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Eredità, in diritto, indica generalmente il patrimonio ereditario, globalmente considerato d’una persona fisica, che alla sua morte passa nella titolarità giuridica d’un altro soggetto, l’erede, per successione a causa di morte. Il fenomeno ereditario rappresenta da sempre un aspetto cruciale dell’organizzazione istituzionale e sociale.

Molte culture hanno da sempre adottato un meccanismo successorio che privilegia la linea paterna. Per molto tempo anche in Italia il fenomeno successorio ha seguito il ‘diritto di primogenitura’, attribuendo il patrimonio ereditario al primo figlio maschio della persona deceduta.

E le donne? Per parlare dell’eredità delle donne scomodiamo nientepopodimeno che il libro della Genesi.

(Immagine di Lele Bissoli)

All’inizio il Dio degli ebrei aveva creato Adamo e Lilith. “Insieme li creo, uomo e donna li creo”, non uno dalla costola dell’altro. Furono creati insieme. Così è scritto nella scrittura originaria della Genesi. E così, in seguito, si ebbe la prima censura della storia. I rabbini presero un bisturi e rimossero sapientemente questa parte. E insieme a questo la sua collera, perché nell’atto sessuale Adamo pretendeva sempre di stare sopra di lei. Rimossero la pretesa di parità da parte di Lilith nell’alternanza del potere. Rimossero il disgusto di Adamo nel vederla coperta di saliva e di sangue, simbolo della grande energia vitale. Rimossero la sua forte carica sessuale e la potenzialità aggressiva nella difesa delle proprie ragioni. Lilith avrebbe potuto non esistere fin dall’inizio, ma evidentemente la sua esistenza era necessaria a segnalarne la conseguente oppressione. La parte rifiutata dell’archetipo femminile. La prima donna a caricarsi del simbolismo dei divieti posti sul desiderio femminile, e non solo quello sessuale. 

Come scrive Romano Sicuteri in “Lilith e la luna nera”:  “su di essa vanno ad aggregarsi tutte le influenze culturali, religiose e psicologiche trasformandola in un vero tabù”

Togliendo di mezzo lei, questa parte della femminilità si inabissa nell’inconscio collettivo. Lilith, proprio perché rifiutata, diventa cattiva, sfrenata, violenta e nemica degli uomini che volevano sottometterla. Finisce nel mondo dei diavoli in una sorta di inferno senza possibilità di redenzione. La Bibbia la toglierà di mezzo, ma nell’immaginario delle popolazioni giudaico-cristiane sopravviverà a lungo, almeno fino al sedicesimo secolo, come diavolessa che uccide i maschi colpendoli nel sonno. In questo mito non si fa altro che raccontare la forza aggressiva delle donne e il loro desiderio di essere alla pari nella costruzione del mondo e nella trama della relazione. Attenzione però a caricare la parola aggressività del significato più appropriato e questo significato lo troviamo nel libro “l’aggressività femminile” di Marina Valcarenghi, psicoanalista di formazione junghiana, docente di psicologia analitica e psicoanalisi degli aggregati sociali:

(Immagine di Lele Bissoli)

Con la parola aggressività intendo quella disposizione istintiva che orienta conquistare e a difendere un proprio territorio fisico, psichico e sociale nelle sue forme più diverse; o, in altri termini, quell’istinto che guida a riconoscere, ad affermare e a proteggere la propria identità. Con lo stesso significato, del resto, il termine aggressività è utilizzato nel linguaggio dell’antropologia e dell’etologia, oltre che della psicoanalisi. In nessun caso mi riferisco qui all’aggressività come Intesa nel linguaggio corrente con il significato di aggressione di uno spazio altrui.” 

L’istinto aggressivo dipende dalla qualità del soggetto, dalla sua coscienza, dal suo inconscio e dal modello sociale in cui vive, perché l’aggressività, come qualunque forma dell’istinto, non contiene in sé un codice etico. Il punto è che l’aggressività umana è malata e oscilla fra due poli distruttivi, la rimozione e la depressione da una parte, e l’aggressione dall’altra. Che poi coincidono con l’incapacità di difendere il proprio territorio o l’incapacità di riconoscere il territorio altrui. Da qui forse ha origine anche quella confusione terminologica fa aggressività e aggressione, che induce a semplificare la complessità dell’istinto e ignorare la differenza culturale fa violenza e autodifesa. 

Questa è la fondamentale premessa che fa Marina Valcarenghi nella sua introduzione.

È stata percepita per molto tempo un’inferiorità di genere ed è lì che deve essere cercata l’origine del deficit aggressivo che viene considerato, in modo erroneo, del tutto naturale, perfino in ambito scientifico. La Valcarenghi riscontra nelle pazienti una condizione di ipoaggressività o iperaggressività per compensazione. In altre parole due diverse manifestazioni sintomatiche di uno stesso problema: la difficoltà a riconoscere e a proteggere la propria identità e il proprio progetto di vita. Due manifestazioni che portano allo stesso risultato: l’inevitabile sconfitta della donna. Vi chiederete dunque come è possibile che si consideri naturale un modo di essere che genera sofferenza è che produce sintomi. Nella personalità maschile le cose non stanno così. Hanno tendenzialmente un rapporto più confidenziale con la loro aggressività e un meccanismo di autodifesa più naturale.

