “L’Extraterrestre” a “Green and Blue”, così come riviste online specializzate sul tema) e adottare piccole soluzioni quotidiane, dal riciclo al risparmio energetico. Piano piano qualcosa si sta muovendo.
** Le foto ritratto sono state gentilmente concesse dall’artista **
Anna Crispino, napoletana, nata nel 1972, canta per amore della musica. Vive e lavora a Roma, impegnata nel sociale. Arte terapeuta ad indirizzo psicofisiologico integrato, musico-terapeuta, counselor, mediatrice familiare con esperienze in ambito socio-sanitario. Ha lavorato con minori a rischio, pazienti psichiatrici, Alzheimer e donne che hanno subito violenze. Ha collaborato con l’Aref (Associazione per la Ricerca sulla Epilessia Farmaco resistente – Onlus) per un progetto di musicoterapia nei reparti neuropsichiatria e neurochirurgia infantile del Gemelli di Roma.
“Da tutte queste esperienze ho capito che l’arte e la musica riescono a tirar fuori il non-detto da tutti noi e ci sollevano dalle pene”
Anna, volevo partire dai tuoi dati biografici e dal tuo percorso professionale ma, trovando molti riferimenti e riflessioni nel tuo bel libro pubblicato lo scorso anno dalla casa editrice napoletana Martin Eden “Carlo Delle Piane. L’uomo che ho amato”, partiamo da questo che per me è stata una vera carezza per l’anima. Pupi Avati, che ne ha curato la prefazione, lo ha definito un “diario d’amore”. Puoi dirci cosa ti ha spinto a scrivere questo libro ?
Il voler omaggiare un grande attore, sicuramente. Dato che già esisteva una biografia di Carlo in cui l’artista era già stato raccontato, mi interessava raccontare l’uomo, con le sue fragilità, le sue passioni e le sue malinconie. Soprattutto volevo raccontare l’incontro speciale tra due anime che seppur diverse su alcuni punti di vista, erano anche molto simili. È stato incisivo l’incontro con la casa editrice Martin Eden, che mi ha proposto di fare questo omaggio a Carlo e con la loro sensibilità e l’attenzione che ho trovato mi ha permesso di dare forma a questo libro che per me è stato anche in qualche modo terapeutico, un’elaborazione della separazione.
Nel libro parli di come hai conosciuto e ti sei innamorata di Carlo Delle Piane, che poi avresti sposato nel 2013 e che tutti conosciamo come protagonista del cinema italiano in oltre cento film con grandi registi. Mi ha colpito la casualità e nel contempo l’importanza che questo evento ha avuto nella tua vita, quasi come una profezia che si autoavvera. Non a caso il capitolo s’intitola il “Volo dell’Anima”. Puoi dirci qualcosa di più su questo incontro e le tue riflessioni a riguardo?
Penso che l’incontro tra me e Carlo non sia stato un caso. Ci siamo incontrati in un luogo (l’ex-manicomio di Santa Maria della pietà) dove per la prima volta avevo messo piede, perché ero andata a fare una passeggiata e a leggere, mentre invece Carlo era a fare delle prove. In tanti anni io non ero mai andata e neanche lui. Conoscendo Carlo, probabilmente se non fosse stato per lavoro non ci avrebbe mai messo piede, e quindi questa sincronia di trovarci lì, in quel posto, a quell’ora, mi ha fatto sempre pensare che sia stato il destino. Fu un incontro magico, ritrovarmi davanti il mio attore preferito mi spiazzò, ma mai avrei immaginato che le cose avrebbero preso la forma che poi hanno preso. La vita ha fatto sì che ci incontrassimo e che condividessimo un pezzo importante delle nostre esistenze.
Qual è stata l’importanza di Napoli, la città in cui sei nata, per la tua vita e la tua carriera artistica? In realtà, sempre nel libro, si parla nel capitolo “Le città amate”, di tanta altre città, ovviamente Roma, dove vivi e lavori, poi di Firenze, Alghero e Parigi. A ciascuna sono legati dei ricordi e ognuna ha rappresentato qualcosa di importante. Ce n’è qualcuna particolarmente significativa di cui vuoi parlarci e che rappresenteresti con una parola o un’immagine?
Nascere a Napoli è stato sicuramente un dono. La città è stata centrale nella mia vita, anche per la musica napoletana che è molto rappresentativa per me e che sicuramente mi ha salvato. Se dovessi rinascere lo farei sicuramente a Napoli, che è un luogo sacro e unico fatto di accoglienza, generosità e bellezza.
Per quanto riguarda le altre città citate, ognuna di esse ha un posto speciale dentro me, ma sicuramente Parigi è la città che più di tutte è stata importante. È stata il sogno che mi ha salvato, come si capisce anche nel libro.
La tua attività professionale è molto eclettica e varia, cantante, arte-terapeuta, counselor, mediatrice familiare e impegnata nell’ambito socio-sanitario. Puoi raccontarci il tuo percorso artistico e professionale e come si coniuga a quello di cantante?
Il mio percorso artistico nasce da molto lontano, nel senso che ero ragazzina e già cantavo nei locali. Ricordo che cantavo Mina ogni sabato sera, portando questo repertorio con un pianista. Poi ho scelto la musica napoletana, ho studiato canto e man mano il sogno ha preso sempre più forma con diversi artisti, fino al maestro Colicchio con cui abbiamo dato forma a diversi spettacoli in diversi teatri, anche con lo stesso Carlo. Parallelamente, avendo sperimentato la musica anche come forma terapeutica per andare a lenire alcune ferite e dolori dettate da esperienze di perdite premature della mia vita, sentivo anche il bisogno di trasformare questo dolore in una risorsa. Fin da ragazzina ero molto portata ad aiutare gli ultimi e chi era in difficoltà, atteggiamento che viene
dalla mia famiglia nella quale respiravo sempre grande generosità. Facendo degli studi specifici all’università ho poi iniziato a lavorare prima con i minori a rischio, poi nell’ambito psichiatrico, poi con i bambini oncologici al Gemelli, specializzandomi poi in Arteterapia a indirizzo psicofisiologico integrato alla Sapienza e, ancor di più con la specializzazione in Musicoterapia, ho unito le mie grandi passioni: la musica e la psicologia.
Nel tuo libro sono citate diverse canzoni ed autori, da Aznavour a Battiato da Billie Holiday a Jacques Brel, colonne sonore della tua vita. Qual è quella che in particolare ti è più cara? Ma ci piacerebbe sapere quella del tuo repertorio che ti piace più cantare o meglio ti rappresenta.
Molto difficile scegliere. Sicuramente La cura di Battiato, un brano che ascoltavamo sempre io e Carlo e che incidemmo con l’aiuto di Franco, che oltre a essere un artista eccezionale è stato anche una figura importante nella mia vita. Sono però molto legata anche ad Aznavour. Tra le canzoni che canto non posso che citare Maruzzella che è stato il mio cavallo di battagli fin da bambina, il mio stesso soprannome è Maruzzella. L’ho fatta in tutte le versioni possibili. Dovendo scegliere una sola canzone quindi dico questa anche per l’aspetto affettivo e per l’amore che ho per Carosone.
Nel libro parli di come la passione per il canto sia andata di pari passo con il lavoro di arte terapeuta, generando anche un conflitto interiore che hai cercato di “sanare” in qualche modo, almeno da quello che ho colto, specializzandoti in musicoterapia. Ci potresti spiegare meglio in cosa consiste questa tua attività?
La musicoterapia, come ho già detto nella domanda precedente, rappresenta la cura attraverso l’arte basandosi su un modello specifico, quello del professor Vezio Ruggeri, che è un modello psicofisiologico. Il professore sottolinea come mente e corpo siano una cosa sola e andando a lavorare sul rilassamento andiamo a lavorare anche sulle emozioni. Meno tensioni abbiamo e più emozioni rilasciamo e andiamo a riscrivere la nostra storia anche con una postura diversa nel modo in cui stiamo nello spazio. Non è facile da spiegare a voce, il mio è un lavoro che si basa sull’esperienza, fatto di alchimia. Non preparo nulla prima di fare i laboratori, perché in base alle persone che ho propongo un certo tipo di esperienza. Sicuramente la poesia è uno strumento che uso molto, attraverso la scrittura si fa una fotografia di un momento e si ragiona su cosa si può fare per stare meglio. Il lavoro è fatto attraverso l’ascolto della musica, le immagini, il movimento, l’ascolto. Si lavora su tutto il corpo, dallo sguardo al movimento delle mani e si usa molto l’immaginazione perché tutto ciò che si immagina è.
