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‘I Numeri’ Category

Come spesso mi accade, qualche giorno fa vengo colto da un improvviso senso di evasione, voglia di abbandonare per un paio d’ore le mura che circondano il mio lavoro, i miei progetti, i miei studi.
Me ne vado in centro, a gustarmi la mia città, la sua storia, i suoi vicoli, riassaporando l’aria della sua profondità nascosta… Mi fermo a contemplare i fori imperiali, dall’alto della Rupe Tarpea.
Si sta facendo sera, si accendono le luci, Roma antica si illumina con le luci che Roma contemporanea le offre… e sembra che da un momento all’altro spuntino fuori due antichi innamorati che passeggiano mano nella mano, uno studioso preso dalle pagine latine di un libro, un mendicante in cerca di un sesterzio… 

In realtà… qualcuno sotto i miei occhi si muove davvero… è un vecchio gatto randagio. Solo e silenzioso, ma anche un po’ minaccioso, gira zoppicando tra i ruderi del suo territorio, e sembra che sia lì da duemila anni, che sappia tutto di tutti… L’espressione del suo muso è quella di un micio saggio, che dal piccolo della sua altezza ne ha viste tante… tra corteggiamenti amorosi e sfide all’ultimo graffio….

Si sta facendo tardi, devo finire l’editoriale da inviare a Condi-Visioni. I miei passi riprendono la via di casa. Mi avvicino verso la metropolitana, quando all’improvviso un rumore… no… un suono familiare mi sorprende… Mi volto sapendo cosa avrei rivisto… È un vecchio autobus. E i miei pensieri diventano ricordi… il suono che accompagnava i miei primi giorni di scuola, quando con mamma andavo a raggiungere lo 01 dal lungomare di Ostia…
A bordo c’è solo l’autista, e il vecchio autobus cammina lento, è stanco, costringe le automobili alle sue spalle a mettersi in coda…. ad andare piano, senza fretta. Sembra che un po’ si diverti ad indispettire le sue giovani colleghe… e un po’ sembra che se ne rammarichi.

In quel momento ho immaginato quante strade abbia percorso, quanto catrame calpestato, a quanti appuntamenti avrà accompagnato… quante ansie, speranze, segreti, paure, pensieri, ricordi, passioni, sogni, dubbi, sguardi, parole, saluti veloci, insulti gratuiti, gesti prepotenti… ha trasportato!

In quel vecchio autobus… quanti frammenti di vita, quanta memoria!

Arriva la metro, mi dirigo verso l’ultimo vagone per evitare l’affollamento e con la speranza di trovare un posticino libero… Che fortuna! Mi siedo… accanto a me c’è una persona. Sembra stanca. Nel suo viso i solchi di mille strade che ha scelto, di mille strade che si è trovato davanti… nelle sue mani rugose il suo lavoro, nei suoi occhi umidi vi sono tutte le cose che ha visto, che ha sentito… gli amori, gli amici, i nemici che ha incontrato… 

Mi guarda, sorride, scambiamo due parole, poi si confida, pregandomi di non scambiarlo per un matto: “mi sono innamorato…”, e mi racconta di una bellissima signora che ha incontrato in una biblioteca. È una gioia ascoltarlo, avvertire la tenerezza del suo cuore, quello di un adolescente che per la prima volta incontra l’amore.

Purtroppo arriva il momento della sua fermata. I suoi occhi sembrano commuoversi. Mi regala un ultimo sorriso e mi dice: “grazie”

Con il cuore gonfio di gioia e malinconia riesco a malapena a rispondergli “Grazie a lei…”. Spero avranno parlato per me molto di più i miei occhi, e che gli avranno espresso la mia felicità di questo bellissimo incontro.

Il mio bagaglio, e quello di molti di noi, è ancora piccolo. Le valigie che ci trasciniamo giorno dopo giorno sono ancora leggere. Ma piano piano si riempiranno, e si colmeranno anche i nostri sguardi, il nostro viso, la nostra pelle, la nostra memoria.
Nutriamoci sempre e dovunque di chi fino ad ora ha trasportato vita e valigie pesanti, immergiamoci nei loro occhi, come se stessimo leggendo il libro più bello che sia mai stato scritto.
E che “vecchio” non sia mai un’offesa, una vita inutile, un tramonto senza senso. 
Per nessuno: per una persona, per un gatto, o per un povero vecchio autobus.

***

Grazie a tutti gli autori che hanno contribuito alla realizzazione di questo numero dedicato al tema della memoria, scandagliato nel profondo dei suoi molteplici aspetti ed effetti.
Grazie a chi continua a credere nei nostri buoni intenti, nel nostro desiderio di ricerca e di bellezza.
Grazie a chi ci chiede di andare avanti, ben sapendo tutte le difficoltà del nostro viaggio. 
Ma, evidentemente, nonostante tutto, è un viaggio che non smette di stupire.

E noi, di questo, ne avremo memoria…

Il Potere (non questo o quel potere, ma la volontà di dominare la realtà e gli altri e piegarli al proprio volere) è, per sua natura, totalizzante. E, in quanto tale, non ammette di essere condizionato e/o limitato in alcun modo, da chicchessia.

Solo poteri “concorrenti”, infatti, potrebbero riuscire a limitarlo e condizionarlo. Ammettere la possibilità di condizionamenti o limiti, significherebbe, da un lato, riconoscere, implicitamente, esistenza e legittimità a tali poteri, dall’altro, negare, di fatto, la natura assoluta del proprio primato. Entrambe evenienze inammissibili per il Potere.

Il Potere non tollera poteri e coscienze

Il Potere vuole potere tutto. Punto. Per questa ragione, non tollera nessun altro potere, quale che sia la forma nella quale esso si incarni: diritto, giustizia, politica, economia… E, non ammettendo nulla di tutto ciò che potrebbe condurre alla formazione di una qualche coscienza critica – l’unico antidoto efficace al suo veleno mortale – non tollera nemmeno libera informazione, istruzione non ideologica, cultura, arte.

Ecco perché, impedire la formazione delle coscienze e annichilire quelle già formate è una mission alla quale il Potere dedica tutte le sue energie migliori. Non a caso, propaganda martellante, controllo totale dell’informazione, censura, indottrinamento giovanile, rieducazione forzata, repressione del dissenso, terrore, riscrittura della Storia, sono strumenti comuni a qualunque forma di totalitarismo.

Siamo utero e incubatrice del Potere

Il Potere, però, non è qualcosa di esterno né di estraneo all’uomo. Non nasce, cioè, al di fuori di noi e non ci costringe, dal di fuori, ad agire contro la nostra volontà. Qualunque cosa sia – istinto, bisogno, energia, volontà o l’insieme di tutte queste cose – è connaturato a noi. 

Siamo noi esseri umani l’utero nel quale il germe-Potere nasce; l’incubatrice nella quale cresce e si sviluppa. Senza di noi, quindi, il Potere non esisterebbe

Potere: figlio che si fa padrone

Il germe-Potere abita le più oscure profondità dell’animo umano e rappresenta, in assoluto, l’elemento più difficile da governare della nostra natura. Un germe maligno – Potere è sinonimo di Male – che è, allo stesso tempo, nostro figlio e nostro padrone. Ed è proprio grazie a questa sua doppia natura che riesce ad avere la meglio su di noi con tanta facilità. 

In quanto figlio, infatti, ci illudiamo di conoscerlo, educarlo, controllarlo e servirci di lui. In quanto padrone, invece – un padrone sommamente intelligente, subdolo, seducente e potente – è lui a renderci schiavi e a servirsi di noi.

Solo un uomo ha detto “No!”

A quanto risulta a coscienza e immaginario della Storia, solo un uomo è riuscito a resistere alle tentazioni del Potere. Tentazioni contenute in quelle tre domande nelle quali, secondo il Dostoevskij de “I Fratelli Karamazov”, “è come compendiata e predetta tutta la storia ulteriore dell’umanità, sono dati i tre archetipi in cui si concreteranno tutte le insolubili, contraddizioni storiche dell’umana natura su tutta la terra. […] In quelle tre domande tutto era stato a tal segno divinato e predetto e che tutto si è a tal segno avverato, che non è più possibile aggiungervi o toglierne alcunché”.

Verità o mito senso e valore non cambiano

Solo Cristo, dunque, ha risposto no. Per ben tre volte. E, per farlo, ha dovuto dominare la sua natura umana. Non importa stabilire qui se il fatto di cui parliamo sia vero, storicamente accertato o mito, leggenda, invenzione, fantasia, suggestione o speranza. Senso e valore di quei “no”, infatti, non cambiano. Così come non cambiano senso e valore degli illuminanti esempi morali frutto della fantasia di Omero, Dante, Shakespeare, Leopardi o Dostoevskij, solo per citare i primi nomi che mi vengono in mente.

Potere forza sovrumana

Qual è questo senso? Il fatto che la forza seduttiva del Potere è sovrumana. Letteralmente. Vale a dire: trascende la natura umana, le possibilità e i limiti dell’umano. È a causa della fragilità della natura umana, dunque, che quel germe-Potere che noi stessi generiamo, da nostro figlio diventa nostro padrone e ci rende schiavi. Per vincere questa forza sovrumana, quindi, abbiamo un’unica possibilità: superare la natura umana. Andare, cioè, oltre l’uomo. 

Dire “No!” si può

Non si tratta di diventare super-uomini ma di riuscire a superare i limiti della nostra natura. Cristo (la mia è una riflessione meramente logica e non teologica: non ne ho le competenze) non è un super-uomo. È un uomo come tutti gli altri. E, in quanto tale, patisce fame, sete, freddo, fatica, sofferenza, solitudine, umiliazioni, tradimenti, dolore e paura della morte. Superando, però, i limiti della natura umana, riesce a rifiutare l’offerta di Satana che, mostrandogli in un istante tutti i regni della Terra, gli dice «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». (Luca, 4,6). 

Storia o mito che sia, il triplice rifiuto dell’uomo-Cristo dimostra che, sebbene la forza seduttiva del Potere sia sovrumana, superare la fragilità della natura umana e rifiutare i doni del Male si può. Una dimostrazione tutt’altro che priva di significato.

Potere e gloria sono nelle mani del Male

Semmai, sarebbe interessante capire chi, perché e per quanto tempo ha messo nelle mani di Satana potere e gloria di tutti i regni del mondo ma, l’ho detto: non ho la preparazione teologica per affrontare un tema di questa portata né per provare ad abbozzare una risposta. 

Una cosa, però, è del tutto evidente: Potere e gloria sono nella disponibilità del Male, il quale li dà a chi vuole. E, dato che un uomo autenticamente “buono” non accetterebbe doni dal Male, ne consegue che chi accetta tali doni “buono” non è. Ognuno faccia le proprie riflessioni e tragga le proprie conclusioni.

Siamo ossigeno per il fuoco del Potere

L’ho detto: il germe-Potere nasce nel nostro animo e, senza di noi, il Potere non esisterebbe. Il che significa che gli esseri umani sono ossigeno per il fuoco del Potere il quale, come ogni fuoco, in assenza di ossigeno, si spegnerebbe. La ragione per la quale, da sempre, il Potere “arde” ovunque (bruciando tutto e tutti) è che brama/illusione di potenza, da un lato, opportunismo, servilismo e paura, dall’altro, fanno sì che alle fiamme del Potere non manchi mai l’ossigeno. Non stupiamoci, dunque, se, a cento anni dalla nascita di alcuni tra i totalitarismi più devastanti che il mondo abbia conosciuto, sono così tanti i “piromani” che fanno di tutto per riportare indietro l’orologio della Storia. 

Cerchiamo i colpevoli?

Se ci chiediamo di chi sia la colpa del fatto che l’Occidente ha tutta questa fretta di tornare a quel “secolo breve” nel quale, ben 13 regimi hanno privato l’Europa da Est a Ovest di libertà, pace, diritti umani e giustizia per un totale di ben 413 anni e 11 mesi:

(Portogallo: 44 anni 7 mesi; Polonia: 42 anni 4 mesi; Cecoslovacchia: 41 anni 8 mesi; Germania Est: 41 anni 1 mese; Albania: 39 anni 2 mesi; Spagna: 39 anni 1 mese; Bulgaria: 35 anni 7 mesi; Jugoslavia: 34 anni 4 mesi; Ungheria: 31 anni 5 mesi; Romania: 24 anni 8 mesi; Italia: 20 anni 7 mesi; Germania: 12 anni 3 mesi; Grecia: 7 anni 2 mesi)

non dobbiamo cercare lontano: dobbiamo soltanto trovare il coraggio e la decenza di guardarci allo specchio. Lui sa ciò che noi fingiamo di non sapere: siamo noi i più incendiari del reame.

C’è un detto che suona più o meno così: “Il tempo cura tutte le ferite“.
Ma cosa succede quando, invece di guarire, continuiamo a graffiare il ricordo di quelle ferite?
È un paradosso universale: quanto più cerchiamo di dimenticare qualcosa, tanto più questa cosa sembra fissarsi nella nostra mente. Un loop mentale che può essere tanto doloroso quanto frustrante. Non penso certamente alle cose tant dolorose da esser rimosse dalla memoria dal nostro Io, ma alle esperienze negative che abbiamo vissuto.
Il risveglio il giorno dell’esame di maturità.

La memoria umana, tanto straordinaria quanto misteriosa, non è solo un archivio passivo di eventi passati. È un sistema attivo, capace di rielaborare e reinterpretare le informazioni, talvolta aggiungendo un tocco drammatico ai ricordi. Freud definiva questo fenomeno come “compulsione alla ripetizione“, un meccanismo inconscio che ci spinge a rivivere eventi traumatici per cercare, paradossalmente, di risolverli o integrarli. Ma spesso questo si traduce in una continua riapertura di vecchie ferite.

Il nostro cervello sembra cablato per prestare maggiore attenzione alle esperienze negative.
Una spiegazione scientifica viene dalla teoria del “negativity bias“: la tendenza innata a dare maggiore peso ai ricordi spiacevoli rispetto a quelli positivi. Questo bias ha radici evolutive: ricordare il pericolo e il dolore era essenziale per la sopravvivenza dei nostri antenati.
Dimenticare un pericolo poteva significare la morte; ricordarlo, invece, aumentava le probabilità di sopravvivenza.

Quando viviamo un evento doloroso, il cervello rilascia sostanze chimiche che intensificano la memoria, rendendola più vivida e difficile da dimenticare.

Ogni situazione è neutra: non sono gli eventi a turbare gli uomini, ma il modo in cui li interpretano“, diceva il filosofo Epitteto.
Questo significa che non è tanto il ricordo in sé a perseguitarci, quanto il significato che gli attribuiamo. Un insulto, ad esempio, può essere archiviato come un episodio insignificante o trasformarsi in un’ossessione, a seconda del valore emotivo che gli diamo.

“Non pensare a un elefante rosa”. La frase ti ha fatto immaginare proprio un elefante rosa, vero? Questo fenomeno, noto come “effetto del rimbalzo” o “ironia mentale”, è stato studiato dallo psicologo Daniel Wegner. Cercare di sopprimere un pensiero, infatti, spesso lo rende più persistente. Lo stesso accade con i ricordi: più cerchiamo di dimenticare un evento doloroso, più questo si radica nella nostra mente.

Allora, come possiamo liberarci dal peso dei ricordi spiacevoli? Una strategia è accettare il ricordo invece di combatterlo. Secondo le teorie della mindfulness, osservare il pensiero senza giudizio può aiutare a ridurne l’intensità emotiva. Inoltre, parlare con qualcuno di fiducia o scrivere i propri pensieri può rivelarsi catartico. Non si tratta di cancellare il passato, ma di riconoscerlo per ciò che è: una parte della nostra storia, non la nostra intera identità.

In definitiva, i ricordi dolorosi possono insegnarci lezioni preziose, ma solo se siamo disposti a guardarli con occhi nuovi. Come scriveva Oscar Wilde: “L’esperienza è il nome che diamo ai nostri errori”. Forse, accettando questa prospettiva, possiamo trasformare i nostri ricordi più pesanti in strumenti di crescita e consapevolezza.

Quest’anno si è celebrato l’80° Anniversario della Liberazione del campo di concentramento di Auschwitz–Birkenau, il più grande campo di sterminio, istituito dal Terzo Reich di Hitler per eseguire l’eliminazione degli ebrei attraverso la “soluzione finale”, il più grande e terribile Olocausto di tutti i tempi, attuato nel Novecento dalla folle ideologia nazi-fascista.
Il Giorno della Memoria, che ricorre il 27 gennaio di ogni anno, designato a livello internazionale dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 2005 per ricordare la Shoah (in Italia è stato istituito con la legge 211 del 20 luglio 2000), ha assunto quest’anno un significato particolare, alla luce delle varie guerre in atto. Come ha ricordato Papa Francesco “siamo in presenza di una terza guerra mondiale a pezzi”.

Monumento all’Olocausto a Berlino. Foto genomen 30/10/2005 door Pim Zeekoers.

