Archive for the
‘I Numeri’ Category

Immaginate un’epoca in cui l’apparenza sia tutto, dove ogni dettaglio della vita quotidiana venga curato in modo maniacale per mantenere una facciata perfetta.
Questo era il mondo nella Londra dell’età vittoriana.
Nessuna attenzione a quelli che fossero i problemi personali o i comportamenti certamente poco nobili e poco “morali” dei cittadini, ma tantissima agli abiti che indossavano, alle cure che avevano per il “manico dell’ombrello” e il modo “affettato” del parlare. Una grande rigidità sociale, non solo poi nei costumi, ma anche nella mobilità sociale perché certamente solamente i nobili e i ricchi potevano permettersi il mantenimento di quello “standard” di vita, di spesa. Le famiglie non in grado di “stare al passo” potevano essere emarginate o, per evitarlo o prevenirlo, potevano migrare nel nuovo mondo cercando di “scambiare” nobiltà con ricchezza.

Immaginate i dandy del XIX secolo, che si distinguevano per il loro stile raffinato e la loro vita elegante, per il cilindro teso e brillante, la barba ben curata, immaginatevi su quei dagherrotipi le parole di Oscar Wilde: i suoi aforismi a sottolineare quel mondo “strano”, dove la “corruzione del corpo” andava avanti senza scalfire l’immagine esteriore proprio come ne “il Ritratto di Dorian Grey”.

Immaginato?

Ora scorrete i reel su Instagram o su TikTok: spiagge immacolate, città pittoresche e paesaggi mozzafiato, sorrisi, situazioni buffe, balletti che vedono ragazzi e ragazze che sono diventate “celebrità” secondo quella legge che Andy Warhol aveva enunciato quasi 60 anni fa.
Queste immagini creano l’illusione di una vita perfetta e di destinazioni da sogno. Tuttavia, la realtà è spesso molto diversa.
Quello che non vediamo in quei tramonti, in quegli orizzonti, sono le folle di turisti, il traffico, il rumore, e talvolta persino le condizioni climatiche avverse. I luoghi presentati sui social media sono il risultato di una cura meticolosa della scena, di filtri e di angolazioni studiate per mostrare solo il meglio.
Quello che non vediamo in quei balletti “improvvisati” su una base “virale” di 20 secondi, sono le prove, le coreografie provate fin nel dettaglio più insignificante.

Molti sentono l’impulso di visitare gli stessi luoghi, sperando di replicare le esperienze viste online. Tuttavia, quando arrivano, spesso trovano una realtà che non corrisponde alle loro aspettative. Questo disallineamento tra realtà e rappresentazione può portare a delusioni e a una continua ricerca di quel momento perfetto che esiste solo nelle foto filtrate, solo nei balletti di TikTok provati e riprovati minuziosamente.

Così come quelle gonne ampissime e gli abiti pieni di merletti come una cattedrale barocca era piena di stucchi, i sorrisi sono il frutto di un nuovo Dandismo dove, anziché salotti e giardini ben curati, il palcoscenico è il mondo digitale e i social network. Scenari dove la realtà viene rappresentata in modo spesso distorto.

Prima di avviarci verso una spiaggia deserta, prima di pensare di calpestare una sabbia bianchissima o di fare tuffi in acque cristalline, pensiamo a dove vorremmo davvero essere, a cosa vorremmo davvero, per spezzare questa catena di illusioni perfette.

La bellezza risiede anche nelle imperfezioni perché ogni esperienza, reale e non filtrata, ha il suo valore unico.

Buone vacanze a tutti.

Ah…..scattate foto bellissime!

Il Cinema è la “Settima Arte” ed è quella che più delle altre usa l’Apparenza come sistema di comunicazione con il proprio pubblico. Certo anche i giochi dei bambini a volte iniziano con un “Facciamo finta che…”, e nel Teatro l’attore con il volto truccato pesantemente può essere l’Otello di Shakespeare o un samurai nel teatro kabuki, ma si svolge in uno spazio definito. Il Cinema riesce infatti ad unire “l’estensione dello spazio e la dimensione del tempo” (come scrisse Canudo nel 1921, nel manifesto “La nascita della settima arte”).

Così ho pensato di fare un elenco di 10 film che hanno proprio “L’Apparenza” come tema centrale.

  1. American Beauty (1999) – Le vite apparentemente perfette di una famiglia suburbana e le realtà nascoste dietro la facciata.
  2. The Great Gatsby (2013) – Dal romanzo di F. Scott Fitzgerald, si mette in luce la vita lussuosa e le illusioni del protagonista Jay Gatsby.
  3. Gone Girl (2014) – Le apparenze, le illusioni (e le menzogne) che ruotano attorno alla scomparsa di Amy Dunne.
  4. The Truman Show (1998) – La vita di Truman Burbank è semplicemente perfetta…finché non scopre che in realtà è un reality show orchestrato.
  5. Black Swan (2010) – Il film segue la discesa nella follia di una ballerina, esplorando la dualità e le apparenze nel mondo della danza.
  6. Shutter Island (2010) – Un thriller psicologico che esplora la percezione della realtà e le apparenze ingannevoli in un ospedale psichiatrico.
  7. The Talented Mr. Ripley (1999) – Il film segue un uomo che assume diverse identità per vivere una vita di lusso, esplorando l’inganno e la manipolazione.
  8. The Stepford Wives (2004) – Una commedia nera (di Frank Oz) che racconta di un gruppo di donne che sembrano perfette ma nascondono un oscuro segreto.
  9. The Prestige (2006) – La rivalità tra due maghi e le apparenze ingannevoli delle loro illusioni, raccontato con la maestria di Christopher Nolan.
  10. Fight Club (1999) – Un film che mette in discussione l’identità e l’apparenza, rivelando la vera natura dei personaggi principali. Da seguire fino alla fine, assolutamente.

Ma nel Cinema dedicato all’Apparenza, non può assolutamente mancare il mio film preferito:

Vertigo (1958) – Un thriller psicologico di Alfred Hitchcock che esplora l’inganno e le apparenze attraverso il personaggio di Scottie e la sua ossessione per una donna.

In quest’estate calda e torrida, proponiamo questa bella poesia di Umberto Saba, “Meriggio d’estate”, tratta dalla sua opera Il Canzoniere (1921), che ci richiama alla natura, alla pace e all’armonia ma, al contempo, ci riporta alle gravi problematiche dei cambiamenti climatici in corso.

Silenzio! Hanno chiuso le verdi
persiane delle case.
Non vogliono essere invase.
Troppe le fiamme
della tua gloria, o sole!
Bisbigliano appena
gli uccelli, poi tacciono, vinti
dal sonno. Sembrano estinti
gli uomini, tanto è ora pace
e silenzio… Quand’ecco da tutti
gli alberi un suono s’accorda,
un sibilo lungo che assorda,
che solo è così: le cicale.

Niente è come sembra, niente è come appare, perché niente è reale, così recita una famosa canzone di Franco Battiato. Cosa sia la realtà è un problema, forse il più antico, su cui i filosofi, tra realisti e anti-realisti, si arrovellano da oltre 2.500 anni. 

Sicuramente, dopo le rivoluzioni scientifiche del Seicento è prevalsa la visione scientista che ha portato ad una visione del mondo calcolante ed utilitaristica che vede l’uomo signore e padrone del mondo e la natura come un grande fondo da sfruttare. 

Qua nessuno è antiscientista e si riconoscono i grandi benefici apportati dalla ricerca scientifica all’umanità. Il problema è che non possiamo vedere il mondo solo con questa lente, quella dello sguardo scientifico. L’essere si dice in molti modi, la realtà non è unitaria e non si può pretendere di spiegarla nel solo modo scientifico.

Mi è capitato recentemente di imbattermi su un testo che parla della “brocca” (La questione della brocca, a cura di Andrea Pinotti. Mimesis, Milano 2007) che contiene saggi di diversi filosofi su questo oggetto. E’ interessante vedere come un normale oggetto quotidiano, il cui uso diamo per scontato, possa in realtà avere una sua “verita’” al di là della correttezza offerta dalla scienza fisica di un contenitore di liquidi, un sua “cosalità” che, oltre a un senso estetico può richiamare il suo apparire come portatrice di un dono. A riguardo, Heidegger, con un pensiero poetante, ci parla addirittura della “quadratura” che nel dono da versare o offrire, unisce cielo e terra, mortali e divini. 

Insomma, si possono guardare le cose in un altro modo e il mondo può essere visto con occhi diversi.

Questo ci porta direttamente al tema dell’apparenza che è la percezione sensibile di un fenomeno nella sua contrapposizione a una realtà e presunta verità. Ovviamente la nostra esperienza ci dice che c’è una realtà fuori di noi, di cui ovviamente siamo parte, ma autoevidente alla nostra coscienza, che è il mondo della vita quotidiana. Questo mondo, che ci è dato, secondo la tesi dei sociologi Berger e Luckmann, è costruito socialmente, frutto della cultura: la realtà come costruzione sociale.

Ovviamente con l’accelerazione della tecnica e l’avvento dei social network, questa costruzione sociale si è ulteriormente artificializzata e resa ancor più manipolabile, basandosi su processi di auto-socializzazione sempre più individualizzanti ed anomici, con una situazione che è sotto gli occhi di tutti. 

Anche le relazioni sono diventate virtuali e apparenti. Proprio l’altro giorno una persona si lamentava del fatto che il suo vicino di casa non gli avesse dato l’”amicizia” su Facebook, come se il “mezzo” o, meglio l’apparenza, fosse più importante della relazione quotidiana di chi ti vive nella porta accanto. Il che è emblematico della situazione che stiamo vivendo: ormai l’apparenza vale più della sostanza. Anche in Politica, la rappresentazione ha sostituito la rappresentanza.

Siamo oltre il problema filosofico, siamo alla mistificazione e alla mercé di chi vuole governare il consenso e, di chi è sottomesso, affidandosi o facendosi assorbire da queste false sirene. 

Per non parlare degli scenari che si aprono con l’Intelligenza Artificiale dove l’irrealtà rischia di diventare la realtà. Ci sarebbe così la chiusura del cerchio e la domanda sulla realtà diventa inutile.

Come per la brocca, c’è necessità di uno sguardo diverso, non dando per scontata la realtà che ci circonda ed avvolge. 

Insomma, problematizzare la quotidianità e superare l’ovvio con fantasia e senso critico, esattamente quello che ci siamo posti con Condi-visioni, che non a caso richiama i due termini di “condivisione” e “visioni”, uno sguardo plurale e critico sulla realtà che vorrebbe dare un seppur piccolo contributo alla riflessione.Chiudo sempre con Battiato, augurandovi una buona estate, On a solitary beach, magari in compagnia di un brocca con una buona e fresca bevanda di acqua, limone e menta, dissentante e disintossicante dalle apparenze della vita quotidiana  (probabilmente la reminescenza irriflessa a cui ho ceduto, di un vecchio slogan pubblicitario che recitava contro il logorio della vita moderna…).

Poniamo il caso che una mattina al risveglio, guardandovi allo specchio come tutte le altre mattine scopriste che il naso, quello che avete sempre pensato fosse perfettamente dritto, in realtà sia storto.
E no, non è uno scherzo del vostro specchio.
Questo potrebbe essere l’inizio di un’avventura surreale nel mondo delle apparenze, esattamente come accadde a Vitangelo Moscarda. Non che sia un cambiamento enorme come quello accaduto a Gregor Samsa di Kafka, che si risvegliò tramutato in scarafaggio, ma è una storia che vale la pena raccontare.
Vitangelo, affettuosamente detto Gengè, è il protagonista di “Uno, nessuno e centomila” di Luigi Pirandello.
Gengè vive una vita tranquilla finché un giorno sua moglie gli fa notare che il suo naso pende leggermente a destra. Questo piccolo commento innesca una crisi esistenziale. Gengè si rende conto che la percezione che ha di sé non corrisponde a quella degli altri. Se il suo naso, un elemento così evidente del suo volto, appare diverso agli occhi altrui, cos’altro potrebbe essere differente?

Bella domanda!

Gengè si rende conto di essere “uno” nella sua mente, “nessuno” perché la sua identità vera sfugge persino a lui, e “centomila” perché esiste in centomila modi diversi agli occhi di chi lo conosce. Ogni persona vede in lui una versione diversa, influenzata dalle proprie esperienze, pregiudizi e aspettative.

In effetti…quante volte vi siete trovati a comportarvi in modo diverso in base a chi avevate davanti? Con gli amici siamo spensierati e forse un po’ pazzi, al lavoro professionali e misurati, con la famiglia affettuosi e comprensivi. Questi “ruoli” che assumiamo sono come maschere che indossiamo per adattarci alle situazioni e alle aspettative altrui.

Nel mondo moderno, l’apparenza ha trovato poi un palcoscenico grandioso nei social media. Instagram, Facebook, o TikTok sono piattaforme dove condividiamo istanti perfettamente curati della nostra vita. Queste immagini e video, spesso filtrati e modificati, creano una versione idealizzata di noi stessi. È un po’ come se ciascuno di noi fosse il protagonista di una propria rappresentazione pirandelliana, in cui mostrare il lato migliore (o più divertente, o più drammatico).

Ma quanto ci avviciniamo alla nostra vera essenza quando siamo così presi nel costruire queste apparenze?
Vitangelo Moscarda, nel suo viaggio di scoperta, cerca disperatamente di liberarsi dalle immagini che gli altri hanno di lui. Vuole trovare il “vero” Gengè, nascosto sotto strati di percezioni e aspettative.
Un lavoro immane, ma forse può essere sufficiente essere consapevoli delle nostre “maschere” per cercare di capire chi siamo veramente, al di là di come gli altri ci vedono.

Io non so. 
Ed invidio chi sa.
Invidio chiunque abbia le risposte a tutto e a tutti, invidio chi sa esprimere un concetto, che davanti ai miei occhi appare imponderabile. Invidio chi sa armeggiare con destrezza parole e gestualità, chi sa attirare la tua attenzione, chi ti mostra sicurezza e capacità.

Invidio, sì.
Ma diffido, anche.
Diffido delle certezze e delle convinzioni, del pensiero che tende ad uniformarsi, delle prese di posizione, delle chiusure al dialogo, dell’ostruzionismo ad ogni confronto.
Probabilmente, questi, sono i giorni più difficili della nostra storia.
Ed in questo caos di incursioni che scaraventano le nostre menti e i nostri cuori, ci crocifiggiamo per la quasi impossibilità di riconoscere il falso dal vero, la sostanza dalla forma, l’apparenza dalla realtà.

(Immagine dal Web)

Siamo ormai, tutti, abituati ad indossare maschere, più o meno spontanee, più o meno costruite, più o meno necessarie alla fortificazione della nostra corazza, nel migliore dei casi, o alla volontà di costruire un inganno, nel peggiore dei casi.
E l’amore dov’è in tutto ciò? Dov’è il rispetto verso se stessi, verso la propria natura, verso il proprio essere?

Ho nostalgia di restare me stesso… Ho nostalgia di quei silenzi notturni, di quei fili di luci che filtravano da una serranda, ed io ci giocavo con le dita. Immaginando.

Ho nostalgia di quella quotidianità dipinta di naturalezza.

Dell’edicola e del profumo dei giornali.

Delle insegne che invitavano a sapori genuini.  

***

C’è di vero che non è vero niente
e non so perché mi affanno inutilmente
a cercare la ragione, se ragione in questo mondo non ce n’è…

(“Cosa c’è di vero”, Eduardo De Crescenzo, 1987)

Con l’esplosione dei mass media, e ancor più con i social networks ci ritroviamo a riflettere sulla questione dell’apparenza, su come la comunicazione venga strumentalizzata, le immagini ci mostrino realtà patinate, edulcorate o crude, ma sempre rappresentazioni parziali dell’intero, che formano un pensiero, un concetto, che a sua volta forma quello che siamo e come percepiamo e come ci rapportiamo a ciò che ci circonda. Questioni molto attuali viene da pensare, beh ma erano attuali, in un certo senso, anche nel V secolo a.C. per un signore di nome Platone, che nel libro VII della “Repubblica” ci introduce al Mito della Caverna, una potente allegoria sulla condizione umana e la conoscenza, ma anche di come l’apparenza delle cose a volte possa allontanarci da questa.

Platone descrive alcuni prigionieri incatenati fin dalla nascita in una caverna, costretti a guardare solo le ombre degli oggetti che si trovano alle loro spalle, ombre proiettate da un fuoco sulla parete che hanno difronte. Gli schiavi conoscono le ombre come unica realtà, perché non hanno mai potuto vedere gli oggetti che le generano. Un giorno, uno dei prigionieri riesce a liberarsi, scopre la fonte delle ombre e scappa via dalla caverna. Inizialmente è accecato dalla luce, ma gradualmente si abitua e realizza che il mondo esterno è molto più complesso rispetto alle ombre e così cambia anche la sua percezione del reale. Torna nella caverna per liberare gli altri, ma viene deriso, osteggiato, e infine ucciso, poiché gli altri prigionieri non riescono a cogliere una realtà diversa da quella delle ombre, né sentono il dovere di affrontare le difficoltà descritte per vedere la realtà nella sua interezza. Le ombre sono la loro realtà.

Il mito illustra il percorso dall’ignoranza alla conoscenza e la difficoltà di accettare nuove verità. Platone usa questa allegoria per spiegare la teoria delle idee e la distinzione tra il mondo sensibile e il mondo delle forme intelligibili.

Egli, dunque, ritiene che le apparenze (doxa) siano ingannevoli e che mascherino la vera natura delle Idee. Secondo lui, ciò che vediamo nel mondo sensibile è solo un’ombra della realtà perfetta e immutabile delle Idee a cui dovremmo tendere. Ma ve lo immaginate il suo disappunto difronte alle fake news o alle manipolazioni delle immagini o delle notizie? Forse, se il suo pensiero si fosse mai spinto fino ai giorni nostri, questo pensiero ci avrebbe voluti un po’ meno schiavi e un po’ meno ancorati alle mere proiezioni. E invece, mio caro Platone, siamo ancora nella caverna, però la caverna ora è ben arredata, abbiamo tanti magnifici schermi in cui creiamo volutamente delle ombre, ombre in 4k, ombre con risoluzioni magnifiche e alle quali associamo hashtag. Potremmo dire che c’è poco da opporsi alla natura umana.