Il libro è strutturato in undici capitoli, ciascuno aperto da un passo di una poesia o da una riflessione di un intellettuale. Puoi dirci come li hai scelti, se c’è un filo conduttore e se magari ce n’è qualcuno che ti è particolarmente caro ?
Mi sono confrontata con l’editore, con cui abbiamo lavorato con una grande intesa e ascolto reciproco. Sono tra gli autori o le citazioni che preferisco. Sicuramente Bobin è quello a cui sono più legata. Riesce sempre a commuovermi ogni volta che leggo una sua opera. Purtroppo è venuto a mancare poco tempo fa, una grande perdita sul piano del nutrimento dell’anima. Il filo conduttore è dare voce all’anima, qualcosa che ho voluto condividere con gli altri perché la poesia per me è un modo per esprimersi e andare in profondità.
Il libro è dedicato a tua madre, tua figlia e ad Andrea Purgatori. Di tua madre mi ha colpito molto la sua dipartita nel giorno del tuo 11° compleanno, cosa che ti ha segnato per tutta la vita, come credo quel ventitré agosto del 2019. Puoi dirci di più anche sulla tua amicizia con Andrea Purgatori, la cui recente e improvvisa scomparsa ci ha colpito tutti inaspettatamente anche per le modalità con cui è avvenuta?
La perdita di Andrea Purgatori come professionista è stata grande per tutti quelli che lo conoscevano attraverso i suoi scritti e i suoi programmi, come ogni volte che si perde una persona di tale integrità e serietà. Per me è stata una perdita personale, è stata una persona importante nella mia vita e ancora sto elaborando questa separazione avvenuta come uno strappo, proprio come quella di mia madre. Mentre Carlo l’ho accompagnato alla morte standogli vicino fino all’ultimo, nel caso di Andrea è stato come un fulmine a ciel sereno. Un momento molto difficile arrivato nel momento della chiusura del libro ed era giusto omaggiarlo e ricordarlo, perché le persone che abbiamo amato vivono attraverso il ricordo e gli affetti.
Cosa significa custodire la memoria di una persona come Carlo Delle Piane che, al di là del suo privato con una grande e complessa personalità che pur è inscindibile dall’attore come ben si evince dal tuo libro, è stato un grande interprete pluripremiato del cinema.
Custodire la memoria di Carlo è un grande dono della vita e anche una grande responsabilità. Come dicevo nella domanda precedente, ci sono persone che hanno lasciato un segno perché hanno amato quello che facevano e sono arrivati al cuore delle persone emozionando. Hanno toccato corde che ci hanno permesso di metterci in contatto con parti nostre nascoste, ci hanno fatto sognare, ci hanno reso la vita più leggere per certi versi. Ecco perché sono sempre pronta a ricordare Carlo e ringrazio molto la casa editrice Martin Eden e tutto il gruppo di lavoro che mi ha sostenuto perché è bello quando giovani così vogliono fare un omaggio ad un attore anziano che però ha dedicato settant’anni di vita al cinema. È veramente un gesto d’amore
Nel ringraziarti per il tempo che ci hai dedicato e raccomandando il tuo libro, ci lasciamo con un’ultima domanda sui tuoi progetti futuri sia artistici sia professionali nei vari campi a cui ti stai dedicando e se hai qualcosa di particolare su cui stai lavorando o che ti sta a cuore comunicarci.
Sono io che ringrazio voi, persone che danno spazio alla culture e all’arte. Per quanto riguarda i progetti futuri sicuramente continueremo a portare il libro in giro, proprio nei prossimi giorni andrò a Parigi per parlare di un’eventuale presentazione. Sto preparando dei concerti dove farò degli omaggi a Carlo. Partiranno dei progetti nelle carceri per l’educazione al sentimento, legati alla violenza sulle donne, che ho dedicato ad Andrea Purgatori. Poi altri progetti legati alla musicoterapia che partiranno quest’anno, la collaborazione con il Gemelli e con l’associazione Aref. Cose in cantiere che spero possano prendere forma e farmi continuare il lavoro che amo, sia quello di cantare che quello di curare, e per lo meno far del bene, con la musica.
Vi ringrazio ancora di cuore e un in bocca al lupo per il vostro giornale, a presto.
** Le opere fotografiche sono state gentilmente concesse dall’artista **
Il tema del riconoscimento è sicuramente uno dei più pregnanti dell’attualità geopolitica, portato prepotentemente alla ribalta dalle guerre russo-ucraina e israelo-palestinese a cui si è aggiunto più recentemente il conflitto “ibrido” con gli Houthi nel Mar Rosso che sta mettendo a rischio l’economia dell’occidente per le sue conseguenze commerciali.
Altri se ne profilano all’orizzonte, dove sembra sempre più prefigurarsi il già teorizzato “scontro tra civiltà” e, comunque, di chi vorrebbe un ordine mondiale diverso, a partire dal fronte dei paesi del BRICS che si sta progressivamente allargando, anche se ancora poco compatto ma con l’obiettivo chiaro di creare un ordine alternativo a quello occidentale.
Non è che tali contrasti, come tanti altri più o meno conosciuti non ci fossero in precedenza, ma si erano forse sopiti nell’indifferenza generale. In particolare, il conflitto più annoso tra Israele e Palestina, la madre di tutte le guerre, perché, mai come in questo caso, si tratta di un reciproco riconoscimento mai avvenuto, alla radice di gran parte dei mali del Medio Oriente e del terrorismo islamico, in cui si è sempre inserito il gioco dei gruppi religiosi, delle potenze regionali e dei grandi attori internazionali.
Eravamo abituati a leggere la “lotta per il riconoscimento”, tema hegeliano per eccellenza, in categorie come quella tra le classi sociali o, secondo il politologo e filosofo Axel Honneth teorico del riconoscimento, come l’ingiustizia di non riconoscere a una persona ciò che gli spetta portandolo all’esclusione sociale. Oggi assistiamo al bellum omnium contra omnes: terrapiattisti contro la scienza, complottisti contro “integrati”, no-vax contro pro-vax, scienziati contro sé stessi, politici in lotta tra di loro (adesso è diventata però una lotta perniciosa che coinvolge le Istituzioni) e, la cosa peggiore, lo scontro fratricida tra interi popoli e tra Paesi.
Quest’ultimo, si dirà, c’è sempre stato ma si pensava fosse ormai superato e mai di ritorno in queste forme novecentesche, con crudeltà che investono popolazioni inermi, con bombardamenti di ospedali, scuole, università e teatri alle porte della civilissima Europa che pensavamo di non dover mai più rivedere.
In questi giorni si sono celebrate la Giornata della Memoria e quella del Ricordo, a monito delle atrocità commesse nella Seconda guerra mondiale che, evidentemente non ci ricordano abbastanza che occorre l’impegno di tutti nel fermare queste disumanità. Il riferimento è in particolare all’Europa e al suo mancato ruolo come attiva costruttrice di pace. Dopo le macerie del 1945, si è dato forse per scontato un automatismo che avrebbe governato la pace e la democrazia e che non fosse invece necessario prodigarsi costantemente per la concordia tra i popoli e per il loro reciproco riconoscimento. È come se, tutti gli sforzi della grande politica internazionale in Occidente, si fossero concentrati sul pericolo comunista, come unico grande male del pianeta.
Nel 1992, dopo la caduta del muro di Berlino, Francis Fukuyama parlò di “fine della storia” che invece è tornata prepotentemente alla ribalta. Sotto la cappa del comunismo covavano infatti molti conflitti latenti, “neutralizzati” dall’URSS che aveva fatto da collante e “garante” del loro contenimento nonché da deterrente di molti altri anche al suo esterno, nel gioco delle sfere di influenza tra le potenze mondiali. In fin dei conti, occorre inoltre considerare che la storia è poi fatta dagli uomini, al di là di teorie su una supposta evoluzione dell’umanità.
Nel rapporto Censis 2023, sulla situazione sociale del nostro Paese, si parla di “sonnambulismo”, di un paese impaurito ma inerte e cieco di fronte ai presagi. Questa è però la situazione un po’ in tutta l’Europa, e forse, con i dovuti distinguo, in tutto il mondo occidentale. Quest’ultimo credeva di aver conquistato una posizione di benessere e rendita, senza fare i conti con il resto del pianeta e senza impegnarsi troppo come costruttrice di pace, che è cosa ben diversa dall’ “esportare” la democrazia.