Secondo Konrad Lorenz, padre dell’etologia, il deficit aggressivo comporta l’impossibilità di affrontare compiti e problemi, la caduta di autostima e la perdita drammatica del senso dell’umorismo. Stiamo dunque parlando di una patologia del l’istinto aggressivo, non indagata proprio perché ritenuta normale anche dalle donne e scientificamente irrilevante da una psicologia arretrata. La stessa che considerava naturali il masochismo e il narcisismo nella sfera femminile. Ipotizzare che le donne non siano in grado per natura di difendere la propria identità significa affermare che le donne non siano pienamente soggetti e quindi in grado di esprimersi come tali nel mondo. Ma come mai questo deficit aggressivo, presunto naturale, comporta sofferenza e sintomi?  Eppure questa ipotesi, oltre ad essere sostenuta dalla medicina e dalla psicologia del profondo, è stata imposta dalla religione e dalla politica, con la forza delle armi, del rogo, della tortura, da una legge che ha sancito per un tempo immemorabile l’inferiorità è la debolezza delle donne. Questa legge non è stata sostenuta solo da uomini, ma anche dalle donne, e ancora oggi in parte lo è.  Ma non è mai stato dimostrato che le donne siano prive di un istinto aggressivo, Ne consegue dunque che ne siano state sistematicamente private. Un istinto però non è eliminabile può essere il massimo represso, respinto nell’inconscio dal quale invia segnali di disagio. 

(Immagine di Lele Bissoli)

Ma perché le donne ne sono state private? Già da un tempo così lontano da non averne più memoria. E cosa ha convinto tutti che questa fosse la normalità?  

Se una donna è frigida, questo è un suo problema, ma se quasi tutte le donne sono frigide e la frigidità femminile è un valore sociale perché testimonia la temperanza e buona educazione, allora diventa naturale essere frigide. E infatti così è stato. Oppure se una donna non parla in pubblico, questo è un suo problema, ma se quasi tutte le donne non parlano in pubblico perché il silenzio è un lodevole segno di modestia o perché non sono adeguate, o sono intellettualmente inferiori, o non hanno niente da dire, allora per le donne diventa naturale non parlare in pubblico. E invece non è naturale per niente. Nei due esempi proposti l’aggressività rimossa genera l’inibizione della spinta autoaffermativa sia nella sfera sessuale sia in quella sociale,  ma questa operazione non è indolore, appunto perché non deriva dall’istinto ma dalla sua perversione. Ora è noto che i traumi non sono solo personali e che l’inconscio collettivo registra i traumi collettivi provocando conseguenze nella vita delle aggregazioni umane. Lo studio dell’intreccio fra l’inconscio collettivo (formato dal sedimento di traumi ed esperienze rimosse da un gruppo) e la coscienza collettiva (formata dall’insieme cosciente dei fondamenti economici, politici, religiosi e culturali di un gruppo) costituisce quella che io chiamo psicanalisi sociale (e che è quindi altro dalla psicologia sociale) e che potrebbe aiutare a rendere ragione di fenomeni antichi e complessi e, quando sia il caso, a trasformarli … In altre parole noi donne siamo all’interno di un processo in cui non possiamo avviare una liberazione personale senza spezzare le catene di un condizionamento collettivo e viceversa. La questione dell’aggressività sembra al centro di questo processo.

Le donne non sono state le uniche vittime di questa repressione, ma sono state certo l’unica maggioranza ad esserne colpita, e in modo così diffuso e sistematico da corrompere la propria identità individuale e sociale causando una caduta verticale dell’aggressività, in quanto non si può difendere un territorio che non c’è. E questo territorio ci è stato negato a partire da una fase dell’evoluzione molto lontana.  È il caso di ritrovare il coraggio di sentirci soggetti nell’indagine e a riconoscere la nostra inequivocabile complicità in quella repressione. 

Chiudete gli occhi, immaginatevi il padre della psicanalisi all’inizio del ‘900 e tutta la scienza de profondo impegnata a indagare la mente umana e l’inconscio. La donna ha iniziato ad essere considerata un rompicapo in un’indagine unilateralmente definita da un modo maschile di pensare, che non ha mai dato la possibilità alla donna stessa di contribuire a spiegarsi in quanto soggetto. Jung fece un piccolo passo avanti indagando pioneristicamente  la differenza di genere muovendosi nell’area delle competenze per territorio, che vede le facoltà degli uomini più sviluppate nella sfera intellettiva e spirituale e le donne nell’ambito delle pulsioni e del sentimento. Seguendo il suo principio della complementarietà degli opposti nella psiche, Jung pensava che le donne avessero il compito di sviluppare la loro parte inconscia definita Animus e collegata al pensiero, e che gli uomini, al contrario, avrebbero dovuto di conoscere i loro aspetti femminili, definiti Anima, collegati alla sfera dei sentimenti e della vita naturale. 

Ora sappiamo che l’intensità pulsionale, emotiva e intellettiva è uguale in entrambi i generi, ma in forme diverse dell’energia.

Due modi complementari di prendere contatto con l’esperienza e non due modelli, entrambi mutilati, di vivere l’esperienza. Andremo così ad associare il pensiero maschile ad uno schema analitico, logico-deduttivo e penetrativo e il pensiero femminile ad un meccanismo sintetico, induttivo e ricettivo. Come è ben noto tutta la cultura occidentale è fondata sulla definizione greca di Logos, che circoscrive il pensiero maschile per eccellenza, eclissando quasi completamente il pensiero femminile, di cui ne restano vaghe tracce nella mitologia e nella storia. Basti pensare che le prime parole del Debello Gallico sono: “ Gallia est omnis divisa in partes tres”. Questo ci indica come il pensiero maschile delimita il suo oggetto di indagine, per penetrarlo ed arrivare a possedere una conoscenza. È rapido, lucido, preciso. 

Il pensiero femminile è aggregativo, parte dalla contemplazione dell’insieme, non è orientato a penetrare, ma ad assorbire l’oggetto della conoscenza, senza isolare i diversi aspetti di un contesto, ma esaminandoli nelle loro reciproche relazioni (deduzione, non intuizione). Non cataloga, ma crea analogie, non è veloce né sempre preciso, ma è attento alle variabili. Può sembrare disordinato e distratto ma arriva a grandi livelli di profondità proprio perché è paziente. 

Ecco, ora facciamo un altro salto in avanti e pensiamo a quelli che abbiamo definito come pensiero maschile e femminile come a processi mentali che appartengono a entrambi i generi, solo con padronanza e intensità differenti. 