Concordiamo tutti che l’apparenza gioca un ruolo cruciale nella comunicazione, influenzando percezioni, giudizi e interazioni. Naturalmente sono diversi i filosofi e i teorici che si sono spesi per affrontare il tema dell’apparenza e del giudizio. Un grande fil rouge interpretato a seconda della sensibilità intellettuale di ognuno.

Immanuel Kant ci parla di Fenomeni e Noumeni, distinguendo tra il mondo fenomenico (ciò che appare ai nostri sensi) e il mondo noumenico (la realtà in sé, che non può essere conosciuta direttamente). Le nostre percezioni sono mediate dalle categorie della mente umana. Questo ci introduce molto bene il mito del Velo di Maya di Schopenhauer: la realtà che percepiamo è solo una rappresentazione, il velo nasconde ai nostri occhi la vera essenza del mondo, ovvero l’apparenza che ci inganna, mascherando la verità.

L’ esistenzialista Sartre enfatizza la libertà individuale e l’autenticità. L’apparenza può essere una scelta consapevole, ma può anche portare a una “cattiva fede” (mauvaise foi) quando gli individui si nascondono dietro ruoli sociali e maschere e, parlando di maschere non possiamo non nominare Erving Goffman e la sua Prospettiva Drammaturgica. Goffman, sociologo canadese, analizzò la vita sociale attraverso la metafora del teatro. Nella sua opera “La vita quotidiana come rappresentazione” (1959), descrive come gli individui mettano in scena ruoli per gestire le impressioni altrui. Goffman sottolinea che la comunicazione si svolge sempre in un contesto fisico, sociale e culturale specifico. La comprensione della comunicazione richiede di considerare sia il microcontesto (la specifica situazione di interazione) sia il macrocontesto (il contesto più ampio e pluridimensionale). Goffman distingue tra “ribalta” (dove è presente un pubblico) e “retroscena” (luogo privato senza pubblico). Con le tecnologie moderne, la comunicazione può essere asincrona e despazializzata. L’atteggiamento dei partecipanti (favorevole, ostile, neutrale) e l’aspetto fisico possono influenzare la comunicazione. La struttura status-ruoli della società influenza le relazioni comunicative. Ogni individuo proietta una definizione della situazione. La comunicazione intra- e interculturale è influenzata dalle diverse culture e contesti di background.

Goffman sostiene che l’identità è composta da più strati e si forma continuamente nelle interazioni con gli altri. Gli individui presentano se stessi attraverso tre modalità principali:

Facciata personale: equipaggiamento espressivo, come l’abbigliamento e i tratti stabili (sesso, età, etnia).

Simboli di status: emblemi dello status sociale o professionale.

Ambientazione: lo scenario in cui avviene la comunicazione.

L’identità può essere confermata, rifiutata o disconfermata dagli altri, e il consolidamento dell’identità personale richiede la presenza di una struttura di plausibilità o consenso. Ma come viene guidato il giudizio degli altri? La psicologia e le scienze sociali ce lo spigano attraverso i bias cognitivi.

L’effetto alone (Halo effect) è un bias cognitivo in cui una caratteristica positiva di una persona (ad esempio, l’aspetto fisico) influisce positivamente su altre percezioni, come l’intelligenza o la competenza. Questo effetto può portare a giudizi superficiali e inaccurati.

L’ Effetto Pigmalione, collegato all’effetto alone, si riferisce al fenomeno per cui le aspettative di una persona influenzano le sue performance. Ad esempio, se un insegnante crede che un alunno sia particolarmente intelligente, è più probabile che quest’ultimo performi meglio.

I bias cognitivi sono scorciatoie mentali che il cervello utilizza per prendere decisioni rapide, questo può portare a errori di giudizio e interpretazione. Alcuni dei principali bias includono:

– Conferma: Tendiamo a cercare informazioni che confermano le nostre preesistenti convinzioni.

– Disponibilità: Valutiamo la probabilità di eventi in base alla facilità con cui possiamo ricordare esempi di tali eventi.

– Ancoraggio: Ci affidiamo troppo alla prima informazione ricevuta (l’ancora) quando prendiamo decisioni.

Il giudizio sugli altri, basato sull’apparenza, è profondamente influenzato dai bias cognitivi e dalle modalità di presentazione del sé. Goffman e altri filosofi ci offrono strumenti per comprendere come le apparenze e i contesti sociali influenzino le nostre interazioni. Riconoscere l’influenza dei bias cognitivi può aiutarci a migliorare la nostra capacità di giudizio e a sviluppare una comprensione più profonda e autentica degli altri.

Ad ognuno la sua scelta: se restare fermi ad osservare le ombre, dando loro il senso del tutto o se esporre i nostri occhi al dolore accecante e necessario per mettere a fuoco le figure che generano quelle ombre.

AUTODETERMINAZIONE E RINASCITA NEL NUOVO ROMANZO DI OLIVIA GOBETTI “LA DONNA DI VETRO” : EMILIA E IL SUO VIAGGIO VERSO LA LIBERTA’ E LA REALIZZAZIONE di Giovanna La Vecchia

Emilia è una donna intrappolata in un matrimonio soffocante e oppressivo che lentamente, anno dopo anno, le fa perdere la fiducia in sé stessa e la voglia di vivere. La donna di vetro (Edizioni del Roveto, pag. 272, euro 17.90, 2024) è il nuovo romanzo di Olivia Gobetti, un potente racconto di resilienza e determinazione, che offre una importante e profonda riflessione sulla forza interiore necessaria per affrontare le situazioni più complesse e dolorose della vita. 

Scrittrice, aforista e writing coach, Olivia Gobetti è romana di adozione. Nata a Brescia attualmente vive a Nettuno. Ha condotto programmi TV tra cui Sereno Variabile (RaiDue), con Osvaldo Bevilacqua, Sabato4 (Rete 4), oltre a diversi programmi radiofonici su RadioRai e Networks nazionali. La donna di vetro è il suo quinto libro. L’abbiamo incontrata per i nostri lettori conoscendo contemporaneamente due donne straordinarie, Olivia l’autrice ed Emilia la protagonista. Solitudine, silenzio, il crollo di tutte le certezze e sicurezze, la resa dei conti, la nuda e cruda realtà, la percezione che bisogna affrontare le proprie illusioni e farsi carico del senso di distruzione che opprime e annienta. La donna di vetro affronta tematiche drammatiche con un linguaggio schietto e diretto che rispecchia appieno Olivia Gobetti, donna solare, elegante ed empatica, con un sorriso che spazza via tutto, ripulisce in un attimo la via per far spazio al nuovo, al bello, all’estasi della rinascita e della riconquista di sé stessi. 

La donna di vetro è una storia che ne rappresenta migliaia purtroppo, tutte molto simili, con dinamiche e linguaggio molto familiari. Emilia, la protagonista, compie un viaggio molto complesso dentro di sé per giungere ad una rappresentazione di sé stessa e della realtà quanto più possibile vicino alla verità. Cosa o chi fa scattare in Emilia la capacità e la possibilità di affrontare tutto questo?

“Se, come si dice, “Nessun uomo è un’isola”, penso che “Nessuna donna ancora lontana dalla sua isola ideale, possa prendere in mano lo scettro della propria esistenza”.  Riconoscere il nostro percorso, accettandone le asperità, soprattutto queste, ci permette di lasciare alle spalle una vita poco compatibile con il nostro modo di vivere e sentire la vita. Emilia ‘sente’ quando l’approdo è a un passo: lo avverte nell’anima e, nel momento preciso in cui ne diventa consapevole, il cambiamento è già iniziato. E indietro non si può tornare. La sofferenza è tanta, le delusioni provate non si contano, ma una luce si sta facendo strada tra le lacrime, emerge dalle insicurezze, e infine trionfa sulla paura.

Come direbbe Raffaele Morelli, autore della prefazione, quando riconosciamo la nostra Itaca, togliamo tutti gli orpelli inutili e pesanti della vita, e respiriamo la brezza pura e incontaminata della nostra vera essenza”.

Il linguaggio adoperato nel romanzo è molto semplice, diretto, lineare ed efficace proprio perché non subisce filtri e non si nasconde dietro una facciata di insegnamenti e lezioni di vita. I dialoghi emozionano e colpiscono perché appartengono a molte donne, a molti uomini, a molte famiglie. Perché Emilia ed Edoardo appaiono così familiari e così vicini ad ogni lettore?

“Quando scrivo non uso filtri. Non lo faccio mai perché se racconto la vita, non posso e non voglio nascondermi dietro inutili pudori. Il lettore se ne accorgerebbe subito. La vita non è edulcorata, non chiede permesso aprendo una porta, né chiede scusa se ti offende. Io scrivo solo quando ho qualcosa da dire, e cerco di farlo senza tanti ‘girotondi di parole’. I personaggi di Emilia, Edoardo, ma anche Julian, Cloe, Marika e Simona, forse, in qualche modo, li abbiamo già conosciuti e sperimentati nelle nostre vite. Per questo ci appaiono tanto reali nelle loro grandi o piccole debolezze, nel modo di dar voce a pensieri e convinzioni, ma anche nelle scelte, corrette o meno.

Emilia e il marito Edoardo, pur nelle descrizioni e dialoghi più accesi, mantengono dialoghi verosimili. Quando ci appassioniamo a una storia, non è necessario sia tutto identico al nostro vissuto, quindi alle nostre esperienze dirette. Molto spesso, però, basta un paragrafo, se non un’unica frase, a farci sentire parte della narrazione. Credo sia questa la magia di un romanzo ben strutturato”.

Il dolore e la difficoltà di Cloe, la figlia di Emilia, spiegano molte problematiche sempre più diffuse nei ragazzi che tentano con le proprie forze ed i propri strumenti di resistere e di sopravvivere a due genitori in conflitto ed alla violenza che spesso caratterizza il loro quotidiano. Che mamma è Emilia?

“Emilia, come moltissime madri, pensa alla propria figlia come la parte migliore di sé. La osserva durante la fase della crescita con ammirazione, cerca di starle accanto per incoraggiare le sue scelte, ma anche per offrirle una spalla su cui piangere nei momenti in cui la vita si mostra poco generosa. Emilia si sentirà in colpa per aver offuscato l’orizzonte di Cloe con una visione distopica dell’amore. Ma qualcosa accadrà tra di loro, qualcosa in grado di offrire una nuova prospettiva di sé stesse e del loro rapporto”

Nella crisi matrimoniale ad un certo punto entra Julian, un nuovo amore che inizia virtualmente e che sembra per Emilia una rinascita ed una riconquista dei propri spazi e della propria libertà. A volte quella che sembra essere la salvezza è peggiore della condanna a restare cui una donna si sottopone. Forse l’appartenersi esclusivamente dovrebbe essere prioritario in una crisi matrimoniale e famigliare, dandosi un tempo di solitudine e di riflessione. Cosa ne pensa? 

Tutto ciò che ci attraversa, va vissuto. Così, nel modo più naturale possibile, senza pensarci troppo. Un amore nuovo arriva nel momento esatto in cui deve accadere. Non un attimo prima, né un attimo dopo.

Dobbiamo viverlo anche se sappiamo potrebbe farci male perché la passione, l’innamoramento, ci portano sempre a grandi evoluzioni, ci permettono di entrare in stretta connessione con noi stessi. Le emozioni provate ci trasformeranno nella parte più vera, quella trascurata da troppo tempo.

“L’Amore non si arrende, ma all’Amore ci si arrende.” Questo non è sinonimo di debolezza, ma tutto il contrario. Darsi senza limiti a un altro essere umano, è tra le esperienze più straordinarie della vita.

Quando un matrimonio o una convivenza hanno perso la strada del rispetto, è facile riconoscerci emotivamente in altre persone rispetto al proprio partner. Non è leggerezza, è dolore che cerca di respirare più forte per sopportare tutta la tensione prodotta. E’ vita alla ricerca di se stessa”.

Quando Emilia si sente male descrive in modo toccante “la sensazione di sentirsi completamente sola”, quel vuoto terrificante con cui ad un certo punto si impara a convivere. Ma si è veramente e completamente soli o ci si sente perché si ha paura di far vedere agli altri i nostri cambiamenti, che forse fanno paura addirittura a noi stessi e che temiamo? Forse bisognerebbe avere il coraggio di chiedere aiuto più spesso ed in un modo sincero e profondo. Cosa ne pensa? 

“Chiedere aiuto è fondamentale. Alle persone giuste, però… Emilia si appoggia con fiducia a un paio di amiche storiche, ma come riconoscere la sincerità nelle persone amate? L’amicizia al femminile prevede solidarietà e onestà in qualunque situazione? Nella storia se ne parla, e forse,si arriverà a una risposta in grado di fare chiarezza sull’argomento”.

“Le persone ci devono deludere a tal punto perché possiamo contare sui nostri talenti, perché il nostro percorso diventi nitido, essenziale?” scrive Raffaele Morelli nella prefazione a La donna di vetro. “Come Ulisse bisogna arrivare stranieri, sconosciuti, soli, per vedere la propria Itaca?” prosegue. Una immagine veramente potente e straordinaria che penso racchiuda tutto il significato del romanzo. Emilia è dunque come Ulisse e non come Penelope, è d’accordo? 

“La trasparenza di noi donne non è sinonimo di fragilità: sbaglia di grosso chi ci definisce ‘deboli’. Morelli parla di ‘spoliazione’, condizione necessaria per mettere in luce i talenti nascosti, le virtù di cui non eravamo consapevoli. Da Penelopi in perenne attesa, siamo in grado di trasformarci in tanti Ulisse alla ricerca della propria Itaca, pronte a difendere noi stesse e i nostri figli. Questo non significa rinunciare alla propria femminilità, significa non permettere più a nessuno di trattarci senza rispetto in nome di un amore ‘a chiacchiere’, non certo nella sostanza.

Proprio come suggerisce Alessandro Baricco in una bellissima intervista televisiva, impariamo l’arte di ‘lasciar andare’: cose, situazioni, persone.

Non perdiamo tempo a rincorrere chi ci lascia, a dare altre possibilità a persone non meritevoli, non buttiamo il nostro tempo prezioso con chi usa la violenza per riparare l’amore, smettiamo di regalare anni e anni a chi non perde occasione per farci sentire inadeguate o perennemente colpevoli di qualcosa. Lasciamo andare!”

Quanto conta ancora oggi nella nostra società il giudizio degli altri quando si affronta un matrimonio infelice e drammatico ed una separazione in un contesto di violenza? 

“Non ho mai amato il giudizio altrui. Soprattutto i classici matrimoni ‘di facciata’, tanto frequenti nello scorso secolo, ma che ancora sopravvivono in certe realtà del nostro Paese. I nostri nonni tenevano molto a ‘lavare i panni in casa’, oggi se un matrimonio si mostra disfunzionale, se la violenza verbale o fisica ne rappresenta l’essenza, dobbiamo parlarne.

Denunciamo anche quando pensiamo di essere sole in mezzo a un mondo ingrato, denunciamo anche quando in certi sorrisini ipocriti e di circostanza, leggiamo a chiare lettere: “In fondo, se lui ti picchia, è perché te lo sei meritato!” Denunciamo. Prima che sia troppo tardi. Per tutto”

La donna di vetro è un romanzo che contiene in sé infinite verità utili sia agli uomini che alle donne, anzi probabilmente i lettori dovrebbero essere in maggioranza uomini perché a volte riuscire a vedersi da fuori attraverso gli occhi di un altro, meglio ancora se donna, può essere un aiuto quasi terapeutico per un  uomo. Pensava di avere tutta questa attenzione da parte del pubblico maschile? 

“Sapere che questo romanzo viene letto con attenzione da molti uomini, è stata per me una notizia importante. Significa che sono in molti ad avere a cuore le proprie donne, a volere per loro il meglio, scoprendo attraverso questa storia i loro desideri, speranze, fragilità. E la loro forza. Questo ha acceso in me una piccola grande luce di speranza! Le persone belle esistono. E non sono poche. Guardiamoci attorno”.

“I mariti si conservano con lasagne e pompini” dice ad un certo punto del romanzo l’amica Marika, è una provocazione o c’è qualcosa di vero in questa affermazione? 

“Magari, alle lasagne, preferiscono una pasta alla carbonara…”

La donna di vetro è il suo quinto libro, come e quanto è maturata la sua scrittura ed i temi trattati in questi anni? Ci racconti il suo esordio. 

“In quel periodo, lavoravo come conduttrice a Rete 4 anche se, di tanto in tanto, scrivevo su alcuni settimanali dedicandomi alle interviste e agli argomenti legati al benessere. Un giorno, la mia agente mi disse di aver trovato una persona disposta a scrivere un libro per me. In pratica, io avrei firmato come autrice, e lei avrebbe lavorato come ‘ghost-writer’.

Rimasi senza parole e, a essere sincera, anche un po’ offesa da questa proposta inattesa. Risposi ringraziando e dicendole di avere già in testa l’idea per un romanzo. E quindi, non avrei avuto alcuna necessità di ricorrere a un aiuto esterno. Da quel giorno stesso, iniziai la scrittura del mio romanzo d’esordio. Dopo nove mesi esatti, nacque “Una Vita al Contrario”. La prefazione di Vittorio Feltri mi aiutò non poco a farmi conoscere come scrittrice, e per questo gli sarò sempre molto riconoscente”.

Scrittrice, giornalista, presentatrice, aforista, writing coach, madre di 4 figli, attualmente insegna scrittura immersiva, di cosa si tratta? 

“A un certo punto della mia vita, pur non smettendo di scrivere libri, ho sentito la necessità di condividere quel poco o tanto imparato dall’esperienza letteraria. Adesso seguo alcuni laboratori di “Scrittura Immersiva”. Si tratta dell’ultima frontiera della scrittura creativa, ancora più coinvolgente per il lettore che si sente parte integrante della storia, attraverso la percezione di tutto ciò che sta vivendo e percependo il protagonista. Ci sono strumenti a disposizione per rendere sempre più fluido, accattivante e originale il nostro stile. Se la lingua è in costante evoluzione, la scrittura segue di pari passo”.