La situazione chiama in causa le radici della democrazia stessa. Come affermava il filosofo e pedagogista John Dewey, quest’ultima deve poter trarre l’autorità dal suo interno, dalle fondamenta, dal suo demos, ecco perché è così importante l’Educazione, cosa di cui le nostre società sono manchevoli.
Dewey affermava che la bassa interazione sociale, la scarsità di relazioni nello spazio pubblico, diminuisce l’intelligenza collettiva. Ed è proprio quello che sta avvenendo, una società oscurantista che fa sempre meno uso della ragione, preda delle paure e delle fobie e, dunque, facile preda delle false credenze e delle manipolazioni, anche a causa del dominio sempre più invasivo dei social. Ormai anche la Politica ha adottato il modello “followers”. Questo è un altro dei problemi della nostra società che vede sempre di più la riduzione della dimensione pubblica e sociale a scapito di quella individuale e virtuale, dominata dagli algoritmi e caratterizzata dalle cosiddette “casse di risonanza”, le eco chambers, dove risuonano gli echi di tutti quelli che la pensano nello stesso modo o, peggio, abitate dai followers-sonnambuli.
In tutto questo, dobbiamo considerare il decadimento dell’Etica pubblica e il conseguente scadimento della politica, ormai priva di visione e appiattita sul contingente, sempre più ridotta a rappresentazione invece che a rappresentanza. Non a caso, per rimanere a questi giorni, anche Sanremo è la cassa di risonanza di importanti questioni politiche.
Occorre sottolineare come il riconoscimento, a livello individuale, sia un bisogno primario dell’essere umano. Lo stesso desiderio nasce dal bisogno di riconoscimento che caratterizza l’esistenza stessa e la progettualità della persona. C’è la necessità di riconoscimento anche degli stessi desideri e di andare oltre gli echi e le false sirene dei social, che mirano al singolo individuo trasformandolo in un follower di bisogni. Qualcosa che, unito all’uso dilagante e improprio dell’intelligenza artificiale, richiama all’ “automa”. Anche le società dovrebbero però coltivare questo desiderio sulla base di un Ethos che le renda “erotiche” nel senso più squisitamente filosofico del termine.
Ho conosciuto Giacinta De Simone, qualche anno fa, in uno dei primi Festival della Sociologia di Narni, adesso arrivato alla sua VIII edizione, dove ci siamo ancora ritrovati. Ci ha subito unito l’interesse per questa materia affascinante e complessa (che è stata anche il suo oggetto di insegnamento nelle scuole), per le sue mille sfaccettature ed implicazioni sociali e politiche ma anche per i suoi riflessi individuali.
Un microcosmo è sempre in rapporto con il macrocosmo che vi viene in qualche modo riflesso. E, forse partendo proprio da questa sua interiorità, che Giacinta De Simone ha sviluppato la sua passione per la poesia, prima ancora che per la sociologia.
Interno ed esterno, interiorità ed esteriorità, individuale e sociale, tutto si lega in questo suo sviluppo intellettuale. Sì, perché solo successivamente ho scoperto che dietro la sociologa, la docente di scienze umane e sociali, la counselor, c’era una poetessa. Scoperta stupefacente perché è raro trovare dei poeti, sarà che è rimasta scolpita nella mia mente l’orazione di Alberto Moravia, pronunciata nell’ormai lontano 5 novembre del 1975 alle esequie di Pasolini, dove affermava in modo accorato “…E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo…”.
Certo, non si vogliono fare qui paragoni inopportuni o impropri, ma è pur certo che ci sono valide poetesse e poeti seppur nascosti e rari da trovare e ciascuno di loro è un microcosmo che rappresenta un mondo intero affascinante ed insolito.
Per Giacinta De Simone la poesia è una carezza per l’anima e un sogno di vita da parte di una persona molto sensibile, che si rivolgerà poi al sociale, non solo come studio e professione ma anche come impegno e partecipazione. E’ anche una persona estremamente riservata e avvezza alla modestia ma ha partecipato a importanti concorsi nazionali di Poesia e ha pubblicato le sue poesie con diversi editori.
Di seguito, in tema con il riconoscimento dell’altro che abbiamo deciso per questo numero di Condi-Visioni, una delle sue ultime pubblicata da Aletti Editore nel dicembre 2023, recita così:
La mia dedica a te
Tu.
Divini occhi azzurri,
nei quali si legge e “tocca”
l’avvolgente consistenza
d’umanità e d’anima
del tuo infinito.
Ne ho scelte tre dalla sua raccolta personale Poesie Chiare, che sono molto rappresentative del leit-motiv di questo numero.
Poesia blu
Vorrei riversare su di te non solo poche onde ma tutto intero il mare del mio amore. Non un mare scuro che ti sommergesse senza più lasciarti vedere l’azzurro del tuo cielo. Un mare chiaro, leggero, trasparente… che miriadi di piccole gocce bianche, celesti, azzurrine ti danzassero libere intorno… Fra tutte, vorrei che tu ne lasciassi una posarsi sul tuo cuore e, amandola, ti accorgessi che essa è blu.
“Poesia blu” in AZ Arte Cultura 1995 Anno XX n.82.
In risposta a una tua fotografia
Nei tuoi occhi io mi vedo, nel tuo sorriso c’è il mio, io ci sono, nei tuoi silenzi che mi abbracciano io non mi perdo.
“In risposta a una tua fotografia” in Figli oggi e domani Notiziario CAF 1997 Anno VII n.13.
Il colore dei neri
Il loro colore i neri non ce l’hanno sulla pelle. Come tutti quelli che hanno sofferto ce l’hanno dentro, nell’anima. E’ il colore della fatica e del sudore nei campi di cotone, il colore della sofferenza e del dolore, della discriminazione e dell’apartheid, del razzismo e della schiavitù. E’ il colore intenso della loro musica quando i loro corpi si muovono danzando come solo loro sanno fare, quando suonano jazz, swing e rhythm and blues, quando cantano nei cori gospel. E’ il colore del discorso di Martin Luther King quando legge “I have a dream”, delle troppe volte in cui qualcuno con disprezzo li ha chiamati “negri” e ha negato loro i diritti umani. E’ un colore nero che brilla di luce, d’anima e di libertà. E’ il colore dell’umanità alla quale tutti da sempre apparteniamo: la nostra intera umanità, l’unica umanità.
“Il colore dei neri” Newsletter Associazione Nazionale Sociologi (ANS) n. 4/2020
Nota biografica: Giacinta De Simone, nata a Gallipoli (Lecce) il 18 aprile 1955. Laurea in Sociologia, Diploma in Counseling, già Docente di Scienze umane e sociali, Counselor.
Le poesie e le foto sono state gentilmente concesse dall’autrice
Nora Lux è un’artista romana che proviene da studi psicologici ma con una formazione multidisciplinare che prosegue all’Accademia delle arti e nuove tecnologie. Artista trans-mediale che spazia dalla fotografia, al video, alla performance, dalla poesia alla musica con forti richiami allo sciamanesimo e al femminino sacro, attraverso simbologie esoteriche che rimandano ad Ermete Trismegisto.
Vent’anni di ininterrotto lavoro nella natura, in cavità e nelle profondità della terra per narrare la storia del femminile nella nostra anima: il percorso artistico di Nora Lux inizia con opere in bianco nero in pellicola e prosegue con immagini di sé stessa come Dea Madre nelle vie sacre e negli ipogei degli etruschi. Il lavoro evolve successivamente in azioni performative che, nell’approccio dell’autrice, rappresentano il naturale sviluppo degli autoscatti.
L’originalità di queste “azioni” consiste nell’essere veri e propri rituali di sintonizzazione con le energie dei luoghi, riti che possiedono la funzione di immergere l’artista nell’inconscio collettivo e nel consentirle di conquistare e trasmettere al pubblico il frammento di una nuova conoscenza. Proprio nel corso di una di queste “azioni”, infatti, mentre assumeva la ieratica posizione della potente Dea Madre, l’artista ha trovato il riferimento Totemico: un corvo, simbolo dello stato iniziale dell’opus chiamato “Nigredo”.