È sbagliato dunque parlare di uguaglianza tra uomo e donna, il punto di forza infatti è proprio la diversità. Il pensiero ricettivo e il pensiero penetrativo sono complementari, e insieme partecipano ad una funzione mentale completa e armoniosa. Nella storia questa disparità ha portato ad una sorta di delirio di onnipotenza del processo mentale maschile e alla debolezza e alla tendenza caotica del pensiero femminile, il quale respinto nell’inconscio ha assunto spesso forme irrazionali, superstiziose e paralizzanti. Lasciandolo capeggiare però, il processo mentale maschile è diventato un tiranno convinto che l’universo conoscibile sia modellato sulla sua forma. È stato avvelenato dai suoi stessi eccessi, diventando ossessivo, dispotico e paranoico.  Ma sì sa che gli ossessivi finiscono per essere giocati dal loro stesso sintomo.

Marina Valcarenghi afferma infatti con una certa sicurezza che  “questo sistema maschile ormai da troppo tempo inflazionato, in grado di distruggere il pianeta ma non di sfamarlo, creerà un sacco di guai in un imminente futuro se non sarà affiancato, con pari dignità, dal pensiero femminile.” 

Anche nella sfera sessuale esistono due forme opposte di espressione: accogliere e penetrare. Non sono diversi il desiderio è l’appagamento, ma il modo in cui vengono vissuti.  Nel corso dei secoli la repressione femminile ha vincolato l’istinto sessuale al senso di colpa, radicato nell’inconscio collettivo tanto da farne perdere le tracce alla coscienza individuale. Il conflitto fra istinto e senso di colpa provoca sintomi, come blocco del desiderio e frigidità. L’incapacità di sopportare la tensione sessuale interrompe il circuito libidico. Naturalmente questo senso di colpa è inconscio e può agire anche in contrasto con le convinzioni personali del soggetto, che può avere opinioni perfino trasgressive da questo punto di vista e nello stesso tempo essere drammaticamente incapace di provare un orgasmo. La perversione che ne deriva sposta la libido dalla sua direzione naturale verso comportamenti compensatori, come un’iperattività coatta, ansia per traguardi sociali o economici, l’identificazione insidiosa della sessualità con l’amore e l’eccesso di senso materno. La perversione più sottile però è quella che associa la sessualità in maniera univoca all’amore, come se quel sentimento elevato dovesse giustificare  e liberare dal senso di colpa una naturale pulsione fisiologica, un naturale desiderio. Questa artificiale purificazione dell’istinto ha costretto tante donne a convincersi di essere innamorate anche quando avevano solo voglia di fare l’amore. 

Perché la repressione della sessualità femminile, pur avendo origini così lontane, ha ancora delle ripercussioni in un’epoca di ostentata libertà e permissivismo edonistico come la nostra? Vivere liberamente la propria sessualità restituisce alle donne la dignità del soggetto, mentre vivere la sessualità in dipendenza dal desiderio altrui costringe nella posizione di oggetto, senza identità, desiderio o aggressività. Le donne hanno imparato a vivere in funzione degli uomini, ed ora, correggere un’abitudine radicata nell’inconscio collettivo genera angoscia. Questo rende più facile ad una donna spogliarsi in pubblico e prendere l’iniziativa sessuale, che non abbandonarsi al piacere, perché nel primo caso rimane nella condizione di oggetto e nella seconda no. Al contrario, l’istinto sessuale maschile ha visto uno sviluppo ipertrofico, ma contemporaneamente si è visto privato del suo valore, nel momento in cui la religione cattolica ha generato anche qui i sensi di colpa, mentre i movimenti per la liberazione sessuale di fine anni ’60 hanno riportato alla luce il corpo sia maschile che femminile, però più come oggetto di consumo. Infine la cultura edonistica e permissiva, sovrapponendosi alla tradizione sessuofobica, ha collocato il corpo tra oggetto di culto e fonte di vergogna e disagio.

“Voglio fare il musicista”: il mondo di Rosario Jermano in un libro autobiografico.  Quando accade che la realtà racconti un sogno ancora più in grande.

(Immagine dell’Ospite)

Un musicista con l’intuizione di un percussionista che ha fame di suoni, strumenti, passione e animo. Leale, amico vero, sincero, generoso ed altruista, precursore ed anticipatore, un uomo d’altri tempi con valori grandi quanto i suoi sogni, giganti, incorruttibili e fermi come roccia col cuore. Ha rinunciato a Gato Barbieri per seguire gli impegni presi con Luca Barbarossa e molti ancora sono gli aneddoti raccontati nel suo libro autobiografico “Voglio fare il musicista” (Apeiron edizioni). E’ stato sempre nel posto giusto al momento giusto, quando tutto sembrava oro e si poteva parlare veramente di musica e di passione da seguire ad ogni costo e ad ogni prezzo, con rinunce pesanti e grandi come macigni. Franco Miseria lo ha voluto nei suoi spettacoli così come tutti i grandi autori del calibro di Pino Daniele, Renato Zero, Fabrizio De Andrè, Loredana Bertè, Mia Martini, Gino Paoli, Eros Ramazzotti, Zucchero e tutti gli altri nomi del panorama musicale dagli anni ’70 in poi. Tutti, ma veramente tutti hanno nel loro percorso artistico una o molte collaborazioni con Rosario Jermano. Uomo ed artista instancabile, coraggioso e vero come raramente capita, in un mondo difficile e faticosissimo. Ha costruito un mondo di rapporti umani attraverso la musica, fortemente voluto dai più grandi che ha saputo seguire raccogliendone la profondità, l’essenza, la natura più intima e complessa. 

(Immagine dell’Ospite)

“Un arco di tempo così lungo non può rimanere senza ricordi”, scrive “Avevo bisogno di psicanalizzarmi da solo, di non mentire più al mio cervello, di cercare ragioni e motivazioni, chiamare per nome tutte le cose che avevo visto. Per questo ho scritto, altrimenti avrei suonato la batteria”. Un fiume in piena di ricordi il libro “Voglio fare il musicista”, che travolge il lettore e presenta i grandissimi della musica italiana nella loro verità assoluta, come fossero tutti messi a nudo per farli sentire ancora più vicini a chi legge, a chi li ha amati ed a chi li ha ascoltati con il cuore gonfio per tutta la vita. 