Senza voler operare confronti o paragoni impropri, vogliamo solo accennare ad alcune delle atrocità passate e presenti, attuate nei confronti di popolazioni inermi e di minoranze civile, etniche e religiose.
Per restare nel Novecento, oltre al genocidio degli ebrei che resta sicuramente l’Olocausto più terribile a perenne memoria, va ricordato quello degli armeni, dei tutsie, dei cambogiani da parte dei Khmer rossi ma anche lo sterminio dei popoli nomadi (Rom e Sinti), le stragi politiche nell’URSS di Stalin, le pulizie etniche in Serbia e lo sterminio dei curdi, un popolo senza diritti e senza patria, tuttora perseguitato.

Va ricordato che in Italia è stato istituito anche il Giorno del Ricordo, celebrato il 10 febbraio di ogni anno per commemorare i massacri delle foibe e l’esodo giuliano dalmata.

Questa rassegna degli orrori non è certamente esaustiva se pensiamo alle tante minoranze oppresse, più o meno consistenti o più o meno conosciute ma, tuttora perseguitate nelle varie parti del mondo.
L’attualità ci richiama ai conflitti Russo-Ucraino e Israelo-palestinese, tra i più gravi dopo la II guerra mondiale, per le implicazioni geo-politiche ed economiche con conseguenze drammatiche per la sicurezza, la pace e l’ordine mondiale, anche perché si stanno innestando in nuovi scenari di governo con derive “etnocratiche” in tutta la sfera occidentale, causando gravi divisioni e spaccature politiche nella stessa Europa. In particolare, quello Israelo-palestinese, che si inquadra nel più ampio conflitto arabo-israeliano che dura con alterne vicende anch’esso da circa 80 anni (anche se in termini “tecnici” non militari si potrebbe andare ancora più indietro nel tempo), con limitazioni allo sviluppo dei territori palestinesi e alla loro libertà di movimento ma con responsabilità ed errori da registrare da entrambe le parti. Quest’ultima guerra, scatenatasi dopo il massacro al festival musicale Supernova da parte di Hamas, perpetrato il 7 ottobre 2023, con l’uccisione di centinaia di civili e soldati e il rapimento di oltre 200 ostaggi, ha visto la reazione di Israele con la strage di migliaia di civili palestinesi e praticamente la completa distruzione di Gaza.
Va detto che la questione palestinese è improcrastinabile e va assolutamente ricercata la soluzione dei due popoli in due stati e che Israele, che ha tutto il diritto di esistere, deve anche rispettare il diritto internazionale e che non può rispondere ad atti terroristici bombardando un’intera popolazione inerme e impedendone gli aiuti da parte della comunità internazionale. Non a caso, la Corte penale internazionale dell’Aja ha emesso due decisioni che riguardano presunti crimini commessi dal Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dall’ex Ministro della Difesa Yoav Gallant, tra l’8 ottobre 2023 e il 20 maggio 2024, durante il conflitto a Gaza, con responsabilità imputabili alle persone, occorre ben evidenziare, e non alla popolazione ebraica, mantenendo alta l’attenzione contro l’anti-semitismo sempre in agguato.

Porta di Lampedusa , Porta d’Europa – CC BY 2.0

Anche per il conflitto Russo-Ucraino urge una soluzione diplomatica che si sarebbe dovuta ricercare fin dall’inizio, senza arrivare a cifre che rasentano il milione di vittime tra tutte le parti in causa, con soluzioni che si prospettano adesso nella stessa misura in cui si erano poste ai primordi.
C’è un’altra atrocità epocale che riguarda un fenomeno strutturale e non emergenziale, come spesso viene trattato, ossia quella dell’immigrazione, che miete anch’essa decine di migliaia di vittime, trasformando i nostri mari in un’immane tomba, nel silenzio inconsapevole o, peggio, nell’indifferenza. Dal 2016, il 3 ottobre è diventato la Giornata della Memoria e dell’Accoglienza, per ricordare il naufragio di Lampedusa avvenuto lo stesso giorno del 2013 in cui persero la vita 368 persone. Persone, tra cui molte donne e bambini, che cercavano di raggiungere il nostro continente nel disperato tentativo di trovare rifugio e sicurezza.

C’è una data che mi sta particolarmente a cuore, è quella prossima del 9 Febbraio, l’anniversario della nascita delle Repubblica Romana del 1849, episodio fulgido del nostro Risorgimento che finì tragicamente per mano dei francesi (con Luigi Napoleone Bonaparte presidente dell’allora Repubblica Francese), accorsi in aiuto del Papa Re.

L’esperienza della Repubblica Romana, ispirata da Giuseppe Mazzini, finì tragicamente ma lasciò in eredità quella Costituzione che divenne la base di quella della nostra Repubblica Italiana. Quei sessantanove articoli sono incisi sul muro della Costituzione della Repubblica Romana al Gianicolo, luogo dove si svolsero i tragici fatti. Nel nostro Paese la memoria dovrebbe nutrirsi più anche del nostro Risorgimento.

Foto Comitato Gianicolo

In memoria della memoria, occorre allora recuperare un senso comune della tragicità della Storia e cercare un senso vero a queste giornate, che riporti tutta la comunità internazionale, compresi i governi fino alle singole persone, alle proprie responsabilità con coerenza e al di là di retoriche commemorazioni.

Proprio in questi giorni di prossime elezioni in Germania, c’è chi dichiara con disinvoltura che occorre guardare con “leggerezza” alla Storia, praticamente un richiamo alla smemoratezza. Riporta al concetto nietzschiano di storia critica di chi vorrebbe guardare alla storia non come un intralcio ma alla creazione del “nuovo” e di nuove verità. Questo però a patto che non ci siano negazionismi e che restino fermi i principi di dignità della persona, dei popoli e del rispetto del diritto internazionale. La Storia non può essere distorta a fini politici.

Bansky , Angel Skull – CC BY-NC 4.0

La memoria del passato ci dovrebbe far guardare con consapevolezza e sensibilità al presente, mettendoci in guardia da un eterno ritorno di atrocità che sembrano essere così lontane e sbiadite nel tempo, ma che si possono ripresentare in altri modi e forme ma simili nella sostanza.

L’Etnocrazia e l’Ipnocrazia, con il loro combinato disposto, sembrano essere le evoluzioni delle democrazie occidentali che hanno garantito per questi 80 anni, pur con i loro chiaroscuri, pace e diritti. La memoria deve lasciare la feticizzazione della testimonianza e le privatizzazioni della Storia, evitando vuote celebrazioni retoriche e sonnambulismi, nel rispetto di tutte le memorie e delle loro condi-visioni.

Dominio delle stronzate, crepuscolo della democrazia, agonia della libertà

Se, come diceva Gesù, «la verità vi farà liberi», allora la scomparsa della verità ci renderà tutti schiavi. E, dato che stiamo precipitando nell’abisso di una società senza verità, ogni istante che passa, siamo sempre meno liberi. 

La cosa peggiore, però, non è che non ce ne rendiamo conto. È che – anche quando ce ne rendiamo conto – non ce ne preoccupiamo.

In parte, perché ci illudiamo che non sia così. Pensiamo si tratti dell’ennesimo catastrofismo ingiustificato, messo in giro dai soliti “profeti di sventure”. Gufi disposti a tutto pur di farci vivere nella paura e – come cantava De Gregori – «convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera». 

In parte – ed è questo l’aspetto più inquietante – perché crediamo che la cosa non sia poi così importante. Questa o quella cosa non sono vere? E chissenefrega! Come se la Storia non avesse abbondantemente dimostrato che le società senza verità finiscono col destabilizzare e stravolgere le vite delle persone, fino al punto di soffocarle, negarle e, infine, cancellarle. 

NIENTE LIBERTÀ, NIENTE VITA

Non c’è vita senza libertà. Eppure ignoranza, stupidità, servilismo, opportunismo, pusillanimità e paura ci convincono che non è così. Morale: andiamo avanti come se niente fosse, tra inconsapevolezza, rassegnazione e fatalismo, fidando nel fatto che, all’ultimo istante, qualcosa o qualcuno ci salverà dall’abisso.

Non succederà. Nessuno verrà a salvarci. Anche perché nessuno – a parte noi – tiene alla nostra libertà. Gli altri non vedono l’ora di togliercela. Se, poi, siamo noi stessi i primi a rinunciarci, tanto meglio per loro: risparmieranno tempo, denaro e fatica. 

DIRITTO AL VOTO: REGALO INESTIMABILE, BUTTATO VIA

Un’intera generazione (né alieni né estranei: i nostri nonni e i nostri genitori) ha combattuto e sacrificato la vita per regalare a tutti noi la libertà di votare e scegliere la “casa” che vogliamo, chi la deve costruire e aiutarci a “mandarla avanti”. Un dono dal valore inestimabile del quale, a quanto pare, non sappiamo più cosa farcene. Ce ne siamo stancati, e l’abbiamo buttato via, tra i giocattoli che non divertono più, come fanno i bambini con i regali del Natale precedente.

Dal 1948 a oggi, infatti, l’affluenza alle urne è precipitata. Siamo passati dal 92,23% delle prime elezioni al 49,69% delle Europee dello scorso anno. 42,54 punti percentuali in meno. Un crollo che ha determinato il crollo verticale del “coefficiente di democraticità” della nostra democrazia. 

DEMOCRAZIA DIMEZZATA

Un coefficiente che, per la democrazia, è come i carati per l’oro. Più sono, più l’oro è puro e più vale; meno sono, meno l’oro è puro e meno vale. Come ho già scritto, infatti, la democrazia non è come il silenzio, che c’è o non c’è. Somiglia, piuttosto, all’oro: il suo valore, cioè, dipende dal suo grado di “purezza”. Ed è del tutto evidente che una democrazia rappresentativa nella quale vota meno del 50% dell’elettorato è tutt’altro che pura. 

Di fatto, quindi, viviamo in una democrazia dimezzata. Il che equivale a trovarsi al volante di un’auto che perde due ruote per strada: praticamente impossibile non schiantarsi.

DEMOCRACY INDEX 2023

Secondo l’ultima edizione del Democracy Index dell’Economist Intelligence Unit (un’istantanea dello stato della democrazia in 165 Stati indipendenti e due territori – quasi l’intera popolazione mondiale e la stragrande maggioranza degli Stati – basata su: processo elettorale e pluralismo, funzionamento del governo, partecipazione politica, cultura politica e libertà civili) sebbene circa la metà della popolazione mondiale (45,4%) viva in una qualche forma di democrazia, solo il 7,8% risiede in “piene/complete democrazie” e ben più di un terzo (39,4%) vive sotto regimi autoritari. 

ITALIA DA “SERIE B”

Il nostro Paese, purtroppo, non brilla. E come potrebbe, visto l’andazzo degli ultimi decenni. L’Italia, infatti, non trova posto nella “serie A” del Democracy Index, che ospita i 24 Paesi che lo studio definisce “democrazie piene/complete”. Tra queste, in ordine di graduatoria, troviamo Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca, Irlanda, Svizzera, Paesi Bassi, Lussemburgo, Germania, Canada, Australia, Giappone, Austria, Regno Unito, Grecia, Francia e Spagna. 

Il nostro Paese risulta al decimo posto della classifica della “serie B” – le “democrazie imperfette” – preceduta da Cile, Repubblica Ceca, Estonia, Malta, Stati Uniti d’America, Israele, Portogallo, Slovenia e Botswana. 

Dietro di noi, infine, Paesi come Belgio (36), India e Polonia (41), Sud Africa (47), Ungheria (50), Brasile (51), Argentina (54), Colombia (55), Croazia (58), Romania (60), Bulgaria (62), Serbia (64), Albania (66), Tunisia (82), Ucraina (91), Turchia (102), Emirati Arabi (125), Egitto (127), Iraq (128), Russia (144), Cina (148), Iran (153), Libia (157), Siria (163), Corea del Nord (165).

NIENTE PARTECIPAZIONE, NIENTE DEMOCRAZIA, NIENTE LIBERTÀ

Come abbiamo visto, nel nostro Paese, la rappresentatività è fortemente compromessa. E, dato che essa è il cuore della democrazia (aveva ragione Gaber: libertà è partecipazione), fortemente compromesso è anche il cuore della nostra democrazia. Un cuore sempre più prossimo all’infarto. 

Alle ultime Europee – solo per citare la tornata elettorale più recente – ha votato meno del 50% dei 47 milioni di aventi diritto: 23.372.323 elettori, contro i 23.663.947 che hanno scelto di non andare a votare. 

GOVERNANO LE MINORANZE

Dati infinitamente più preoccupanti di quanto non appaia. Per due ragioni. La prima è che, per la prima volta nella storia repubblicana, è una minoranza – e non una maggioranza – a vincere le elezioni. E, di conseguenza, a formare un Parlamento ed esprimere/orientare un governo. 

Alle Europee 2024, FDI – il partito che, in Italia, ha ottenuto più consensi – ha raccolto, infatti, 6.713.952 voti: il 28,81% del totale. Meno di un terzo dei votanti. Minoranza che diventa ancora più minoranza, se si rapportano quei 6,7 milioni di voti ai 47 milioni degli aventi diritto al voto. Risultato? Il 14,27% del totale: un settimo dell’elettorato.

Il che significa che meno di 1,5 elettori su 10 hanno votato per FDI. E, dato che è oggettivamente impossibile definire “maggioranza” 1,5 elettori su 10, dichiarare che “gli italiani hanno scelto FDI” è una colossale mistificazione. Mistificazione che, però, funziona alla grande, dal momento che quasi nessuno, ormai, si prende la briga di raccogliere, verificare e analizzare numeri e percentuali, e di ragionare sulla loro reale o presunta rilevanza.

IL DIRITTO DI VOTO HA I GIORNI CONTATI?

La seconda ragione è ancora più preoccupante della prima. Proverò a sintetizzarla in una semplice domanda: se gli italiani continueranno a disertare le urne e saranno sempre meno quelli che decideranno di esercitare il loro diritto di voto, secondo voi, quanto tempo passerà prima che qualcuno si affacci a un nuovo balcone, arringando la folla al grido: “Visto che non andate a votare, vuol dire che ritenete il voto un inutile fastidio. Non vi preoccupate: da domani, ve ne libereremo!”?

LA LIBERTÀ NON CI INTERESSA…

La verità è che a noi umani la libertà non interessa. Neghiamo che sia così ma lo facciamo sapendo di mentire. Perché? Perché la libertà implica il fardello della responsabilità e non c’è nulla che pesi di più agli esseri umani del fatto di assumersi la responsabilità di decidere del proprio presente/futuro. Molto meglio lasciarlo fare a qualcun altro. Se le cose andranno bene, potremo dire di aver visto giusto. Se le cose andranno male, potremo dire che non è stato per colpa nostra.

Lo scrivo spesso, non perché mi manchino gli argomenti ma perché trovo stupido provare a esprimere con parole migliori questa illuminante verità: aveva ragione il Grande Inquisitore: «nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana più intollerabile della libertà!». Ecco perché «non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà».

… PER QUESTO, NON VOGLIAMO LA VERITÀ

In sintesi: la libertà costa e noi non vogliamo pagare. Ora: se noi non vogliamo essere liberi e la verità ci rende liberi, è evidente che noi non vogliamo la verità. 

Ecco perché le stronzate (un istante per crearle, un’eternità per smontarle, sempre ammesso che ci si riesca) hanno così tanto successo. Pensare e scegliere richiedono tempo e fatica. Bisogna informarsi (presso fonti autorevoli e affidabili), approfondire, capire, riflettere, formarsi un’opinione, confrontarsi con gli altri, disposti a sostenere le proprie idee ma, soprattutto, ad accettare il fatto che possano essere sbagliate e, nel caso, essere pronti a modificarle. 

Chi ce lo fa fare? È infinitamente più facile, conveniente e gratificante vivere di folli convinzioni fai-da-te, alimentate dalla saggezza-spazzatura che, ormai, domina, incontrastata, ovunque: case, uffici, bar, mezzi pubblici, amicizie, social media, giornali, radio, televisioni. Saggezza-spazzatura che continua a fiorire e a mietere milioni e milioni di proseliti, anche perché, nella Babele di fake news e false narrazioni quasi impossibili da smascherare e smontare, è praticamente impossibile capire cosa sia vero e cosa no.

CONCLUSIONI

Permettetemi, quindi, di concludere parafrasando il versetto del Vangelo di Giovanni, ricordato in apertura: «La verità vi renderà liberi. Se solo riuscirete a trovarla, riconoscerla, comprenderla, accettarla e seguirla».

Fino ad allora, good night, and good luck.

Ogni traguardo, piccolo o grande che sia, nasconde alla memoria delle sue radici una lotta. Non parliamo di conflitti esterni, ma di quella battaglia silenziosa e continua che affrontiamo dentro di noi: la lotta per superare i limiti autoimposti, per abbracciare l’incertezza e per riscrivere chi siamo. Questo viaggio verso la consapevolezza è un percorso unico, fatto di cadute, dubbi, e momenti di incredibile trasformazione.