Da questa dimensione di oscurità, Nora Lux ha integrato nuove figure di comunicazione spirituale tra la terra e il cielo, come il pavone (Albedo) e l’aquila (Rubedo), simboli di trasformazione presenti nel suo Vitriolum (2017-2019). Fotografia e performance si compenetrano poiché per l’artista non c’è confine tra l’agire e il momento fotografico. Ciò che porta in scena nelle performance è il risultato delle sue esplorazioni, l’autoscatto è un momento vissuto con e nella natura. L’elemento Terra e le grotte della civiltà etrusca, dove la donna era la più libera delle società antiche, sono i luoghi della metamorfosi, passaggi ctoni, simboli della profondità dell’inconscio.
La fotografia può fissare l’eterno, il suo proposito è più ambizioso, lasciare scorrere, permettere al tempo di passare, non fermarlo e dominarlo ma, creare con esso e su di esso, sfuggire alla vocazione naturale di specchiarsi nell’obiettivo fotografico per attingere ad un altro universo, quello degli Dei, e più specificatamente a quello della Grande Dea, influenzata dalle teorie di Marija Gimbutas, e dall’indagine di Erich Neumann sull’archetipo della Grande Madre e i Simboli della trasformazione di Carl Gustav Jung.
Nora, ci siamo conosciuti in una tua nuova iniziativa, SpeculumamoriS, di cui dopo parleremo. Mi ha da subito incuriosito la tua arte con i suoi forti richiami primordiali. Puoi raccontarci come è cominciato il tuo percorso?
E’ iniziato tutto all’età di 8 anni quando mio padre mi regalò una macchina fotografica. In famiglia c’era uno zio intellettuale che mi portava spesso nei musei dove mi affascinavano le statuette che poi ricollegai alla Dea madre, come divinità femminile e primordiale. Questo è stato il primo germoglio, da cui è scaturito il Maestro Albero della mia arte ma, direi forse della mia vita. Le radici si sono formate all’Accademia delle arti e nuove tecnologie e l’albero è continuato a crescere, alimentandosi con l’interesse per le civiltà preistoriche e gli etruschi. In quest’ultimi, il principio femminile fu massimamente celebrato e coincise con il diffondersi dei culti misterici e delle civiltà matriarcali, che ho poi approfondito con gli studi dell’antropologa e archeologa Maria Gimbutas.
Ho iniziato il lavoro sul corpo in Accademia, fotografandomi in pellicola, l’uso della fotografia analogica, del bianco e nero con i suoi contrasti, mi proiettava in una dimensione intima e oscura, vedevo me stessa in luoghi rarefatti, abbandonati, misteriosi.
Passavo giornate intere nei luoghi che sceglievo, spesso ci dormivo anche. Nel 2008, suggestionata dal Film di Pasolini “Il Vangelo secondo Matteo, mi sono recata a Matera nel parco della Murgia, fotografandomi principalmente nelle Chiese Rupestri, e ho realizzato la mia prima immagine iconica di nudo in natura “Mater Lacrimosa”.
Da questo momento ogni mia foto è creata in ambienti esterni, la Natura, che non ho più lasciato, diventa la mia scenografia ed inizio ad ambientare la GRANDE DEA in Etruria (Toscana, Alto Lazio e Umbria). Prediligo ancora oggi le zone tufacee del triangolo magico tra Pitigliano-Sorana-Sovana, area di insediamenti etrusco-romani, all’interno di cavità, grotte e boschi, in 15 anni di lavoro negli stessi luoghi.
Oltre al rapporto con la Natura e con gli elementi primordiali, prevale la dimensione della trasformazione, sia del corpo sia del paesaggio, come si può vedere dall’evoluzione storica degli autoscatti. C’è una tensione tra la foto che vuole eternizzare ed il divenire del tempo che è anche ciclico. Anch’io seguo questa ciclicità come Persefone, che passava sei mesi dell’anno (autunno e inverno) nel regno dei morti e negli altri sei mesi (primavera ed estate) andava sulla Terra da sua madre Demetra, facendola rifiorire al suo passaggio.
Le feste solstiziali hanno infatti avuto nel tempo, la funzione di ricordare all’uomo che il continuo ripetersi della morte e della rinascita del Sole è per analogia l’avvicendarsi della morte e della rinascita della vita.
Anche per me il periodo primavera-estate è quello di massima espressione e produzione artistica mentre quello invernale è più dedicato al ritiro spirituale e allo studio.
A proposito di solstizi, sappiamo che il 21 dicembre prossimo, giorno del sol invictus, presenterai il progetto SIGILLUM alla Galleria Canova 22. Ce ne potresti parlare, illustrando le novità e come si inserisce nella tua composita produzione artistica?
Con la performance SIGILLUM il corpo è medium tra microcosmo e macrocosmo.
La Performance si inserisce all’interno del progetto Close Up promosso da Roma Capitale Assessorato alla cultura con “culture in movimento”, curato dal dipartimento Attività culturali in collaborazione con Siae, in una delle location più suggestive della capitale, la Galleria Canova 22, diretta da Fiorenza D’Alessandro e Franz Prati.
L’Azione è L’Hypostasis greca, la persona in quanto unica “icona divina”. Dialogherò con una mia opera, una fotografia che con la tecnica del mapping verrà proiettata sull’intera galleria.
L’immagine, un autoscatto realizzato nella grotta perciata, maggiore esempio di grotta a scorrimento lavico dell’isola di Ustica, descrive il flusso di magma vulcanico che cambia forma e temperatura come il corpo è fluido e solido. Il corpo scenico di carne e ossa in performance genera un nesso con il versetto della Genesi 2,23: “Questa è osso dalle mie ossa e carne della mia carne”. Creo attraverso il simbolo un corpo che diventa oggetto della vita psichica sigillata nell’essenza del femminile e del maschile insieme in correlazione con i recenti fatti di cronaca riguardanti i femminicidi e la guerra in Palestina. Gli elementi sono incarnazioni terrene dei principi cosmici, così il mio corpo costruisce all’interno dell’opera fotografica un’inclusione totale con gli elementi. Il corpo formato da calcio, fosforo, sodio, potassio, magnesio e ferro unito alla roccia lavica richiama lo stesso ferro presente nel sangue. Il nucleo di ferro fluido della Terra con l’eruzione si manifesta nelle rocce magmatiche con le quali il mio corpo si confronta.
Gli uomini sono il piccolo mondo, perché legati alla Natura del Mondo. L’universo è il grande mondo, il Macrocosmo. Nella performance SIGILLUM attraverso l’immagine, la geometria sacra, il suono, la voce e il CORPO, come specchio ed eco di ciò che è stato violato, unisco Terra e Aria, Fuoco e Acqua.
Potresti sintetizzare il senso della ricerca alla base della tua espressione artistica?
Come dicevo in precedenza, la mia ricerca nasce dalla fotografia che si “muove” parallelamente alla perfomance art, la quale negli ultimi anni è diventata un’espressione necessaria quanto le opere fotografiche che realizzo in Natura.
Il progetto UNUS MUNDUS (2020) mette in evidenza questa corrispondenza, dal quale emerge l’evoluzione della mia espressione, la fotografia e la performance, prioritari nel mio fare, dialogano sempre di più.
Sacralità e Ambiente, retaggi antichi e connessione con il mio corpo, linguaggio alchemico e geometrie sacre. La consapevolezza che ciò che è dentro di noi vive anche al di fuori, in un rapporto di integrazione e unione continua con la natura, il sole, la luna, le stelle.
C’è un senso altro che muove il mio operato ultimamente, qualcosa che si avvicina alla purezza del fuoco. Bruciando puoi distruggere, se non compensi e mitighi con altri elementi, oggi la sfida è proprio questa, vivificare per perfezionare, sottraendo.
Il fuoco è interno alle cose e esterno, è nel cuore della Terra e nei raggi del sole ed ogni cosa si trasforma, si muove e diviene come il fuoco.
Con riferimento al genius loci, ci puoi parlare del tuo progetto “site-specific” TEMPLUM iniziato nel periodo pandemico in Puglia, nel sito preistorico più grande di Europa? e della visione cosmica, in particolare quello su cui sta lavorando attualmente
In uno spazio dove sono raccolti e consacrati i segni, nasce la mia visione del progetto artistico TEMPLUM.