“Mio padre è quell’uomo che mi ha insegnato ad essere libera, a credere nelle passioni e nei sogni più alti. Ha creduto nel mio talento alimentando una sensibilità a volte pericolosa per un mondo di marmo come quello in cui viviamo. Mi ha insegnato che la vita è una sola e che la tomba non ha le tasche. Ho compreso le sue debolezze anche in età adulta e accarezzato i suoi errori, perché con lui ho conosciuto un amore senza eguali. Mi ha cresciuto accudendomi come una balia, non dimenticando mai un saggio di fine anno o una recita scolastica. Un uomo che mi ha insegnato la matematica e a fischiare. A cucinare e ad ascoltare i Beatles. Ero grande e lui così piccolo, quando la coperta gliela rimboccavo io, standogli vicino nei suoi momenti difficili e leccando le sue ferite, come lui aveva fatto con me. Ad oggi, grandi entrambi, guardiamo al domani con la solita poesia” – prefazione di Heather Francis Iermano (figlia di Rosario).

(Immagine dell’Ospite)

Nella prima copia del libro ha voluto scrivere una dedica a sè stesso “Alla fine ci sono riuscito a scrivere un libro, sembrava un’impresa impossibile come la “missione”. Il libro non si autodistruggerà tra trenta secondi, ma sopravviverà a me, molti lo potranno leggere dopo che io non ci sarò più. La pandemia ha fatto anche delle cose belle, spronarmi a fare cose che non avrei mai fatto. Ho fatto anche un disco nuovo dopo la mia malattia e anche questo resterà. Come queste pagine. Si gruoss” Rosario Jermano. Lo abbiamo incontrato per i lettori di Condivisione Democratica. 

All’inizio del suo libro scrive “scappavo dalla vita” e si avverte come un rimpianto per non essersi dedicato molto agli affetti familiari. Perché sentiva di dover fuggire?

“Non è un rimpianto, ma trasferitomi a Roma nel 1984, mi trovavo lontano dalla mia famiglia di origine e preso da tutti i miei impegni, avevo la musica che mi assorbiva completamente, i miei sogni da realizzare, la mia persona da coltivare, da far crescere e maturare artisticamente e non solo. Ci sono scelte nella vita che non lasciano “scelta”. Poi sono rientrato a Napoli, mia madre e i miei fratelli c’erano ancora e sentivo il bisogno, dopo anni di lontananza, di stare più a contatto con loro, ricevere il loro affetto vero e sincero, anche se Roma significava avere mia figlia spesso con me essendo separato dal 1990. Ho vissuto molto l’essere padre e ne sono felice. Mia madre è mancata nel 2004 e i miei due fratelli maggiori sono scomparsi dopo. Ho avuto modo di trascorrere molto tempo con loro e viverne anche le loro sofferenze e paure, questo mi ha fatto sentire un vero fratello ed un vero figlio, amavo moltissimo mia madre. Non si vive solamente di musica, ma di vita, di persone, di sentimenti, di paure, di felicità e di amore. Siamo sempre a cercare un motivo, una ragione per vivere, ma l’unica ragione si chiama vita, ogni giorno dobbiamo pensarci cercando di non commettere errori, perché Dio ci dà due strade, sta a noi scegliere quale percorrere”.

(Immagine dell’Ospite)

“Mio padre ha perso e ha vinto proprio come me”, in fondo è quello che accade ad ognuno di noi, è proprio la vita che porta in sé questa alternanza ed è forse ciò che ci fa crescere e maturare. Cosa ha perso maggiormente nella sua vita?

“Credo niente, rifarei tutto allo stesso modo, forse se non avessi vissuto cosi non sarei quello che sono oggi: un musicista. Nella vita ci vuole coraggio, bisogna rischiare, essere unici ed inconfondibili. Essere sè stessi ti dà un senso di libertà e di realizzazione che non ha paragoni e fare il lavoro che ci piace per noi esseri umani è fondamentale. Le scelte sbagliate rattristano, deprimono, fanno male e coinvolgono anche le persone che ci sono vicine e che amiamo. Essere insoddisfatti, frustrati e repressi è la stessa morte in vita, ci svuota lentamente giorno per giorno e ci costringe finanche ad accettare l’abitudine come qualcosa di sano. E’ importante, quando ci accorgiamo di ciò, fare il possibile per modificare qualcosa o tutto pur di ritrovare il nostro centro ed il nostro posto nella nostra vita”. 

Nascere a Napoli è come nascere sulla luna, inizi a vivere con uno scafandro ed un casco ma con occhi che vedono cose che nessuno vedrà mai. Si nasce da privilegiati contrariamente a ciò che pensano in molti. Qual è il suo pensiero a riguardo?

(Immagine dell’Ospite)

“Penso che noi napoletani non ce ne rendiamo conto, viviamo una realtà che è ricca di tradizioni e di musica, fanno parte del quotidiano non è un fatto eccezionale. Napoli per me è il mare, gli odori delle strade, i panni stesi, la grande arte in varie discipline come il teatro di Eduardo, tutte cose che ci sono e ci appartengono naturalmente insieme al Vesuvio, la pizza, la musica classica Napoletana di Bovio e De Curtis, siamo avvolti da tutto questo e noi stessi diventiamo simili, cercando sempre la migliore soluzione ai problemi per poter “Tirare a campare”, ma con orgoglio e dignità. Napoli è una città creativa, piena di passione, di magia, di entusiasmo, co a capa tosta, a noi ci piace fare le cose fatte bene e non come si dice in giro per il mondo. “Ccà nisciuno è fesso”, anzi….Napoli ti parla ogni minuto ed in ogni angolo e ti racconta tante storie belle di umanità e di passato glorioso. E’ una terra spettacolare con tutti i suoi problemi e le sue criticità, ma da qui a dire che siamo furbi, senza voglia di lavorare ed indolenti ce ne passa. Napoli va vissuta, il turista vede quello che vuole vedere, ma chi ci vive si prende tutto ed alla fine, le assicuro, il bilancio è in positivo”

Licenziarsi dal “posto fisso” nel 1978 credo sia roba da eroi o da folli. Lei come si sente?