Gassman, De Gregori, Gervaso, Morandi, Faletti e molti altri, tutti protagonisti indiscussi del panorama italiano e non solo, con cui ha avuto la possibilità di dialogare e di instaurare delle importanti amicizie. La sua è una carriera lunga e piena di spessore. Ci parli un po’ di questi incontri. 

“Da ragazza ero una giornalista entusiasta ma goffa sul modello ‘Bridget Jones’, per intenderci, anche se l’iconico personaggio in questione ancora non era stato inventato. L’intervista a Francesco De Gregori ai tempi de “ La Donna cannone”, “Rimmel”, “Generale”, quindi nel suo periodo di massimo splendore, andò davvero molto bene. Francesco si era mostrato disponibile, sorridente e generoso… peccato non avessi premuto il tasto ‘Rec’ per avviare la conversazione sul registratore a bobine.

Quel giorno, avrei voluto sotterrarmi e sparire nel nulla, giuro. L’indomani era prevista la messa in onda su RadioRai quindi decisi di rischiare un ‘Vaffa’ ben assestato dal famoso cantautore, tornando da lui con l’espressione di un condannato alla ghigliottina… Francesco si mise a ridere, aveva già capito tutto. Mi cinse le spalle rassicurandomi: “tranquilla, la rifacciamo meglio. Però, adesso, fammi premere il Rec!”

Tra i primi personaggi famosi intervistati, l’incontro con l’immenso Vittorio Gassman mi trovò come un pesce in una cristalleria. Nel camerino, al termine del suo spettacolo teatrale, respiravo male e mi guardavo attorno per evitare di inciampare in un tappeto o di rompere qualche vaso, fiori compresi. Gassman mi fece accomodare e, chissà perché, iniziò a parlarmi della famosa respirazione diaframmatica, tanto necessaria per gli attori e non solo…

Roberto Gervaso intervenne in modo significativo per aumentare il mio livello di autostima quando mi disse: “La tua intervista insieme a quella di Costanzo è stata la migliore di tutte!” Pensavo stesse scherzando, ma mi rassicurò fosse vero. La nostra amicizia, nel tempo si consolidò e lo ricordo quando, seduto nel suo studio, mi leggeva i suoi nuovi aforismi chiedendomi se potessero funzionare per un libro in uscita. Sentivo davvero tanta stima per me, forse non la meritavo ma mi aiutò non poco a crescere a livello professionale. Ps: devo a Roberto la mia passione perdurante per gli aforismi.

Morandi correndo venne ad aprirmi il cancello della villa (all’epoca abitava a Tor Lupara), mi portò in cucina e preparò la moka per il caffè.

Poi mi accompagnò nel salotto, si mise al piano e mi cantò le sue canzoni più belle. L’avrei sposato subito. Giuro”.

“Abbiamo paura di ciò che non conosciamo e spesso scegliamo di fare riferimento, di affidarci  a ciò che conosciamo anche se non è né rassicurante né piacevole” mi ha detto. Questo atteggiamento spesso conduce ad un epilogo drammatico, cosa si può dire o fare per far comprendere soprattutto alle giovani donne che non bisogna temere l’ignoto piuttosto bisogna scappare a volte da quelle che crediamo certezze e sicurezze. 

“Conosciuto o non conosciuto, in realtà quando si è molto giovani è facilissimo scivolare su decisioni o persone dall’aspetto affidabile. Spesso, capita d’incappare in relazioni sentimentali con un uomo dai tratti caratteriali simili al proprio padre. Anche se questo genitore non si è mostrato rispettoso e attento nei confronti di nostra madre. Questo perché il conosciuto è certo, anche se rappresenta un esempio negativo. I salti nel vuoto spaventano sempre un po’. L’unica soluzione è non smettere di parlare, di informare, di scrivere libri che possano chiarire queste tematiche. Io ci ho provato. E non smetterò di farlo”.

Emilia potrebbe tornare a raccontarsi in futuro in un suo nuovo romanzo? Probabilmente i lettori ne sarebbero molto contenti, perché Emilia è diventata un’amica per molti di noi. 

“Quello de“La Donna di Vetro” è il classico finale aperto. Chissà, mai dire mai!!!”

NASCE A ROMA “IL SIMBOLO” CASA EDITRICE DEL POETA MAURIZIO GREGORINI, FONDATORE E PROPRIETARIO. POESIA, NARRATIVA, SAGGISTICA DI TEMATICA SPIRITUALE IN UNA DIFFERENTE IDEA PER EVOCARE IL SENSO DI UN FASCINO POETICO.

Intervista a Maurizio Gregorini in libreria con la nuova opera “Ki. Segni dallo spirito” e la riedizione del romanzo “Neve e Sangue”.

“Inizia così il viaggio di nuove pagine dense di parole belle, contenuti intensi e sogni inafferrabili che, dalle pagine dei bei libri voleranno verso nuovi lettori. Voglio anche dire che i volumi sono curatissimi, le copertine affascinanti, la qualità della carta e dei caratteri di stampa di grande valore estetico. Perché la Bellezza inizia dallo sguardo e dal tatto per poi arrampicarsi lassù, in alto, dove si può. Anche se non si sa”  (Carla Vistarini, pagina Facebook commento sulla presentazione della casa editrice “Il Simbolo” Libreria Feltrinelli – Roma 10 aprile 2024)

Il poeta, giornalista e scrittore Maurizio Gregorini (Roma, 1962), torna nelle librerie con due nuove opere: “Ki. Segni dallo spirito” e “Neve e sangue” (il primo 167 pagine, 15,00 euro, è il suo nuovo libro di poesia, di cui è stata stampata una edizione privata fuori commercio, pagine 202; il secondo, un romanzo, 120 pagine, 15,00 euro, con prefazione del poeta Giorgio Ghiotti, è la riedizione – con aggiunta di racconti introvabili da anni – di un libro edito nel 2007), pubblicati dalla neonata editrice “Il Simbolo”, di cui è unico fondatore e proprietario. Gregorini è autore di poesie, racconti, romanzi, saggi. Ha pubblicato diversi volumi di poesia, alcuni con la prefazione di Dario Bellezza, Luca Canali, Livia De Stefani, Elio Pecora, Riccardo Reim. E’ stato responsabile della Terza Pagina di un quotidiano per oltre quindici anni, e per oltre trent’anni ha pubblicato articoli, interviste, saggi su periodici vari.

Tra il 1997 e il 1999 sui quotidiani “Giornale d’Italia” e “Italia sera” ha curato le rubriche “Inediti d’autore” e “Prova d’autore”, intere pagine monografiche di grande eco e successo in cui dava spazio e voce anche a giovani poeti (parecchie di queste voci sono confluite nel volume “La musica dell’inquietudine. 25 autori si raccontano”, Ianua 2002). Parte della sua produzione poetica è in “Vortici. Poesie per l’altro amore” (2002) che gli ha valso il “Premio Personalità Europea” (trentaduesima edizione), consegnatogli presso la Sala della Protomoteca del Campidoglio durante la “Giornata d’Europa”. E’ il curatore di “Poesie in diesis” (2002), opera poetica – postuma – di Livia De Stefani. Nel 1997 ha pubblicato “Morte di Bellezza” (Castelvecchi), riedito nel 2006 da Stampa Alternativa col titolo “Il male di Dario Bellezza”, vincitore del Premio Mangialibri nella categoria “Miglior rapporto qualità/prezzo del 2006”; nel 2016, sempre l’editrice Castelvecchi ne ha stampato una nuova edizione aggiornata. Nel 2009 Menico Caroli e Guido Harari hanno inserito una sua lunga intervista inedita nel volume “Mia Martini. L’ultima occasione per vivere”, mentre Gianluca Polastri ne ha inserita un’altra sulla poesia in “Festinalente. Il sogno di Ganimedia”, antologia di poesia Gay. Insieme all’attore poeta e regista Giangiacomo Ladisa ha pubblicato “Con gli occhi celesti. 20 anni di lavoro indipendente”. Luca Baldoni ha inserito un fascio di sue poesie nell’antologia “Le parole tra gli uomini” (2012), definendolo l’erede dell’asse poetica Penna-Pasolini-Bellezza. Nel 2012 viene pubblicato in America un’opera sul pittore Simon Dinnerstein, “The suspension of time. Reflections on Simon Dinnerstein and ‘The Fulbright Triptych’”, Milkweed Editions, dove è stato inserito un suo saggio, unico autore italiano invitato a parteciparvi. E’ stato autore e conduttore radiotevisivo (“Outing”, piattaforma 877 di Sky e Teleroma 56; “Un disco e un libro da comprare”, Teleradiostereo). Nel 2012 Radio Vaticana, nella proposta radiofonica “Pagine e foglie”, gli ha dedicato il programma “Storie”, condotto da Arianna De Gasperi. In occasione del trentennale della sua attività poetica, nell’ottobre 2017 Castelvecchi, nella collana ‘Cahiers’, ha mandato in libreria “Sigillo di spine. Le poesie” (opera omnia nonché edizione completa di tutti i libri di poesia editi, con aggiunta di inediti), che ha ottenuto il “Premio speciale della giuria” della III Edizione del Premio Letterario Internazionale “Antica Pyrgos”. Nel 2019 è stato inserito nel volume “Roman Poetry Festival. Quarant’anni dopo il Festival Internazionale dei Poeti” (Ponte Sisto Edizioni). 

Ki: Segni dallo spirito

– Gregorini, ci conosciamo da oltre trent’anni. L’idea di una casa editrice l’aveva in testa già anni or sono. Una attesa, la sua, che alla fine è divenuta una realtà: “Il Simbolo”. Mi parli di questa nuova attesa avventura…

“Cosa vuole sapere esattamente?” 

– Veda lei: per quale motivo l’ha fondata, cosa vuol dire essere un poeta e adesso altresì un editore, che tipo di pubblicazioni avrà la casa editrice, a che pubblico intende rivolgersi…

“Partiamo dall’ultimo interrogativo: penso che un autore non abbia mai in mente il tipo di pubblico da cui vorrebbe essere seguito, ossia letto; perlomeno io non ci ho mai pensato: lascio libero chicchessia di scegliere cosa leggere e cosa evitare non prestandogli interesse. Forse, in qualità di editore, ora il quesito dovrei pormelo, e invece no, non mi sfiora nemmeno l’idea di cercare un pubblico distinto per ciò che si editerà. Per il momento ho pubblicato il nuovo bel libro di poesia di Raffaella Belli e quello di Giorgio Ghiotti, anch’esso notevole. E’ appena stata editata l’opera omnia della Elsa de’ Giorgi, con cura e prefazione di Pecora, più la riedizione dei libri di poesia di Agostino Raff; infine, sta per uscire ‘Tutto il teatro’ di Elio Pecora, con prefazione e cura del bravo Marco Beltrame. Poi, si vedrà. Il motivo che mi ha spinto a realizzarla? Forse la stanchezza di avere relazioni con editori che se ne fregano poco di quel che vorresti fosse mandato alle stampe, e che non ti ascoltano quando auspicheresti evitare situazioni imbarazzanti, come ad esempio la scelta grafica di un libro, sia del corpo del carattere quanto della copertina, senza escludere che quasi mai nessuno di questi rimunera agli autori le royalties maturate, dunque, se debbo far guadagnare inutilmente e a scapito mio editori che a volte nemmeno apprezzano il tuo lavoro, è meglio mettersi in proprio, come del resto stanno facendo vari autori tramite autoproduzioni. Ma quel che davvero mi ha convinto a realizzarla, sebbene io goda della mia esperienza quasi quarantennale nel mondo dell’editoria, è l’aspirazione a rendere pubblici testi di autori che meritano e mi piacciono. Ovviamente, in alcuni casi e con degli autori, ci sono stati, ci saranno, anche i ‘no’, seppur dolenti: non posso pubblicare tutti, certo che decisioni simili non mi porteranno simpatie, ma che farci? Se un libro non mi piace e non ci credo, al di là delle possibili vendite, non lo edito. Insomma, una piccola casa editrice, di nicchia, che proponga testi di qualità. E’ un buon proposito, non crede? Debbo però qui ringraziare Fabio Capocci delle Edizioni Ponte Sisto e tutto il suo magnifico team, in particolare la grafica Daniela, che mi hanno permesso, sposandolo appieno, la totale realizzazione di questo sogno che rincorrevo da anni. Senza la complicità di Fabio Capocci, per il momento, non avrei mai potuto attuare un progetto – penso di buona caratteristica – come quello de ‘Il Simbolo’; è a tutti loro che va il mio grazie sincero e soprattutto affettuoso per avermi accolto nella loro famiglia editoriale”. E poi, l’attesa: conosciamo come ‘attendere’ significhi conservare uno stato d’animo nella sospensione di un tempo ampio in cui si realizzi qualcosa conforme alle proprie speranze. Ecco, come lei ben sa, ho atteso parecchi anni; ora però questo vecchio desiderio è divenuto realtà, e tuttora continuo a stupirmi di essere riuscito a concretizzarne il senso ma, lo ripeto, se non ci fosse stata la disponibilità e l’affetto di Fabio Capocci – che presto diverrà mio socio – tutto questo non sarebbe stato possibile”.  

– Ha presentato il suo progetto alla Feltrinelli di Roma. Ci saranno altre iniziative? 

“La presentazione della casa editrice ha avuto un ottimo riscontro. Con me c’erano Raffaella Belli, Elio Pecora e Giorgio Ghiotti, tutti entusiasti di queste edizioni. Per l’occasione si è spiegato come ‘Il simbolo’ non includerà soltanto libri di poesia o narrativa, ma soprattutto saggistica di tematica spirituale. Ci saranno anche occasioni di edizioni particolari, vedi la pubblicazione dell’opera omnia teatrale di Pecora, che trovavo andasse fatta, sia per rispetto dell’autore, sia per l’importanza che tali testi hanno avuto nel panorama teatrale italiano. A settembre pubblicherò il nuovo libro di Antonio Veneziani; nel frattempo sto valutando delle opere che mi sono state inviate da autori vari”.

– Lei non dava alle stampe opere dal 2017, ora esce contemporaneamente con due volumi. 

“Si riferisce a ‘Sigillo di spine’, l’opera omnia lirica licenziata da Castelvecchi. Quella è stata una occasione per unire ogni libro di poesia edita negli anni; inoltre festeggiava il trentennale dell’attività poetica. C’è da dire che, con lo scorrere degli anni, presumibilmente, anche la musa ispiratrice pretende i suoi tempi di riflessione. Inoltre quel lavoro specifico creava uno spartiacque tra una produzione poetica verso cui ho rispetto, ma che è – e resta – decisamente lontana dal mio ‘sentire’ odierno. La mia scrittura nel tempo è andata a variare di netto, non lo stile, ma gli argomenti che mi preme trattare in questo momento della mia vita. Non si può produrre un libro di poesia ogni due o tre anni, perlomeno non nel mio caso. Tanto più che gli argomenti trattati al presente volgono l’interesse verso l’incorporeo, la transitorietà dell’anima, la realtà dei mondi invisibili e, soprattutto, la morte fisica. Credo siano argomenti non facilmente commerciabili in poesia, che non possono essere editi come si trattasse di un banale libro d’amore. Prenda come esempio il ‘KI. Segni dallo spirito”: per arrivare al risultato ultimo, quello appunto di dominio pubblico, ci sono state ben tre edizioni private che mi hanno permesso di dedicarmi ad esso con maggiore attenzione e consapevolezza, proprio perché l’argomento proposto necessita – a parere mio – di una particolare decantazione intima”. 

– Crede dunque si tratti di un’opera portata a termine, conclusa?

“Chi può dirlo? Non sono mai certo di nulla. Ma come molti oramai sanno, è un libro dedicato alla morte di un amico, Monsignor Angelo Cordelli, deceduto a soli cinquantasette anni a causa di un cancro. E’ stata una esperienza sì dolorosa, ma poeticamente liberatoria, poiché mi ha permesso di rintracciare la via specifica di quel che ero intenzionato a trattare nei versi: l’immaterialità dell’anima. Non a caso per l’edizione pubblica ho scelto di inserire nella seconda e quarta di copertina, ossia le bandelle, la lettera che gli avevo scritto poco prima che morisse e che accompagna la prima edizione privata, datagli in dono affinché la vedesse e ne potesse fare omaggio ai suoi amici. Ho lavorato molto su questo testo, infatti nelle tre edizioni private – composte solo da due atti e non da tre – parecchie sono state le riflessioni e i ripensamenti su termini, vocaboli e impressioni. Considero le edizioni private il ‘lavoro in corso’ di un testo che, per il momento, m’appare risolto; per la ragione che l’evento della sua morte, per naturalità d’evento, si sta distanziando, e le emotività provate in quei mesi precedenti la sua fine, si stanno smarrendo nella memoria del tempo. Infine, era giunto il momento di dare un taglio al dolore, passando ad occuparmi di altro in fatto di scrittura. Capisco e mi rendo conto che si tratta di un volume curioso, di non semplice lettura; ma credo ciò sia dovuto al fatto che questa nuova poesia da me prodotta non abbia alcuna discendenza poetica. Come ha osservato acutamente Antonio Veneziani, è spiazzante, originale, con un uso di termini e parole anomali che ne struttura uno stile bizzarro, però entusiasmante (sono parole di Veneziani, non mie)”. 

– Come appendice al “KI” ha inserito “Serifos. Diario minimo”, anch’esso un testo edito privatamente in tiratura di cento copie.