Immagina di nascere in un piccolo paese come Cissone, un luogo dove il cambiamento è guardato con sospetto e la tradizione è legge. Crescere in un ambiente simile significa spesso interiorizzare convinzioni limitanti: 

  • “Non puoi farcela”, 
  • “Il mondo là fuori è troppo grande, ti perderai come in un bicchier d’acqua”, 
  • “cosa penseranno le altre persone di te”, 
  • “perderai le tue amicizie senza sapere cosa troverai la fuori”.

Eppure, qualcosa dentro, a volte, inizia a muoversi, e ti spinge oltre.

Perchè ti senti stretta, in un mondo in cui non puoi esprimerti perchè sei “diversa”, in cui devi omologarti alla mentalità del “si è sempre fatto così” per sentirti parte di un gruppo e accettata, in cui tutto quello che non è visibile con gli occhi non esiste. 

Inizio a buttarmi nel vuoto a 18 anni, aprendo la mia azienda di servizi con 2 socie in cui operavo nel mondo dell’agricoltura biologica e biodinamica con servizi di marketing, logistica, commerciale e segreteria. Dico “buttarmi nel vuoto”, perché nessuno ti insegna a fare l’imprenditrice, non esiste una guida, o peggio, a 18 anni, anche se esistesse, non ti viene in mente di cercarla. 

Lavorare in un settore dominato dal “si è sempre fatto così” e portare innovazione e digitalizzazione significava sfidare le convenzioni e il modo di lavorare di diverse persone che ha funzionato per tanti anni.

Sono stati 5 anni in cui ho sempre puntato a quella goccia, che giorno dopo giorno, avrebbe modellato la pietra. 

E così è stato, mi ha permesso di capire e sperimentare tante cose come:

  • l’importanza di aver ben chiara la tipologia di persona che hai davanti, come pensa, come ragiona, riflette, quali sono gli input che fanno attivare certi trigger su cui puoi fare leva per raggiungere il tuo obiettivo;
  • a calibrare la comunicazione sulla base di queste informazioni ed adattare il tuo registro verbale in base all’interlocutore;
  • a studiare e comprendere bene il loro punto di partenza e confrontarlo con quello dove vuoi arrivare per evidenziare pro e contro;
  • ad evidenziare i vantaggi competitivi ed economici della tua proposta.

Tutto questo per cosa?

Per digitalizzare l’azienda, snellire i processi, automatizzarli, introdurre programmi di monitoraggio e gestione che permettessero di lavorare più agilmente ed evitando di perdersi le informazioni, ridurre i tempi di gestione e i rework. 

E poi, il salto: dall’agricoltura alla tecnologia. Cambiare industria è come cambiare pelle.

E’ un processo, lento, fatto di tanto tempo, di mettere in discussione la tua realtà, comprendere un nuovo target e le sue dinamiche, che implica apprendimento continuo e la volontà di reinventarsi.

La lotta, in questo caso, è stata contro la paura del fallimento, contro l’idea che cambiare significasse perdere un qualcosa di cui conoscevi molto bene le dinamiche e di entrare in un mondo in cui non eri nessuno, dovevi ricostruirti da zero, in un mondo densissimo di persone competenti.

Oggi, il passato lascia spazio a una vita in costante viaggio ed evoluzione, con connessioni stupende che abbracciano culture e persone diverse. Questo passaggio non è stato privo di difficoltà.

È stato un atto di ribellione contro un qualcosa in cui non volevo più essere io la sola a puntare in alto ma volevo vivere in una spinta costante di ispirazione, energia e desiderio di crescita, una decisione consapevole di rompere il ciclo e costruire una nuova identità.

Come non esistono percorsi per essere imprenditrice, e ci si barcamena in mille aspetti sconosciuti, non esistono qualifiche da community manager. 

Mi sentivo un impostore prima, e continuo a sentirmici ora.

Come lo maschero? Con la strategia più semplice in assoluto “fake it until you make it”. Parlo a conferenze internazionali, accetto sempre nuove sfide lavorative, mi butto in progetti che non ho mai fatto.

Perché? Perché la mente è un critico severo, che ci ricorda costantemente ciò che non sappiamo invece di ciò che abbiamo costruito e il modo migliore per smascherare questa dinamica per me è la possibilità di dimostrarmi che ogni volta che ho fatto qualcosa di nuovo, ogni volta che mi sono buttata nell’ignoto, in cui ho avuto paura di non raggiungere il risultato, di deludere le persone, beh ogni volta ho imparato qualcosa e la maggior parte delle volte sono arrivata, li, dove non avrei mai pensato.

La verità è che nessuno ha mai certificato questo ruolo. Nessuna laurea, nessuna qualifica. Eppure, tutto quello che faccio oggi richiede abilità che non si imparano sui libri: empatia, ascolto, leadership, problem solving, gestione delle priorità ecc… 

La lotta, qui, è accettare che la competenza non sempre si misura con un pezzo di carta, ma con i risultati, con i feedback, con il segno che sei riuscita a lasciare nel percorso delle persone e con le lezioni imparati dagli errori.

La lotta più significativa, però, è quella quotidiana. È guardarsi allo specchio e amarsi per ciò che siamo e decidere di migliorarsi per diventare le nostra versione migliore, chi noi vogliamo davvero essere. Ogni singolo giorno.

È identificare i propri limiti, per comprenderli, analizzarli e spingerli sempre un po’ più in là se questo ci permette di essere soddisfatti. Creare routine, dedicare del tempo per sé stessi, per sentirsi, per capire cosa ci piace e cosa no, per capire cosa ci fa stare bene e cosa no, per ascoltarsi: tutto questo non è solo un esercizio di crescita, ma un percorso che richiede tanta energia e  amore verso sé stessi. 

Perchè vuol dire mettersi in discussione, far crollare in autonomia le proprie certezze e l’essere umano ha una disperata necessità di sicurezza quindi entrare in questo flusso è estremamente dispendioso a livello energetico ma ti apre una nuova visione di te, di chi davvero puoi essere.

La lotta interiore è parte integrante della vita. Ci sfida a fare scelte difficili, a confrontarci con le nostre paure e insicurezze. Ma è anche ciò che ci rende vivi, che ci permette di evolvere e di scoprire chi siamo davvero.

Non esiste un punto di arrivo definitivo. Ogni giorno è una nuova opportunità per crescere, per imparare, per abbracciare il cambiamento. La vittoria non è nell’eliminare la lotta, ma nell’accoglierla come parte del viaggio. Essere consapevoli dei propri limiti è il primo passo per superarli. E chi decide di buttarsi sempre oltre la sua zona di comfort, chi accetta il rischio e sceglie di conoscersi meglio, scopre che la vera vittoria è nella trasformazione continua, non dell’obiettivo raggiunto.

La lotta interiore è un invito a vivere, a crescere, a essere più di quello che pensavamo possibile.

La redazione ringrazia per il contributo concesso a titolo gratuito da Michela.

Io lo scrivo quì, ma penso che abbiamo tutti in mente un pensiero negativo ogni qualvolta sentiamo dire o leggiamo dei progressi degli impianti di chip all’interno del cervello umano. “Studi scientifici”, “Progressi Tecnologici”, “Grandi Possibilità” si affrettano ad aggiungere gli esperti interpellati dai giornalisti, eppure dentro di noi si fa largo il ribrezzo al pensiero che un essere umano possa desiderare di farsi impiantare un elemento estraneo nel proprio corpo, per di più nel cervello. Abbiamo tutti in mente la scena di Terminator quando da sotto la pelle di Arnold Swarzenegger emerge il metallo e i circuiti elettrici e abbiamo lo stesso senso di repulsione. Tutti, compresi quei ragazzi che per ragioni anagrafiche il film certamente non l’hanno visto al cinema o forse nemmeno in TV.

Siamo spaventati di un oggetto che, comandato da qualcun altro oppure in ragione della propria programmazione algoritmica, possa prendere il sopravvento sulla nostra volontà.

Scrivendo gli altri articoli per questo numero (“Stop con i beatles stop..?” e “L’annullamento della Memoria come strumento di controllo“) mi sono reso conto che l’Antropocene – ossia l’idea che l’impatto che l’uomo ha sull’ambiente possa configurarsi come una nuova “era geologica” – ha implicazioni anche sulla nostra stessa struttura mentale e non dal 1945 – da quando si fa risalire l’inizio dell’Antropocene appunto.
Da quando l’uomo è diventato un essere “civile”, e quindi da tanto tanto tempo fa, ha cercato di modificare l’ambiente circostante per adattarlo in qualche modo alle proprie esigenze. Ha “addomesticato” razze animali e ha “selezionato” razze vegetali, per i propri bisogni primari e anche per il proprio diletto: il selvaggio Uro è diventata la mansueta mucca, il famelico lupo è diventato il delicato Chihuahua, la Rosa canina la profumosa e delicata Tea. Ha costruito habitat artificiali che si sono distaccati moltissimo dai prati verdi e dalle foreste, senza pensare al Bosco Verticale, possiamo immaginare alle palafitte costruite negli stagni o agli arredi nelle caverne vicino alle coste (e ne abbiamo di esempi anche sulle coste laziali ad Circeo, senza dover andare troppo lontano da Roma ad esempio).

Ma molto prima di poter pensare alle estensioni della mente con i chip e prima di pensare all’Intelligenza Artificiale o anche prima di pensare agli automi (e mi viene in mente il servitore di Filone di Bisanzio costruito più di 200 anni prima della nascita di Cristo), prima di tutto questo l’uomo aveva capito che era possibile estendere la propria mente con la scrittura.
Lasciando un segno, un disegno in uno dei suoi rifugi poteva ricordare con esattezza come cacciare gli animali. Aveva esteso il concetto del “quì e adesso” nel quale sostanzialmente era relegato per la propria natura umana, portando la sua mente a ricordare cose che il trascorrere del tempo avrebbe lasciato andare nel “panta-rei” fisiologico.
Ha creato, per se stesso, un nuovo modo di vivere il tempo e lo spazio.
Questo – per gli storici – ha determinato il passaggio dalla Preistoria alla Storia, ma a pensarci è stato il primo passaggio dell’uomo all’antropizzazione della propria natura animale.

Pochi giorni prima dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, l’ex Presidente americano Joe Biden ha lanciato un accorato allarme. “Oggi, in America – ha detto – sta prendendo forma un’oligarchia di estrema ricchezza, potere e influenza, che minaccia realmente l’intera nostra democrazia, i nostri diritti fondamentali e la nostra libertà”. Biden ha, quindi, puntato il dito contro un “complesso tecno-industriale” ultra-ricco che potrebbe esercitare un potere incontrollato sugli americani. 

Ma no? Davvero? E se n’è accorto solo quattro giorni prima dell’insediamento di Trump? Un genio, non c’è che dire. E dove diavolo è stato in tutti questi anni?

E gli altri sedicenti progressisti, al di là e al di qua dell’Oceano? Dove diavolo erano in questi quarant’anni nei quali il mondo non si è più diviso – ideologicamente – tra “buoni” (Americani & Co.) e “cattivi” (Russi & Co.) ma – turbocapitalisticamente – tra iper-ricchi (pochissimi) e iper-poveri (miliardi)? 

Dove sono stati, in tutti questi anni, i cantori di libertà, giustizia, pace, diritti umani e civili, solidarietà, equità, salute, istruzione, dignità di lavoro e salario, pari opportunità, inclusione, stato sociale, e bla-bla-bla fratelli?

Dormivano tutti? Erano tutti stupidi o troppo impegnati a godersi sprizzini, shottini, salatini, salottini, librettini, teatrini, cinemini, concertini ed eventini, che non se ne sono accorti, poverini? 

O, forse, se n’erano accorti ma non sono riusciti a evitare il peggio? Cos’è: incapaci e ignavi, hanno lasciato fare oppure, collusi e complici, volevano che il mondo arrivasse esattamente dov’è arrivato e che le destre tornassero a dominare, indisturbate, praticamente ovunque?

Non risponderò a queste domande. 

Che ognuno faccia le proprie riflessioni 

e tragga le proprie conclusioni.

Una cosa, però, è certa: in politica, o sei parte della soluzione o sei parte del problema. E, dato che di soluzioni non se ne vede nemmeno l’ombra, mentre “il problema” trionfa quasi dappertutto, suggerirei che tutti coloro i quali – a qualunque titolo e con qualunque grado di responsabilità – non sono riusciti a impedire o, peggio, hanno favorito questa devastante deriva antidemocratica, togliessero il disturbo, una volta per tutte. 

Se non altro, i veri democratici – ammesso che ne esista ancora qualcuno – si renderebbero, finalmente, conto del fatto che “non esistono liberatori ma uomini che si liberano”. E potrebbero decidere, una volta tanto con la propria testa, cosa farne di sé stessi e della propria vita.

Uno degli elementi fondanti di ogni regime totalitario è il controllo della memoria collettiva. La storia non è solo una cronaca di eventi passati, ma una struttura narrativa che definisce l’identità di un popolo, le sue radici, i suoi valori. Per questa ragione, uno dei primi atti del nazismo fu la distruzione sistematica dei libri di scuola e dei testi di storia, sostituendoli con una nuova visione della realtà, costruita ad arte per giustificare la loro ideologia e il loro dominio.

Nel 1933, appena salito al potere, il regime nazista organizzò il Bücherverbrennung, il rogo dei libri considerati “non tedeschi”, un atto simbolico che mirava a cancellare idee scomode e sostituirle con una narrazione alternativa. Tra le opere distrutte vi erano testi di scienza, filosofia, letteratura e soprattutto storia, poiché il passato doveva essere riscritto in funzione della visione nazionalsocialista. Questo processo non era solo censura, ma un vero e proprio tentativo di manipolazione della memoria collettiva.

Il Potere della Riscrittura della Storia

La storia è lo strumento con cui una società tramanda i suoi valori e le sue esperienze. I regimi totalitari non possono permettere che esistano narrazioni concorrenti rispetto alla loro ideologia. Questo concetto è brillantemente rappresentato in “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury, dove i libri vengono bruciati non solo per impedire alle persone di leggere, ma soprattutto per eliminare il pensiero critico e sostituirlo con un conformismo imposto dall’alto. “Non volevano uomini che pensassero, ma uomini che obbedissero”, scrive Bradbury, una frase che potrebbe benissimo descrivere l’atteggiamento del nazismo nei confronti dell’istruzione e della cultura.

L’ideologia nazista non poteva accettare una storia che mostrasse le sue contraddizioni o che mettesse in discussione la superiorità della razza ariana. Per questo motivo, non solo i libri furono distrutti, ma anche la storiografia venne riscritta per enfatizzare un passato glorioso e creare nemici immaginari. I programmi scolastici vennero modificati per inculcare nei giovani i principi dell’antisemitismo, del nazionalismo esasperato e della guerra come destino inevitabile.

Casi Storici e Citazioni

Questo fenomeno non è esclusivo del nazismo. Altri regimi totalitari hanno adottato strategie simili per controllare il passato e quindi il futuro:

Unione Sovietica: Stalin fece riscrivere la storia rimuovendo figure politiche scomode, cancellandole persino dalle fotografie ufficiali.

Cina di Mao: Durante la Rivoluzione Culturale, vennero distrutti testi classici e riformati i libri scolastici per eliminare ogni riferimento al passato pre-comunista.

Cambogia di Pol Pot: Il regime dei Khmer Rossi eliminò testi scolastici e chiuse le scuole per annullare qualsiasi forma di sapere precedente alla rivoluzione.

George Orwell in “1984” descrive magistralmente questa dinamica con il concetto di “controllo della memoria” attraverso lo slogan “Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato”. Questa frase sintetizza perfettamente la necessità dei regimi totalitari di riscrivere la storia per legittimarsi.

Conclusione

La distruzione dei libri di storia e dei testi scolastici da parte del nazismo non fu un atto di semplice censura, ma una strategia per plasmare una nuova realtà e un nuovo popolo. La conoscenza del passato è uno strumento di libertà: chi la possiede, può capire e giudicare; chi ne è privato, è destinato a credere e obbedire. Ecco perché ogni regime totalitario ha bisogno di creare una nuova memoria: per cancellare le radici di un popolo e sostituirle con una storia costruita a proprio vantaggio.