“Mi sento un incosciente ed in parte un pazzo, ma non mi pento, vedo i miei amici di scuola e di adolescenza molto più vecchi di me anche se hanno la stessa età, io ho messo un anticalcare alla mia anima e loro no rimanendo ricoperti di una patina grigia che li rende infelici. Lavoravo all’Aeritalia, ufficio progetti, un’importante fabbrica di aeroplani, era anche un gran bel lavoro, mi insegnarono l’uso del computer, all’epoca grande come un camion, partecipai alla progettazione di un bimotore turboelica, usato tuttora dall’aeronautica militare. Fu in una delle pause pranzo dal lavoro che mi trovai in una delle tante botteghe della zona Via Marina vicino al porto, vendeva materiale di vario genere per animali. Comprai campanacci per le mucche, campane piccole, campanelli, sonagli e sonaglini, tutto ciò che produceva un suono e rimasi molto perplesso e sorpreso quando il negoziante mi disse che anni prima anche Gegè Di Giacomo, il batterista di Renato Carosone, ne aveva comprati molti. Era un segno del destino, un messaggio magico e divino, qualcuno stava cercando di farmi capire che dovevo fare il musicista. Nel febbraio del 1978 mi licenziai”, il resto è storia nota”

Cosa significa iniziare a fare musica con un’artista come Pino Daniele?

“Per me fu normale, due ragazzi che avevano voglia di fare musica, in quegli anni meravigliosi, gli anni ’70, in cui tutto era possibile e tutto era permesso. Dovevo solo volerlo, insistere e crederci fino a vederlo completamente realizzato, il mio sogno, qualsiasi sogno fosse e non importava quanto grande, gigante, immenso. Io ci ho sempre creduto. Pino è stato un musicista straordinario perché era un uomo straordinario, un amico vero, semplice, con un cuore grandissimo”.

I suoi inizi e la sua formazione la vedono al centro di un momento storico d’oro, dove la musica era il senso del vivere quotidiano. Cosa pensa dell’attuale situazione musicale italiana?

“La situazione della musica in Italia è veramente drammatica, quando i miei allievi mi fanno delle domande a volte non so rispondere, ad esempio come fare per entrare nei giri giusti per poter fare tours e dischi. I dischi non si fanno più, i tours si servono sempre di specialisti quotati ed infallibili che danno fiducia e sicurezza, ma chi ci arriva? I ragazzi sono scoraggiati, oggi è molto più difficile diventare un session man cioè un turnista, anche se questo termine a me non è mai piaciuto. Io ci sono dentro perché all’epoca tutto quello che facevo passava attraverso i canali giusti che erano attivi e floridi, mi notavano e mi facevo notare per la mia creatività, oggi anche se ci sono dei talenti non si riesce a mettersi in evidenza, devi essere raccomandato o presentato da un altro musicista conosciuto altrimenti stai a casa. Ci sono ragazzi bravissimi in giro per la strada che probabilmente non emergeranno mai perché hanno solo musica e bravura. Che tempo triste”. 

Crescere ascoltando Pino Daniele, Battiato, De Andrè, Renato Zero, Gino Paoli, ha tutt’altra sostanza rispetto all’ascolto musicale attuale. Forse manca tutto questo oggi ai giovani.

“I miei ascolti erano diversi, R&B di Otis Redding, Il rock dei Led Zeppelin, la chitarra di Hendrix e I Cream. Questo mi ha portato a mescolare tutto ed usare la somma nei dischi e nei live di artisti come Daniele, De Andrè e tutti gli altri. E’stata la mia forza. Non mi fermavo mai, ascoltavo, provavo, imparavo, sperimentavo ed ero incuriosito da tutto ciò che fosse capace di emettere un suono, un qualsiasi suono che potevo poi modulare e modellare. Oggi i ragazzi cos’hanno? I talent Show, il rap, la trap e cos’ altro? Di profondamente valido e costruttivo c’è ben poco, bisogna basarsi sul passato e sulle tradizioni se vuoi creare qualcosa di nuovo”.

(Immagine dell’Ospite)

La musica anni 70/80 era anche uno stimolo ad affermarsi con forza e coraggio, anche a costo di grandi ribellioni. Ai giovani manca tutto quello che la sorte ha dato a noi. Si è perso il senso profondo di fare musica.

“Non si è perso il senso, si sono chiuse troppe porte ed è difficile entrare nel “vortice” giusto, perché di vortice si tratta, di giostra, di nastro trasportatore, di catena di montaggio. Anni fa preparavi un provino e potevi farlo ascoltare a qualche direttore artistico, oggi i giovani non sanno neppure dove andare. Le case discografiche producono solo persone che escono dai talent o da milioni di visualizzazioni su youtube o altro. Diventa inutile mettersi a comporre e pensare di far conoscere la tua musica. Per me è molto difficile oggi, con la mia carriera, figuriamoci per i giovani talenti”.

(Copertina del Libro)

Carosone, Pino Daniele, Ornella Vanoni, Mia Martini, Luca De Filippo, Renato Zero e tantissimi tra i più grandi di sempre, l’hanno voluta a suonare le percussioni. Si rendeva conto che sarebbe entrato nella storia della musica?