“Nell’avvertenza al libriccino spiegavo in che modo, ritrovatomi ad esprimere nel linguaggio della prosa impulsi della mia quotidianità come mai accaduto in precedenza (di solito avviamenti del genere prendono parola in forma di versi; inoltre alla prosa dedico il mio impegno di giornalista e recensore di libri e dischi, ma ora che sono divenuto un editore, non più), mi sono azzardato a pubblicare sentimenti e annotazioni corsive nel mio profilo Facebook. E’ capitato che, leggendole, molte persone abbiano dimostrato di apprezzare queste brevi note e mi abbiano indotto a pensare che la sottilità di quei pensieri si dilatasse nell’animo dei lettori, imprevedibilmente, in larghezza di emozioni. E siccome in privato giungevano sollecitazioni a fare di queste note un libro, mi sono risolto ad editarlo in tiratura minima e fuori commercio sia per gli amici, sia per coloro che lo hanno apprezzato. Si tratta di un diario minimo scritto nell’isola di Serifos, Grecia, in giornate dove la scrittura del ‘KI’ ancora premeva dentro di me in cerca di un chiarimento decisivo. Ammetto come ogni scritto, per me, è sempre stato l’opportunità di attingere ad una verità agognata; cosicché il resoconto di quest’avventura in prosa costituisce il racconto di un ‘me’ recente, e rivela, anche senza la collaborazione della volontà, frammenti di poesia che la realtà ha nascosto in pieghe insospettabili della mia anima. Parimenti, credevo di aver terminato questo episodio, e invece l’anno seguente mi sono ritrovato di nuovo ad annotare frammenti di un sentire che probabilmente mi si presenta nella mente solo in quel luogo specifico, ossia una piccola casa in una frazione di Serifos, che si affaccia su una splendida chiesa bizantina del Mille. Lavorando a questi ultimi appunti, ho capito che la vicenda del ‘Diario minimo’ era il compimento del ‘KI’: non poteva essercene un altro, soprattutto perché in queste riflessioni quotidiane rimaneggiavo l’esperienza della morte di Angelo Cordelli. Per di più era un libriccino che amici e lettori continuavano a chiedere (la tiratura di cento esemplari si è esaurita nell’arco di due mesi). Così ho ritenuto opportuno – magari errando, chi può dirlo? – di inserire il testo come appendice al libro di versi: sia per compiacere tutti quelli che se ne sono mostrati entusiasti, sia perché si tratta di brevi note giornaliere quasi a chiusura dei tre atti che sono la struttura portante del libro. Vi ho anche infilato, sotto la dicitura ‘Arte poetica. Appunti per eventuali rime’, alcuni versi stralciati dal ‘KI’, quale umile esempio e sfida per giovani poeti di come può essere organizzata una singola poesia”. 

– Ma del ‘KI’ ne ha fatto però una ennesima edizione privata.

“Sì, settanta esemplari fuori commercio di oltre duecento pagine che sono testimonianza di come avrei voluto il libro fosse realizzato. E’ una edizione in cui è confluito l’intero materiale che ha articolato le tre edizioni private uscite tra il novembre del 2020 e il luglio del 2022, esemplari in cui mi è piaciuto inserire le frasi di apprezzamento dei lettori, varie fotografie, due appunti di Vincenza Fava, più una sua intervista, cara Giovanna, del gennaio 2022. Anche in ‘Serifos’ vi erano fotografie che scattai dell’isola. Ecco, nell’edizione pubblica, quella presente nelle librerie, sono stati omessi tutti questi materiali e alcune pagine intime del ‘Diario’, magari non di reale coinvolgimento per il lettore. Come dire che – a mio avviso – l’autore deve avere una distanza da quel che ha scritto e da ciò che poi intende divulgare nella correttezza ufficiale, tant’è che, come afferma il cantautore Faust’O, ciò va fatto ‘per non ritrovarsi indifesi davanti alla propria stessa penna’, anche se quel che è scritto è scritto, e nulla può mutarlo nella sua vera genesi’”. 

Neve e Sangue

– “Neve e sangue”: come mai si è deciso per una ristampa del romanzo? So che per anni se ne è disinteressato. In più vi ha aggiunto i racconti di “Lamento o tormento che sia” che nel 2001 Antonio Veneziani volle editare in una sua collana edita da Antonio Porta.

“Il romanzo uscì per le Edizioni del Cardo nel 2007. Di lì a qualche anno, anche questa bella piccola casa editrice, che aveva in catalogo titoli ‘ai margini’, fondata e diretta da Jean-Marie Pouget, terminò le pubblicazioni. Il romanzo breve non fu mai più ripubblicato, nemmeno presso altri editori, ed è vero come lei sostiene: ciò fu dovuto anche alla mia indifferenza. Negli anni numerosi lettori che mi seguono hanno mostrato interesse per il libro e mi hanno sollecitato a darne una ristampa; questa nuova edizione viene incontro innanzitutto al loro desiderio. Devo all’amico poeta Antonio Veneziani la mia produzione in prosa: fu lui a richiedermi brevi prose per una collana, ‘Scritture’, di cui Veneziani era direttore, pubblicata da Antonio Porta. I racconti, introvabili da tempo, uniti sotto il titolo ‘Lamento o tormento che sia’, uscirono per l’Editrice Ianua nel 2001; furono poi accolti in varie antologie e su alcuni quotidiani. Li ho aggiunti in questa nuova edizione come ‘hidden tracks’ per tutti coloro che vorrebbero avere la possibilità di leggerli”.  

– Perché ha atteso diciassette anni per una riedizione?

“Sebbene in sostanza coerenti sia col ‘romanzo breve’ sia coi ‘racconti’ aggiuntovi, la ristampa di questo libro è espressione di una parte di me che io ora avverto distante, remota negli anni della mia gioventù. Pur riconoscendo che forse la scrittura di ‘Neve e sangue’ andasse ‘aggiornata’, alla fine non me la sono sentita: mi sembrava di snaturarne la genuinità, di adulterare uno stato emotivo che di essa si era sostanziato e non poteva perciò essere modificabile. Lo stesso si dica dei racconti, riproposti qui nella loro redazione originale e non in quella edita nel 2001. E’ un testo scritto più di venticinque anni fa, quando prestare fede a certi meccanismi e situazioni, soprattutto omoerotici, era per me un credo e un entusiasmo vitale. Ahimè, non la penso più nello stesso modo di allora, e le confesso che alcune pagine sia del romanzo quanto dei racconti, mi disturbano. Chiederà allora la motivazione della riedizione: un vecchio amico mio, Sandro Brisotto, era già da qualche anno che mi tormentava amorevolmente nel confidarmi che, a parere suo, il romanzo andasse ristampato, soprattutto per la ragione – parole sue – che i tempi adesso erano maturi. A dire il vero non ho mai compreso del tutto cosa intendesse, in virtù del fatto che, ripeto, non assimilo cosa voglia significare ‘tempi maturi’. Forse si riferiva alla narrazione di un uomo maturo che intrattiene un rapporto sentimentale con un giovane ragazzo, tra l’altro sposato? O si riferiva al linguaggio da me utilizzato, spesso crudo, ma anche poeticamente suggestivo? Non mi sono ancora dato una risposta chiara, fatta sta che però debbo dargli ragione: dai primi commenti dei lettori e dalle vendite sembra sia un romanzo che coinvolge maggiormente il pubblico adesso e non quando apparve la prima volta. Nel recensirlo, quando uscì, Alessandro Dezi, sul mensile ‘Blu’, scrisse che si trattava di un ‘romanzo breve ai margini fra prosa e liricità, che racconta senza falsi pudori la catartica discesa nell’intimo di un’affettività fra diversi, destinata alla rovina, dimostrando che i sentimenti di casta non esistono’; Delia Vaccarello sull’Unità ebbe a commentare che parlavo d’amore come un poeta invaghito dalla predestinazione, tant’è che amore e morte, amore e dono estremo, divengono in questa storia, la celebrazione di una potenza di cui solo la natura può essere vestale; Gianfranco Franchi scrisse, ‘diviso in due episodi, questo romanzo è lirico, triste e sentimentale al pari di un disco di Antony & The Johnsons’, proseguendo che si tratta di uno scrigno di emozioni e di passioni vive; mentre Vincenza Fava sul quotidiano Italia Sera ammetteva che sì, ‘si tratta di un racconto sublimemente erotico, forse di natura autobiografica, che scuote le coscienze e i falsi perbenismi degli assennati benpensanti, certi, a torto loro, di non poter mai esperire l’amore diverso’, aggiungendovi che con questo testo ‘sono tornato alla romantica antinomia tra apollineo e dionisiaco, tra la vita dello spirito e la vita della carne, riuscendo però a superare la dialettica hegeliana degli opposti attraverso la perfetta sintesi di amore e morte’. Che dire di altro? Inutile negare che a me tutto questo faccia piacere, anche se tuttora non mi capacito di come io l’abbia elaborato: se dovessi scriverne un altro simile, non ne sarei capace. E come accaduto di recente col ‘KI’, sono certo che anche in quella occasione a venirmi in aiuto sono state anime incorporee. Lo so, lei mi prenderà per cretino, per imbecille, ma è ciò che penso e in cui credo fermamente”. 

– Dopo anni può dichiararlo: è un romanzo autobiografico? E poi il riferimento di Franchi ad Anthony… nelle sue opere c’è sempre spazio per la musica…

“Autobiografico: è così indispensabile saperlo? Giorgio Ghiotti nella prefazione ha annotato un particolare che mi piace: ‘Gregorini è un poeta e un narratore, non un poeta prestato alla prosa’, come sovente può accadere; e da prosatore faccio mie storie riferitemi da conoscenti, amici, immaginandomi come mi sarei comportato io in certe situazioni se queste fossero accadute a me. Sono uno che scruta, guarda, presta attenzione alle cose minime degli animi, ai sentimenti che il prossimo vive, sia con dolore, sia con gioia. Che la vicenda descritta sia di natura personale, poco importa; ma consento che quel che di autobiografico vi ho inserito è la descrizione della casa che abitavo in quegli anni, più nomi di amici intimi, reali, e poche situazioni accadutemi: la morte del mio cane, quella di mio padre, quella di Dodi Moscati e quella di un poeta amico. La musica? Sì, è uno spaccato significativo della vita mia, ne ascolto tantissima, anche per ventiquattrore al giorno. E al di là della motivazione che ne ascolto parecchia anche per scriverne, dato che, come sa, è pure il mio lavoro, la musica è per me fonte inesauribile di ispirazione. Se si presta attenzione e si legge accuratamente tra le righe, si avvertirà che in ‘Neve e sangue’ non c’è solo Anthony o i compositori moderni da me citati nella storia: c’è molto di Mia Martini, di Mina – della Mina di ‘Kyrie’, tanto per intenderci -, di Patty Pravo (ah! la splendida ‘Questo amore sbagliato’ scritta dalla mia amica Carla Vistarini), di Lou Reed, Schulze, Gabriel, Buffy Sainte-Marie, Mitchell, Nico e, perché no?, anche di Riccardo Fogli, il Fogli di ‘Mondo’, ‘Si alza grande nel cielo la mia voglia di te’, ‘Mondo fantastico’, della “The power of love” di Jennifer Rush ma nella versione di Nana Mouskouri; ma c’è anche il senso della tragedia datomi dai due bellissimi dischi di Irene Papas realizzati con Vangelis. Visto quanta abbondanza eterogenea? E sì, è proprio un libro scritto sulla musica che ascolto ripetutamente, ed è il potere della musica a scuotere in me emozioni, anche affettive”. 

– Di recente, dopo essere stato programmato in parecchie sale italiane, è andato su Sky Arte il docufilm “Bellezza Addio” a cui lei ha partecipato. 

“Si, un’ottima iniziativa per un docufilm realizzato davvero bene. Palmese e Giardina, i registi, sono stati capaci di catturare l’essenziale sia della poesia che della natura umana di Dario Bellezza”. 

– Il suo libro su Bellezza dovrà essere stato per questi due registi un testo fondamentale per capirne la personalità.

“E’ vero. Lo è stato. Di lì sono partiti per poi indagare a 360 gradi chi sia stato Bellezza, cosa ha prodotto e significato per una certa Italia colle sue opere, che tipo di lotta ha intrapreso per una certa rivendicazione di una identità omosessuale a cui però lo stesso Bellezza poco credeva, e soprattutto cosa sia stato l’avvento dell’AIDS negli anni Ottanta. Non a caso, sebbene conoscessi Dario dagli anni Ottanta, essendosi lui occupato anche della mia poetica, la mia partecipazione al docufilm è incentrata sulla malattia e sulla morte del poeta, avvenuta nel marzo del 1996. Alle loro ricerche ha contribuito lo studioso Marco Beltrame, che si è appena laureato con una tesi sul teatro di Bellezza. Ci auguriamo che, a ottant’anni dalla sua nascita (tra l’altro manco celebrata, ennesimo scandalo di una Italia che dei poeti non sa che farsene), il docufilm possa essere uno strumento per avvicinare i giovani ad un poeta celebrato ma forse poco compreso, soprattutto nel mondo editoriale nostrano”. 

LIBERAZIONE, VIBRAZIONE, ESISTENZA PURA E NOBILE: Alessandra Macrì ci accoglie nella sua narrativa e Greta ritorna più bambina che mai

Ironica, intelligente, solare, ma anche misteriosa, profonda, lontana quasi lunare. Così appare Alessandra Macrì durante l’intervista, instaura da subito una grande apertura, ha voglia di parlare, una esigenza, una necessità, una urgenza, tutto in Alessandra è urgenza ed emergenza proprio come il comportamento di una bambina, di quella sua donna-bambina che ha fatto conoscere così intimamente e apertamente nel suo romanzo Greta tace. Con disinvoltura e senza alcun freno, senza nessun filtro, Greta è entrata nelle nostre vite in maniera convulsiva e compulsiva, è diventata ossessione, dannazione, un bisogno irrinunciabile. Greta entra e non esce mai, chiunque l’abbia letta, conosciuta, incontrata non ne riesce più a fare a meno, non se ne libera, perché non se ne vuole liberare, perché Greta è un pezzetto di ognuno di noi, non importa se uomo o donna, ed è proprio quella parte essenziale per comprendere dinamiche, evoluzioni, passaggi esistenziali, emotività, debolezza e forza. Greta è quella parte di noi immortale, esiste al di là del tempo, oltre il tempo e le sue battaglie, è nel tempo e si sposta nel tempo, passato, presente, futuro, a volte confondendoli ma in ogni caso rendendo sempre tutto unico ed irripetibile. Straordinario romanzo di cui abbiamo deciso di parlare con l’autrice pur essendo stato pubblicato nel 2021, perchè il bello non ha mai un tempo predefinito e predestinato, esattamente come Greta. 

Condi-Visioni vuole uscire fuori da schemi prestabiliti e formali, volendo recuperare libri di valore, raccontandoli insieme all’autore, senza essere pressata dalle uscite del momento e senza legarsi a vicende necessariamente promozionali. 

Ringraziamo Alessandra Macrì che, in questo spirito e con questa visione, ci ha concesso l’intervista e ci ha fatto conoscere Greta. 

Lo ha definito “Il testo di una lanciatrice di coltelli”, immagine che coglie nel segno e ben rappresenta il suo ultimo romanzo “Greta tace”, perché tanta rabbia, un linguaggio feroce, frasi da cui si vorrebbe scappare via per paura che ci riguardino troppo da vicino e che raccontino anche la nostra storia?

“Ho pensato a come rispondere nel modo più sincero che posso. E quindi ammetto: non lo so. Questo libro è nato dall’amnesia di cosa si andava auto generando, come fossero altrettante parti di testo che emettevo come un’altra si libererebbe di spine, aculei e, appunto, coltelli. Disposti secondo geometrie caotiche, conficcati nelle carni. Armi di cui magari tuttora dispongo oppure l’esito di quel tipo di cadute da cui apparentemente esci illesa e invece il crepaccio era rivestito di rovi, lame, denti di fiere e qualche porcospino.

Greta tace è nato tra amnesie e ritorni. Ogni volta dovevo darmi a una ricerca abbastanza complicata dei file che ne occultavano le parti. Era una sola trama fatta a pezzi e protetta in nascondigli, ogni volta dovevo dimostrarmi la necessità di ripiombarci dentro innanzitutto recuperandola nel marasma del mio Mac.

Capitava che avvertissi l’urgenza di tornare alle vicende che io stessa avevo inventato così come torno ai libri di autori che poi finisco per amare. Sono disordinata nell’approcciare tutto quello che coincide con la parola amore.

Rispetto agli altri esempi che so, per averli vissuti, di questa parola, Greta tace si contrappone con la forza di un enigma. Fa diventare ideogramma, fonema, replica teatrale quello che di me vorrei non andasse perduto, e insieme impone la fuga”.

La “bimba” è la figura ricorrente nel romanzo, la bimba sotto diverse forme, “la bimba casa”, la “bimba bambola”, “la bambina eterna”, questa figlia rifiutata dal padre, non voluta, “era restata bambina per farsi volere”, la “prostituta bambina”. Quasi fosse una continua ossessione da cui non vuole liberarsi, o non può, cosa rappresenta questa bambina?

“Una forma perfetta. Non è immediatamente intuibile forse proprio alle lettrici, alle donne mosse dall’impulso di confrontarsi contrapponendo la propria alla forma di ogni altra femmina, un fatto che invece sospettavo mentre scrivevo imponendomi di non avere filtri. Il dolore ha la meglio su ogni altra percezione. Puoi piacere a tutti, e a tutti essere estranea.

Greta ha il dono/dannazione di una sensualità potente. Seduce al netto di malizia, incapace di premeditazione. Scatena desiderio mentre è impegnata a cercare tutt’altro.

Proprio come i bambini, non condivide intenzioni e obiettivi degli ambienti che abita.

Il suo è un destino da sequestrata dalla stessa materia che la compone.