Gianni Morandi, quasi 60 anni fa – eh sì – cantava della fine della giovinezza, della fine della spensieratezza e dell’arrivo della cruda e brutta realtà.
Erano gli anni della guerra in Vietnam – che sarebbe durata ancora un decennio – e gli anni del twist ballato sulle spiagge, gli anni degli hippies e l’anno dopo si sarebbe tenuto il mitico concerto di Woodstock.
Qualche giorno fa parlando con il mio amico Fabrizio ci è tornato alle labbra questo ritornello per dire che forse anche la nostra “giovinezza” è finita e sarebbe il caso di chiudere con i ricordi nei quali siamo immersi. Dire, anche noi, uno Stop ai Beatles e ai Rolling Stones.
Così in questo dialogo abbiamo iniziato a fare quella che poi, a ripensarci successivamente, a mente fredda, si può definire essere una analisi sociologica e psicologica di quello che stiamo vivendo “noi”. Un “noi” che può essere calato nel senso di noi due, che ci apprestiamo a raggiungere il mezzo secolo, che “noi” intesi come generazione a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80. E questa riflessione vede proprio il concetto della memoria. Una memoria sempre “viva e presente”.
E’ già da qualche anno che si sono creati diversi gruppi sui social network che hanno come titolo “noi che…” declinato per un certo decennio, un certo tipo di esperienza comune. E così io, Fabrizio e tutta la nostra generazione, siamo quelli che hanno visto i robottoni che combattevano per difendere il giappone e il mondo intero dagli invasori, e ci siamo agitati cantando le loro sigle, siamo quelli che hanno visto Heidi e Conan e ci siamo commossi con quei cartoni animati al pensiero del triste destino della ragazzina svizzera o per quello che poteva essere l’ultimo bambino sulla terra, siamo quelli che si sono sfiniti di lacrime per Alfredino, siamo quelli che hanno cantato le canzoni degli “Wham!” tra una “Last Christmas” e una “Wake Me Up Before You Go-Go”, siamo quelli che hanno visto il muro che circondava la Berlino “Occidentale” da quella orientale, siamo quelli che ancora a volte pensano usando le lire e che hanno in mente la bicicletta con il sellino lungo e il cambio.
Siamo quelli lì.
Sicuramente.
E siamo ancora capaci di intonare quelle canzoni lì appena ne sentiamo un frammento.
Ma forse è questo uno dei problemi della memoria, o meglio il problema di una memoria lasciata sempre viva, come fosse sempre presente.
Possiamo, con la tecnologia a nostra disposizione, con gli algoritmi che seguono le nostre propensioni e i nostri “gusti”, possiamo rimanere in una bolla spazio-temporale che nella realtà non esiste più.
Il mondo è decisamente andato avanti da quegli anni ’70 e anni ’80 della nostra infanzia e anche da quegli anni ’90 che furono quelli della nostra giovinezza e poi quelli che hanno seguito.
Possiamo costantemente rivivere l’onda di speranza di Piazza Tien a Men o il terrore degli aerei che si schiantano nelle Torri gemelle o ascoltare e riascoltare, ad esempio mentre guidiamo, le bionde trecce e “ancora tu, ma non dovevamo vederci più” o le tre parole “sole, cuore, amore”. Possiamo vivere, se vogliamo, un mondo che in realtà non esiste più.
Possiamo prolungare, se vogliamo, la nostra giovinezza continuando a cantare “i Beatles e i Rolling Stones” senza che nulla possa perturbare la nostra confortevole ripetizione degli stessi gesti, senza nessun cantante Trap (no, nonostante questo articolo, non riesco nemmeno a considerarli cantanti…) che possa scuoterci proponendo nuove strofe, nuove rime.
Come vivessimo in un mondo congelato, statico.
Ecco pensando alla memoria, vorrei lanciare una riflessione: se il gusto nostalgico della memoria così facile per le tecnologie che abbiamo attorno a noi, non ci stiano privando in qualche modo di quel piccolo “stress” che però in ultima analisi è il vivere il “Quì e Adesso”.
Pensiamoci.

Fabrizio: copio e incollo il testo della Canzone di Gianni Morandi, semmai ti venisse voglia di canticchiarla così, anche senza base musicale.

C’era un ragazzo
Che come me
Amava i Beatles e i Rolling Stones
Girava il mondo
Veniva da
gli Stati Uniti d’America
… Non era bello
Ma accanto a sé
Aveva mille donne se
Cantava Help e Ticket to Ride
O Lady Jane, o Yesterday
… Cantava viva la libertà
Ma ricevette una lettera
La sua chitarra mi regalò
Fu richiamato in America
… Stop, coi Rolling Stones
Stop, Coi Beatles stop
… M’han detto va nel Vietnam
E spara ai Viet Cong
… C’era un ragazzo
Che come me
Amava i Beatles e i Rolling Stones
Girava il mondo
ma poi finì
A far la guerra nel Vietnam
… Capelli lunghi non porta giù
Non suona la chitarra ma
Uno strumento che sempre dà
La stessa nota
Ra ta ta ta
… Non ha più amici
Non ha più fans
Vede la gente cadere giù
Nel suo paese non tornerà
Adesso è morto nel Vietnam
… Stop, coi Rolling Stones
Stop, coi Beatles stop
… Nel petto un cuore più non ha
Ma due medaglie o tre

(Autori Migliacci, Lusini – Editore UNIVERSAL MUSIC PUBLISHING RICORDI S.R.L)

  1. Memento (2000) – Christopher Nolan
    Un uomo con un disturbo della memoria a breve termine cerca di scoprire chi ha ucciso sua moglie, usando tatuaggi e note per ricordare gli indizi. Un puzzle narrativo sulla fragilità della memoria.
  2. Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004) – Michel Gondry
    Una coppia decide di cancellare i ricordi della loro relazione tramite una procedura medica, ma l’inconscio lotta per trattenere ciò che è importante. Un viaggio emotivo sulla memoria e l’amore.
    Scrivo il titolo in versione originale perché quella italiana l’aveva trasformato in una commedia di serie B e mi aveva impedito di guardarlo e solo le lunghe insistenze di un amico me lo aveva fatto vedere. E mi sono ricreduto, tanto di metterlo in questa lista, e tra le prime posizioni.
  3. Inception (2010) – Christopher Nolan
    Oltre a esplorare il sogno e la realtà, il film ruota attorno ai ricordi e a come essi possono essere manipolati o impiantati nella mente umana.
  4. The Manchurian Candidate (1962 / 2004) – John Frankenheimer / Jonathan Demme
    Un thriller politico in cui un soldato è sottoposto a lavaggio del cervello per diventare un’arma inconsapevole. Un film inquietante sul controllo della memoria.
    Nomino ambedue i film perché sono uno il clone dell’altro, ma a parte la sceneggiatura, a voi la scelta di quale regia, quale interpretazione scegliere.
  5. The Father (2020) – Florian Zeller
    Un viaggio nella mente di un uomo affetto da demenza, visto dal suo stesso punto di vista. Il film trasmette in modo potente la confusione della perdita di memoria.
  6. Mulholland Drive (2001) – David Lynch
    Un film onirico e surreale che mescola amnesia, ricordi distorti e sogni per creare un’esperienza destabilizzante e affascinante.
  7. Total Recall (1990) – Paul Verhoeven
    Basato su un racconto di Philip K. Dick, esplora l’idea di ricordi impiantati e la difficoltà di distinguere la realtà dalla finzione. Effetti speciali davvero datati, visti con l’occhio di oggi, ma un action movie molto destabilizzante, interpretato da un Arnold Schwarzenegger in forma, molto prima di diventare il Governatore della California.
  8. Shutter Island (2010) – Martin Scorsese
    Un agente federale indaga sulla scomparsa di un paziente da un ospedale psichiatrico, mentre lotta con i suoi stessi ricordi e traumi.
  9. 50 volte il primo bacio (2004) – Peter Segal
    Una commedia romantica con un sottotesto malinconico: una donna perde la memoria ogni giorno e il protagonista cerca di farla innamorare di lui ogni volta. Per tante e tante volte, cercando di seguire i suoi sogni che, rivivendo sempre lo stesso giorno, avrebbe potuto non realizzare mai.
  10. The Bourne Identity (2002) – Doug Liman
    Un uomo senza memoria cerca di scoprire chi è, mentre viene braccato da forze misteriose. Una riflessione sull’identità e sul passato dimenticato.

Aggiungo un ultimo film sulla memoria. Un film del grandissimo Alfred Hitchcock: Spellbound. Anche qui la versione italiana (“Io ti salverò”) devia il senso del film che fa diventare una psichiatra giovane e determinata una “crocerossina”. Si tratta di un Thriller ambientato in una casa di cura negli anni ’40 nella quale viene accolto un nuovo medico che nasconde un segreto tanto tanto profondo, nascosto nei meandri della sua memoria.
Per questo film, Hitchcock ha voluto niente meno che Salvador Dalì per rappresentare il sogno.
A tal proposito mi piace ricordare il mio amico Ernesto Laura che su questo tema scrisse un gran bel libro.

Negli ultimi anni, l’influencer marketing ha guadagnato una posizione di rilievo nel panorama pubblicitario italiano, contribuendo significativamente al fatturato del mercato.
Secondo recenti stime, il settore ha raggiunto un valore di circa 323 milioni di euro nel 2023, con un incremento del 10% rispetto all’anno precedente.
Tuttavia, questa crescita esponenziale ha sollevato preoccupazioni riguardo alla tutela dei consumatori e alle questioni fiscali legate a questa nuova forma di comunicazione commerciale.

Guadagni degli influencer nelle diverse piattaforme

I compensi degli influencer variano notevolmente a seconda della piattaforma utilizzata.
Secondo gli ultimi dati di DeRev su Facebook, il valore medio dei contenuti sta calando; attualmente sono necessari 50.000 follower per guadagnare 50 euro con un singolo post. Inoltre, coloro che hanno oltre 3 milioni di follower vedono dimezzarsi i loro guadagni: da un massimo di 5.000 euro a post nel 2023 a un massimo di 2.500 euro nel 2024.
Su Instagram, i nano influencer hanno registrato un incremento del compenso massimo di 50 euro a post. Anche i mid-tier (con 50.000-300.000 follower) stanno beneficiando significativamente con guadagni che variano tra 1.000 e 5.000 euro a contenuto.
I macro-influencer (da 300.000 a 1 milione di follower) hanno visto aumentare sia il compenso minimo (da 4.000 a 5.000 euro) sia quello massimo (da 8.000 a 9.000 euro).
Tuttavia, i mega influencer (1-3 milioni di follower) e le celebrity hanno subito cali nei ricavi rispettivamente del 16% e del 31,6%.
Su TikTok, i ricavi dei nano-influencer rimangono stabili mentre aumentano leggermente quelli dei micro e mid-tier influencer; i primi raggiungono compensi tra 250 e 750 euro a contenuto mentre i secondi tra 750 e 3.000 euro. Si registra invece una diminuzione nei proventi per i macro-influencer (da 3.000-7.000 euro a video a 3.000-5.000 euro) e i mega influencer (da 7.000-18.000 euro a contenuto a 5.000-10.000 euro).
Le celebrity subiscono la diminuzione più significativa nei ricavi: dai 18.000-75.000 euro per una partnership su singolo video nel 2023 ai soli 10.000-20.000 euro nel 2024.
Infine, su YouTube gli influencer con più di un milione di follower continuano a richiedere compensi che variano da 25.000 a 75.000 euro; tuttavia si registra un calo nei compensi per mega influencer (da un massimo di 35.000 euro nel 2023 a 25.000 euro nel 2024) e macro-influencer (da 20.000 euro a 12.500 euro).

Normative europee

A livello europeo, diverse normative si applicano all’influencer marketing.
La Direttiva AVMS (Direttiva 2010/13/UE), aggiornata nel 2018, stabilisce requisiti di trasparenza ed equità nelle comunicazioni commerciali, oltre a proteggere i minori e i gruppi vulnerabili dai contenuti potenzialmente dannosi.
Questa direttiva impone anche norme specifiche per la condivisione di video sulle piattaforme e promuove l’alfabetizzazione mediatica, obbligando le piattaforme a fornire gli strumenti necessari.
In aggiunta, il Regolamento sui Servizi Digitali (Regolamento 2022/2065/UE) fissa obblighi armonizzati per i fornitori di piattaforme online riguardo ai contenuti illegali e nocivi, inclusa la disinformazione e i contenuti dannosi per i minori.
Il Regolamento sull’Intelligenza Artificiale (AI Act)stabilisce norme a protezione della salute, della sicurezza e dei diritti fondamentali, imponendo agli influencer che utilizzano sistemi di IA di informare il pubblico e etichettare chiaramente i deep fake.
Anche il Regolamento sulla Trasparenza della Pubblicità Politica (Regolamento 2024/900/UE) si applica agli influencer, obbligandoli a corredare i loro annunci pubblicitari di etichette e informazioni chiare.
Infine, il Regolamento sulla Libertà dei Media (Regolamento 2024/1083/UE) può regolare i casi in cui gli influencer sono anche fornitori di servizi di media, salvaguardando un ambiente mediatico indipendente e pluralistico.
Il GDPR (Regolamento UE n. 2016/679) impone agli influencer la protezione delle persone fisiche riguardo al trattamento dei dati personali.
Soprattutto le normative europee sui diritti dei consumatori, come la Direttiva sulle Pratiche Commerciali Sleali (Direttiva 2005/29/CE) e la Direttiva sui Diritti dei Consumatori (Direttiva 2011/83/UE), recepite nel nostro Codice del Consumo, sono applicabili alle attività commerciali degli influencer quando promuovono prodotti o servizi online e quindi soggetti alla vigilanza dell’Autorità Garante della concorrenza e del Mercato quanto alle eventuali pratiche commerciali scorrette.

Il fenomeno Fuffaguru e le problematiche connesse alla trasparenza per i consumatori

La normativa attuale oggetto di revisione non considera adeguatamente l’impatto qualitativo dei contenuti pubblicati, il che potrebbe portare a situazioni in cui influencer con un grande seguito ma contenuti poco etici o ingannevoli possano operare senza adeguate restrizioni.
Un aspetto rilevante del panorama dell’influencer marketing è rappresentato purtroppo dai cosiddetti “fuffaguru”.
Questo termine, recentemente entrato nel linguaggio comune, si riferisce a individui che sfruttano tecniche da imbonitore per organizzare e gestire corsi, video e seminari online con l’obiettivo di guadagnare profitti in modo truffaldino.
I fuffaguru promettono metodi facili per fare soldi, spesso senza alcuna competenza reale o titoli riconosciuti.
La loro attività si basa sulla creazione di un’apparenza di valore, attirando particolarmente coloro che cercano soluzioni rapide a problemi economici o desiderano migliorare la propria vita.
Questo fenomeno ha suscitato dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che sta monitorando attentamente le pratiche commerciali scorrette anche attraverso una azione di moral suasion e l’implementazione di linee guida sull’advertising (inserimento di apposite avvertenze #PUBBLICITA’ BRAND, #SPONSORIZZATO DA BRAND, #ADVERTISING BRAND, INSERZIONE A PAGAMENTO BRAND, o, nel caso di fornitura del bene ancorché a titolo gratuito, #PRODOTTO FORNITO DA BRAND).
In questo contesto, è fondamentale osservare come in altri Paesi si siano affrontate problematiche simili anche al fine di tutelare meglio i consumatori.

In Francia, l’Autorité de Régulation Professionnelle de la Publicité (ARPP) ha implementato regole che richiedono agli influencer di rispettare standard elevati in termini di trasparenza e responsabilità sociale attraverso il sistema del Certificato di Influenza Responsabile.
Queste norme sono state introdotte per proteggere i consumatori e garantire che le comunicazioni commerciali siano chiare e oneste.

Le regole dell’AGCOM

L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) ha introdotto le Linee-Guida con la Delibera n. 7/24/CONS e proposto un Codice di Condotta attualmente oggetto di Consultazione pubblica che mirano a riformare e regolamentare l’attività degli influencer in Italia.
Queste regole si pongono come obiettivo principale quello di garantire il rispetto delle disposizioni del Testo Unico dei servizi di media audiovisivi (TUSMA) e stabiliscono criteri per la classificazione degli influencer come “rilevanti”, basandosi su soglie quantitative come il numero di follower e il tasso di engagement.
Gli influencer possono esercitare una notevole influenza sulle decisioni d’acquisto dei consumatori, specialmente tra i giovani.
È quindi essenziale che le normative stabiliscano chiari obblighi di trasparenza per evitare pratiche ingannevoli.
E’ necessario rafforzare ulteriormente queste disposizioni per garantire che i diritti dei consumatori siano sempre tutelati.

Il Codice di Condotta

Allegato alla Delibera di consultazione n. 472/24/CONS il Codice rappresenta un passo cruciale per garantire trasparenza, protezione dei consumatori e rispetto delle regole pubblicitarie nel contesto digitale.
Il testo sancisce principi fondamentali come la correttezza, l’imparzialità e la lealtà dell’informazione.
Gli influencer devono evitare contenuti che promuovano odio, violenza o discriminazione e rispettare le normative sulle comunicazioni commerciali, vietando la pubblicità occulta e limitando la promozione di prodotti come tabacco, alcol e gioco d’azzardo.