“Io ho fatto il mio lavoro, il lavoro che amavo, non mi sono mai reso conto che sarebbe accaduto quello che poi è stato, ma in realtà non ero neppure attento a cercare qualcosa che andasse oltre la mia musica, fare musica, pensare musica. Certo sentivo la magia, i brividi, le paure di un debutto, a volte piangevo sentendo cantare parole commoventi come quelle scritte da Paoli o da Zero, ma mai avrei immaginato di poter fare ciò che ho fatto suonando uno strumento che non fa neppure parte della tradizione musicale italiana. Ed invece è accaduto l’impossibile, sono entrato a far parte in prima persona della musica italiana, quella più vera e profonda. Erano davvero altri tempi, quando si cercava qualcosa di più, eravamo esigenti, precisi, pignoli, grandissimi lavoratori prima ancora che artisti o musicisti, puntuali e testardi, ci piaceva e sapevamo quanto fosse importante essere “ricercatori”, volevamo costruire qualcosa di grande che potesse piacere a chi ci ascoltava, che potesse farli esaltare ed esultare. Abbiamo vissuto momenti di vera gloria, la gente ci apprezzava e sapeva riconoscere il valore di una bella canzone”. 

I suoi anni a Roma ed il ritorno a Napoli. “Quello che se ne è andato” viene ancora oggi considerato, come un affronto, un errore imperdonabile, un’offesa. Ma Roma rappresentò per lei un passaggio fondamentale. 

“Certo, a quei tempi bisognava andare ed essere a Roma, era il centro della vita e della produzione musicale. Sono stati anni importanti per la mia formazione e per la mia professione. E’ stato un passaggio fondamentale della mia vita al quale non avrei potuto e voluto rinunciare per niente al mondo. Non è stato tutto facile, anzi, ma tutto si compensava in un’ottica di visione futura, bisognava poter guardare al di là del proprio orticello, mettersi alla prova e sottoporsi anche a difficoltà di ogni genere e natura. Per come sono andate poi le cose e per tutto ciò che è accaduto penso solo che i napoletani sono stati un pò invidiosi di quello che ho fatto, non c’è altra spiegazione per l’atteggiamento che hanno dimostrato nei miei confronti. Io non partecipo alla vita musicale Partenopea, eccetto che per poche cose nelle quali mi fa piacere essere coinvolto come ad esempio “Napoli Opera” con la voce di Michele Simonelli ed un’orchestra da camera diretta da Paolo Raffone, antico collaboratore di Pino Daniele e pianista del nostro primo gruppo insieme, la “Batracomiomachia”. Altra collaborazione da me gradita è quella con Antonio Onorato, un grande chitarrista le cui doti furono riconosciute anche da Pino Daniele”.

Che lavoro fa? – Il musicista – Si capisco, ma che lavoro fa?, così le disse il proprietario di casa. E’ quasi impossibile pensare che allora, quando si faceva veramente musica, questo mestiere non veniva considerato come tale. 

“Anche oggi è così, nulla è cambiato, vogliono credenziali diverse o ti devono vedere in televisione allora accettano che il tuo sia considerato un lavoro “ben pagato” altrimenti ti mandano sotto i ponti. Ma credo che ugual sorte tocchi a tutti gli artisti in ogni ambito, devi essere riconosciuto per strada o avere poltrone nei talk show o contratti strapagati, e spesso, me lo lasci dire, tutto ciò non corrisponde necessariamente a bravura o professionalità. Ma questo i proprietari di casa o altri riferimenti della vita quotidiana non lo tengono in nessuna considerazione”. 

E’ riuscito a collaborare con i più grandi artisti, ognuno nel suo momento di massimo successo. Non credo sia stato un caso. La sua professionalità era fondamentale per ognuno di loro proprio quando il livello si alzava e l’esigenza di perfezione cresceva. Non capita a molti una esperienza del genere.

“Sono casualità il fatto di trovarsi al posto giusto nel momento storico musicale giusto, certo il talento ha fatto in modo che ciò avvenisse, ma ci sono altri aspetti come l’allegria, la simpatia e l’entusiasmo che danno tanto valore ai rapporti sia musicali che non. Forse era più facile l’approccio ma più difficile poi il consolidamento, se non valevi non duravi da nessuna parte, se non avevi una serie di caratteristiche forti, oltre alla buona preparazione musicale, non avevi una certa continuità. Bisognava avere una personalità, un carisma, una credibilità. Tutto questo ha reso lunghi e duraturi molti sodalizi”. 

“Ho superato i sessant’anni e le difficoltà si rinnovano senza pietà. Ci vorrebbe una pensione della sofferenza, una pensione delle difficoltà, una pensione per il coraggio che abbiamo avuto”. Scrive nel suo libro. Tutto questo purtroppo non esiste. Si combatte per pagare affitto e bollette. Professionisti come lei in difficoltà mentre dilaga il buio artistico e culturale. Quanto fa male tutto ciò a lei ed a noi?

“Ci sono abituato. Dal 1978 sbarco il lunario e vado avanti, con momenti eccezionali e momenti bui, ci sono dentro e ci vivo con le mie sofferenze, ma anche con le mie gioie. Ma se ci pensa non è in fondo così la vita di tutti noi?”

Trecento LP registrati con quasi tutti gli artisti italiani, 4 album da solista, tournée, come riesce ad accettare, affrontare e superare questa situazione di crisi così grave e pesante?

“Fortunatamente sono un pensionato, nei momenti difficili, come questi anni del covid, sono andato avanti con la mia pensione ed i vari ristori concessi, me la sono cavata fino ad ora. La fine di questo delirio è ormai vicina e godrò dei benefici, età e forze permettendo. Molto presto sarò in tour con Renato Zero, anche se lui ha 70 anni, non resterà di certo inoperoso dopo la pandemia”.

Il covid ha fatto cambiare lavoro a molti artisti completamente rovinati. Il tempo passa e la situazione peggiora e per molti non ci sarà più una soluzione. Cosa avrebbe dovuto fare lo stato per evitare tutto questo?

“Avrebbe dovuto dare più ristori a noi musicisti ed artisti, non certo i mille o duemila euro che non significano assolutamente nulla, cifre importanti che ci avrebbero aiutato a non finire sul lastrico. E forse anche qualche decisione meno vessatoria e prolungata nei confronti del mondo artistico e culturale”. 

Nel 2016 la malattia e tutto per un po’ si ferma. Come ha trascorso quel periodo?