Questa contraddizione fra cosa sente e cosa di lei vede l’intorno, è un presupposto letterario che m’è sembrato irrinunciabile. Gregor Samsa si trasforma in orrido insetto manifestando il destino che ha rimuginato nell’assenza di ogni sentimento che vorremmo ascrivere all’umano. Viene aggredito a colpi di bastone persino dal padre. Greta è la figlia capitata al modo di un’immagine di cui non ti puoi disfare. Espone a suo padre l’irreversibile quando acerba e tenera come non potrebbe essere la Lolita di Nabokov, se ne va a farsi scomparire gli arti in una piscina d’acqua salsobromoiodica in cui scompaiono le deformità di individui con handicap gravi, e gravi malattie dermatologiche. Quando Greta inizia a percepirsi identica ai mal nati, la forma ibrida che ha assunto, da non ancora adolescente, qualcosa di anteriore pure alla ninfa, vieta al padre di abbandonarla. Dopo aver trascorso l’intera infanzia della ragazzina dandosi a tutte le fughe ipotizzabili, mal digerendo ogni ritorno a casa, quando attorno agli undici anni Greta inizia a cercare i modi per levarsi dal mondo, lui inizia a regalarle i peluche che si regalerebbero a una bimba di due. Indietro di tutte le puntate della vita della figlia, per la prima volta la vede.

Greta non fa altro che adottare quel primo sguardo della prima volta che il padre l’ha guardata”.

Altre tematiche ricorrenti sono il teatro, il rapporto con il cibo, la chirurgia estetica, il corpo, canoni estetici non necessariamente di bellezza ma che rappresentano una gabbia, una prigione, un’altra ossessione. Quindi la finzione, l’apparenza, la rappresentazione. Sembra quasi ci sia un bisogno di fuga da un mondo reale oppure un rifiuto. 

“È arduo scrivere d’amore se lo si vuole riferire a cosa sta nelle possibilità dei maschi. Sono fra quelli che annuiscono quando con i suoi personaggi più credibili Michel Houellebecq sostiene che per gli uomini l’amore per una donna non è altro che  desiderio. Mi interessava scrivere di una giovane donna che ne è consapevole. Una che si riconosce solo nel preciso istante in cui un maschio inizia a perdere lucidità potendola toccare. Mi interessava Greta fosse una lente del maschile. Quando mi chiedono se Greta mi somigli, qualcuno l’ha persino sovrapposta alle immagini di me che ci sono in rete, realizzo che sono riuscita a farla scomparire, così come lei voleva, nella bramosia dei maschi. “Non c’era da attirare il desiderio. Il desiderio era in colei che lo provocava o non esisteva. C’era fin dal primo sguardo o non era mai esistito”, chiarisce ne L’amante Marguerite Duras. Non m’è particolarmente simpatica, eppure l’ho accontentata. E mi sono messa a indagare la forma di nutrimento che sostituisce ogni altro cibo: l’ossessione. La liberazione sessuale ha indotto diversi gradi di confusione riguardo il concetto di emancipazione. Trovo interessante partecipare delle fantasie dei desideranti solo se il desiderio è scoppiato in mania. Essere la sola che può appagare. Il corpo perennemente evocato. Il titolo che avevo scelto è La favorita. Avrebbe chiarito in modo già abbastanza plateale la vocazione teatrale di Greta (è puro istinto a una drammaturgia insostenibile ciò che anima codesto io narrante), e con la sua, chissà, anche la mia”.

Anche il rapporto con la madre e con il padre appare un altro ambito in cui Greta si addentra per farsi ulteriormente del male, sembra impossibile che una protagonista così piccola fisicamente possa reggere tutto questo mondo e questa storia che quasi è impossibile da far entrare dentro, Greta è così esile perché rifiuta tutto e tutti?

“Il dolore ha la meglio su ogni altra percezione. Una madre dovrebbe forse addirittura farsi nutrimento senza interruzioni. Dovrebbe mantenere i connotati della prole, nella forma che dà l’appagamento perfetto. Certe bocche che affiorano come un miracolo sul volto delle bambole meravigliose. Greta non ha alternative al digiuno. Percorre estatica territori che le resteranno estranei, si dà a figuri che si comportano con l’estraneità di Meursault – lei è la nausea che nella canicola, a riva, fa di Meursault un assassino – sa che non è passibile di evoluzione la sua storia”.

La struttura del romanzo è davvero singolare, si può cadere in confusione nel momento in cui lo si legge quasi fossero dei racconti e non un romanzo. Come nasce questo tipo di impostazione?

“La struttura di un romanzo dipende dalla quantità di oggetti che avverti reali, come tu li potessi toccare, sul corpo della pagina. Ho fatto a pezzi la trama disseminandola di manufatti. Scrivere è fabbricare sedie, tavoli. Compongono uno spazio che ha una sola combinazione possibile. Così come c’è una sola parola fra le molte a cui potrebbe accedere lo scrittore per dire con l’efficacia del punteruolo cui accennavamo, cosa sente e quello di cui si fa tramite, così esiste una sola struttura capace di trasmettere il marasma che lo sequestra.

Mania marasma ossessione. Parrebbe che la scrittura coincida col desiderio nelle uniche accezioni in cui lo so concepire.

Gli oggetti che mi reclamavano alla narrazione sono simboli.

Disegnano la ragnatela dentro cui mi auguro si perdano i miei lettori”.

Sembra voler mettere alla prova l’attenzione del lettore, come a volerlo a tutti i costi e tutto per sé, non sono concesse distrazioni nella lettura di Greta tace, né pause, né esitazioni. Lei è uno scrittore esigente non solo verso sé stessa ma nei confronti dei lettori.

“Ho bisogno di emozionarmi leggendo. A maggior ragione se si tratta di pagine che vengono da me. Il libro deve diventare tutto il mondo che c’è. La ragnatela di Aracne”.

“Non è poi così male restare senza prospettive ad 11 anni” è una frase terribile ma che può essere pronunciata solo da una donna forte, cresciuta sotto i bombardamenti, i comportamenti degli esseri umani malati, perversi, patologici, crudeli e maledetti.

“O da una persona che non ha potuto permettersi l’incoscienza dell’infanzia.

Avessi tutti lettori come lei!

In effetti questo l’ho detto io, e non il mio io narrante”.

Roberto, Giulio, Stefano, tutte figure maschili deviate ed in qualche modo pericolose, Greta porta in sé il concetto di morte qualunque cosa faccia e sceglie quasi chirurgicamente i suoi uomini, però a me non dà l’impressione che Greta sia una vittima, credo che lei voglia tutto quello che le capita perché le dà potere e dannazione e lei non può vivere senza.

“Questo accesso alla mania altrui, ciò da cui si fa percorrere come un malanno terminale. Dispone di due strumenti che sono l’inganno sublime del femminino: il corpo e il silenzio”.

Greta si concede completamente agli uomini, tutti i suoi bisogni sono “un uomo”, uomini che le danno tutto tranne la possibilità di essere sé stessa, Greta ipnotizza, così come la scrittura con cui viene rappresentata. Come nasce questo personaggio così complesso, irrisolto ed interrotto?

“C’è in tutti i romanzi che amo, anche di autori contemporanei, violenza che trascende le proprie intenzioni. Ciò che accade fregandosene di chi ne farà le spese leggendo, ma soprattutto di chi ha permesso si manifestasse. Energia magmatica, insiste a pretendere sé stessa. Il corpo di Greta è alimentato da forze del tutto simili”.

“Ogni volta che fingi di non avere fame ti stai consegnando alla fame di un altro”, ancora una frase molto forte che fa riferimento al cibo ma il cui significato è ben più profondo e drammatico. Perché correre il pericolo di consegnarsi “alla fame di un altro”.

“Per avere accesso al suo segreto. La fame predispone al delirio. Riorganizza le parti che ci compongono attorno all’istinto di sopravvivenza. Ci fa bestie. Arcaiche e smisurate”.

Perché “restare bambina per farsi volere”?

“Sono faccende interrelate. Restare digiuni per consegnarsi non al nemico, non al carnefice, ma esanimi e feroci alla fame di un altro. Come i bambini, che non opponendosi per mancanza di prove a sfavore dell’altro, si affidano. Ciechi.

La diffidenza è pelame scomposto, fa ruvidi e respingenti i lineamenti di esseri altrimenti puri. Avrei voluto arrivare alla fine dei miei giorni ignorando la necessità di difendermi. Anche su questo punto ho accontentato Greta. Lei se lo è potuta permettere”.

Oggi le adolescenti, ma anche in parte le donne, si sentono come qualcuno di perfettamente sostituibile, vivono tutto senza dramma ma anche senza intensità, esattamente l’opposto di ciò che fa Greta. Come hanno accolto Greta tace le donne, soprattutto quelle più giovani?

“Alcune sono corse ai ripari. E come capita spesso, sono partite dalla cura del corpo. Qualcuna si è rivolta al chirurgo plastico, al personal trainer. Altre hanno fatto pulizia in armadi zeppi di vesti scelte per caso, di contatti inutili in chat. Le giovanissime hanno preso questo libro come talismano, viatico a rapimenti sensuali, a stravolgimenti di meccaniche e incastri che oramai si assumono su Google come si trattasse di un medicinale da ingollare ai pasti, scorrendone distrattamente il libretto delle istruzioni. Greta tace suggerisce che morire una sola volta consegnandosi alla passione, non basta. Per fortuna non ho mai creduto di voler insegnare qualcosa”.

Nel romanzo vengono raccontate immagini molto forti, a volte tali da farvenire crampi allo stomaco, vertigini, stordimento, la narrazione a sfondo sessuale passa in secondo piano perché ciò che predomina è questo senso claustrofobico di eccesso o privazione, manca sempre la sensazione di equilibrio e questo crea terrore. Era questo che voleva Alessandra Macrì?

“Alessandra compare al centro del romanzo facendo strame di Greta. Dice la morte che potrebbe lei qualora fosse un filo esagerato morire per amore. Altro equilibrio non so immaginare. Eccedo allenandomi, a 11 anni ho intravisto la pista di “La lunga marcia” al posto di tutte le strade. Non mi sembra di essermi fermata. Se contassi i chilometri percorsi finora, crampi un po’ ovunque e mancamenti verrebbero a me. Eccedo nella lettura. Negli incubi. Nel tempo destinato a cause perse. Mi auguro di averne davanti moltissimo”.

In questo romanzo sembra non ci siano sentimenti, tutto accade, tutto avviene, tutto si srotola continuamente sotto i piedi e questi piedi sembrano non poggiare mai a terra. Però Greta di sentimento ne ha tantissimo sin da piccola ma questo sentimento l’ha sempre spezzata e l’ha sempre consegnata a qualcuno o a qualcosa. Cosa mi dice in proposito?

“Ha a che fare con la questione della predisposizione agli eccessi. Se uno fa cose  smisurate, sente in modo smisurato. Però credo che parlare d’amore sia attività da terapeuti o uomini di fede. Una qualsiasi. Mi limito a constatare l’amore che tiene in piedi la mia ricerca. Di Greta so solo che non avrebbe potuto fare altrimenti”.

Sappiamo che sta scrivendo già il suo prossimo romanzo “Attraverso i miei passi”, può anticipare qualcosa per i nostri lettori?

“Stavolta do voce a una che tendo a proteggere. Si chiama Lara. Mi mette a fare i conti con un sentimento di impotenza atroce. Mi induce picchi di malinconia che mi stanno rovinando i giorni. Non è un buon nascondiglio questo nuovo romanzo. Espone ferite, soffitti scrostati. Mi chiedo cosa ne sarà della realtà che calpesto, quando smetterò di farlo”.

Greta tornerà?

“È già tornata in un romanzo di fantascienza esistenzialista, l’ho interrotto per dedicarmi a Lara. In realtà Greta non è mai andata via come ha correttamente notato lei nella introduzione a questa intervista, per cui vorrei ringraziare Condi-Visioni perché tornando a parlare del romanzo Greta tace edito nel 2021, ha saputo cogliere il significato che dovrebbe essere dato ad un testo indipendentemente dalla data di nascita, dalla sua diffusione, dalla sua presentazione, soprattutto in questa nostra epoca, unico momento storico in cui lo spirito, in nessuna forma, ha più alcuna importanza. Un buon testo esiste se continua a far esplodere la sua energia, oltre il materialismo ed oltre un eccesso di concretezza e di contingenza. Questo dovrebbe essere il giusto orientamento della critica letteraria, per il riconoscimento, la valutazione e la scelta dei testi da far conoscere e da diffondere, ripeto, indipendentemente dalla data di pubblicazione”.

Avendo accesso potenzialmente ad una infinità di informazioni, ci sentiamo forti di saper distinguere la realtà dalla finzione. Si parla spesso di “Fake news”, di disinformazione, di manipolazione della realtà, di propaganda politica e forse abbiamo iniziato a capire che se “c’è scritto sul giornale” questo non vuol dire che sia la verità.
Abbiamo compreso che nel mondo ci sono persone che manipolano i “fatti” per farli leggere in modo distorto e mostrare agli altri una “realtà diversa”. Già nel suo “L’Arte della Guerra” Sun Tzu (e siamo nel quarto secolo prima di Cristo) sintetizzava che “La guerra si fonda sull’inganno” e forse in questi anni – in questi mesi in particolare – più che in altri ci rendiamo conto di quanto possiamo essere preda di questa “arte” della manipolazione.
Complici eventi terribili e spaventosi abbiamo capito quanto questioni politiche, sociali o anche scientifiche, possano essere alterate dalle capacità retoriche di alcuni personaggi, e quanto possiamo essere influenzati dalle manipolazioni emotive.
Ecco.
Quanto riconosciamo questo comportamento nel dibattito pubblico? Quanto, leggendo queste poche frasi, ci sono venuti in mente personaggi e situazioni che abbiamo letto sui social network o visto in TV?
Ma che succede se questa “arte della guerra” ce la ritroviamo tra le quattro mura di casa? Siamo davvero capaci di individuarla, di gestirla?

Assertivamente” è il nuovo libro di Giusy La Piana e tratta la comunicazione focalizzandosi sull’affermare del proprio punto di vista, senza cedere alle tecniche (consapevoli o meno che siano) adottate dalle persone che hanno uno spirito manipolatorio.
Ne parliamo con l’autrice in un clima molto cordiale e simpatico, tanto che in pochi attimi ci troviamo a darci del tu con una naturalezza incredibile.

Giusy La Piana è nata e vive in Sicilia. È autrice di saggi, testi teatrali, televisivi e musicali. Terminati gli studi liceali ha conseguito il diploma di Autrice presso il CET di Mogol e contestualmente ha intrapreso la carriera giornalistica. Dopo la laurea magistrale in Scienze della Comunicazione si è specializzata in Scienze Criminologico-forensi, Psicologia investigativa, giudiziaria e penitenziaria, Counseling e Coaching Skills. Ha condotto ricerche in pragmatica della comunicazione e su cultura, scrittura e strategie di comunicazione delle organizzazioni criminali. È socio professionista della Federazione Relazioni Pubbliche Italiana. Tiene corsi sulla comunicazione interpersonale e professionale.

Tra i suoi libri: “Strategie di comunicazione mafiosa” (SBC 2010), “Fare del male non mi piace. La carriera criminale di Bernardo Provenzano” (Castelvecchi 2016) e “Se menti ti scopro. Manuale di Sopravvivenza nella giungla quotidiana della comunicazione” (Ultra 2018)

Domanda: Mi sono avvicinato a questo libro – lo dico senza parafrasi – con una certa ritrosia da una parte e un po’ di curiosità dall’altra, perché all’Assertività davo un connotato di prevaricazione, quasi di voler imporre il proprio punto di vista agli altri. Ma non è così. Cos’è l’Assertività?

Risposta: Essere assertivi è scegliere un cammino costruttivo ed improntato verso la libertà: la libertà di essere noi stessi, nella consapevolezza dei nostri diritti e delle nostre responsabilità, di fare scelte coerenti con le nostre intenzioni e il nostro sistema di valori, di agire per la nostra realizzazione senza prevaricare sugli altri e senza soffocare noi stessi.

Il sottotitolo di questo libro molto interessante è “Strategie di Comunicazione Interpersonale”. Quanto è importante essere assertivi in una discussione o in una relazione? Qual è il ruolo dell’assertività nel promuovere relazioni più sane e rispettose?

Il comportamento assertivo offre certamente numerosi vantaggi per migliorare la comunicazione interpersonale e stabilire sani confini a tutela e rispetto della nostra dignità personale e professionale. È un ottimo modo per prendersi cura delle nostre relazioni amicali, sentimentali e professionali. Assertività e cuore aperto mantengono in salute le relazioni, poiché le persone assertive sono in grado di assumersi la responsabilità dei propri sentimenti, belli o sgradevoli che siano, e di condividerli.

L’Assertività, dici nel libro, non fa “immolare l’anima alla divinità del compiacimento altrui”. E’ una visione davvero molto “potente” e forte. Anche perché questa divinità è una divinità a volte maligna, che ha un volto oscuro.

La compiacenza apre la porta all’infelicità ed è nutrimento per l’altrui arroganza. Sta a noi capire che alla fine di ogni processo, di ogni momento sfidante, arriva sempre l’opportunità per aggiungere un pizzico di consapevolezza in più rispetto al passato. È fondamentale chiedersi: “Cosa faccio ogni giorno di nuovo per provare a cambiare le cose?”. Possiamo creare nuovo benessere condiviso alzando la leva della compassione, della gratitudine e della gioia in modo da sfocare la tendenza tossica alle lamentazioni e alla rassegnazione.

Mi ha colpito molto che in parte questo libro è stato scritto come fosse un manuale. Ci sono nozioni teoriche, ma anche casi pratici ed esercizi per aiutare i lettori a sviluppare l’assertività. A chi può essere utile questo “manuale di comunicazione”?

Imparare l’assertività già da giovani rappresenta sicuramente un’ottima base di partenza per la propria qualità di vita. Questo libro è destinato a chiunque voglia mettere in azione il proprio potenziale. A chiunque attraverso una comunicazione costruttiva e proattiva voglia migliorare la qualità delle relazioni, superare momenti di crisi e conflitti sul fronte personale e professionale, coltivare una buona stima di sé, tutelare i propri valori personali e spazi esistenziali. A chiunque lavori nel campo delle relazioni: dagli educatori agli psicologi, dai medici ai manager, dai politici ai consulenti. L’assertività è utile pure per agevolare il dialogo tra genitori e figli, nelle dinamiche tra amici e tra colleghi, ma anche per imparare a dire no, a fare o ricevere critiche, per negoziare e per la realizzazione di obiettivi. Inoltre, visto che è in corso una verticalizzazione dell’odio online, con un incremento di messaggi carichi di intolleranza, discriminazione ed esclusione, è fondamentale imparare ad essere assertivi anche nelle nostre comunicazioni sui social.