Il Templum è un concetto etrusco, la stessa Roma città in cui sono nata e fondata da Romolo, primo Re Etrusco, viene edificata con il tradizionale rito di fondazione delle città etrusche. Il Templum è una divisione spaziale e temporale praticata in una determinata area, per estensione il Templum diverrà il tempio che conosciamo oggi, cioè la costruzione che si edifica sul luogo precedentemente augurato e reso sacro. Questo augurare un luogo significa anche dare una centralità ispirata dal luogo. Percorro sempre la stessa modalità che utilizzo nel progetto TEMPLUM poiché è divenuto un metodo performativo. Ogni cosa procede secondo una geometria e attraverso le ombre che il sole proietta nel cerchio, costruisco una vesica piscis, immagine iconografica sacra, mediazione tra cerchio e quadrato, i cui assi individuano l’orientazione dei futuri cardo Nord-Sud: asse del mondo e decumanus Est-Ovest: traiettoria dell’eclittica. Gli assi del Tempio Sacro.
TEMPLUM inizia in Puglia, nel sito neolitico più grande d’Europa, dove svelo una delle modalità d’azione che attraverso questo progetto diviene chiaramente visibile a tutti. Interpreto un mondo arcaico. Il mio corpo ricettacolo di energie cosmiche divine soglia medianica tra mondo sacro e profano. Nella grande pianura del tavoliere delle puglie, all’interno dell’area neolitica ripercorro i segni di ocra rossi, corrispondenti alla costellazione di Cassiopea, iconografia presente sul busto della statuetta della Dea sciamana, simbolo di sangue e di vita.
Se il tempo, dice Platone, “è l’immagine mobile dell’eterno e l’istante è l’eterno, dove futuro e passato non esistono”, nell’istante in cui l’augure contempla fissando il Templum diviene tutt’uno col Dio, entra nell’eterno, nell’essere, il quale poi lascia segni indiscutibili di verità e presagio”.
In TEMPLUM II risalgo le scale dell’unica Piramide etrusca presente in Italia, l’altare rupestre più grande d’Europa, con in mano una pietra rosso sangue, inverto il rito di scolatura del sangue, rianimando le vittime sacrificali. Dal sangue degli animali l’anima trasmigra nelle pietre che percorrono al contrario il destino infausto elevandosi in una propositiva e trasmutata nuova esistenza, non solo simbolica, ma incredibilmente reale. In questo mio gesto rinnovo e mi affido ad una metafora concreta, sui temi della vita sotterranea del mondo etrusco, proseguendo il percorso sulle tematiche della Dea Madre. In TEMPLUM III, rappresento Cerere chiamata la Nera, Demetra per i greci e, Vei per gli etruschi. Il nero è il colore della fertilità, che spiegherà in seguito il proliferare In Europa delle Celebri Madonne Nere, che non a caso erano dotate di virtù curative. La Terra fertile di Cerere e la Lava vulcanica il cui principio è il fuoco si congiungono, ma il sale della Terra è L’anima, “Quell’acqua divina, aqua permanens che dissolve e coagula” la sostanza arcana che trasforma e al tempo stesso è trasformata, la natura che vince la natura.
In TEMPLUM il concetto di sacro è in continua evoluzione, in correlazione al rapporto che stabiliamo con gli elementi naturali e la rotazione dei corpi celesti. Realizzo, infatti, le azioni performative e le fotografie rispettando una divisione spaziale e temporale, seguendo concetti di assialità e orientamento. In questo senso sento di essere arrivata all’alba di un procedere nuovo in cui l’osservazione degli oggetti astronomici, dello spazio, e della natura è parte fondamentale del tutto, e nelle azioni performative è particolarmente evidente poiché si partecipa attivamente ad un modello cosmologico.
Ci potresti illustrare meglio i tuoi punti di riferimento artistici, alcuni di natura antropologica, psicologica e magari filosofici che sono alla base della tua ricerca ed espressione artistica?
Nell’Europa del Neolitico la società poneva la donna al centro della vita sociale e la Dea all’apice del Tempio degli Dei, poiché la donna porta e genera la vita e la divinità della Terra che dà nutrimento. Maria Gimbutas connette il rispetto sociale per il femminile al rispetto profondo religioso, la venerazione di Dee, dichiarando che le società matrilineari dell’Europa Antica rispettavano sia le donne mortali che le divinità femminili.
Molte di queste statuette sono acefale, puoi proiettare su di esse.
Mi viene in mente la testa della “Venere” di Willendorf una sfera granulosa e omogenea, come anche la “Venere” di Lespugue dalla forma ovale allungata, o le statuette di Grimaldi, il Bassorilievo di Laussel e molte altre.
Insieme alle statuette e ai bassorilievi le pitture preistoriche mi hanno sempre affascinata, segni disordinati che arrivano fino a noi con una composizione tangibile ai nostri occhi di un’epoca remota che appare vicina. In questo ho sempre intuito l’Arte, e anche per questo senso di appartenenza che proseguo il mio percorso artistico. Dopo molti millenni questi uomini e queste donne continuano a parlarmi mi assomigliano e tuttavia hanno trasformato loro stessi si sono fatti medium.
Nelle pitture preistoriche i pittogrammi annunciano immagini di animali e non di loro, l’annullamento della rappresentazione dell’uomo rispetto a quella dell’animale mi stupisce ancora portandomi dentro emozioni dal carattere sospeso.
Le tue performance e le tue opere fotografiche sono ricche di richiami ancestrali, esoterici, sciamanici che ci riportano a riflessioni intime ed universali allo stesso tempo. Qual è la motivazione alla base ed il messaggio che intendi portare?
È innanzitutto una necessità che mi sospinge, un’urgenza, e per questo creo, trasformo, scompongo e ricompongo, non so se c’è un messaggio che intendo portare ma, spero di riuscire ad evocare la Grande Dea, attraverso gli scenari della civiltà etrusca, e della natura tutta, tramite le simbologie della tradizione alchemica occidentale, in maniera sia esoterica che essoterica.
Il culto della Dea Madre di cui parlo abbondantemente nella risposta precedente muove il mio operato da anni, e se pensiamo che questo culto dal neolitico si estende per tutto il paleolitico in un arco temporale che va dai 40.000 anni a.C. ai circa 3000 a.C. più o meno quando inizia la scrittura, è davvero un periodo vastissimo, nulla in confronto ai miei 20 anni di ricerca, nonostante la costanza.
Le statuette delle “Veneri” dalle quale riprendo le posizioni e il dialogo Sono figure di donne enigmatiche che stimolano la mia immaginazione interpretativa, statuette silenziose, così come le opere fotografiche, “aliene”, che lasciano nell’ombra ciò che invece la nostra società mette in risalto.
Probabilmente attraverso le tematiche che indago, metto in luce sia la società patriarcale che ci ha condotti ad ogni femminicidio ma, anche la responsabilità personale oltre le dinamiche sistemiche, strutturali.
Il corpo della donna è portatore delle generazioni future e tutte queste guerre e massacri disonorano la donna e la terra. Noi siamo il nostro pianeta, uniti possiamo essere più recettivi e disponibili ad agire all’interno di noi.
Stando con i piedi a Terra mi affido al mondo invisibile. Attraverso le mie azioni performative esprimo attraverso il suono il tentativo di portare il pubblico in uno stato di frequenze alfa, per alcuni anche Theta, consapevole che per svuotarci dai condizionamenti culturali che sono l’ostacolo più grande alla nostra evoluzione, possiamo attraversare stati altri di coscienza e risvegliare la visione psichica assopita, per credere in quello che percepiamo.
La Tecnologia e la scienza non dà spazio al soprannaturale ma, gli ebrei tradizionalisti credono che Mosè parlasse con Dio, i mussulmani credono che Maometto ebbe incontri con l’arcangelo Gabriele, gli indù e i buddisti riconoscono entità, regni, intelligenze e stati di esistenza non fisici illimitati.
La nostra conoscenza del soprannaturale nasce da affermazioni di visionari religiosi in condizioni di estasi, profeti, sciamani. L’estasi sciamanica è alla radice di ogni cultura. Nei primi momenti dopo la sua fondazione, circa 2000 anni fa, il cristianesimo era una religione sciamanica. Cristo era uno sciamano non solo perché era umano e divino aveva il dono di guarire gli infermi. Quando pensiamo alla croce del Cristo in essa c’è la morte e la rinascita, è l’iniziazione dello sciamano tramite la morte, l’agonia e la resurrezione.