“Con una caparbietà infinita, una voglia di ritornare a suonare sul palco, con coraggio e determinazione. Mi ha aiutato molto l’amore di mia figlia e la presenza di dottori eccezionali. Poi gli amici intorno e la stima di tanti che non mi hanno mai fatto sentire solo o perso o definitamente abbattuto da una malattia molto dura e tenace. Tanta sofferenza poi nella mia vita l’avevo già provata e penso che questo ti aiuta quando un altro ed un altro ed un altro uragano si abbatte su di te. Semplicemente ti trova più forte e non certo rassegnato. Dici a te stesso “ne ho passate tante, supererò anche questa”. Nella vita e nella malattia soprattutto non è tanto quello che ti accade e di quale portata, ma il tuo modo di reagire e la tua voglia di vivere. Avevo sempre la musica in testa, ma quella ce l’avevo sempre anche ed indipendentemente dalla malattia. Il ritmo, quello giusto, fa tanto la differenza in ogni circostanza, finanche nella malattia, pensi un po’”. 

Nel suo libro un capitolo lo intitola “Io e Pino Daniele” un rapporto unico, saldo ed incorruttibile. Cosa c’è ancora di Pino che non sappiamo o non conosciamo?

“Tante cose che terrò nel mio cuore, tanti momenti belli che abbiamo vissuto insieme e che resteranno nella memoria tra i miei ricordi più belli, insieme a quelli di mia madre e di mia figlia. Penso che Pino si sia dato completamente attraverso la sua musica, a parte qualcosa della sua vita privata che è tale e rimane tale, non credo ci sia qualcosa che Pino ha tenuto per sé, proprio perché anche per lui la musica era tutto ed attraverso la musica portava tutto quello che aveva dentro al pubblico, a chi lo amava e lo ascoltava e lo ascolta ancora oggi. Ci siamo conosciuti negli anni Settanta, avevo capito subito che era un grande talento, è stato il mio migliore amico, la sua morte mi ha reso vulnerabile, poi forte. Sono stato un uomo fortunato”. 

Nel 2019, dopo ventitrè anni di pausa, il suo quarto disco “Nouvelle Cuisine”, un disco non commerciale lo definisce, un disco fatto con più di quaranta musicisti tra i migliori della scena musicale, è stata la sua terapia più efficace?

“Certamente, una cura infallibile, ancora con le stampelle ho cominciato a lavorarci e sono felice di averlo fatto. Tutti mi hanno aiutato, tutti i miei amici musicisti che hanno partecipato senza alcun compenso, hanno suonato tutti gratis per me, in nome della nostra amicizia. Se non avessi fatto quel disco non sarei uscito così velocemente dal tunnel dell’apatia”.

Nel 1996 la fatidica frase “Sai suonare il berimban?”, inizia così il suo rapporto con Fabrizio De Andrè. Passano gli anni ed aumenta la desolazione della sua assenza. Le sue parole non passano mai di moda, anzi diventano sempre più attuali. Come è stato il vostro rapporto? 

“Con Faber è stato un rapporto di profonda stima, lui un tipo difficile e speciale, io un pignolo ed anche io persona difficile, lui cambiato negli anni in una persona docile e dolce, io musicista che non lascio dubbi irrisolti. In definitiva due perfezionisti che la musica ha fatto incontrare, il nostro incontro ha dato risultati veramente notevoli, risultati che oggi io valorizzo nel pieno del loro significato”.

Non ebbe il coraggio di andare in America nonostante l’invito di Corrado Rustici. Mi viene in mente Pino Daniele, Massimo Troisi, i napoletani sono pigri? Oppure non ha creduto abbastanza in sè stesso o ancora la certezza non si baratta con l’incertezza? Ci pensa mai che quel coraggio di allora forse le avrebbe regalato un presente più solido e sicuro?

“Ero già conosciuto in Italia, in America avrei dovuto cominciare tutto dall’inizio, lì non scherzano, non è l’Italia delle raccomandazioni. In America se sbagli sei fuori. Non ho visto un futuro sicuro nel mio trasferimento in America, infatti oggi Rustici si è trasferito in Germania perché lì la musica non va più come una volta. Ed a molti è toccata la stessa sorte. Rientrare dopo tanti anni dall’America poi sarebbe stato ancora più complesso, non è rientrare da Roma a Napoli, non è proprio la stessa cosa, si perdono tutti i contatti, gli amici, si torna probabilmente molto diversi e lo stesso rientro diventa più pesante e faticoso anche da un punto di vista psicologico. Non me la sono sentita. Poi chi lo sa come sarebbe andata. Va bene così”. 

Una lista infinita di artisti straordinari, sembra quasi impossibile pensare di averli incontrati tutti insieme in una sola vita. Adattarsi poi ad esigenze sempre diverse, sempre nuove, sempre più complesse. E’ stato bello, ma mi viene da pensare anche tanto faticoso.

“Per me no, non me ne rendevo conto, mi divertivo a suonare con loro, mi davano fiducia e stima illimitate ed anche la libertà di potermi esprimere a modo mio, era un valore aggiunto. I grandi artisti grazie a Dio ragionano così, ragionano bene e mi davano anche la forza di spingermi. E’ stato uno stimolo continuo. La stessa cosa la prova un cuoco quando gli dicono “Sai, cucini bene”, lui crea sapendo che i commensali mangeranno tutto”.

Morale della favola? Perché realmente di favola ha il sapore ed il colore la sua vita. Ed ora? Cosa accadrà?    

“Non lo so, spero di suonare fino a che le forze me lo permetteranno, spero di vedere le mie due nipotine crescere, mia figlia è incinta di due gemelle, spero che mia figlia viva bene e che non abbia mai problemi. Il resto non mi interessa, il mio cuore è gonfio di soddisfazioni e di cose tristi, ma vivo e questo è ciò che conta veramente per me. Ho avuto una vita così piena e ricca di ogni cosa che ora voglio solo godermi tutto quello che ho costruito. Non ho più bisogno di chissà quali grandi sussulti o sobbalzi, sono diventato un po’ più tranquillo, non per l’età e neppure per la malattia, non vivo di paure per nessuna delle due, non vivo di ricordi ma ricordo per vivere meglio e più intensamente possibile la mia vita. 