Nell’ambito di una società in cui spesso prevalgono approcci comunicativi aggressivi, quanto può essere dirompente l’assertività per “rompere” il circolo di una comunicazione manipolativa?

L’aggressività distruttiva è uno dei volti della disistima di sé. Più l’assertività si diffonderà come stile comunicativo cui aderire naturalmente, meno bullismo attecchirà nelle scuole. Più abbracceremo l’assertività e più difficoltà avranno ad attuare le loro strategie i manipolatori, i prevaricatori e gli approfittatori che incroceremo.

Una delle tue specializzazioni professionali è in Criminologia. Ma quanto c’è di criminale nella manipolazione sentimentale che
si può avere in un rapporto di coppia?

La manipolazione riesce ad insinuarsi dove sono presenti mancanze, fragilità o paure. Il manipolatore per mantenere il suo potere spesso fa leva sul nostro senso di colpa. E più la manipolazione prende campo e più l’autostima di chi la subisce rischia di sgretolarsi. Anche in questo caso la pratica assertiva può aiutare a non perdere di vista se stessi e ad intraprendere le necessarie azioni di contro- manipolazione per ristabilire i giusti confini, prendere le legittime distanze e porre limiti alle pretese dell’altro. A conclusione di una delle presentazioni di Assertivamente, una ragazza si è avvicinata timidamente a me e ha detto: “Sono dentro una brutta situazione e non so come uscirne. Gli uomini che cercano di distruggere noi donne alla fine di cosa si nutrono? Quale sarebbe il loro guadagno?”. I suoi occhi si sono riempiti di lacrime quando l’ho invitata a non cercare giustificazioni nei confronti di chi la starebbe maltrattando. E ho aggiunto che chi tenta di distruggerci si nutre proprio della nostra devastazione. Non la conoscevo ma ho riconosciuto il suo sguardo dalla vitalità appannata. Lo stesso che ho visto in decine di persone che erano impantanate in situazioni di dipendenza affettiva, in relazioni distruttive con partner manipolatori, sopraffattori, persecutori. Purtroppo nel nostro Paese c’è una guerra in atto da molti decenni ma di cui l’opinione pubblica si ricorda, per poche ore o giorni, giusto il tempo che si esaurisca la curiosità su tutti i dettagli emersi dopo l’ennesimo femminicidio. È una guerra che ammazza oltre 100 donne l’anno. A portarla avanti sono individui umanamente mediocri e mentalmente programmati alla pretesa di dover sottrarre ogni forma d’indipendenza alla donna che prendono di mira, che considerano come cosa da possedere, fino ad arrivare a strapparle anche l’ultimo refolo di ossigeno vitale. Bisogna ricominciare dalle basi: da “quell’ama il prossimo tuo come te stesso” inteso come profondo rispetto per se stessi e nei confronti di chi ci circonda.

Nei tuoi libri precedenti ti sei occupata del mondo criminale delle mafie. Qual è il grado di comunicazione manipolatoria che c’è all’interno del tessuto mafioso? Ti faccio la domanda perché è davvero sorprendente – come poi riporti nel sottotitolo di uno dei tuoi libri – che Provenzano, uno dei Boss più importanti di “Cosa Nostra” sostenesse che “non gli piace far del male”…eppure…

Ho iniziato a studiare sotto il profilo criminologico-comunicativo le strategie di comunicazione criminale circa 20 anni fa. Ogni volta che un laureando mi scrive per comunicarmi di aver utilizzato i miei libri per la sua tesi, ogni volta che altri autori mettono in bibliografia i miei lavori, mi rendo conto di aver seminato bene. La comunicazione della mafia è molto più di un linguaggio: non è solo un codice, è ragionamento, combinazione astrusa fra delirio e implacabile logica, fra paranoia e lucida razionalità. I parametri di moralità o di concezione di bene o di male che conosciamo e usiamo all’esterno dell’organizzazione criminale non sono applicabili al suo interno. Il mafioso non si percepisce dalla parte del torto, non considera come un disvalore la sua azione criminale e persino quando ha già all’attivo omicidi, estorsioni e traffici è convinto di essere molto religioso. L’adesione all’organizzazione mafiosa spesso è figlia dell’illusoria convinzione di fare il vero salto di qualità. Mentre apparentemente tutto tace, la mafia comunica e dissimula, intessendo le sue sotterranee ma incisive “tecniche di persuasione” per agganciare politica, imprenditoria, professionisti e manovalanza varia.

    Gio mi apre la porta e mi invita ad entrare dentro casa sua. I suoi occhi, scuri e profondi, riescono ad avere sempre un’incredibile luminosità. Lo abbraccio con affetto, quell’affetto che lega due anime in sintonia. C’è così tanta bellezza attorno a me che ne rimango estasiata, ogni oggetto è pregno di arte ed ha una storia tutta sua che vorrebbe raccontare. Una cosa in particolare mi rapisce lo sguardo: uno splendido cuore sacro incorniciato.
    “Adoro gli EX voto” gli dico.
    “Adoro i cuori” mi risponde lui, ed è in quel momento che spuntano, come richiamati all’appello, tantissimi cuori, in ogni sorta di materiale, forma o colore. Ci accomodiamo sul divano, mi offre una birra e iniziamo la nostra chiacchierata.
    Mi trovo qui perché non ho potuto non pensare al suo lavoro artistico riflettendo sul significato della parola “insolito” e perché lui è stato carino ad accogliere con entusiasmo una proposta fatta senza il minimo preavviso.

    Salvatore Giò Gagliano, per gli amici Giò è un artista vercellese, un educatore presso ANFFAS onlus Vercelli e un arte-terapeuta. Classe 1977, ama definirsi un diversamente fotografo, la sua passione è catturare la bellezza umana, la sua arte è vederla anche dove gli altri non sanno farlo, e incanalarla nelle sue foto, per renderla fruibile e leggibile a tutti. Lontano da stereotipi e discriminazioni, ci insegna ad abbracciare la diversità, che è una ricchezza inestimabile per tutti noi, e a tenere viva la curiosità per le tante storie che le sue immagini narrano.
    Dal 2000 lavora come educatore e ha partecipato a diverse mostre collettive e personali, sia in Italia che all’estero.

    Origini

    Come è nata la tua passione per la fotografia e cosa rappresenta per te?
    È una passione che ho fin da piccolo, quando, per la prima comunione mi hanno regalato una macchinetta della kodak con cui ho iniziato a sperimentare, coinvolgendo mia cugina che mi faceva da modella. Il vero lato artistico, però, è arrivato nel 2000, dopo un percorso accademico nel quale mi sono cimentato prima con la pittura e la scultura. Precisamente durante la preparazione di una mostra, una triennale di giovani artisti, che in quell’anno affrontava il tema della guerra. Mi ricordo che avevo a disposizione degli oggetti specifici per costruire un’istallazione: delle cassettine di legno e plastica, che rappresentavano le guerre del passato e le guerre presenti, alle quali ho aggiunto un collage di fotografie in cui avevo immortalato tutti i miei familiari, intervenendo infine a livello pittorico. È stato lì che ho realizzato il grande potere della fotografia per comunicare agli altri quello che avevo dentro, quando la pittura e la scultura non mi bastavano. Ho capito che in questo modo sarei potuto andare oltre e da quel momento le foto sono diventate il mio mezzo artistico.

    [Immagine fornita dall’Ospite]


    Nel 2004, con “I Volti della Passione” sono riuscito ad unire le mie due vocazioni: l’arte ed il sociale, ambito nel quale avevo appena iniziato a lavorare. Questo progetto è nato per la Biennale del Mediterraneo. Mi sono reso conto che in tutta la storia dell’arte nessuno aveva mai affrontato il tema delle disabilità, se non per mettere in ridicolo i suoi soggetti, come facevano nel Settecento, per esempio. Ho subito pensato alla Pietà del Michelangelo, come passione, coinvolgendo Roberta, una ragazza con la sindrome di down, e Andrea, un ragazzo spastico, nei panni di Cristo, per vedere cosa ne uscisse fuori. Gli abiti vennero realizzati da mia madre e da mia zia, io ricreai il calice del Bacco del Caravaggio mettendo insieme un
    candelabro con un piatto di vetro sopra, e gli scatti furono effettuati tutti in analogica.
    Questo progetto è durato fino al 2009, quando ho realizzato la mostra. Grazie al Comune di Vercelli sono stati diffusi più di 30 cataloghi in tutta Italia e le mie foto sono arrivate a svariati giornali di arte. Negli anni a seguire, altri fotografi hanno trattato progetti simili, alcuni con mezzi e sponsor anche molto importanti, ottenendo grande risalto.

    Parlami dei tuoi progetti.
    Attualmente mi sto dedicando a Kouros, un progetto benefico che ha come protagonista Marco. Marco è un ragazzo ventenne, che due anni fa ha perso la gamba destra in un incidente in moto. Io sono venuto a conoscenza di questa storia un anno dopo, leggendo l’articolo su Facebook, in cui si parlava anche di una raccolta fondi “una mano per una gamba”.
    Naturalmente mi sono sentito in dovere di dare il mio contributo, ma rendendomi subito conto che fosse una goccia in mezzo al mare. Volevo fare di piu. Ho contattato Marco su instagram, dicendogli che mi avrebbe fatto piacere conoscerlo e sostenerlo, con l’unico mezzo di cui disponessi, ovvero la fotografia.
    Oltre a questo, il mio desiderio era quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sul fatto che anche senza una gamba si può fare, come ha fatto Marco, e, contemporaneamente dimostrare che un arto mancante non priva un corpo della sua bellezza.

    [Immagine fornita dall’Ospite]


    Ci siamo incontrati e lui mi ha raccontato la sua storia. Io non lo sapevo, ma la ASL passa una protesi, la cosiddetta “gamba di legno”, che come si può facilmente intuire è una protesi molto rigida, che limita i movimenti. Per avere una “gamba” che gli conceda dei movimenti normali e fluidi è necessario un bell’investimento economico: la cifra è di 58 mila euro, ogni anno prevede circa 2 mila euro di manutenzione e ogni 5 anni andrebbe cambiata. Sono rimasto colpito dalla serenità con cui ha affrontato tutto questo: quando Marco si è risvegliato ha pensato di essere fortunato e che sarebbe potuta andare peggio. Era grato per essere rimasto in vita. Questo per me è stato come una pugnalata nel cuore. Per me lui è un eroe, un
    mito e da qui nasce la connessione con le antiche statue greche, con la loro eterna bellezza,
    seppur private di una gamba o un braccio. La rappresentazione visiva è il Kouros: questo giovinetto che mantiene sempre una posizione molto eretta e che ha la particolarità di avere la gamba sinistra leggermente avanti rispetto a quella destra, come nel caso di Marco, in cui la sinistra è quella sana.
    Non credo alle coincidenze, ma credo che le cose capitino in un preciso momento, per un preciso motivo, per farti fare qualcosa di particolare.
    C’era bisogno di un progetto forte! Non volevo fare delle fotografie in studio, fine a se stesse.
    Ho pensato che il Museo Leone potesse essere perfetto con i suoi reperti archeologici. Il museo, non solo ha accolto con grande entusiasmo il progetto, ma ci ha messo a disposizione tutto lo spazio possibile per scattare, ci ha concesso l’utilizzo di reperti che raffigurano gambe, piedi o braccia (come rimando al nome della raccolta fondi “Una mano per una gamba”) ed ha riservato grande attenzione nei confronti di Marco. Inoltre ha esposto 6 delle 27 fotografie all’interno del museo vero e proprio, dislocando addirittura un’anfora antica per collocare una nostra foto. La mostra sta andando bene ed è di sostegno alla raccolta fondi, a cui partecipa anche la vendita all’asta delle foto. Il progetto vercellese si concluderà il 2 giugno, ma il mio desiderio è quello di portarlo anche fuori e dargli quanta più visibilità possibile.

    Un altro progetto in partenza è “Corpus”, un altro progetto benefico a cui sono stato invitato e che probabilmente partirà in autunno al museo del Duomo di Vercelli. Per questo lavoro sto creando un libro d’artista, un percorso sulle persone e la pelle che abitano, con le sue cicatrici, imperfezioni, con le sue malattie, con i suoi vissuti e la sua forza. Saranno 300 fotografie con la copertina in ecopelle rilegata con i fili di sutura. Ogni pagina sarà uno zoom, senza nessun riferimento al soggetto, ma solo con la descrizione delle peculiarità di quella pelle. Ho fatto una ricerca sui social per raggiungere l’ambizioso numero di soggetti da ritrarre e sono rimasto stupito delle risposte positive che ho avuto già in breve tempo.

    Ricordi un momento preciso o un incontro specifico che ha cambiato il tuo modo di vedere il mondo attraverso l’obiettivo?
    Attraverso I’obiettivo no, ma ci sono stati degli eventi durante le mostre che mi hanno toccato, uno in particolare, durante la mostra “I Volti della Passione” al Palazzo del Moro a Mortara. In questo spazio c’erano due ingressi: un’entrata ed un’uscita. Ad un certo punto due signore, anche un po’ trasandate, sono entrate dall’uscita e si sono fatte un giro piuttosto rapido della mostra. Il mio pensiero è stato “queste non hanno nemmeno capito di essere ad una mostra”.

    Le signore, alla fine del giro si sono avvicinate a me per condividere le loro impressioni. Mi sono sentito come se mi avessero preso a schiaffi, perché con uno sguardo veloce avevano colto tutta l’essenza della mostra e della mia arte.
    Siamo esseri umani, capita a tutti di peccare, perfino a te, che del non fermarsi all’apparenza ne hai fatto il pilastro portante del tuo lavoro e della tua arte.
    Da quel momento, ogni volta che faccio un pensiero del genere mi torna in mente quel ricordo e mi riprendo. È cambiato il mio modo di approcciarmi agli altri, non che prima giudicassi, perché sono sempre stato molto aperto, ma cerco di evitare questi scivoloni. Le differenze mi hanno sempre affascinato. Da piccolo ero ammaliato dai cinesi e dai loro occhi a mandorla ed ero incuriosito dal mio compagno delle elementari che aveva un ritardo mentale. Per me è ciò che ci rende diversi gli uni dagli altri a rappresentare il punto di forza dell’umanità.

    PROCESSO CREATIVO
    Come descriveresti il processo che segui per entrare in contatto con i tuoi soggetti? Come costruisci una relazione di fiducia con loro? Qual è il segreto per cogliere l’autenticità e la personalità dei tuoi soggetti?

    [Immagine dell’Ospite]

    Sono io che mi faccio condurre da loro, non sono io che conduco, come ho fatto con i miei ragazzi ( i ragazzi dell’ Anffas di Vercelli). Quando ho costruito “I Volti della Passione”, ho scelto i quadri sia per somiglianza che per caratteristiche, perché sapevo di andare a tirare fuori qualcosa da quella persona. Rosetta, per esempio, è appassionata di gioielli e bigiotteria, metterle quel orecchino di perla la faceva stare bene. E così ho fatto sempre, sia con i miei ragazzi, sia con gli altri modelli con cui ho lavorato. Solitamente sono io che chiedo agli altri cosa vorrebbero fare e quali sono i loro limiti. Anche con Marco è andata così, mi sono fatto guidare da lui, dai suoi movimenti. Intervenivo per suggerirgli di fermarsi solo quando la posizione mi sembrava giusta. Io mi fido e mi affido agli altri. È così che nasce il mio processo creativo. In base alle loro abilità e alla loro capacità di darmi fiducia a loro volta.
    Mi piace creare la relazione, è un momento intimo. È come fare l’amore: ti devi fidare e affidare, perché, che tu sia vestito o svestito, davanti all’obiettivo sei comunque nudo e vulnerabile. Vedo tante foto in giro che sono perfette a livello tecnico, ma che non trasmettono nulla.

    Che cosa è per te la bellezza?
    Non posso essere ipocrita e negare che la parte estetica non mi tocchi, ma io sono sempre stato affascinato dalla bellezza interiore, da quello che mi trasmettono gli occhi e il sorriso.
    Quello che viene da dentro rende bello il fuori. Ho fotografato tempo fa un soggetto fisicamente molto bello, eppure non ho sentito nulla guardando quelle foto, quella persona non mi è arrivata, vuoi perché non si è creato il giusto feeling, vuoi perché quella persona lì in quel momento non aveva nulla da trasmettere. La bellezza è sentire l’essenza di una persona e le sue fragilità, la bellezza è come si parla, come ci si muove, il profumo, la generosità nel dedicarsi agli altri.

    EVOLUZIONE PERSONALE
    Come è cambiata la tua visione del mondo e della bellezza attraverso il tuo lavoro?

    È stato un cambiamento enorme, io mi sono aperto sempre di più. L’arte mi ha aiutato e mi ha liberato dalle catene che io stesso mi ero messo. Mi ha dato il coraggio di espormi e di dichiararmi omosessuale. Mi ha liberato dal bisogno di mettere sempre delle etichette. L’arte mi ha aiutato anche nel periodo della pandemia, nel primo lockdown ho pensato di non farcela: casa lavoro, lavoro casa; a lavoro mi avevano tolto la parte più bella che è quella degli abbracci e a casa ero da solo. Mai come in quel momento ho sentito il bisogno di comunicare con l’esterno attraverso le immagini, ed è così che è nato il progetto “Hope”. L’arte aiuta sempre. Questa è una cosa che mi appartiene sin da piccolo, quando tornavo a casa da scuola arrabbiato mi mettevo a disegnare, invece di parlare con mia mamma. L’arte per me è sempre stata un grande veicolo e negli anni mi ha aiutato ad aprire ancora di più la mia mente, a mettere da parte i pregiudizi e le paure, a migliorare il rapporto con il mio corpo e con lo specchio, a liberarmi dai condizionamenti sociali che ci vengono inculcati fin dall’infanzia.
    Prendi l’Eurovision, per esempio, la vittoria di Nemo quanta critica ha sollevato perché lui è non binario, perché ha indossato degli abiti femminili, e siamo nel 2024.