Ambito di applicazione

Le norme si applicano agli influencer definiti “rilevanti” dalle Linee Guida AGCOM.
La proposta dell’AGCOM è di considerare solo gli influencer che raggiungono un numero di iscritti (i cosiddetti follower) pari ad almeno 500.000 su almeno una delle piattaforme di social media o condivisione di video utilizzate, o un numero di visualizzazioni medie mensili pari a un milione su almeno una delle piattaforme di social media o di condivisione video utilizzate
Anche gli influencer virtuali, creati tramite intelligenza artificiale, rientrano nell’ambito di applicazione se rilevanti.
Il rispetto del Codice, come concordate con i soggetti firmatari, è solo “raccomandato” anche ai soggetti che non hanno i requisiti previsti dalle Linee guida per essere rilevanti. 

Tutela dei minori e delle categorie vulnerabili

Una parte significativa del Codice si concentra sulla protezione dei minori e delle categorie vulnerabili.
Gli influencer non possono pubblicare contenuti che possano arrecare danni fisici, mentali o morali ai minori.
Inoltre, devono evitare di sfruttare l’inesperienza o la credulità degli utenti, prevenendo contenuti ingannevoli o manipolativi.

Pubblicità e trasparenza

Il Codice impone la chiara identificazione dei contenuti sponsorizzati. Gli influencer devono adottare apposite segnaletiche per distinguere pubblicità, sponsorizzazioni e inserimenti di prodotti. Inoltre, è vietata ogni forma di enfasi indebita sui prodotti promossi.

Gestione e monitoraggio

Un aspetto innovativo del Codice è l’istituzione di un elenco pubblico degli influencer rilevanti, aggiornato semestralmente.
Questo elenco, gestito da un soggetto incaricato dall’AGCOM, garantirà maggiore trasparenza e controllo sulle attività degli influencer.
L’Autorità, supportata dalla Guardia di Finanza e dalla Polizia Postale, vigilerà sull’applicazione delle norme, conducendo ispezioni e accertamenti per verificare la conformità alle disposizioni.

Segnalazioni e sanzioni

I consumatori possono segnalare contenuti che violano il Codice attraverso un modulo disponibile sul sito dell’AGCOM.
In caso di violazioni, sono previste sanzioni pecuniarie proporzionate alla gravità dell’infrazione e alle condizioni economiche dell’influencer.

Campagne di sensibilizzazione

Entro un anno dall’adozione del Codice, l’AGCOM promuoverà campagne informative rivolte sia agli influencer che ai consumatori, per aumentare la consapevolezza sui diritti e doveri legati al mondo digitale.
Con questo Codice di Condotta, l’AGCOM punta a creare un ecosistema digitale più sicuro ed equo, garantendo trasparenza e protezione per tutti gli utenti.
Gli influencer, d’altra parte, sono chiamati a rispettare regole precise per contribuire a una comunicazione commerciale responsabile e conforme alle normative vigenti.

di Alessandra Macrì

Uso con malcelato disagio i tasti del telecomando. Non sono da Netflix e Prime. Da interno borghese riqualificato ai tempi della serialità. Non ci sto sul divano del decubito, appresso alle puntate. Per rappresaglia, mi vieto anche i film da addomesticati. Dal cinema pretendo il sequestro, lo spazio che annienta la realtà. Buio in sala e i baci potenziati dalla visione. 

Brividi d’autore però scoppia subito nel chiarore scintillante delle pellicole che hanno fatto la storia del cinema italiano, levandomi nel tempo di un battito di ciglia, alla nostalgia. Pierfrancesco Campanella non ama i preamboli. Le attese. L’archivio di Alfredo Bini compare come dichiarazione di poetica che congiunge generi diversi alla ricerca di un entomologo. Omaggio alla tradizione e ricerca smisurata del codice per registrare l’evento: l’attimo in cui accade il cinema nuovo. Il link tra Anna Magnani in Mamma Roma e la meravigliosa Maria Grazia Cucinotta di Campanella, persino più bella quando compare senza trucco. 

Secondo Fabio Melelli, docente universitario di Storia del Cinema: ‘Pierfrancesco Campanella è un regista atipico nell’ambito del panorama cinematografico italiano. Un cane sciolto, nel vero senso della parola, completamente al di fuori delle regole del sistema. Le sue opere, spesso contestate da certi critici pseudointellettuali che osannano solo gli artisti schierati, sono disturbanti e politicamente scorrette, anticipando spesso tematiche scomode. Il tempo però gli sta rendendo giustizia e i suoi vecchi film stanno ultimamente diventando veri e propri cult movies’. Annuisco e mi addentro, esaltandomi sui versi di Bukowski.

Lo stile è la risposta a tutto. Un modo nuovo per affrontare qualcosa di noioso o pericoloso fare una cosa noiosa con stile è preferibile al farne una pericolosa senza. fare una cosa pericolosa con stile è quello che io chiamo arte.

Da Charles Bukowski a Ben Gazzara, alias Charles Serking in “Storie di ordinaria follia”, diretto da Marco Ferreri, a uno degli insensibili interlocutori di Louiselle Caterini in “Brividi d’autore”, diretto da lei. Fino a che punto si può osare, provocando le cose pericolose della vita per sottrarsi a quelle noiose, e quando è lo stile che deve intervenire a imporre una misura? Intendo: la vita, da sfruculiata, va verso le sue conseguenze drammatiche, o irrisorie, o fatali. Quando è che l’artista capisce che ha trovato l’ultima scena, quella da cui riverberano tutte le altre, o mai più nessuna, tanto da dare un taglio alle provocazioni che infligge alla vita?

Forse quell’ultima scena non si trova mai. Troppe variabili entrano in gioco durante la fase delle riprese. Ad ogni buon conto, uno stile è fatto di regole che possono essere sovvertite durante il montaggio. E’proprio lì che occorre imporre un ritmo e un pathos crescente.

È possibile ovviare a quanto Mariagrazia Cucinotta, Louiselle, finisce per scegliere quasi fosse – per tutti? Finora i suoi film sono stati profetici… – l’ultima spiaggia, raggiungendo il successo e per ciò corrispondendo in uno al mercato, al conto in banca, e al proprio legittimo desiderio di essere altro tutt’altro da quello che la gente, il pubblico, deve sapere dell’artista? Che prezzo si può arrivare a pagare in nome di questo scopo?

Un prezzo alto, dettato dalla sincerità che prima di tutto si deve a se stessi e poi al proprio pubblico. Ma il cinema è soprattutto un prodotto industriale, fatto anche di mediazioni tra quello che il produttore vorrebbe importi e la tua personale esigenza di raccontare una storia. 

Calvino sosteneva che per scrivere devi uccidere i cani che hai dentro. In un altro dei suoi film, “Cattive inclinazioni”, l’ambiguo personaggio della contraffattrice d’arte interpretato da Florinda Bolkan, fa larghi sorrisi mentre confessa in un talk show da prima serata che il mostro è solo la materializzazione degli istinti che non accettiamo. Quindi si potrebbe finire per eleggere l’audience giudice unico delle mostruosità accettate, accettabili. Magari facendo votare la maggioranza, il pubblico a casa, pure nel caso dei sacrifici d’autore.

Il giudice inesorabile di un artista resta sempre quello che un tempo era il botteghino mentre oggi viene dettato dal numero delle visualizzazioni sulle piattaforme. Non bisogna mai dimenticarlo! Da parte sua il pubblico detiene sempre un telecomando e a lui resta sempre il sacrosanto diritto di cosa scegliere.

Finiremo per abitare la società della cronaca nera? L’editoria piazza overdosi di noir, i telegiornali e i salotti televisivi storie di massacri en famille, passeggiando distrattamente al parco, quando si teme di dare alla luce un bambino nelle situazioni più stravaganti.

E’ la triste prerogativa dei nostri giorni: spesso la realtà supera di gran lunga la fervida fantasia anche di un perverso sceneggiatore o di un regista dalle inclinazioni pericolose. Ce lo dimostrano quotidianamente i programmi televisivi del daytime o di seconda serata, infarciti di efferati casi di cronaca, tesi a tenere alta l’attenzione dello spettatore per un punto di share in più. 

Sperava non fossero profetici i film che girava alle soglie del nuovo millennio?

Immodestamente forse avevo già previsto tutto. I processi oggi vengono celebrati nei nuovi tribunali dell’Inquisizione, inscritti nella scatola televisiva. Il delitto di Cogne in questo ha aperto la strada ad un nuovo e discutibile modo di fare televisione.

Il mostro è Frankenstein. Ma la creatura di Mary Shelley è un ipersensibile esteta sopraffatto da bellezza, un contemplativo condannato dalla meschinità degli umani.

La stessa innocenza dei bambini, quella che abbiamo irrimediabilmente perso nel passaggio alla vita adulta. Ma anche i bambini sanno essere sufficientemente crudeli, specie quando emulano gli adulti.

Stare chiuso qui dentro cercando di conservare cosa non è esistito mai. Incombe come una mannaia nello script di “Brividi d’autore”. Mi ha folgorata. Tuttavia non interrompe la ricerca, fiera e disperata, di Louiselle. Forse chi sa di incatenarsi a un mandato talmente crudele, è piuttosto Gianluigi che si rifiuta di parlare coi grandi, in “Chiedo Asilo” di Ferreri, o Premio Politano di “Cattive inclinazioni”. Il bambino chiede alla mamma: “Dimmi la verità!” Sfuggire al mondo degli adulti significa sfuggire alla necessità della menzogna. Premio Politano, l’interrotto, potrebbe essere l’assassino, o chi non saprebbe concepire misfatto, o colui il quale reagisce all’oscena prevaricazione delle regole dei grandi impugnando una squadra da disegno e facendone ghigliottina. L’artista deve cedere a conseguenze da adulto? In che rapporto stanno menzogna e invenzione?

Nella stessa correlazione che intercorre tra invenzione e rivelazione. Un assioma che potrebbe essere tranquillamente applicato all’essenza stessa del cinema..

Premio. Più che un nome proprio, la configurazione di un indizio. Chi incarna l’originale, l’eterno infante attaccato alla lingua madre, natura e origine, sguazza nell’autenticità che ripaga l’artista della lotta col proprio splendore, col molto dolore, e gli infiniti giorni d’attesa?

L’archetipo di Premio Politano è inscritto nel mito greco di Edipo nel suo rapporto conflittuale con la madre. In chiave metaforica il mio è con il cinema, un mondo tanto affascinante quanto pieno di poche certezze.

Il dolore obbliga alla ricerca e al ricordo, la guarigione preme perché sia oblio. I suoi personaggi sono lesti a ripulirsi delle croste, dagli esiti delle suppurazioni sulla coscienza. Si ributtano nel gioco, si ficcano nella mischia, ascoltano la carne. Quanta voce dà alla carne per alimentarci la sua ispirazione?

Citando Charles Bukowski, nel desiderio sessuale “si commette il più vecchio dei peccati nel più nuovo dei modi”.

In “Storie di ordinaria follia” di Ferreri Ben Gazzara minaccia la svenevole partner: Vuoi che mi tolga la cinghia? Lei lo riporta nei frame collegati alla fantasia di Mariagrazia Cucinotta. Si tratta di una formula assai pronunciata almeno dal secondo dopoguerra, lungo i viali rigogliosi del boom economico, nelle belle case delle belle famiglie italiane. Spettava ai migliori pater familias. Non ci sono più i ‘maschioni’ di una volta?

Non sempre. Ad esempio Ferreri ne “L’ultima donna” aveva sentenziato che l’uomo era perduto, sconfitto dal suo stesso machismo e per questo destinato all’autoevirazione. E non si tratta di un caso isolato!

Uno dei malfattori di una Justine postmoderna, negandole aiuto a dispetto dei loro trascorsi rivela: Io non credo nei sogni Louiselle. È possibile fare cinema e non credere nei sogni? In “I love Marco Ferreri”, Pierfrancesco Campanella espone una citazione da Edgar Allan Poe: “Tutto ciò che vediamo sentiamo o siamo non è altro che un sogno dentro un sogno”

In questo Fellini è stato un maestro. Da “Otto e mezzo” in poi non ha fatto altro che raccontare la stessa storia. L’interpretazione dei suoi sogni in un’ottica junghiana, complice l’incontro con lo psicoterapeuta Ernst Bernhard.

Se perde la possibilità di credere alla creatura cosa ne è dell’artista? Colui che sogna si soddisfa completamente di ciò che sogna. Uno dei moventi a fare arte ancora oggi, secondo Manifesto, l’installazione-lungometraggio del 2015, di Julian Rosefeld.

“La vita è sogno” resta una splendida commedia di Calderon de la Barca. Ma ci sono anche le bollette da pagare… e forse lì si torna alla cruda realtà. 

Hanno paragonato i suoi film per genere e stile a quelli di Dario Argento. Ma lei fa sceneggiature tarantolate, dialoghi in cui ironia e autoironia e persino meta ironia la fanno da padrone. Colgo una volontà programmatica di sottrarre pathos a favore di un estetizzante gusto per il pulp. Quentin Tarantino o gli spazi percorsi dall’orrore misurato goccia a goccia in Dario Argento?

Mi onoro del paragone con due indiscussi Maestri. Non a caso il primo non ha mai nascosto la sua passione per il nostro cinema di genere, mentre al secondo mi sono ispirato quando ho girato trent’anni fa “Bugie rosse”. In quella pellicola non è difficile scovare più di un riferimento a “Profondo rosso”.

Satira derisione deformazione grottesca di una società immune al cambiamento sono i tratti costitutivi della poetica di Ferreri. Il lei di una società globalizzata che ha fondamenta nelle paludi, sulle sabbie mobili di movimenti schizoidi, in flash forward.

Non a caso il “grotesque” e il “divertissement” sono tratti costitutivi della filmografia ferreriana, che io amo molto.

Invece i suoi personaggi appaiono piuttosto materici, attaccati all’oggettività della soddisfazione. L’amore è incompatibile col terrigno, mero, dato di realtà? E poi ‘L’amore è un crimine che richiede un complice’. Nei suoi film si invera l’homo homini lupus. “Solitudini. Ecco cosa siamo”.

In quell’episodio le chiavi di lettura sono molteplici. In pochi minuti vengono affrontati diversi temi come il complesso di Edipo del protagonista, l’omosessualità, i disturbi alimentari ma il nodo principale è quello dell’incomunicabilità di oggi, dominata dai social media. Anche un tema attualissimo come la violenza sulle donne appare ribaltato: da vittima inconsapevole la protagonista si trasforma in una implacabile carnefice.

Lei non mi pare ami cuocere la vittima a fuoco lento. Alla tortura, che imporrebbe il supplizio dell’attesa, preferisce il colpo secco. E la telecamera indugia, sul dopo. La sua preferenza estetica la mette accanto a Rust, in “True Detective”, mentre sbatte sul tavolo delle indagini le foto di tutte quelle donne. Tutti quei corpi arresi, esposti a ciò che infine hanno accettato. A proposito dei corpi. Ipotizza copioni anche in funzione delle sue attrici ricorsive, adattando i ruoli ai loro cambiamenti fisici, o si augura che il corpo delle donne che ha scelto per i suoi film resti inviolato, scampato al tempo, fermo come nei primi frame in cui lei lo ha inquadrato?

In generale non ho mai scritto una sceneggiatura in funzione di una interprete in particolare. Le attrici tendono ad essere poco inclini ad essere imbruttite per esigenze di copione. Preferisco quelle che sanno comprendere la natura del loro personaggio e si appassionano convintamente al progetto.

Ferreri sostanzia di molte belle scene la superiorità della donna. “Ciao maschio”, per esempio, ha battute e dichiarazioni di intenti paragonabili alle scelte di protagoniste di François Truffaut, o di Jean-Luc Godard. Serva del potere, angelo distruttore, natura che autoperpetua se stessa o nuova, iconica alternativa a tutte le strettoie, altrettanti recinti di genere, evocate finora?

Ne cito una su tutte: l’enigmatica e crudele Andrea Ferreol che, ne “La grande abbuffata”, assiste impassibile al desiderio di morte e autodistruzione dei quattro protagonisti.

Francesca Dellera andava mangiata?

Era la diretta risposta ai suoi film precedenti dove la misoginia del maschio veniva combattuta dalla voracità femminile. Nella sua follia Paolo, per non perdere Francesca, la fa a pezzi e se ne ciba. Ma con questo gesto perpetua il desiderio di una comunione totale con il suo corpo. A distanza di oltre trent’anni un film del genere non sarebbe realizzabile.

Sul versante dei legami alternativi alla famiglia tradizionale, mi pare lei non indugi in facili consolazioni. Rispetto all’agito da Ferzan Ozpetek, per esempio, nei suoi film non ci stanno amici che tengano, spariscono i fratelli biologici e quelli di confidenze e avventure comuni, pure il tetto sotto cui ripararsi per allestire qualche progetto nuovo, rischia di essere meno di una allucinazione. Niente esiste, fuori dalla tirannide di desiderio, o al limite passione?