Ultimamente hai dato vita al progetto iniziatico SpeculumamoriS, a cui ho assistito alle prime due edizioni. Oltre che a un progetto artistico che ti consente di sperimentare per la prima volta il teatro e poterlo confrontare con la performance art che da vent’anni è il tuo mezzo artistico insieme alla fotografia, mi sembra di capire che sei mossa anche da una tua esigenza “spirituale” di metterti a disposizione di altri artisti, aiutandoli ad emergere. Un afflato ispirato dal testo “Lo specchio della anime semplici” della mistica medioevale Margherita Porete. Ci puoi parlare di questa esperienza e dei suoi riferimenti e di come si colloca la disciplina dell’Animazione della Spada che mi ha molto incuriosito e attirato?
Forse oggi le mie azioni hanno una pretesa che va oltre la ricerca artistica, c’è uno spazio nuovo, che mi sono concessa che avvicina me e gli altri alla conoscenza e alla realizzazione di Sé. La Lettura del testo “Lo specchio delle anime semplici“, della mistica del Duecento Margherita Porete, è un trattato allegorico tra Amore, Anima e Ragione, come se fossero tre personaggi. Amore e Anima sono Dio e Margherita che confliggono duramente con ragione. Il testo mira alla semplicità, intesa come unica realtà, non c’è alterità dell’essere. Leggerlo è stato come far vivere in me la non-dualità, un desiderio dell’Anima, l’amore e la conoscenza sono due ali. Questa visione mi ha condotto alla creazione di SpeculumamoriS sia per un sentire intimo ma anche per dare luce a questa mistica cristiana che fu bruciata sul rogo come eretica. Attraverso la via amoris contemplare vedere e amare in gioia. Lo spirituale non è né maschio né femmina il messaggio è aprirsi alla natura propria, che è coscienza. in questi appuntamenti mensili niente va raggiunto, ma svelato. Viene l’ora ed è questa.
La spada è una disciplina che ho imparato da Umberto Di Grazia, Maestro e Amico, Ricercatore e Sensitivo di fama internazionale, ideatore delle tecniche dell’Unione e del Risveglio® e, viene maneggiata in modo rituale sia negli esercizi meditativi che nei movimenti di combattimento, creando apposite figure geometriche nello spazio. In SpeculumamoriS, l’intervento con la spada è sempre presente per valenza del simbolo e connessione storica con la Porete, che anticipa le sorti di un’altra nota figlia di Francia, Giovanna D’Arco, anche lei bruciata al rogo, che guidata da Santa Caterina, ne impugnava una.
La spada, secondo le credenze e le civiltà, simboleggia diversi valori ma rappresenta anche la spina dorsale dell’essere umano, dalla testa al coccige, che è la punta della lama. I simboli come Umberto mi ripete spesso, comunicano più delle parole e risvegliano informazioni addormentate ed indipendenti dalla logica.
Portare questo simbolo, che rappresenta il potere che esercita la sua forza benefica se usata in purezza e nobiltà di intenti, per me significa trasmettere questo e molti altri messaggi a chi vorrà continuare il percorso SpeculumamoriS.
Nel ringraziarti per il tempo che ci hai concesso, c’è qualcosa che vorresti comunicare ai nostri lettori che riguarda la tua espressione artistica oltre che di vita, alle tue direttrici di sviluppo che sembrano inesauribili o, semplicemente, un messaggio da lasciarci?
C’è necessità di un’archeologia del rito per cogliere e ristabilire una verità collettiva attraverso i luoghi, come nei culti di fondazione e continuare a pensare e sentire. Gli algoritmi stanno ridefinendo la realtà. Le nostre informazioni danno luogo a un doppio digitale, un “gemello”, che diventa una nostra estensione. Prodotti e processi vengono ridisegnati dall’intelligenza artificiale: questo Doppelganger elettronico è lo specchio sul quale trasferiamo inconsapevolmente sensazioni, emozioni, pensieri e comportamenti che vengono catalogati in database. Attraverso di questi, coloro che immagazzinano i nostri dati studiano strategie di previsione delle nostre future azioni, dei possibili cambiamenti di direzione e persino gli imprevisti, cercando di tramutare ciò in avvenimenti prevedibili o addirittura prescrivibili. Non credo che questi processi ci aiuteranno a conoscerci meglio e ad avvicinarci maggiormente alla Madre Terra, poiché intaccano il libero arbitrio e violano il confine sacro dell’intimità umana. A questo punto mi chiedo se questi avatar alienati da noi e soggetti al controllo di invisibili padroni, potranno sviluppare addirittura una loroautonoma coscienza? Di fronte a quesiti così radicali e perturbanti sfide tanto poderose, possiamo attraverso l’unione e il risveglio della coscienza, iniziare veramente ad interessarci del nostro pianeta verde. Le specie vegetali e animali si spostano in modo imprevedibile da un ecosistema all’altro creando danni incalcolabili alla biodiversità di tutto il mondo.
Attraverso il mito in cui c’è il senso della nostra esperienza quotidiana, recupero le immagini visibili e invisibili, è come se nei giardini del sogno s’innescasse il potere di trasformare la materia in un elemento libero. Una forma simbolica del pensiero che per analogia organizza la riflessione sull’esistenza e l’esperienza umana mediante la narrazione di eventi passati, presenti e futuri.
*Le opere fotografiche sono state gentilmente concesse dall’artista
C’è un bel film di Pedro Almodóvar, Volver (Tornare) dell’ormai lontano 2006, la cui trama si svolge in chiave retrospettiva.
In un dialogo fra madre e figlia, il pubblico conosce il retroscena.
E’ anche un ritorno al primo cinema di Almodóvar, che guarda al passato come un pannello di un grande affresco. Penélope Cruz, una delle protagoniste femminili che hanno fregiato il film al Festival di Cannes con il premio per la migliore interpretazione femminile (il film è stato premiato anche che per la migliore sceneggiatura), canta un bel brano del mito del tango Carlos Gardel, Volver (Ritornare), un brano composto nel 1935 insieme al compositore Alfredo Le Pera, entrambi morti giovanissimi nel tragico incidente aereo all’aeroporto di Medellín. Il famoso ritornello recita così:
“Ritornare con la fronte appassita
le nevi del tempo che argentarono la mia tempia
Sentire che è un attimo la vita
che vent’anni non sono niente
che febbrile lo sguardo, errante nelle ombre,
ti cerca e ti nomina”
Anche noi, con le tempie forse un po’ più argentate, torniamo con questa nuova iniziativa che si ricompone come il pannello di un affresco, con la precedente avventura di Condivisione democratica, durata oltre dieci anni, con cui si pone in continuità ma con tanti punti di novità.
Condi-Visioni, vuole essere uno spazio plurale di riflessione per chi si riconosce in un pensiero profondo contro le semplificazioni ed il flusso indistinto e rumoroso delle opinioni banalizzanti, schiacciate mediaticamente sul pensiero dominante o sull’inautenticità del “si dice”. L‘obiettivo è quello di una maggiore partecipazione e coinvolgimento, anche attraverso alcuni canali social e, non ultimo, l’ambizioso progetto di una web TV. Vogliamo usare internet come strumento innovativo ma, allo stesso tempo, esserne anche una sua filosofia critica, riconoscendone opportunità e limiti, cercando di superare quest’ultimi guardando kantianamente sempre all’uomo come un fine e mai come un mezzo, mettendo al centro il rapporto e la comprensione umana con un uso consapevole delle parole e un’analisi meditata dei fatti.
Uno dei problemi del sistema mediatico nel suo insieme, accentuato anche da un uso improprio dei social che, non invitano alla riflessione ma alla semplificazione per slogan, è proprio l’eccessiva polarizzazione. Lo stiamo vedendo con le drammatiche vicende degli ultimi tempi: i conflitti russo-ucraino e israelo-palestinese che ci riportano drammaticamente all’attualità.
Questo, non significa andarsi a schierare su posizioni bianco e nero ma, cercare di riflettere sulla complessità delle situazioni, sulla loro storicità e, con le dinamiche globali, guardando anche alle responsabilità delle varie istituzioni internazionali. Molti conflitti apparentemente regionali s’innestano, inoltre, in scenari di evoluzione geopolitica, alla ricerca di nuovi equilibri nel riassetto dell’ordine mondiale. La guerra, con le inumane atrocità a cui stiamo assistendo e lo spettro della catastrofe nucleare, è un infelice “ritorno” che pensavamo scongiurato, e che si ripresenta problematicamente nella sua drammaticità.