    Il tuo modo di comunicare attraverso l’arte racchiude dei messaggi che hanno un grande valore umano e sociale. Questo sicuramente ha portato con sé delle difficoltà.

    [Immagine fornita dall’Ospite]

    Ho fatto posare una ragazza down nuda – e sorride. Il lavoro fotografico con la disabilità è stato non solo quello di dimostrare che un ragazzo con la disabilità ha anche delle abilità, ma anche quello di scardinare il canone estetico. Il primo impatto con una persona è visivo e io voglio far vedere un corpo non perfetto in modo perfetto e poi riparlarne.
    Un grande lavoro è stato quello di affrontare con le scuole, e soprattutto con i licei, il mio progetto “I Volti della Passione”. C’è bisogno di lavorare con i ragazzi in età scolastica in questo senso. Trovo che nel mondo attuale due cose non funzionino più tanto: la famiglia e la scuola, perché tutte e due hanno perso un ruolo importante che è quello di educare. La scuola distribuisce nozioni, la famiglia è assente tende a giustificare ogni pecca del proprio figlio, perché altrimenti dovrebbero ammettere le proprie mancanze e le proprie colpe.
    Venendo meno questi ruoli, abbiamo una società allo sbaraglio e dei ragazzi che sono stanchi, delusi e annoiati dalla vita. La vita non è tutta rose e fiori, è una continua gavetta e ti mette costantemente in difficoltà.

    A proposito di famiglia e di difficoltà, mi stavo chiedendo se avessi mai incontrato degli ostacoli nei progetti che includevano i tuoi ragazzi. Penso soprattutto quando hanno posato nudi, come hanno risposto le famiglie che hanno dovuto darti il consenso?
    Quando ho creato “I Volti della Passione” ci sono stati solo due genitori che non hanno dato il consenso. Uno non ha aderito a priori, trattandosi di un nudo, e una mamma ha deciso di ritirarsi dal progetto successivamente perché non si è sentita a suo agio a vedere la figlia ritratta così. Un aneddoto particolare che invece vorrei raccontarti riguarda la rassegna internazionale d’arte moderna sul tema delle streghe, tenutasi a Benevento nel Palazzo Paolo V, poco prima della pandemia. Avevano accettato il mio lavoro con Roberta, esponendolo, per poi ritirarlo a causa delle lamentele di alcuni genitori, che fraintendendo il significato del mio progetto, hanno pensato che associarsi la sindrome di down al concetto delle streghe.
    Ma Roberta è sempre stata una mia modella e musa, e in quanto tale ha sempre interpretato qualsiasi tipo di ruolo.

    Se un giovane artista o fotografo venisse da te a chiederti dei consigli cosa gli diresti.
    Intanto io non mi considero un vero e proprio fotografo, mi piace definirmi diversamente fotografo. Un consiglio che darei ai giovani in generale è di non sentirsi mai arrivati. Fino all’ultimo giorno della tua vita tu non sarai arrivato. Bisogna volare bassi e non perdere mai la curiosità, quella di visitare mostre e di conoscere la realtà che ti circonda. Queste cose sono fondamentali. Se non viaggi e non conosci non ti puoi approcciare agli altri. Un altro consiglio, ma mi rendo conto che fa parte del mio modo di lavorare, è quello di creare una relazione. Per me è fondamentale non essere a senso unico, perché è un processo basato contemporaneamente sul dare e sul ricevere. Ho l’impressione che le nuove generazioni, rispetto alla mia, si brucino tutto subito. Io faccio arte perché è il mio ossigeno, il mio bisogno di comunicare con gli altri, ma mi sento il signor nessuno. Ora c’è il bisogno di emergere subito, anche senza alcuna dote né dedizione.

    Pensi che i social possano essere in qualche modo responsabili di questa cosa?
    Mah, credo che i social siano stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La mia convinzione è che tutto sia partito da un esperimento sociale, che personalmente ho trovato molto interessante e ho amato: il grande fratello. Secondo me questo ha portato alla creazione dei social e di tutto ciò che ne è seguito: delle persone sconosciute, senza nessun talento, entrano in questa casa, e una volta uscite da lì si ritrovano ad essere dei grandi personaggi. Questo ha fatto credere a tutti quanti, che pur essendo nessuno e pur non avendo delle capacità o talenti particolari, sarebbero riusciti lo stesso ad ottenere la fama.
    Tanti tra questi però sono finiti nel dimenticatoio, anche quelli che si pensavano intoccabili.
    Forse bisognerebbe scendere dal piedistallo. Forse solo la storia, se tu hai seminato bene, può acclamarti un grande artista. Gli artisti eterni sono quelli che non si sentono mai arrivati e che non sentono la rivalità, ma che si esplorano e si reinventano continuamente.

    Ginevra Amadio è giornalista e addetta stampa. Interessata al rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta, ha proseguito i suoi studi in Scienze umanistiche, laureandosi con lode in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con tesi magistrale dal titolo Da piazza Fontana al caso Moro: gli intellettuali e gli “anni di piombo”. Collabora con diverse testate e riviste, occupandosi prevalentemente di letteratura otto- novecentesca, cinema e rapporto tra le arti. Per Treccani.it – Lingua Italiana ha pubblicato un contributo dal titolo Quarant’anni fa, anni di piombo, sulle derive linguistico-ideologiche che segnano l’immaginario dei Settanta.

    [Immagine dell’Ospite]

    Ginevra, partiamo dalla stretta attualità. Visto che ti sei occupata specificatamente di queste tematiche, in particolare degli intellettuali e gli “anni di piombo”, cosa pensi del tweet di commiato alla brigatista Balzerani della prof.ssa Donatella Di Cesare, che ha sollevato tante polemiche e critiche? È stato veramente frainteso? Un problema di linguaggio? O un periodo che è stato tabuizzato come sostiene la Di Cesare? A scanso di equivoci, precisiamo che lei ha evidenziato che “malinconia” non significa “nostalgia” e che “le vie” sono state ben diverse, come testimonia tutta la sua storia personale e professionale. Ma infuriano ancora le polemiche.

    È proprio dal linguaggio che vorrei partire. La celebre frase pronunciata da Nanni Moretti in Palombella Rossa, “le parole sono importanti”, è ormai modulo locutivo comune e fotografa bene il senso di quanto si discute. Gli anni Settanta, formidabili e tragici, sono stati un periodo di violenza e furore, ma anche una delle fasi in cui si è maggiormente concretizzata la partecipazione alla vita pubblica. Gustavo Zagrebrelsky li ha indicati come il decennio di massima realizzazione dei principi della Carta Costituzionale: si pensi, ad esempio, al referendum sul divorzio e a quello sull’aborto, allo Statuto dei lavoratori, alla Legge Basaglia. Eppure, per qualche ragione che sfugge alla razionalità, si è scelto di collocarli in una lunga parentesi non ancora transitata dalla cronaca alla Storia. Ciò contribuisce a veicolare una narrazione parziale, che costeggia il campo dell’immaginario che per sua natura è una zona dai contorni ambigui, mai pacificati, in cui è possibile gettare ami e pescare ciò che più conviene. Giovanni Moro, figlio del Presidente DC ucciso dalle Brigate Rosse osserva che «a proposito degli anni Settanta abbiamo un linguaggio difettoso, fatto di parole ed espressioni che per lo più mancano di una sintassi che le connetta e le doti di significato». La stessa locuzione “anni di piombo” (che deve la sua fortuna al film del 1981 Die bleierne Zeit di Margarethe Von Trotta) innesca un cortocircuito in grado di censurare le bombe neofasciste e ricondurre in un unico fenomeno tutte le sigle della galassia armata dei Settanta, dalle Brigate rosse ai Nar. Ne deriva un’immagine dimidiata del decennio, che appiattisce sulla violenza politica un’esperienza più complessa, che vide coesistere molteplici forme di partecipazione, intervento e militanza, spesso radicalmente distanti da quelle dei gruppi armati. È in questa prospettiva che va letto il tweet della professoressa Di Cesare e la polemica che ne è seguita. Non si riesce, in questo Paese, a fare i conti con una fase storica complessa, a suo modo insondabile, “smarginata”, come tutto ciò che di contraddittorio esiste. Si ventilano complotti internazionali, manovre, giochi di Palazzo. E si dimentica la vita comune, i percorsi delle persone che a volte seguono tracciati terribili, sbagliati, incomprensibili. Con quelle parole, Donatella Di Cesare ha ricordato che una parte di Paese si è opposta a uno stato delle cose iniquo, ha combattuto la violenza neofascista e certe falde sotterranee delle istituzioni. Chi l’ha fatto ricorrendo alle armi ha compiuto un doppio errore: di azione e prospettiva. Non si può essere d’accordo con chi ha contribuito a imporre a quegli anni lo stigma del sangue. Ma parlare di “rivoluzione”, nella prospettiva della filosofa, equivale a un’altra cosa.

    Uliano Lucas. Sognatori e Ribelli, Bompiani 2018

    Molti intellettuali e accademici sono, a vario titolo, sotto “attacco”, Luciano Canfora, Donatella Di Cesare, Tomaso Montanari, Roberto Saviano, solo per citarne alcuni. Sono scaramucce mediatiche o c’è qualcosa di più profondo, magari un voler intimorire gli intellettuali come alcuni sostengono o un voler porre fine all’egemonia culturale di sinistra?

    Credo che parlare di egemonia culturale sia oggi un modo per alimentare una polarizzazione strumentale. Da un lato – il caso Scurati è emblematico – ritengo gravissimo l’attacco agli intellettuali, perché quando si arriva a censurare il pensiero critico ci si trova difronte alla meschinità del Potere, a quell’arroganza “ottusa” di cui parlava Pasolini negli anni Settanta. Dall’altro laro, tuttavia, io credo che la destra abbia uno spasmodico bisogno di affermare la sua visione, il suo paradigma, quasi a voler recuperare anni di supposto ritardo iscrivendo nel proprio Pantheon, e nella propria visione, una serie di figure più o meno rapportabili alla propria ideologia. In questa prospettiva, l’ansia di affermazione coincide con un bisogno di “difesa” che comporta, anche, la delegittimazione di quanto percepito come ostile.

    Ma ha ancora senso parlare oggi di “egemonia culturale”? Assistiamo ad un paradigma che si vuole sostituire ad un altro.  Oppure ci potrebbe essere un modo diverso di fare cultura?

    Mi ricollego a quanto detto in precedenza; la sostituzione del paradigma è, per certi versi, una spia di debolezza. Intendiamoci: esistono pensatori di destra che hanno segnato e segnano il dibattito culturale, contribuendo a diffondere uno sguardo altro – si badi bene, non alternativo – per arricchire l’orizzonte interpretativo. Ma è miope contrappore una visione ad un’altra, continuare a lavorare per separazione o sottrazione. Ecco, uno dei mali di questo tempo, a prescindere dall’ideologia, è la parcellizzazione del pensiero, la piena abdicazione al principio di totalità. Ogni argomento, ogni tema, ha bisogno di essere letto nel contesto, di nutrirsi di ramificazioni, di rivoli di motivi, immagini, visioni che contribuiscono a dar vita a un mosaico cangiante, ricco e sfumato. La cultura dovrebbe trovarsi al centro di questa rete o meglio ancora, nascere da questa.

    Lavori in modo poliedrico nel mondo della cultura. Cosa significa fare cultura oggi? Come viene recepita dai giovani?

    Fare cultura oggi significa confrontarsi con le sfide del presente e del futuro. Da sempre questo orizzonte è stata una porta privilegiata alla comprensione di certe sfide, di alcuni dati che lo stato delle cose impone di indagare. Viviamo un tempo sgangherato, segnato dall’inefficienza della politica, dalla mancanza di punti fermi e/o di riferimento in ambito ideologico-sociale, da drammi come la crisi climatica, migratoria, il ritorno della guerra. È vero, parafrasando Patrizia Cavalli, che le poesie, e dunque l’arte tutta, non cambieranno il mondo, ma possono permetterci di guardare con occhi ‘laterali’ alle urgenze in corso, di adottare uno sguardo sghembo per focalizzare le cose, per abradere la superficie apparentemente piana del quotidiano. I giovani soffrono questa mancanza di riferimenti perché la percepiscono come un’assenza sistemica che produce sfiducia e smarrimento. È necessario nutrire i loro interessi, intercettare i luoghi che abitano (anche quelli virtuali, a partire dai social), indossare le lenti del loro tempo. Solo così sarà possibile costruire un percorso nuovo e comune.

    Ritieni che la cultura di genere in questo senso possa portare dei cambiamenti significativi, in particolare verso la percezione del ruolo femminile e più in generale delle diversità?

    Senz’altro. Noto con piacere che le nuove generazioni mostrano una sensibilità diversa, e spiccata, verso le tematiche di genere. È un pullulare di pubblicazioni e ripubblicazioni (notevole il lavoro che sta facendo La Tartaruga, in particolare con la riedizione delle opere di Carla Lonzi), di indignazione e sgomento dinnanzi ai fatti di cronaca. Penso che il tema femminicidi stia svelando, finalmente, lo stretto legame tra violenza e fragilità del maschio, tra cultura del possesso e perdita di tale dominio. C’è ancora molto da lavorare, tanto da recuperare. Da molto tempo caldeggio la riscoperta di un filone del femminismo sommerso, ovvero quello delle Operaie della casa – Le militanti del Collettivo Internazionale Femminista, fondato a Padova nel luglio 1972 – che posero al centro della loro lotta il salario per il lavoro domestico “come leva di potere”.  Questo, secondo me, è un tassello di storia da elaborare con sguardo al presente.

    A riguardo ho letto delle bellissime tue prove letterarie sulla rivista “Cultura e dintorni” sull’impronta dell’amore e contro la violenza di genere. Cosa ti ispira e a chi ti vuoi rivolgere in particolare?

    Ho sempre poco tempo per dedicarmi alla narrativa e me ne rammarico. È questa la sola forma attraverso cui riesco a esprimere ciò che sento, quanto si agita nella parte che tengo più in ombra: quella delle emozioni. L’ispirazione si nutre di due filoni, ossia l’esperienza e la sublimazione letteraria. Tutto ciò che scrivo afferisce al mio vissuto, ma vien fuori in maniera traslata, esagerata, per il tramite di uno sguardo diverso – sia quello di una bambina, di una donna diversa da me, di un personaggio letterario a cui ridò voce. Mi piacerebbe parlare a un pubblico capace di cogliere le sfumature dell’essere, in grado di accogliere la fragilità, di scoprire attraverso di essa un nuovo modo di intendere le relazioni e la vita. Tutti i miei racconti ruotano attorno a questo aspetto, e nascono da esperienze dolorose. È da queste lacerazioni che ha inizio la rinascita.

    [Immagine dell’Ospite]

    Ti occupi del rapporto tra le arti. Qual è, se lo ha ancora, il ruolo dell’estetica nella nostra società? Quali tra le arti prediligi e ritieni più efficaci per comunicare i tuoi messaggi?

    Pasolini è stato uno degli anticipatori dei generi “rimescolati” e credo che la sua lucidità di analisi sia consistita proprio in questo: nell’apprendere l’insufficienza di un solo metodo, di una sola prospettiva per raccontare il presente. Indagare il rapporto tra le arti significa cogliere le potenzialità di ciò che si trova negli interstizi e, di conseguenza, può meglio disporsi alla contaminazione. Il mio primo amore resta la letteratura, in prosa e poesia, ma mi rendo conto che per trasmettere messaggi, per far arrivare un’idea in forma “potenziata” sia necessario lavorare sull’intersezionalità. Da questo punto di vista, almeno nel mio lavoro, è l’incrocio di cinema e letteratura quello che trovo più funzionale a certe indagini, specialmente in relazione all’immaginario e alle narrazioni.

    Per finire con una nota sul futuro, cosa ne pensi del Metaverso e come cambierà le arti e il loro modo di comunicare?

    Metaverso e Intelligenza Artificiale sono diverse interpretazioni dell’esistente. Non ho paura degli sviluppi che possono avere nell’arte, giacché ogni epoca si è trovata a fare i conti con invenzioni potenzialmente “fuori controllo”. Certo, oggi tutto corre velocemente e l’Intelligenza Artificiale rischia di contaminare il dibattito politico, di condizionare l’opinione comune, di generare realtà parallele dominate da fake news e immagini artificiali. Questo mi preoccupa, e molto. Ma sul piano artistico, se ben dominata, può rappresentare uno strumento di elaborazione e arricchimento. Ho valutato positivamente diverse mostre di artisti che lavorano con l’AI. Come sempre, è un discorso di metodo e “controllo”.

    Il 22 aprile scorso si è celebrata la giornata mondiale della Terra per sottolineare la necessità della conservazione delle risorse naturali della Terra. Siamo assolutamente convinti dell’eccessivo consumo di risorse, a partire dal suolo, delle acque e dell’atmosfera per non parlare dell’inquinamento e del climate change. Qual è il significato per te come giornalista, tra le altre cose, ambientale, e quali le azioni concrete da mettere in campo?

    Confesso un certo sgomento dinnanzi a ciò che sta accadendo al pianeta. Il termine “ecoansia”, cui si ricorre da qualche tempo per indicare forme di disagio, paura e in qualche caso depressione dinnanzi al pensiero di possibili disastri legati al riscaldamento globale e ai suoi effetti ambientali, fotografa bene lo stato d’animo di chi ha capito che siamo a un punto di non ritorno. Resto annichilita dinnanzi alla faciloneria con cui esponenti del governo parlano dei cambiamenti climatici; pensare che il caldo anomalo degli ultimi anni sia semplicemente riconducibile alla nozione di “estate” e che i danni ambientali causati da piogge copiose rientrino negli eventi naturali è un insulto all’intelligenza e sensibilità di molti. Così come il trattamento nei confronti di esponenti di Extinction Ribellion e Ultima Generazione. Il cambiamento parte dalla testa, ma finché i nostri rappresentanti non prenderanno parola su questo tema in maniera seria sarà difficile convincere l’opinione pubblica in maniera massiva. Ciò che si può fare è continuare a protestare, a parlare, a rivolgersi alla stampa più sensibile al tema (gli inserti ambientali dei principali quotidiani sono ottimi, da “L’Extraterrestre” a “Green and Blue”, così come riviste online specializzate sul tema) e adottare piccole soluzioni quotidiane, dal riciclo al risparmio energetico. Piano piano qualcosa si sta muovendo.