Non sempre è così. Se ripenso al mio debutto dietro la macchina da presa con la commedia “Strepitosamente… flop!”, al centro della vicenda c’era un gruppo di amici che avevano deciso di vivere insieme in una sorta di “comune”, legati da diverse aspirazioni sul loro futuro. Condividevano gioie e dolori, momenti di gloria e numerosi fallimenti, tipici di chi si affaccia alla vita adulta. Lì l’amicizia ricopriva un ruolo fondamentale: l’esatto specchio della mia vita privata. Ho pochi amici ma buoni, su cui so sempre di poter contare. 

Incazzarsi è un modo di divertirsi senza ridere come sosteneva Ferreri?

Per me che ho avuto il privilegio di conoscerlo era solo un suo personale modo per sovvertire le regole del buonismo a tutti i costi. Fino al suo ultimo film ha difeso strenuamente il suo sacrosanto desiderio di odiare e di combattere contro i pregiudizi della nostra società.

Per carità le belle famiglie italiane che non ci sono più. Ma quell’attaccamento che può intuire solo chi abbia lottato assieme su un set, chi abbia sofferto la condivisione della nascita di un progetto, l’affetto per gli attori e gli altri addetti ai lavori cinematografici, diventa inevitabile?

Non sempre è così. Con alcuni di loro nasce un rapporto di amicizia e di reciproca stima che mi porta a scritturarli anche in nuovi progetti. Con altri ci si perde di vista per mille motivi ma quando ci si ritrova è sempre una gran festa. Recentemente ho ritrovato un mio vecchio collaboratore, Roberto Girometti, direttore della fotografia di uno dei miei primi film. E’ bello ricordare con lui tanti aneddoti legati ai vecchi tempi.

Un sopruso artistico equivale a uno stupro?

Qualche volta in passato mi è capitato di cedere alle imposizioni di qualche produttore. Oggi, fortunatamente, complice l’esperienza e gli anni sul set, dispongo di un maggior margine di potere decisionale.

I giochi di specchi funzionano sempre, perché alla gente piace guardare gli altri. “Perché a nessuno piace vedere cosa è davvero”. Secondo George Bernard Shaw si usa uno specchio per guardare il viso e si usano le opere d’arte per guardare la propria anima. Quale via di scampo resta all’artista?

Non penso sia soltanto una caratteristica di una società, liquida e voyeuristica come la nostra. La dinamica del guardare e dell’essere guardati è antecedente al cinema e risiede nel suo fratello maggiore, il teatro. Da un palchetto d’opera lo spettatore poteva rimanere ammaliato dal talento dei suoi interpreti ma se la ieraticità dell’artista non catturava la sua attenzione, aveva come alternativa quella di poter sbirciare da una prospettiva privilegiata vizi e virtù di cosa accadeva negli altri palchetti: lo specchio della vita che, a mio giudizio, è sempre più interessante. 

Una vita senza segreti è una vita esposta al pubblico ludibrio?

Poteva esserlo per un esteta come Oscar Wilde. Tocca a noi fare della vita un’opera d’arte, sublime e maestosa.

L’io narrante di “I love Marco Ferreri”, l’uomo che perde il contatto coi propri passi mettendosi sulle tracce del regista scomparso, dice: “E finisco sempre per trovare un indizio di partenza perché il caso non esiste”. È così?

E’ la parabola del suo modo unico di fare cinema: quella di un intellettuale dall’unghia affilata che, grattando le false certezze del modernismo, ci mostrava impietosamente la scimmia dietro l’uomo e il nulla dietro la scimmia.

Nel cinema di Ferreri la fotografia passa dai colori alterati, volutamente artificiali, degli inizi, ai toni lividi della metropoli in cui si compie la disillusione d’amore del giovane Christopher Lambert, alias Michael. È possibile che anche lei diriga la sua vocazione ad accogliere atmosfere paragonabili, in cui l’unico polo di brillante chiarore sia, magari, una eroina tardo romantica, appena un poco decadente, dentro ‘un film di lucida ontologia allucinatoria?

Per me Ferreri resta un insuperato Maestro del cinema italiano, ahimè spesso dimenticato e poco ricordato. E’ possibile che da buon discepolo ne abbia seguito le sue orme.

Gli alberi sono creature meravigliose… nella limpida luce dei propri colori, nella freschezza delle loro ombre. Ci immergiamo nei loro profumi intensi, ci divertiamo a nasconderci dietro il loro corpo, a sbirciare dietro le foglie, ad ascoltare il loro fruscio.

Gli alberi respirano, gli alberi ci parlano… ci raccontano la loro vita, ci mostrano le proprie rughe, ci svelano la propria età senza timori, non hanno paura del tempo.

E conoscono la nostra vita… riconoscono i nostri passi, le nostre parole, osservano silenziosi e apparentemente indifferenti tutto quello che gli gira intorno…

E si chiederanno… “ma che c’avranno da correre…?” “cosa si urlano…?”; “perchè fanno tanto rumore…”.

Noi non possiamo che amarli… belli, brutti, storti, dritti, alti, bassi che siano…
Sono forse gli unici a regalarci un tenero colore, uno spicchio di sole in un tempo grigio che ci porta via tutto con fretta e arroganza…

Roma ne ha partoriti tanti… sono la nostra storia. Ci hanno visto camminare, crescere, cambiare, sperare, sognare. Tutti noi dobbiamo aiutarli a vivere, a resistere… e quando sono malati dobbiamo curali e proteggerli come figli. Figli che si sono fatti da soli, che non hanno mai avuto raccomandazioni, e mai un avvocato che li tutelasse.

Certo, qualcuno può ammalarsi. E come tutte le anime sensibili affronterà il dramma della sofferenza… Noi faremo di tutto per medicarlo, per assisterlo fino alla fine. Se poi dovessimo accorgerci che non ci sono rimedi per tenerlo in vita, perché così malato da non poter far nulla… così malato che potrebbe rappresentare anche un pericolo per la nostra incolumità… allora possiamo anche decidere di porre fine alla sua sofferenza. 

Per tutto il resto… beh, sarebbe quanto meno educato chiedere il loro parere… magari saprebbero darci più soluzioni di quante la nostra limitata fantasia non riesca a trovare.

Anche noi cambieremo, anche le nostre città si incammineranno nel corso mutevole della vita, nuovi volti si affacceranno, altri se ne andranno. Gli alberi no… Resteranno lì, e continueranno a osservare quei buffi esseri che si reggono su due zampe… ma nelle loro cortecce, nei loro rami, nelle nuove foglie che nasceranno e cresceranno, nel loro respiro… ci sarà uno scorcio della nostra vita, dei nostri sospiri.

Impariamo a vivere e ad amare gli alberi, e insegniamolo ogni giorno a chi pian piano si affaccia nella vita dei grandi, ansioso e desideroso di apprendere. 

Martedì 29 ottobre 2024 ha ripreso il via la Rassegna “DONATORI DI MEMORIE” organizzata dall’Associazione culturale RIACHUELO – PROLOCO SAN LORENZO, nella sede di Via dei LATINI 52 a Roma.

La manifestazione, che si protrarrà fino a martedì 3 dicembre, prevede la realizzazione di una serie di incontri e “feste” con personaggi che hanno attraversato il quartiere San Lorenzo in qualità di protagonisti o testimoni, lasciando un’impronta nella storia sociale e culturale di quest’angolo di Roma. 

Storie importanti, alcune forse poco note, ma tutte finalizzate a una narrazione corale, genuina e senza infingimenti, di una zona sospesa tra arte, socialità e militanza. 

Ciascun incontro, – video-registrato e conservato – si pone come un tassello necessario alla costruzione di un Archivio digitale capace di dar conto delle molteplici esperienze del quartiere.

Nell’evento dello scorso 23 ottobre,lafunzionaria archivista di Stato Caterina Arfè ha parlato dell’importanza della Archivistica e delle Fonti orali. È stato poi proiettato il documentario P-artigiano prodotto da Blue CinemaTV di Daniele Baldacci.

Il secondo incontro, tenutosi martedì 5 novembre, è stato dedicato a Biagio Propato, poeta on the road di San Lorenzo con proiezione del film Poeti di Nino D’angelo, proiettato al Festival del cinema di Venezia, del 2009. Testimoni sono stati studiosi, amici e parenti.

Protagonisti dell’incontro del 12 novembre saranno Giuseppe Sartorio, scultore del quartiere, detto “il Michelangelo dei morti”, misteriosamente scomparso nel 1922, e il villino da lui costruito su via Tiburtina. I donatori di memorie saranno, in questa occasione, l’erede saranno Margherita Mastropaolo e lo storico Andrea Amos Niccolini.

Il 19 novembre si terrà un incontro dal titolo A proposito del Pastificio Cerere, la Scuola di San Lorenzo. A raccontare sarà Roberto Gramiccia, medico, critico d’arte e amico, dai primi anni ’80, degli artisti del Palazzo e Alberto Dambruoso, storico dell’arte. 

Il 26 novembre la ricercatrice Serena Donati ricorderà l’esperienza preziosa di Simonetta Tosi e la realizzazione nel 1976 a San Lorenzo del Consultorio autogestito.

Il 3 dicembre Mauro Papa sarà infine il testimone dell’esperienza politica del padre Urbano, autore della scritta “Eredità del fascismo, vergata su una delle pareti di un palazzo crollato sotto le bombe alleate del 1943. 

La rassegna è realizzata con il contributo del Municipio Roma II – Assessorato alla Cultura

PRO LOCO SAN LORENZO, VIA DEI LATINI 52, 

info: 3391467003

Il nuovo libro dell’acclamata scrittrice partenopea, che esplora l’incontro casuale in treno di Graziella e Francesco a prima vista appartenenti a mondi totalmente estranei, esce il 29 ottobre e sarà presentato con eventi a Napoli, Pesaro, Milano, Roma, Cassino.

Annella Prisco torna in libreria con la storia di un incontro ad alta velocità dall’intreccio inaspettato e avvincente. Si intitola “Noi, il segreto” ed è in libreria a partire dal 29 ottobre 2024, a quattro anni esatti dall’uscita del suo ultimo fortunatissimo romanzo, “Specchio a tre ante”, che è stato anche oggetto di traduzione.

È la storia intensa ed emozionante di Graziella, insegnante originaria di Atrani, il più piccolo dei borghi della Costiera amalfitana, raccontata con il solito stile scorrevole e delicato di Annella Prisco, che rivela man mano uno scenario stupefacente e ricco di colpi di scena, di introspezione e di profonde riflessioni.

Sposata con Gerardo, Graziella è una donna passionale e dinamica che decide di accettare l’incarico di docente in un
Istituto scolastico lombardo, nonostante sia costretta a lasciare il paese natìo, in provincia di Salerno, per trasferirsi a Milano. Spesso nasconde un velo di solitudine e inquietudine, causato dai dubbi e dalle incertezze in cui è immersa da quando ha iniziato un nuovo lavoro e una nuova vita in un’altra regione.

«Il contesto – spiega l’Autrice – è quello della problematicità dell’esistenza, che attraversa una serie di eventi: dall’uomo misterioso che incontra sul treno all’amore per il marito, dalla tensione per la malattia del padre all’amicizia profonda con la collega Marta, dal legame con l’ucraina Tanya al racconto dell’orrore della guerra. Con lo sfondo di un’Italia che da Nord a Sud manifesta tutte le sue bellezze, tradizioni e tipicità».

Lo spessore dei personaggi, ben delineati nei loro tratti distintivi, si staglia persino sullo sfondo del monastero più famoso d’Italia, ricostruito dopo la distruzione a seguito dei bombardamenti alleati, l’Abbazia di Montecassino, preso in considerazione dall’Autrice come cornice della narrazione.

La conclusione della vicenda, che ha il ritmo incalzante delle tensioni emotive, sarà sorprendente.

Tanti gli eventi e le iniziative in programma per l’uscita del libro: il primo appuntamento è a Napoli, città natale dell’autrice, sabato 16 novembre alle ore 11 nel foyer del Teatro Diana. Gli altri incontri sono previsti a Torre Annunziata (Libreria Libertà, 29 novembre), Napoli (O’Book, 11 dicembre), Pesaro (Alexander Museum Palace Hotel, 13 dicembre), Milano (20 febbraio 2025), Roma (Libreria Minerva, 14 marzo 2025), Cassino, Salerno, Atrani e poi numerose altre tappe in calendario.

Pubblicato da Guida Editori, con acquerello in copertina di Vincenzo Stinga, il libro è distribuito da Messaggerie Italiane ed è acquistabile in tutte le librerie anche online e dal sito www.guidaeditori.it

Annella Prisco è scrittrice, critico letterario, manager culturale ed esperta in comunicazione e relazioni pubbliche. È componente di varie giurie di Premi letterari e collabora con diverse testate giornalistiche. Nel 2022 le è stato conferito il Premio Donne che ce l’hanno fatta, e nel 2024 il Premio alla carriera L’Iguana – Anna Maria Ortese. All’esordio come autrice nel 1998 con il romanzo Ricordi senza memoria, a quattro mani con Monica Avanzini, hanno fatto seguito Chiaroscuri d’inverno (2005), Trenincorsa (2008), Appuntamento in rosso (2012) e Girasoli al vento (2018), che hanno ricevuto riconoscimenti anche a livello internazionale.

Nel 2020 è uscito il romanzo Specchio a tre ante, che pure ha ricevuto svariate onorificenze. Nel 2023 il romanzo è stato tradotto da Elisabetta Bagli in spagnolo e pubblicato da Papel Y Lapiz con il titolo El espejo de Ada, ricevendo il premio Il Canto di Dafne – Libro internazionale dell’anno, il premio della Giuria Città di Cattolica e il primo premio Libro in
lingua straniera “La Via dei Libri” in seno al Bancarella a Pontremoli.

Negli ultimi anni, l’Unione Europea ha intensificato gli sforzi per ridurre l’esposizione della popolazione al fumo passivo, con l’obiettivo dichiarato di creare una “generazione libera dal tabacco” entro il 2040. 

Questo impegno si riflette nelle recenti proposte di revisione delle raccomandazioni sugli ambienti senza fumo e senza aerosol, un’iniziativa che mira a proteggere maggiormente la salute pubblica attraverso misure più stringenti che includono anche i prodotti emergenti, come le sigarette elettroniche e i dispositivi a tabacco riscaldato. 

L’Europa ha sempre adottato un approccio progressivo e rigoroso nella regolamentazione dei prodotti del tabacco. 

Le raccomandazioni del Consiglio e le normative di riferimento mirano a limitare l’esposizione al fumo passivo, proteggendo in particolar modo le categorie vulnerabili, come bambini e anziani. 

Le norme vigenti si basano sulla Convenzione Quadro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il Controllo del Tabacco, e hanno già portato a una significativa riduzione dei fumatori e dell’esposizione al fumo in ambienti chiusi. Tuttavia, i cambiamenti tecnologici e l’emergere di nuovi prodotti alternativi al fumo tradizionale hanno complicato ulteriormente il panorama.

L’ Italia ha tradizionalemente avuto una legislazione molto restrittiva rispetto ad altri Paesi. La Legge 3 del 16 gennaio 2003 (art. 51), “Tutela della salute dei non fumatori” che ha esteso il divieto di fumo a tutti i locali chiusi (compresi i luoghi di lavoro privati o non aperti al pubblico, gli esercizi commerciali e di ristorazione, i luoghi di svago, palestre, centri sportivi), con le sole eccezioni dei locali riservati ai fumatori e degli ambiti strettamente privati (abitazioni civili).

La norma non prevede un obbligo, ma concede la possibilità di creare locali per fumatori, le cui caratteristiche strutturali e i parametri di ventilazione sono stati definiti con ilDecreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 dicembre 2003, che prevede anche le misure di vigilanza e sanzionamento delle infrazioni.

Un ulteriore passo avanti è stato fatto con la pubblicazione in gazzetta del Decreto Lgs. n. 6 del 12 gennaio 2016, che recepisce la Direttiva 2014/40/UE sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, presentazione e vendita dei prodotti del tabacco e dei prodotti correlati, che abroga la direttiva 2001/37/CE.

E’ un fatto innegabile che mercato del tabacco si è evoluto rapidamente negli ultimi quindici anni, con un aumento significativo della diffusione delle sigarette elettroniche (E-Cig) e dei prodotti del tabacco riscaldato (Tobacco Heating Product THP)

Questi prodotti vengono spesso considerati dai fumatori come alternative meno dannose rispetto alle sigarette tradizionali, ed è ormai noto che molte persone stanno utilizzando questi dispositivi come un mezzo per ridurre o cessare del tutto il consumo di tabacco combusto.

Tuttavia, questa evoluzione del mercato pone nuove sfide regolamentari. 

La Commissione Europea e il Consiglio dell’Unione Europea hanno quindi intrapreso iniziative normative per includere questi nuovi prodotti nei divieti già esistenti per il tabacco, estendendo le restrizioni anche agli spazi aperti.