Anche il tema dell’immigrazione è un “ritorno”, se pensiamo alle lontane immagini dell’agosto del 1991 della nave Vlora al porto di Bari con migliaia di Albanesi che cercavano rifugio in Italia dopo la caduta dei regimi comunisti. Nell’immaginario collettivo quello che ci ha aperto gli occhi su questo problema epocale. Ad oltre 30 anni da quell’evento, stiamo discutendo ancora di come gestire queste situazioni e, per ironia della sorte, vorremmo usare noi, oggi l’Albania come centro di destinazione degli immigrati.
Ultimo, ma non meno importante, il grande problema dei cambiamenti climatici che ci sta molto a cuore, come futuro dell’umanità e nostro tema prioritario. Per rimanere in tema, c’è chi afferma che si tratta di un “eterno ritorno” con il succedersi di ere di glaciazioni e riscaldamenti.
Le controversie scientifiche tra i negazionisti e coloro che sostengono i cambiamenti climatici sono oggetto anche di dibattiti politici con le varie implicazioni a livello geo-politico. I paesi in via di sviluppo non vogliono infatti affrontare i costi della sostenibilità che avrebbero impatto sui loro modelli di sviluppo economico, visto che ritengono di essere in una fase storica che i paesi più avanzati hanno già passato, avvantaggiandosene. Questo è evidente anche nella sofferta Cop28 (la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) di questi giorni, sulla risoluzione per la de-carbonizzazione, dove viene spacciata come una vittoria la presenza nel testo dei “combustibili fossili” (carbone, petrolio e gas). Intanto, i principali produttori di quest’ultimi, si oppongono agli intenti di una loro completa eliminazione (phase-out) entro il 2050. Si parla infatti di allontanamento (transitioning away) ma, effettivamente, già il riconoscimento da parte di quasi 200 Paesi che i combustibili fossili sono la causa dell’aumento della temperatura del pianeta e che occorra prendere delle misure, è di una certa portata storica.
C’è poi il tema di chi debba pagare questa transizione, se chi produce più CO2 oggi o chi l’abbia prodotta già dal passato, con la prima industrializzazione. Annosa e controversa questione che vede sostanzialmente contrapposti, il blocco del BRICS con quello “occidentale”.
L’eccessiva antropizzazione con attività che gravano in modo irreversibile sulla vita del pianeta, rendono urgenti, al di là di riconoscimenti e intenti, azioni concrete e provvedimenti non più procrastinabili perché i problemi, al di là di tutto, sono di tale natura e portata che richiedono un contenimento dell’Uomo sul Pianeta per non perdere forse l’ultima opportunità di incidere sulla crisi climatica e sulle risorse della Terra.
Partendo dal tema del Ritorno, passando con leggerezza dal film di Almodóvar alle crisi umanitarie, climatiche e alle guerre, senza voler essere catastrofisti, ci e vi domandiamo, siamo forse arrivati a un punto di Non Ritorno?
Chissà perché, non appena è stato scelto il
tema di questo ultimo numero di Condivisione, ultimo in questa veste s’intende,
in attesa di una sua mutazione a breve per una nuova lunga vita, mi è venuto
subito in mente accanto ai luoghi dell’abbandono e a quelli dell’anima, quello
dei “non luoghi”.
Espressione coniata dall’antropologo e filosofo
francese Marc Augé per indicare quei luoghi omologati della globalizzazione, riferiti non
a spazi sociali organizzati in grado di favorire relazioni, ma tipicamente
luoghi di transito, privi di radicamento, come aeroporti, stazioni ferroviarie,
centri commerciali, supermercati, stazioni di servizio, grandi catene
alberghiere ma anche campi di accoglienza per profughi, solo per citarne i
principali.
E la rete, i social ? Sono sospesi tra luoghi e
non luoghi poiché promettono una compagnia illusoria, come dice Augè, l’ubiquità
e l’istantaneità legate a Internet non possono fare una società, neanche
virtuale.
Mi chiedevo se Condivisione fosse un luogo o un
non luogo, per noi sicuramente un luogo del cuore, ma l’obiettivo della sua
trasformazione è quello di farlo diventare un luogo anche per i suoi lettori,
una comunità che accolga e favorisca l’interazione sociale, ancorché virtuale.
Quindi abbandoniamo un non luogo, per
ritrovarci in un quasi luogo, sperando che diventi un vero luogo. Intanto
godiamoci i luoghi dell’estate che conquisteremo attraversando i non luoghi,
tra pandemie, guerre e crisi planetarie…. e
quindi uscimmo a riveder le stelle.
Mai come oggi nella società della comunicazione, viviamo immersi nei simboli o, meglio nei simulacri, come ben teorizzò nel suo trattato Jean Baudrillard (Simulacri e Simulazione del 1981), che costruiscono una realtà attraverso la quale “leggiamo” la nostra esistenza. I simulacri sono le gabbie semiotiche della società dei consumi che abitiamo e che costituiscono i nostri orizzonti di senso. Nello stadio della post-modernità in cui viviamo, il simulacro precede la realtà, redendo insignificante qualsiasi concetto di “originale” o di idea, annullando la distinzione tra realtà e rappresentazione, sostituendola con la simulazione
Siamo oltre l’opposizione di idea e realtà sensibile, di originale e copia, siamo ormai nella copia della copia, anzi nel regno delle copie e delle rappresentazioni fini a sé stesse.
Possiamo disquisire sulle molteplici cause, sicuramente sempre più legate alle dinamiche del dell’espansione dei media, della globalizzazione, della fine delle ideologie e del capitalismo multinazionale, di società sempre più individualistiche e atomizzate ma, sicuramente, il tema dell’ apparenza è sempre più centrale nel nostro tempo, dominato dall’incertezza, dall’insicurezza e dall’angoscia esistenziali. Condizioni dell’umano che ci sono da sempre, esplorate fin dall’antichità dal pensiero filosofico, a partire dalla divaricazione tra essere e divenire, oggi, più che mai, amplificate dal flusso assoluto che ci risucchia e rende tutto di difficile lettura e comprensione.
Da un lato c’è infatti il moltiplicarsi dei simulacri che vedono sempre di più i media coinvolti nella costruzione di senso, dall’altro la perdita di ancoraggio dell’Io a punti di riferimento valoriali.
Prima con i reality show poi in modo estensivo con i social, si è messa in campo in modo estensivo la messa in scena di sé. Possiamo definirci attraverso i profili con identità multiple, in grado di rappresentarci secondo quello che desidereremmo essere o, come vorremo essere visti dagli altri, il che acuisce quel processo di diffrazione dell’Io e di dissociazione esistenziale quali fenomeni già in atto da tempo con l’avvento della post-modernità, che ha ridefinito nuove forme della soggettività.
Emblematico in tal senso il Pirandello di Uno, nessuno e centomila con la cessazione da parte del personaggio principale dei contrasti tra l’Io ed il mondo e la “rinuncia” a quest’ultimo.
Interessante l’interpretazione della filosofa Barbara Carnevali sulla “libertà della maschera” che può essere vista da un lato come gioco di “sperimentarsi”, in tema tra l’altro con il periodo di carnevale inteso come parantesi e sospensione dei ruoli sociali, con una fondazione estetica che si ricollega alle esperienze rinascimentali e barocche; dall’altro come possibile esigenza di anonimato per ripararsi dal lato “pubblico” a cui si è esposti nelle società attuali o all’occhio del “potere” (si pensi ad esempio alla dissimulazione di libertina memoria o alle esperienze di “identità condivisa” del movimento anonymous).
Alla liberazione dell’Io moderno e a queste sue forme, riconducibili anche alla condizione umana, resta in tutta la sua problematicità la ricerca dell’autenticità e di un rinnovato rapporto con il mondo che non può non passare per la veridicità delle relazioni con l’Altro e la ricerca di una propria originarietà e di una soggettività profonda che si rapporta anche con la trascendenza.
Chiarificazione esistenziale, educazione, riconoscimento dell’altro, dovrebbero essere le dimensioni culturali per la crescita personale e collettiva, per contribuire anche a quel passaggio, attraverso la partecipazione ed recupero degli spazi sociali e di vita associata, dalla rappresentazione ad una vera rappresentanza anche nella dimensione politica.
La Roma del Popolo è l’eredità mazziniana che ci piace ricordare nel 150° anniversario della morte di Giuseppe Mazzini (Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10 marzo 1872) che ricorre in quest’anno purtroppo ancora dominato dalla pandemia e dai tanti fatti, a partire da quelli sanitari per arrivare a quelli politici, che ci richiamano tutti alla responsabilità e ai doveri.