    ** Le foto ritratto sono state gentilmente concesse dall’artista **

    Alessandro Maiocchi, esperto di marketing, ha ricoperto ruoli manageriali nel settore industriale, della consulenza strategica e del’editoria in Italia e all’estero. Per un decennio Direttore Marketing e Corporate Affair quindi Direttore Business Development della Divisione Internazionale in un’azienda leader di impianti per il riciclaggio dei rifiuti. Dal 2013 lavora in un gruppo attivo nel settore enologico, agroalimentare e turistico, dapprima come EVP-COO e dal 2022 in qualità di Presidente e Amministratore Delegato, ruolo che attualmente ricopre. Membro del cda di aziende attive nel settore agroalimentare in Italia e negli USA. Dal 2017 E’ senior advisor di un gruppo americano attivo nel trading di commodities industriali, energetiche ed alimentari.
    Dal 2003 insegna marketing in corsi master universitari.

    Introduzione all’economia circolare: Dott. Maiocchi, potrebbe spiegarci come l’approccio dell’economia circolare si distingue dal tradizionale modello economico lineare e perché ritiene sia cruciale per il futuro sostenibile del nostro pianeta?

    L’economia “lineare” è tesa alla produzione, alla massimalizzazione della stessa occupandosi, se non marginalmente e sovente limitatamente, all’impatto dell’utilizzo delle materie prime e del risultato, dello scarto, della post produzione e del post consumo. Un modello dove esiste un inzio ed una fine e dove il prodotto una volta utilzzato non ha un ruolo se non quello di essere smaltito.

    L’economia circolare è un modello “premeditante”, dove a monte della produzione le materie prime utilizzate, la loro reperibilità e sfruttamento, vengono  valutate trovando strategie e processi di minimizzazione dell’impatto ambientale e a valle, pensando preventivamente a come riciclare, riutilizzare e in ultima analisi a smaltire il frutto della post produzione e del consumo.

    Strategie aziendali per l’economia circolare: In qualità di CEO di Gruppo AGC, quali strategie specifiche ha implementato per assicurare che la vostra azienda operi secondo i principi dell’economia circolare?

    A.G.C. opera prevalentemente in un settore, quello della produzione e distribuzione enologica, dove l’adozione di modelli di economia circolare sono diventati essenziali e cruciali. Il settore, anche in ragione dell’impatto del cambiamento climatico, è stato tra i primi a doversi confrontare con l’esigenza di adottare modelli produttivi “circolari”. Volendo dare un esempio concreto, in una delle realtà che partecipiamo “Fattoria Svetoni” si è cominciato insieme allo sviluppo di attività di riduzione dell’impatto ambientale un processo di impianto di nuove viti a partire da barbatelle autoctone ottenendo: riduzione e sostituzione chimica: piante più resistenti rispetto a condizioni ambientali avverse riducendo l’apporto di fitofarmaci, migliore gestione idrica, le viti con radici più forti e profonde sono meno sensibili agli stress idrici e consentono di limitate gli interventi di irrigazione di soccorso, infine l’innesto con barbatelle autoctone consente una migliore gestione del terreno, del suolo e previene perdite di biodiversità

    Misurazione dell’impatto: Come misurate l’impatto delle vostre iniziative di economia circolare in termini di riduzione dell’impronta ecologica e benefici economici?

    Riprendendo l’esperienza che citavo nella precedente domanda, aderiamo al Consorzio del Vino Nobile di Montepulciano, la prima e ad oggi, unica denominazione ad avere ottenuto la certificazione di sostenibilità secondo lo standard Equalitas. Il protocollo, molto impegnativo, indica un numero elevato di requisiti ambientali, tra i quali biodiversità, impronta carbonica ed idrica. Oggi siamo in grado di sapere l’impronta di carbonio e le emissioni di CO2 derivanti dalla produzione di ogni bottiglia. Da un punto di vista economico, le pratiche di economia circolare, ci consentono, oltre ad un premio economico per la qualità del prodotto anche di una significativa riduzione degli sprechi e dei costi derivanti dalla gestione dei residui.

     Innovazione e tecnologia: Quali innovazioni o tecnologie ritiene saranno cruciali per promuovere l’economia circolare e i consumi sostenibili nei prossimi anni?

    L’economia circolare “comincia” necessariamente nelle prime fasi del ciclo di vita del prodotto. L’ “ecodesign “ la progettazione di un prodotto (e del suo eventuale imballo) è fondamentale nella modalità di estrazione, ottenimento ed uso della materia prima necessaria e del volume di scarto generato che diverrà rifiuto. Quindi processi innovativi e tecnologie che assicurino durabilità, riparabilità, possibilità di aggiornamento e riciclabilità.

    Un elemento cruciale è poi riposto nello sviluppo delle tecnologie verso i prodotti che generano residui definiti “hard to recycle” dalle plastiche ai rifiuti alimentari.

    Barriere e sfide: Quali sono le maggiori sfide che le aziende e i consumatori devono affrontare nell’adozione di pratiche più sostenibili e come possiamo superarle?

    Per le imprese la sfida è decisamente nell’adozione di nuovi modelli di business dove la massimizzazione dei profitti non risiedere più soltanto nella riduzione e minimizzazione dei costi e l’aumento dei ricavi; ma minimizzando l’uso delle risorse, massimizzando la vita utile dei prodotti e riducendo scarti e generazione di rifiuti. L’IW (Institut der deutschen Wirtschaft), l’istituto economico tedesco, definisce chiaramente i punti chiave questi nuovi modelli di business descrivendoli come “  modelli che si concentrano sull’abilitazione, la chiusura, la creazione o l’estensione di cicli produttivi, preservando il valore e conservando le risorse il più a lungo possibile mantenendo al contempo la competitività”

    Le sfide per i consumatori sono decisamente legati ai comportamenti di consumo, dalla consapevolezza dell’impatto dei propri consumi interrogandosi sulle possibilità di riparazione e riutilizzo, alla fondamentale progressiva limitazione di consumi puramente “emozionali” , spinti cioè più dal desiderio di possesso che dalla effettiva necessità, e dalla adozione, ove possibile, di consumi “condivisi”.

    Ruolo dei consumatori: In che modo i consumatori possono contribuire attivamente all’economia circolare e quali azioni quotidiane possono fare la differenza?

    Accennavamo prima che la realizzazione dell’economia circolare implica numerose innovazioni. L’innovazione tecnologica non è l’unico motore, ma è certamente, in diverse situazioni un elemento chiave. In uno studio di qualche tempo fa elaborato per PBL, l’agenzia governativa olandese per l’impatto ambientale, l’economista Potting definiva tre cambiamenti per l’economia circolare connessi all’utilizzo della tecnologia e al comportamento dei consumatori nella catena del valore dei prodotti/servizi:

    – Prodotti e servizi basati su nuove tecnologie con basso impatto sul comportamento dei consumatori, come le plastiche biodegradabili

    – Prodotti e servizi dove la tecnologia ha un impatto relativo ma dove il comportamento dei consumatori è fondamentale, e ladattamento a nuovi stili di consumo è il fattore chiave di successo. packaging-free ad esempio

    – Prodotti e servizi dove il comportamento dei consumatori è fondamentale e dove anche la tecnologia è il fattore abilitante fondamentale, ad esempio i servizi legati alla sharing economy

    Il ruolo dei consumatori è dunque quello di essere consapevoli che il successo delle tecnologie e dei processi innovativi e quindi nella piena realizzazione dell’economia circolare, è strettamente legato alle modalità di consumo.

    Educazione e sensibilizzazione: Qual è l’importanza dell’educazione e della sensibilizzazione dei consumatori sui temi dell’economia circolare e quali iniziative o programmi avete sviluppato o sostenuto in quest’area?

    Credo che l’errore che spesso, inconsapevolmente, si commette nella educazione e sensibilizzazione alla economia circolare sia quello di proporre modelli virtuosi ma razionali che si scontrano, spesso soccombendo, con gli attuali modelli di consumo, mossi in molti casi dall’emozione. Tutte le modalità e e forme di sensibilizzazione che abbiano come chiave quella della consapevolezza dell’impatto degli stili di consumo sono non solo necessarie ma fondamentali.

    Per quanto riguarda le iniziative intraprese, il gruppo A.G.C. ha aderito e supportato diverse iniziative di sensibilizzazione sui temi della sostenibilità e della circolarità dell’economia. Ho prima accennato alla scelta compiuta ormai da qualche anno di pratiche concrete di  riduzione dell’impatto ambientale, di consumo del suolo e dell’acqua e della preservazione della biodiversità. Comunichiamo ai consumatori chiaramente questa scelta e le motivazioni, organizziamo inoltre visite regolari per mostrare concretamente l’efficienza e l’efficacia delle scelte di sostenibilità, sensibilizzando all’adozione di stili di consumo consapevoli.

    Collaborazioni e partnership: Potrebbe fornire esempi di come la collaborazione tra aziende, governi e organizzazioni non governative possa accelerare la transizione verso un’economia più circolare?

    Mi piace ricordare “Spiagge di Vetro” un progetto nato in Campania che credo sia uno dei più concreti esempi di economia circolare che ha visto il coinvolgimento di Università, imprese, esercizi commerciali e amministrazioni. Da una idea, quella di rendere ancora più efficiente un ciclo già molto efficiente come quello del vetro, si è sviluppata con gli investimenti d’impresa e il know how accademico una piccola macchina capace di triturare i contenitori di vetro, contenendo circa 200 bottiglie in un bidonino di meno di 25 kg di sabbia di vetro. Si sono coinvolti prima nella sperimentazione, poi nell’adozione del sistema utenze commerciali (bar, ristoranti, pizzerie, mense, alberghi, centri commerciali, palestre), ospedali e amministrazioni comunali. I risultati sono stati una drastica diminuzione dei passaggi dei mezzi di raccolta, dello svuotamento delle campane, con migliore igiene di strade e spazi pubblici. Il vetro, ridotto in “sabbia”, trattato meccanicamente,  viene impiegarlo oltre che nella industria vetraria in filtri per piscine, nel edilizia per sabbiature, impasti in calcestruzzo, realizzazione di pannelli fonoassorbenti  e perfino nel ripascimento delle spiagge. La collaborazione tra soggetti diversi ha prodotto una riduzione dei costi energetici, dell’impatto ambientale dovuto alla logistica, e una efficace ed efficiente sostituzione di materie prime.

    Politiche pubbliche: Quali politiche pubbliche ritiene siano necessarie per supportare e incentivare l’economia circolare a livello nazionale e internazionale?

    L’Italia ha elaborato una strategia nazionale per l’economia circolare, nel 2021 ne ha definito le linee programmatiche includendo tutti gli elementi richiesti dalla Commissione Europea nell’ambito dell’Operational Arrangements del PNRR, in particolare:

    • un nuovo sistema di tracciabilità digitale dei rifiuti
    • incentivi fiscali a sostegno delle attività di riciclo e utilizzo di materie prime secondarie
    • una revisione del sistema di tassazione ambientale dei rifiuti per rendere più conveniente il riciclaggio rispetto al conferimento in discarica
    • sviluppo di centri per il riuso e individuazione di strumenti normativi ed economici ad incentivo degli operatori;
    • riforma del sistema EPR (Extended Producer Responsibility) e dei Consorzi
    • supporto agli strumenti normativi esistenti: End of waste (nazionale e regionale), Criteri ambientali minimi (CAM) nell’ambito degli appalti pubblici verdi. Lo sviluppo/aggiornamento di EOW e CAM riguarderà in particolare l’edilizia, il tessile, la plastica, i rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE);
    • sostegno normativo e finanziario al progetto di simbiosi industriale

    Credo che la trasformazione di queste linee guida in azioni e provvedimenti possano concretamente sostenere e accelerare la crescita dell’economia circolare.

    Visione futura: Come immagina il futuro dell’economia circolare e dei consumi sostenibili nei prossimi 10 anni? Quali tendenze o cambiamenti prevede saranno più significativi?

    Ritengo che l’adozione di modelli di economia circolare sia inevitabile. I prossimi 10 vedranno consistenti cambiamenti delle modalità di produzione e degli stili di consumo. Su questi ultimi bisogna fin da ora prestare particolare attenzione ed evitare fenomeni che rischiano di rendere poco efficaci e talvolta inutili i modelli di economia circolare. Mi riferisco ai fenomeni di “rebound”. Diversi studi hanno evidenziato come esista il rischio che prodotti sostenibili “provenienti da modelli di business circolari possano stimolare ulteriore consumo sia per i prezzi accessibili o bassi sia per implicazioni psicologiche.  E’ il caso ad esempio dei telefoni cellulari ricondizionati che dovrebbero estendere il ciclo di vita del prodotto, e ridurre quindi l’impatto ambientale , in alcuni casi i consumatori continuano ad acquistare modelli nuovi aggiungendovi quelli ricondizionati.

    Significativo quanto riferiva Pierluigi Zerbino ingegnere gestionale e ricercatore senior in Economia Circolare e Innovazione Digitale presso l’Università di Pisa in una recente intervista a Repubblica : “.. l’economia circolare non è intrinsecamente sostenibile, ma un mezzo per raggiungere la sostenibilità”, e ancora “e si pensa di massimizzare contemporaneamente la performance ambientale e quella economica sul breve periodo, forse si domanda troppo. La vera sfida inizia col fare tanta disseminazione ed evangelizzazione su comportamenti di consumo e su comportamenti di non-consumo”

    Un mio carissimo amico (che poi si dà il caso sia il direttore di questa testata giornalistica ) mi ricorda sovente che la vita è l’arte dell’incontro. La frase, la definizione, non è sua ma è il titolo di un disco di Sergio Endrigo (nel quale compaiono testi scritti da Vinícius de Moraes e Giuseppe Ungaretti, ma questa è un’altra storia) ma io continuo ad associarla a lui e ci credo profondamente perché non c’è niente di scientifico in un incontro: è un processo alla cui base c’è il caso, anche se poi ci si può riconoscere una predisposizione, una ispirazione, una tecnica, proprio come accade, appunto, nell’arte. Non c’è nessun “meccanismo”, nessun “automatismo”. A volte si dice sia una questione di “chimica”, ma non penso sia nemmeno questo. In chimica le reazioni sono equilibrate, bilanciate, misurabili: la stechiometria (https://it.wikipedia.org/wiki/Stechiometria) calcola i composti che partecipano alla reazione e quali composti ne possono essere generati, in quali condizioni e con quanta energia.

    Ma a volte ci possono essere degli incontri davvero insoliti, non così misurati, non così misurabili.

    Pensando all’insolito, mi è venuta l’idea di raccontare alcuni di questi incontri, degli incontri così, che hanno visto persone apparentemente lontanissime le una dalle altre, che incrociano le proprie vite e si danno qualcosa, piccolo come un seme.

    Il primo incontro insolito che mi è venuto in mente avvenne il 19 Gennaio 1931 a Pasadena, negli Stati Uniti.
    Nel mondo non era solo un ricordo il Martedì Nero (il “Big Crash“), ossia il 29 ottobre 1929, quando la borsa di New York crollò improvvisamente, quello era l’inizio della Grande Depressione che si protrasse per più di 10 anni fino ad arrivare fino alla Seconda Guerra Mondiale. Anzi per molti storici, proprio quel Martedì Nero fu l’inizio della crisi che portò in Europa il diffondersi dei totalitarismi.

    Ma in quel 19 Gennaio 1931 il New Deal di Roosevelt non era stato ancora istituito, l’elezione di Hitler a cancelliere in Germania non era ancora prevedibile. Albert Einstein era già famoso negli ambienti di fisica teorica ma non dal grande pubblico, ed era negli Stati Uniti per tenere una conferenza alla California Institute of Technology per promuovere la sua ricerca scientifica. Durante il suo viaggio, il fisico – quello che viene ricordato come “il padre dell’energia atomica” – espresse il desiderio di incontrare Chaplin, che invece era una figura molto popolare a Hollywood. Tutti negli Stati Uniti e nel Regno Unito – terra natia di Charlie Chaplin – conoscevano il suo personaggio del Vagabondo (in Italia Charlot).
    L’incontro si tenne in disparte e non ci sono resoconti di quello che si dissero. Si sa solamente che parlarono di Politica, di Scienza e di Arte.
    Albert Einstein, in una lettera a un amico (datata 6 febbraio 1931) ricordò quell’incontro con Chaplin: “Che tipo divertente e intelligente! Spero di vederlo presto di nuovo.”, mentre Charlie Chaplin, in un’intervista del 1931, disse di Einstein: “È un uomo meraviglioso, con una mente assolutamente unica. Abbiamo discusso di filosofia, religione e arte. È stato affascinante.”

    Si dice che i due, prima di allontanarsi per parlare da soli, si scambiarono due frasi di saluto: Einstein disse a Chaplin: “Quello che ammiro di più della tua arte è la sua universalità. Non dici una parola, ma il mondo ti capisce.” “È vero.”, rispose Chaplin, “ma tu sei ancora più da ammirare. Il mondo intero ti ammira, ma nessuno ti capisce!”

    Non ne sappiamo niente più di questo. E allora perché penso sia stato un incontro così importante?

    Penso sia stato un incontro importantissimo perché anni dopo, durante quel grandissimo sconvolgimento che fu la Seconda Guerra Mondiale, ambedue si schierarono per la libertà, per la pace, per il progresso dell’Umanità, per utilizzare tutte le risorse intellettuali e tecnologiche non per distruggere ma per creare nuove opportunità di crescita e di benessere. Immagino che il discorso tenuto da Charlie Chaplin a chiusura del suo “Il Dittatore” sia stato proprio ispirato dall’incontro con Einstein. Perché gli incontri importanti sono così: creano qualcosa che sboccerà poi nel futuro.