La Commissione ha annunciato la propria intenzione di aggiornare la Raccomandazione del Consiglio relativa agli ambienti senza fumo emanata nel 2009 

La nuova proposta ed in votazione al Parlamento UE mira a includere non solo i prodotti del tabacco tradizionali, ma anche i nuovi prodotti come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato.

La Commissione sostiene che l’estensione dei divieti a questi prodotti è giustificata dalla necessità di proteggere ulteriormente la salute pubblica dall’esposizione ad aerosol di seconda mano, anche in spazi esterni come terrazze di bar, ristoranti, e aree pubbliche adiacenti a scuole e strutture sanitarie.

L’obiettivo generale di queste iniziative è duplice: ridurre ulteriormente il consumo di tabacco e disincentivare l’uso di prodotti contenenti nicotina, contribuendo alla cosiddetta “denormalizzazione” del fumo e del consumo di nicotina. 

Sebbene questi obiettivi siano, di per sé, condivisibili, la mancanza di un approccio distintivo tra i diversi prodotti e la mancata conduzione di una valutazione d’impatto adeguata rappresentano aspetti che destano non poche perplessità in una all’incisività sulla libertà dei cittadini.

Perplessità espresse da Italia e Romania

Le perplessità espresse dai rappresentanti di Italia e dalla Romania nelle dichiarazioni congiunte in occasione della discussione della raccomandazione del Consiglio sono indicative delle difficoltà legate all’adozione di queste misure. 

L’Italia e la Romania hanno sostenuto la necessità di preservare la salute pubblica e concordato sull’importanza di proteggere la popolazione dal fumo passivo, ma hanno anche evidenziato diverse problematiche procedurali e sostanziali riguardanti il processo di approvazione e il contenuto dell’Atto.

Nella loro dichiarazione, entrambi i Paesi hanno lamentato che “la procedura applicata per la discussione e l’approvazione da parte del Consiglio di questo Atto avrebbe necessitato di tempi e modalità migliori per lo svolgimento del dibattito tra gli Stati membri”. 

Hanno espresso rammarico per il fatto che molti emendamenti significativi proposti dagli Stati membri non siano stati adeguatamente considerati, sottolineando che un atto di tale importanza avrebbe dovuto essere finalizzato attraverso un consenso più ampio tra le parti, tenendo conto delle priorità nazionali.

Inoltre, la mancanza di una valutazione d’impatto adeguata è stata fortemente criticata. Per i due Stati “lintroduzione di misure ampie e generalizzate riferite alle aree esterne, non chiaramente identificate e associate a concetti come la presenza di traffico pedonale intenso, manca di fondamento giuridico e genera potenziale incertezza sul suo significato e sulla sua corretta attuazione”. 

Lapidarie le conclusioni della dichiarazione :”Si ricorda infine che da questo Atto adottato dal Consiglio, per sua stessa natura e portata, non deriva alcun obbligo legale per gli Stati membri di definire adeguatamente la propria legislazione nazionale, tenendo conto delle competenze e delle specificità nazionali nell’attuazione, e non viene creato alcun precedente normativo per qualsiasi futura discussione in seno al Consiglio sulla politica europea del tabacco. Per questo motivo, l’Italia e la Romania mantengono la propria preoccupazione politica sull’adeguatezza di alcune raccomandazioni, come sopra rappresentato, così come ogni ulteriore valutazione, in quanto Stato membro, sulla corretta attuazione nazionale di questo Atto

Tale posizione evidenzia la necessità di basare le politiche su solide evidenze scientifiche e su valutazioni che considerino gli effetti pratici delle restrizioni proposte.

La necessità di differenziare tra fumo tradizionale e alternative 

Un aspetto cruciale che merita particolare attenzione è la necessità di differenziare chiaramente tra i prodotti da fumo tradizionali e le alternative meno dannose come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato. 

Questo principio di differenziazione non è solo una questione di logica normativa, ma è supportato anche da un vasto corpus di letteratura scientifica che indica come le alternative meno dannose possano effettivamente aiutare i fumatori a cessare il consumo di tabacco combustibile, con potenziali benefici per la salute pubblica.

Non distinguere tra questi prodotti nelle politiche sugli ambienti senza fumo potrebbe inviare un messaggio sbagliato ai consumatori, portandoli a ritenere che il vaping o il tabacco riscaldato siano dannosi quanto il fumo di sigarette tradizionali. 

Questo tipo di equiparazione rischia di minare i benefici potenziali per la salute offerti da questi prodotti e, di conseguenza, potrebbe portare alcuni consumatori a tornare al fumo di sigarette tradizionali, annullando anni di progressi nel campo della riduzione del danno.

Diritto dei consumatori a scelte informate

Un altro elemento fondamentale è il diritto dei consumatori a fare scelte informate sulla loro salute. Equiparare i prodotti tradizionali del tabacco a quelli “alternativi” riduce significativamente il ventaglio di opzioni disponibili per chi desidera smettere di fumare, sminuendo i vantaggi distinti che le alternative meno dannose offrono. 

Le sigarette elettroniche e i dispositivi a tabacco riscaldato hanno dimostrato di poter rappresentare uno strumento utile per la cessazione del fumo, come riconosciuto nella Relazione BECA del Parlamento europeo.

Ignorare queste evidenze significa non solo ostacolare i fumatori che vogliono smettere, ma anche compromettere i risultati ottenuti fino a questo momento nella riduzione del danno.

Contrarietà ai divieti generalizzati anche negli spazi aperti

Un altro aspetto che solleva forti perplessità riguarda l’inclusione di divieti generalizzati che si estendono anche agli spazi aperti. 

Interventi normativi che incidono sulla libertà delle persone al punto di impedire loro attività anche all’aperto rischiano di essere percepiti come eccessivamente intrusivi e non proporzionati rispetto agli obiettivi di salute pubblica. 

Limitare la possibilità di utilizzare prodotti come le sigarette elettroniche o i dispositivi a tabacco riscaldato anche in aree all’aperto, senza una chiara base scientifica che giustifichi tali restrizioni, potrebbe generare un significativo malcontento e ridurre l’adesione alle norme, con effetti potenzialmente controproducenti.

Impatto delle regolazioni restrittive sul settore economico Horeca e turismo

Un regolamento restrittivo che impone divieti generalizzati e molto estesi, sia per gli spazi chiusi sia per quelli aperti, rischia di determinare impatti significativi sulle attività economiche e commerciali, in particolare nei settori Horeca (bar, ristoranti, caffetterie) e del turismo. Secondo i dati di un’indagine della Federazione Horeca europea, le restrizioni anti-fumo estese agli spazi aperti hanno provocato una riduzione del 15-20% del fatturato nei locali pubblici in alcune aree metropolitane. 

Inoltre, nel settore del turismo, studi condotti dall’Associazione Europea del Turismo (ETOA) mostrano che politiche restrittive possono dissuadere una significativa quota di visitatori, soprattutto quelli provenienti da paesi con normative meno rigide sul fumo. 

Questi effetti cumulati non solo minacciano la sopravvivenza di molte piccole e medie imprese, ma rischiano anche di compromettere la competitività economica delle città europee nel contesto internazionale.

Anomalie nel procedimento normativo

La revisione delle raccomandazioni del Consiglio ha sollevato anche delle perplessità procedurali. La Commissione Europea non ha condotto una valutazione d’impatto adeguata prima di proporre queste nuove misure. 

Considerando i significativi cambiamenti che il mercato del tabacco ha subito negli ultimi anni, è imprescindibile che le nuove normative siano accompagnate da una valutazione scientifica approfondita dei rischi associati a ciascun prodotto e da un’analisi dell’impatto economico di tali misure. 

Il fatto che queste valutazioni non siano state condotte è preoccupante e rischia di compromettere l’efficacia delle politiche proposte, introducendo incertezza per consumatori e imprese. Maggiori informazioni sulla procedura di valutazione d’impatto sono disponibili sul sito della Commissione Europea.

Inoltre, imporre divieti generalizzati senza una solida base scientifica potrebbe portare a conseguenze indesiderate, come un aumento della confusione tra i consumatori sui rischi relativi dei diversi prodotti. 

Questo tipo di incertezza può indurre i consumatori a credere che l’uso dei prodotti alternativi sia altrettanto dannoso quanto il fumo tradizionale, spingendoli, in ultima analisi, a tornare alle sigarette. 

In questo senso, un approccio basato sull’evidenza scientifica e su una valutazione approfondita degli impatti è essenziale per garantire che le politiche europee abbiano un effetto positivo sulla salute pubblica.

La revisione delle raccomandazioni sugli ambienti senza fumo rappresenta un passo importante nella direzione della tutela della salute pubblica e del benessere dei cittadini europei. 

Tuttavia, è necessario un approccio più equilibrato che riconosca il ruolo delle alternative meno dannose, consentendo ai fumatori di scegliere opzioni più sicure per ridurre il consumo di tabacco combustibile. 

È imperativo evitare provvedimenti normativi di natura liberticida che impongano divieti generalizzati e sproporzionati, compromettendo le libertà fondamentali dei cittadini e criminalizzando comportamenti che non pongono rischi significativi per la salute pubblica.

Senza una chiara differenziazione tra i prodotti e senza una valutazione adeguata dei rischi e degli impatti economici, il rischio è quello di vanificare anni di progressi nel campo della riduzione del danno.

Le politiche non devono limitare inutilmente le libertà personali, specialmente negli spazi aperti, dove i rischi di esposizione al fumo passivo sono notevolmente inferiori.

È essenziale che ogni misura regolatoria sia proporzionata, basata su prove scientifiche concrete e attenta a non incidere negativamente sulle libertà individuali dei cittadini europei.

Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. 

Scriveva così Pier Paolo Pasolini, sul Corriere della Sera del 14 novembre 1974, in un articolo intitolato “Cos’è questo golpe? Io so”.  Esattamente un anno dopo (2 novembre 1975), sarebbe stato brutalmente massacrato, in circostanze che nessuno è mai riuscito/ha mai voluto chiarire. 

La goccia e il vaso

Dato che parliamo di una delle intelligenze/coscienze più lucide e penetranti del Novecento, è chiaro che Pasolini sapeva perfettamente che, insieme a quell’articolo, firmava anche la propria condanna a morte. Intendiamoci: che la sua fosse una tra le voci più “scomode” e invise al Potere (la P maiuscola per indicare non questo o quel potere né questi o quei potenti ma la natura stessa del Potere: essenza, ragion d’essere e logiche che ne governano, universalmente, l’azione) gli era chiaro da ben prima di quel 14 novembre. 

Pasolini, dunque, sapeva di essere “al centro del mirino”. C’è sempre, però, una “goccia” che fa traboccare il proverbiale “vaso”. E non è affatto improbabile che, in questo caso, la goccia sia stata appunto quell’articolo.

Chi gliel’ha fatto fare?

Arriva sempre il momento nel quale il Potere dice “basta!” e tappa la bocca a colpi di martello al “Grillo parlante” di turno. La prima domanda, quindi, che questa vicenda suscita ha il sapore del cinismo andreottiano: “chi glielo ha fatto fare?”. Perché Pasolini decide di scrivere quell’articolo? È vero: è un intellettuale, una “coscienza critica” e il suo ruolo glielo impone. Come è vero che scrivere poesie, romanzi, saggi, sceneggiature, regie, drammi e articoli è il modo che l’uomo ha scelto per adempiere al meglio a tale ruolo. 

Essere o non essere

In certi contesti/momenti storici, però, le persone raggiungono quello che potremmo definire “punto di non ritorno”. Si ritrovano, cioè, sole di fronte a sé stesse. Devono decidere se fermarsi o andare avanti. Solo due cose sanno con certezza: fermarsi equivale a perdere la “guerra”; andare avanti equivale a perdere la vita. “Essere o non essere”: dilemma vitale. In tutti i sensi. Di gran lunga il più drammatico. Quello di fronte al quale nessuno vorrebbe trovarsi mai.

Fermarsi o andare avanti?

Le ragioni per fermarsi sono tante. Le conosciamo tutti, le comprendiamo tutti, le condividiamo tutti, le adottiamo tutti. La ragione per andare avanti, invece, è soltanto una: mettere la “causa” per la quale si combatte al di sopra della propria vita. Una scelta radicale che impone una decisione radicale.

La normalità non obbliga alla radicalità

Vorrei che, per un attimo, distogliessimo lo sguardo dalla persona che sta per compiere la sua scelta e lo rivolgessimo alla realtà che l’ha messa di fronte a tale scelta. Una cosa appare evidente: non può trattarsi di una realtà “normale”. La “normalità”, infatti, non obbliga mai alla radicalità. In tempi normali, a nessuno viene in mente di sacrificare la propria vita per una causa superiore. Semplicemente, perché non ce n’è alcun bisogno. 

Extremis morbis extrema remedia

Se ci vediamo costretti a “rimedi estremi”, dunque, significa che viviamo tempi “anormali”. Ci troviamo, cioè, di fronte a quei “mali estremi” che impongono, appunto, “estremi rimedi”. “Extremis morbis extrema remedia”, si diceva un tempo. Pasolini, dunque, sa che il male che ha di fronte (il tentativo di eliminare la democrazia e restaurare un qualche tipo di regime neo-fascista) è estremo e richiede cure estreme. Per questo, non smette di lanciare l’allarme né di puntare, pubblicamente, il dito contro coloro i quali considera responsabili di quella deriva.

Io so – scrive – i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.

Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”.

Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli”.

Il richiamo della coscienza

Pasolini ha scelto, dunque. Andrà avanti, nonostante sappia benissimo cosa lo attende. Decisione difficilissima e rarissima, comune allo sparuto drappello di quelle anime “nobili” che considerano ineludibile il richiamo della coscienza: magistrati, uomini delle Forze dell’ordine, giornalisti, docenti universitari, politici, sindacalisti, attivisti, sacerdoti, personalità di quella società che chiamiamo “civile” ma che, evidentemente, tanto civile non è. Soprattutto con loro.

Martiri della Democrazia

Pochissimi tra quelli che potremmo definire “martiri della Democrazia dei Costituenti” – Dalla Chiesa (‘82), Falcone (‘92) e Borsellino (‘92: i numeri in parentesi indicano l’anno della loro esecuzione), ad esempio – vengono ricordati solo in occasione di ricorrenze ufficiali. Ricordi retorici, formali, vuoti, finti.

La stragrande maggioranza, invece, giace ormai praticamente dimenticata. Penso a nomi come Scaglione (‘71), Ferlaino (‘75), Coco (‘76), Occorsio (‘76), Casalegno (‘77), Calvosa (‘78), Palma (‘78), Tartaglione (‘78), Alessandrini (‘79), Terranova (‘79), Ambrosoli (‘79), Giuliano (‘79), Rossa (’79), Bachelet (‘80), Minervini (‘80), Giacumbi (‘80), Galli (‘80), Amato (‘80), Costa (‘80), Tobagi (‘80), Caccia (‘83), Chinnici (‘83), Fava (‘84), Tarantelli (‘85), Cassarà (’85), Siani (‘85), Conti (‘86), Rostagno (‘88), Ruffilli (‘88), Saetta (‘88), Giacomelli (‘88), Livatino (’90), Scopelliti (‘91), Puglisi (‘93), Diana (‘94), D’Antona (‘99), Biagi (2002). Ma la lista, purtroppo, è decisamente più lunga di così. 

Diciamoci la verità: di quanti di questi nomi sapremmo dire chi erano e perché furono giustiziati?

Cui prodest?

Tre domande:

  • come mai – fatta eccezione per le chirurgiche esecuzioni di D’Antona e Biagi – stragi e omicidi terroristico-mafiosi si fermano al 1994? 
  • Lo Stato aveva sconfitto criminalità organizzata e terrorismo o era sceso a patti con essi? Gli “indicibili accordi” tra Stato e Mafia ci furono davvero? 

Ha ragione la Cassazione (27 aprile 2023), che ha assolto “gli imputati del reato di minaccia a un corpo politico dello Stato, per alcuni avendo rilevato la loro estraneità ai fatti e per altri avendo dichiarato prescritto il reato”, dopo derubricato da reato consumato a reato tentato? Oppure ha ragione Nino Di Matteo (Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo) a sostenere (“Il colpo di spugna”, Fuori Scena, gennaio 2024): “Forse doveva andare così […] le istituzioni tutte dovevano sgomberare il campo da nubi così nere. Non potevano consentire che, in una sentenza definitiva (per quanto assolutoria) venissero consacrati, nero su bianco, rapporti di dialogo e scambio con il nemico dichiarato. Molto meglio, molto più rassicurante per il Paese, ricondurre a congetture fatti e rapporti così scabrosi”.

  • La “lotta armata” (prima fase del progetto eversivo che mirava alla sdemocratizzazione del nostro Paese) aveva esaurito il proprio compito ed era, quindi, giunto il momento di avviare la fase due: una via “non-violenta” alla restaurazione anti-democratica?