Ultimo battagliero giornale politico fondato dal Genovese, uscì regolarmente dal 1º marzo 1871 al 21 marzo 1872, ( anticipato da un fascicolo compilato integralmente da Mazzini, pubblicato il 9 febbraio dello stesso anno), richiamandosi ai ben noti valori del mazzinianesimo e della Terza Roma che, dopo quella dei Cesari e dei Papi, avrebbe dovuto vedere uno Stato repubblicano unitario come luogo dove la libertà e la giustizia si sarebbero realizzate per tutto il popolo.
Per chi li volesse sfogliare, sono tutti disponibili nell’emeroteca digitale del sito web della biblioteca Gino Bianco.
Con un gruppo di amici, con cui ci riconosciamo negli stessi valori, ci siamo ispirati a quest’eredità, dando vita all’Associazione “La Roma del Popolo”, condividendo il richiamo alla mobilitazione ed alla partecipazione delle Associazioni quale motivo dominante dell’opera mazziniana, non solo per la necessità di cooperazione e di solidarietà ma, soprattutto per il valore dell’uguaglianza, senza la quale non ci può essere libertà né di pensiero né di azione.
In ultima analisi, afferma Mazzini, non può esserci associazione se non tra persone libere ed uguali.
L’Associazione nasce con la coscienza dell’importanza della memoria storica, non solo come valore di testimonianza ma, di azione concreta, con l’intento di promuovere e sviluppare attraverso seminari, convegni, eventi commemorativi e attività di studio e diffusione culturale, un’adeguata coscienza civica e sociale dei cittadini.
A riguardo, “debutteremo” con un primo incontro a ridosso proprio di quel 9 Febbraio, anniversario della gloriosa Repubblica Romana del 1849, con una visita guidata nei luoghi storici di quelle memorie Risorgimentali che si snoderà per alcune tappe dal centro fino al Gianicolo, epicentro di quei fatti.
Per il 150° anniversario, ci siamo fatti inoltre promotori della richiesta del conio di una moneta da 1 Euro con l’effige di Mazzini.
Sicuramente questa ricorrenza non è seguita con la dovuta attenzione e le celebrazioni che meriterebbe uno dei padri ispiratori dell’Italia e di un’Europa unita e solidale.
Parlando di attualità e sempre con riferimento a Roma, richiamiamo con sgomento l’attenzione su quello che potrebbe sembrare un “piccolo” fatto rispetto alla gravità dei problemi ma che ci sta a cuore ed è in tema: un altro pezzo di memoria storica ed eredità culturale, quella del Teatro Eliseo con l’attiguo Piccolo Eliseo, in via Nazionale, è in vendita. Un prestigioso palcoscenico che fu di Totò, Eduardo, Visconti, Gassman, Anna Magnani e Vitti che, come recita l’annuncio, “lo rendono un interessante investimento per investitori nazionali ed internazionali”.
Dopo le vicende del Teatro Valle, oltre che una grave perdita storica e culturale, anche una restrizione degli spazi sociali, già fortemente minati dal virus. Segno dei tempi. “È tempo d’uscire dalla politica d’espedienti, d’opportunità, di viluppi e raggiri, d’ipocrisie e transazioni”. Giuseppe Mazzini, Agl’Italiani “La Roma del Popolo”, 9 febbraio 1871.
Il tema del riconoscimento è sicuramente uno dei più pregnanti dell’attualità sociale e politica, portato alla ribalta da tutte le contraddizioni emerse con la pandemia che continua ad imperversare con le sue varianti.
In realtà lo è sempre stato, anche se la “lotta per il riconoscimento” era prima irreggimentata in categorie più leggibili come quelle, ormai superate, delle classi sociali. Axel Honneth, teorico del riconoscimento, (concetto già trattato da Hegel), riflette su come “i conflitti del nostro tempo possono essere interpretati come uno scontro tra diverse idee di libertà” e su come la pandemia, invece di aumentare la consapevolezza della libertà “positiva”, ossia dell’autolimitazione intesa come un potenziamento della propria libertà personale (come evidenziato già da Hegel, avviene nell’amore e nell’amicizia), ha acuito quello di libertà “negativa” ossia l’esasperazione delle libertà individuali, tendenza già in atto da molto tempo nelle nostre società.
Oggi assistiamo al bellum omnia contra omnes: terrapiattisti contro la scienza, complottisti contro “integrati”, no-vax contro pro-vax, scienziati contro sé stessi, politici in lotta tra di loro (anche se questo lo è sempre stato, adesso è una lotta pericolosa che coinvolge le Istituzioni).
Emblematico è in questo senso l’ultimo rapporto 2021 del Censis sullo stato sociale del Paese, dove il dato significativo che emerge è l’irrazionalità che ha infiltrato il tessuto sociale: per il 5,9% degli italiani (circa 3 milioni) il Covid non esiste, per il 10,9% il vaccino è inutile. Il 5,8% è convinto che la terra è piatta, per il 10% l’uomo non è mai sbarcato sulla luna, per il 19,9% il 5G è uno strumento sofisticato per controllare le persone.
C’è da chiedersi perché tutto questo. Il Censis parla di aspettative soggettive tradite, che inducono le persone a rifugiarsi nel pensiero magico e sciamanico.
La situazione è però più complessa e chiama in causa le radici stesse della democrazia. Come affermava John Dewey, la democrazia deve poter trarre l’autorità dal suo interno, dalle fondamenta, ossia dal “popolo”, ecco perché è così importante l’Educazione, cosa di cui la nostra società è manchevole anche a causa del decadimento del sistema scolastico e universitario. Ma senza voler colpevolizzare sempre qualcun altro, manca anche la volontà delle singole persone di andare oltre gli echi e le false sirene, di approfondire e ricercare, superando l’infodemia al netto delle responsabilità dei sistemi dell’informazione.
Si scambia infatti sempre di più la disponibilità di informazioni in una presunzione di conoscenza in ogni campo del sapere, in un “fai da te” dello scibile, ad uso e consumo del tutto individuale.
Si pensi, anche in funzione dei bias e delle dissonanze cognitive o, più banalmente della credulità in persone non accorte o sufficientemente consapevoli, agli effetti nefasti o, semplicemente al disorientamento indotto da questo bombardamento incontrollato di informazioni.
Ormai, attraverso i social, si formano degli universi paralleli, dei convincimenti personali, dei pregiudizi, che sono spesso contro il senso scientifico e le regole stesse della vita comune.
Questo è un altro dei problemi della nostra società che vede sempre di più la riduzione della dimensione pubblica e sociale a scapito di quella individuale e virtuale, dominata dagli algoritmi e caratterizzata dalle cosiddette “casse di risonanza” (le eco chambers, dove risuonano gli echi di tutti quelli che la pensano nello stesso modo).
Ormai è preponderante il regno del privato e dell’individuale, dove c‘è sempre meno spazio per il riconoscimento dell’altro. Sempre Dewey affermava che la bassa interazione sociale, la scarsità di relazioni nello spazio pubblico, diminuisce l’intelligenza collettiva. Ed è proprio quello che sta avvenendo, una società oscurantista che fa sempre meno uso della ragione, preda delle paure e delle fobie e dunque facile preda delle false credenze e delle manipolazioni.
In tutto questo dobbiamo mettere il decadimento dell’Etica pubblica ed il conseguente scadimento della politica, ormai priva di visione ed appiattita sul contingente, sempre più ridotta a rappresentazione invece che a rappresentanza e, quando va bene, a pura governance amministrativa ma senza progettualità, anzi costretta ad ingaggiare competenze e prestigio dall’esterno, incapace di farsi classe dirigente. Mai così attuale la frase di De Gasperi: ” il politico pensa alle prossime elezioni, lo statista alle prossime generazioni”. Ma dove sono gli statisti in Italia? Tutto è teso al presente, all’immediato, come dice la filosofa Donatella Di Cesare, siamo in un’ “immanenza satura” dove non c’è più visione del futuro.
Tra l’altro, da questo fiume di denaro che è il PNRR ci si aspetterebbe insieme ad una vera progettualità, più coraggio e generosità.
In tal senso possono essere interessanti alcune delle proposte avanzate dal Forum delle Disuguaglianze Diversità.
Ecco perché è così importante il tema del riconoscimento, non solo da parte della Politica ma anche da parte delle singole persone, perché l’Altro siamo noi, non solo per la nostra stessa identità ma come esseri appartenenti ad un unico genere umano.