Eversione: dalla fase “hard” a quella “soft”

Personalmente, propendo per quest’ultima ipotesi: la “fase soft” subentra alla “fase hard” (della quale credo abbiano fatto parte anche gli “indicibili accordi” tra Stato e Mafia) nel momento nel quale quest’ultima esaurisce il proprio mandato. Non è certo un caso, infatti, se – nell’ultimo trentennio – partendo dalla damnatio memoriae del sistema dei partiti (cuore della democrazia rappresentativa voluta dai Costituenti), il tasso effettivo di democraticità della nostra democrazia è stato ridotto praticamente al lumicino. 

Sputtanare è meglio che ammazzare

Del resto, corrompere e sputtanare la classe politica è infinitamente più facile e pratico che eliminarla fisicamente. E, soprattutto, non presenta controindicazioni. Anzi: mette d’accordo tutti. Il pugno di ferro della lotta armata non aveva ottenuto gli effetti sperati. La reazione, infatti, non aveva prodotto la restaurazione autoritaria. Partiti, sindacati, lavoratori, studenti, professionisti, gente comune – in due parole: società e opinione pubblica – avevano rifiutato la brutalità di stragi e omicidi e fatto quadrato intorno ai valori costituenti e alla parte sana delle Istituzioni. Gli strateghi dell’eversione si rendono, quindi, conto che si impone un cambio di passo.

Riforme reazionarie

E, così – dai primi anni Novanta – il progetto eversivo viene portato avanti non più a colpi di armi da fuoco ma di riforme. Riforme “reazionarie”, dipinte come innocue e spacciate per “progressiste” e migliorative. Poco importa se non sempre “nuovo” è sinonimo di “migliore”. La voglia di cambiamento è talmente forte, che l’opinione pubblica non si accorge del fatto che le cose stanno prendendo una piega pericolosa. E, forse, nemmeno le interessa. Come si dice: “tanto peggio, tanto meglio”.

Verso l’autoritarismo invisibile

Partendo da bipolarismo, maggioritarismo ed esecutivismo, e passando per monocameralismo, presidenzialismo e/o premierato, la “fase soft” punta a instaurare una nuova forma di autoritarismo: un autoritarismo invisibile, mascherato da democrazia. L’obiettivo è sbarazzarsi della democrazia, senza darlo a vedere. Passare, cioè, surrettiziamente, da una democrazia reale a una democrazia apparente. E, quindi, a una non-democrazia.

La democrazia somiglia all’oro

Il fatto è che la democrazia non è come il silenzio, che c’è o non c’è. Somiglia, semmai, all’oro. Il suo valore, cioè, dipende dal suo grado di “purezza”. Un conto, infatti, è vivere in una “democrazia a 24 carati” – pura al 99,9% – tutt’altro conto è vivere in democrazie a 18k (75% di purezza), 14k (58,3%), 10k (41,7%), 9k (37,5%) o meno, quando la percentuale di oro è talmente bassa che non si può più parlare di oro ma ci si trova di fronte a una lega di metalli, priva di valore. 

Democrazia patacca

Ed è, esattamente, verso una “democrazia patacca” – placcata oro a 9 carati – che il Potere sta trascinando la democrazia italiana. E, sebbene tutti sostengano di sapere benissimo che “non è tutto oro quel che luccica”, in realtà fanno tutti finta di ignorarlo. Evidentemente, molto più della verità, possono il bisogno/la convenienza di credere a certe bugie e/o la paura di guardare in faccia la realtà. E, così, ci ritroviamo ormai a un passo dal raggiungimento degli obiettivi di quella “serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere” di cui parlava Pasolini.

Anime spregiudicate

A proposito di quella stagione, ho sempre pensato che – al di là delle molte, significative, differenze – Moro e Pasolini fossero anime molto più affini di quanto non sembrasse. Se non altro, dal punto di vista della fedeltà al mandato della coscienza. E credo che entrambi abbiano pagato con la vita la loro “spregiudicatezza”. Spregiudicatezza intesa, ovviamente, come disponibilità ad affrontare qualunque rischio pur di non venir meno al proprio dover essere. 

È vero: molto probabilmente, l’aggettivo “spregiudicato” non è mai stato utilizzato per definire la personalità di Moro. Eppure, credo che spregiudicato egli lo sia stato davvero. Una spregiudicatezza forse alimentata dalla forza della sua fede. Se Pasolini ha pagato la spregiudicatezza di una voce troppo libera, credo che Moro abbia pagato quella di una visione troppo libera della politica. Visione che il Potere giudicò intollerabile e inaccettabile per il mondo di allora. E che giudicherebbe ancor più intollerabile e inaccettabile per quello di oggi. 

Il crooner e l’urlatore

Entrambi vedevano e stigmatizzavano il presente con lucidità unica. E, con quella stessa lucidità, profetizzavano il futuro. Futuro che, non a caso, preoccupava tanto l’ateo quanto il credente. Preoccupazioni molto più che fondate, a giudicare dal presente che stiamo vivendo. 

Entrambi, inoltre, vivevano, con autenticità, la loro dimensione spirituale, possedevano una profonda conoscenza sia dell’animo umano che dell’in sé della politica e condividevano valori quali dialogo, confronto, solidarietà, giustizia sociale, libertà, pace.

La differenza, se c’era, era nel diverso modo di modulare la voce. Per usare una metafora musicale, si potrebbe dire che Pasolini fosse un “urlatore”, mentre Moro, un “crooner”. Il primo “gridava”, il secondo sussurrava; il primo “scomponeva”, il secondo “componeva”. 

Due outsider

Entrambi, però, erano outsider. Pasolini fuori e Moro dentro l’Establishment, è vero. Eppure, ugualmente outsider. E, in quanto tali, ingovernabili. Fu questo loro rimanere fedeli alla natura di outsider che, prima, li precipitò nell’isolamento e nella solitudine intellettuale e, poi, portò alla loro condanna a morte. E, così, un “poeta” e un politico tra i più grandi del secondo Novecento, si ritrovarono fianco a fianco sul Golgota, accomunati dal medesimo, tragico, destino.

I buoni? Sono quelli che vengono ammazzati

Due ingenui? Forse, se vogliamo utilizzare il dispregiativo con il quale il Potere definisce le anime sulle quali non può nulla. Le uniche delle quali abbia davvero paura. Come sappiamo che ne ha paura? Semplice: ce lo dice il fatto che le fa eliminare. Nessuno sprecherebbe nemmeno una pallottola per qualcuno che non gli crea alcun problema! In tema di Potere, dunque, non è poi così difficile distinguere i “buoni” dai “cattivi”. Di solito, infatti, i “buoni” sono quelli che vengono ammazzati.

Anche Moro sapeva

Gli omicidi Pasolini e Moro rappresentano due passaggi decisivi del processo di sdemocratizzazione del nostro Paese. Il secondo, in particolare, non fu – come i media lo definirono – un “attacco al cuore dello Stato”. Per genesi, obiettivi, modalità di attuazione e conseguenze, fu un vero e proprio colpo di Stato.

Come Pasolini, anche Moro sapeva. Due mesi prima dell’uscita dell’articolo di Pasolini sul Corriere, Moro – Ministro degli Esteri – è in visita ufficiale negli Stati Uniti. Nel corso di un incontro bilaterale, Henry Kissinger (all’epoca Segretario di Stato ma anche Responsabile della Sicurezza Nazionale USA) è particolarmente esplicito nel chiedere a Moro di abbandonare la politica del cosiddetto “compromesso storico”, vale a dire la partecipazione del Partito Comunista al governo del Paese. (Ricordo che, alle Politiche del 1976, il PCI aveva ottenuto quello che sarebbe rimasto il migliore risultato della sua storia: 12,6 milioni di voti, il 34,37% del totale. Alle stesse elezioni, la DC aveva ottenuto 14,2 milioni di voti: il 38,7% del totale. Le due forze, insieme, quindi rappresentavano ben il 73,1% dell’elettorato italiano).

Kissinger vs Moro

In una testimonianza giurata in sede processuale, il portavoce di Moro sostenne che Kissinger apostrofò con estrema durezza il Presidente DC: “Lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. O lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere”. 

Pare che, uscito da quell’incontro, Moro si sia rifugiato nella cattedrale di San Patrizio, fortemente turbato. Ebbe un malore e decise di anticipare il suo rientro in Italia. Una volta rientrato, disse al suo portavoce che intendeva “abbandonare per almeno due anni, la politica attiva”: “cominci a far circolare nei giornali la notizia”. Poi, però, cambiò idea. Avrebbe bevuto l’amaro calice. “Non credi che io sappia che posso fare la fine di Kennedy”, avrebbe confessato a una sua allieva dell’Università.

Impossibile stabilire se le minacce del Segretario di Stato USA siano state davvero così esplicite e pesanti. Kissinger ha sempre smentito di aver pronunciato quelle parole. Importa poco. Se non vere, sono senza dubbio verosimili. Del resto, per gli USA, la possibilità che il più grande Partito Comunista europeo (per come la vedeva Washington, 1 italiano su 3 era comunista: parola impronunciabile oltreoceano) entrasse nell’area di governo del nostro Paese era, semplicemente, inconcepibile. 

L’impotenza della politica

L’ho scritto decine di volte ma mi vedo costretto a ripeterlo ancora. Forse perché – al pari di ogni verità contro-intuitiva – è difficile da credere: la politica non detiene il Potere. È il Potere che detiene la politica

Se non credete alle mie, credete almeno alle parole di Moro, che di politica certo se ne intendeva. Ecco cosa dice il 24 ottobre 1965, rispondendo a Eugenio Scalfari che lo intervista per l’Espresso: «La gente pensa che noi abbiamo un’autorità immensa, che possiamo fare e disfare tutto, e per di più impunemente. Una parola del presidente del Consiglio, una firma d’un ministro e tutto è risolto, qualunque affare lecito o illecito può diventare una realtà. Come se noi disponessimo d’una bacchetta magica e potessimo usarla come ci pare. Questo pensa la gente. E invece non è vero niente. Lei m’ha chiesto prima cosa penso della crisi dello Stato. Ecco cosa penso: che il potere esecutivo, o meglio la classe politica che è al vertice del potere esecutivo, ha limitate possibilità d’intervento e di comando». Limitate possibilità d’intervento e di comando: cerchiamo di non dimenticarlo.

Via Fani: epilogo non avvio 

Solo uno sprovveduto, dunque, può pensare che una personalità dell’intelligenza – non solo politica – di Moro non avesse capito che la sua condanna a morte era stata pronunciata molto prima dell’agguato di Via Fani. Via Fani è l’ultimo, non il primo atto di quel progetto: l’epilogo, non l’avvio. 

Una volta visto il “dietro le quinte” del progetto eversivo, Moro non poteva più avere alcun dubbio riguardo a con chi avesse a che fare e quale fosse il disegno complessivo. Se Pasolini conosceva i nomi dei “golpisti”, infatti, più e meglio di lui li conosceva Moro. E, al contrario di Pasolini, molti di quei nomi, li aveva probabilmente conosciuti anche di persona. Come Pasolini, dunque, Moro sapeva. E, come per Pasolini, il suo sapere e non tirarsi indietro è il motivo stesso della sua morte.

Conclusioni

Perché questa lunga riflessione?

Per la speranza che almeno tre cose, a mio avviso fondamentali, risultino il più possibile chiare:

  1. Nulla – negli ambiti nei quali opera il Potere – avviene per caso. Nulla.

  1. Tutto è collegato“fatti anche lontani”, “pezzi disorganizzati e frammentari” – e governato da una logica rigorosa, anche “là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. Se non la vediamo, non è perché tale logica non esiste ma perché non siamo capaci di vederla.

  1. Arbitrarietà, follia, mistero, attentati, stragi, delitti, insabbiamenti, depistaggi, disinformazione, propaganda, bugie, fake news, “panem et circenses” sono le armi di distrazione di massa con le quali il Potere – come il più grande di tutti gli illusionisti – ci fa vedere una realtà irreale, per impedirci di vedere quella reale, il cui destino deve dipendere, esclusivamente, dalla sua volontà.

Cosa possiamo fare? Non molto, in verità, se non provare a “immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace”, a mettere “insieme i pezzi disorganizzati e frammentari” della realtà, e a ristabilire “la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. 

Facile? Tutt’altro. Indispensabile, però, se desideriamo cercare di scoprire la differenza che c’è tra vivere e sopravvivere. 

Uniamo i puntini, dunque. E forse, come nel celebre gioco de “La Settimana Enigmistica”, riusciremo a scoprire qual è il vero volto della realtà nella quale viviamo. Forse.

Lotta, un termine antico che richiama il combattimento. Ma in senso più lato richiama la lotta per la sopravvivenza, per il riconoscimento, per la verità. C’e’ anche filosoficamente una lotta amorosa. Ma procediamo per gradi. Fin dalle origini la specie umana ha dovuto lottare per la sopravvivenza. Il Sapiens sapiens, a cui apparteniamo, è quello che è meglio riuscito nell’adattamento, ma già dalle prime comunità umane fino alle moderne società si sono presentati conflitti tra tribù, gruppi e classi sociali, rappresentati dal concetto marxista di lotta di classe, oggi ormai non più in voga. Occorre anche ricordare le guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa per secoli e che tuttora continuano a seminare odio e terrore nel mondo, spesso al servizio di interessi politico-economici.

Nel mondo globalizzato assistiamo a disparità più o meno evidenti in tutto il pianeta, che si stanno sempre più accentuando con il procedere dello smantellamento degli stati sociali e dei sistemi di welfare. Seppur nel mondo l’Europa ha una maggior capacità redistributiva, l’Italia e’ quella che ha l’indice di Gini più alto (indicatore che misura le diseguaglianze: più è basso e più ci si avvicina ad una situazione di uguaglianza) del Vecchio Continente. Siamo comunque in una situazione di concentrazione delle ricchezze in mano di pochi, pari a quella di un secolo fa.

La lotta per ridurre le diseguaglianze e’ sicuramente una priorità a livello mondiale anche se i segnali non vanno purtroppo in tal senso. Sembra che gli egoismi continuino a dominare anzi, si stiano maggiormente diffondendo e radicando nei popoli stessi.

C’e’ poi, la lotta per il riconoscimento, su cui non mi vorrei dilungare perché è stato il tema di un nostro recente numero di Condi-Visioni (gennaio-febbraio 2024).

 Il riconoscimento e’ un concetto trattato in molte discipline, tra cui la sociologia, la psicologia e la filosofia. Oltre alla hegeliana lotta per la vita e la morte tra auto-coscienze, culminante nella dialettica servo-padrone, vorrei solo ricordare la “Lotta per il riconoscimento” di Axel Honneth, eminente sociologo e filosofo erede della scuola di Francoforte, come grammatica dei conflitti sociali e processo storico continuo di ricerca dei diritti dovuti alle esclusioni, alle violenze e alle umiliazioni.

Venendo alla lotta per la Verità, possiamo dire che la filosofia è ricerca stessa della verità, anche se questo è un concetto limite, irraggiungibile. In termini pratici, in un mondo dominato dalle fake news, dalle echo chambers dei social, dai negazionismi e dai complottismi, la lotta per la ricerca della verità è una questione quanto mai attuale e urgente. Si pensi ad esempio alle vicende no vax, alle più recenti discussioni sui cambiamenti climatici o alle verità sui genocidi. Andando in tempi meno recenti, alle stragi attuate durante la strategia della tensione in Italia, che ancora attendono risposte. In questi giorni è scomparsa Licia Pinelli, moglie del partigiano, ferroviere, anarchico Pino, morto nel dicembre del 1969 per una “caduta” da una finestra della Questura di Milano; ella ha sempre lottato per la verità nella Notte della Repubblica. Ci sono tantissimi altri casi grandi e piccoli che qui vorrei citare, come quello di Pietro Orlandi, che lotta per la verità sulla scomparsa della sorella Emanuela avvenuta ormai nel lontano 1983, ma la lista sarebbe lunghissima.

 Voglio solo evidenziare, reduce da un recente viaggio in Argentina, che le madri di Plaza de Mayo a Buenos Aires, costituitesi in Associazione, marciano ininterrottamente da oltre 40 anni, tutti i giovedì di ogni settimana, chiedendo verità per i desaparecidos della dittatura che governò l’Argentina dal colpo di stato del 1976 fino al passaggio a un governo eletto dai cittadini nel 1983.  Un esempio di lotta tenace e indefessa.

Per lasciarci con un messaggio di speranza, c’è anche quella che il grande psicopatologo e filosofo Karl Jaspers chiama lotta amorosa. E’ nella genuina comunicazione tra esistenze che avviene quella ricerca vera di intesa reciproca e comprensione comune che dovrebbe essere la dimensione non di un ingenuo e scontato stare in comunità ma di una dimensione che ci veda tutti impegnati in questa lotta della comunicazione dove trovano spazio la fiducia e  la solidaristica umana, con l’esclusione di qualsiasi forma di potere: la lotta amorosa.