File:La Roma del Popolo.jpg - Wikipedia

La Roma del Popolo è l’eredità mazziniana che ci piace ricordare nel 150° anniversario della morte di Giuseppe Mazzini (Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10 marzo 1872) che ricorre in quest’anno purtroppo ancora dominato dalla pandemia e dai tanti fatti, a partire da quelli sanitari per arrivare a quelli politici, che ci richiamano tutti alla responsabilità e ai doveri.

Ultimo battagliero giornale politico fondato dal Genovese, uscì regolarmente dal 1º marzo 1871 al 21 marzo 1872, ( anticipato da un fascicolo compilato integralmente da Mazzini, pubblicato il 9 febbraio dello stesso anno), richiamandosi ai ben noti valori del mazzinianesimo e della Terza Roma che, dopo quella dei Cesari e dei Papi, avrebbe dovuto vedere uno Stato repubblicano unitario come luogo dove la libertà e la giustizia si sarebbero realizzate per tutto il popolo. 

Per chi li volesse sfogliare, sono tutti disponibili nell’emeroteca digitale del sito web della biblioteca Gino Bianco.

Con un gruppo di amici, con cui ci riconosciamo negli stessi valori, ci siamo ispirati a quest’eredità, dando vita all’Associazione “La Roma del Popolo”, condividendo il richiamo alla mobilitazione ed alla partecipazione delle Associazioni quale motivo dominante dell’opera mazziniana, non solo per la necessità di cooperazione e di solidarietà ma, soprattutto per il valore dell’uguaglianza, senza la quale non ci può essere libertà né di pensiero né di azione. 

In ultima analisi, afferma Mazzini, non può esserci associazione se non tra persone libere ed uguali.

L’Associazione nasce con la coscienza dell’importanza della memoria storica, non solo come valore di testimonianza ma, di azione concreta, con l’intento di promuovere e sviluppare attraverso seminari, convegni, eventi commemorativi e attività di studio e diffusione culturale, un’adeguata coscienza civica e sociale dei cittadini.

A riguardo, “debutteremo” con un primo incontro a ridosso proprio di quel 9 Febbraio, anniversario della gloriosa Repubblica Romana del 1849, con una visita guidata nei luoghi storici di quelle memorie Risorgimentali che si snoderà per alcune tappe dal centro fino al Gianicolo, epicentro di quei fatti.

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Per il 150° anniversario, ci siamo fatti inoltre promotori della richiesta del conio di una moneta da 1 Euro con l’effige di Mazzini. 

Sicuramente questa ricorrenza non è seguita con la dovuta attenzione e le celebrazioni che meriterebbe uno dei padri ispiratori dell’Italia e di un’Europa unita e solidale.

Comunicato - Emissione francobollo dedicato al Teatro Eliseo in Roma, nel  centenario dell'inaugurazione

Parlando di attualità e sempre con riferimento a Roma, richiamiamo con sgomento l’attenzione su quello che potrebbe sembrare un “piccolo” fatto rispetto alla gravità dei problemi ma che ci sta a cuore ed è in tema: un altro pezzo di memoria storica ed eredità culturale, quella del Teatro Eliseo con l’attiguo Piccolo Eliseo, in via Nazionale, è in vendita. Un prestigioso palcoscenico che fu di Totò, Eduardo, Visconti, Gassman, Anna Magnani e Vitti che, come recita l’annuncio, “lo rendono un interessante investimento per investitori nazionali ed internazionali”.  

Dopo le vicende del Teatro Valle, oltre che una grave perdita storica e culturale, anche una restrizione degli spazi sociali, già fortemente minati dal virus. Segno dei tempi.
È tempo d’uscire dalla politica d’espedienti, d’opportunità, di viluppi e raggiri, d’ipocrisie e transazioni”. Giuseppe Mazzini, Agl’Italiani “La Roma del Popolo”, 9 febbraio 1871.

“Il mio fisico non è fantasia, è fatica”. Karla Kol ci racconta il mondo del fitness, ce lo fa vedere e lo rende accessibile a chiunque. Parola d’ordine: MISSION POSSIBLE

(Immagine dell’Ospite)

Le sue storie su Instagram
(@Karlakol_fit) sono ormai diventate famose ed apprezzate ed hanno scatenato un enorme interesse in un pubblico sempre più alla ricerca di approfondimenti e nuovi argomenti sulla cura del proprio corpo, sulla salute e sul buon vivere, con senso pratico ed ironico. L’obiettivo è ciò che conta. Prendersi cura di sè stessi quotidianamente con costanza e volontà. Nulla è impossibile per Karla Kol, fitness model e fashion addicted, professionista, imprenditrice, donna bellissima, ironica, determinata, attiva, senza filtri, una forza della natura, un portento, un uragano che ha deciso di mettere a disposizione di chiunque sia realmente interessato, la sua pratica sportiva e la sua filosofia di vita. Per lei non esiste nulla che non possa essere fatto e detto perché il tempo è prezioso e bisogna saperlo utilizzare per qualcosa di sensato, valido e costruttivo. I suoi post con video e foto sono sempre accompagnati da frasi diventate ormai un vero e proprio punto di riferimento per chi vuole imparare a vivere bene, perché il suo allenamento non si ferma solamente al fisico ma interessa anche la mente, che esattamente come il corpo ha bisogno di un vero e proprio allenamento quotidiano per giungere ad uno stato di benessere totale, assoluto ed appagante. Sicura di sé come poche, in un momento in cui tutto è in bilico, incerto ed insicuro, rappresenta un vero e proprio toccasana, un balsamo, un emolliente che riesce a sciogliere qualsiasi tipo di contrattura. Per lei la vita è un’avventura straordinaria e ciò che accade va digerito, assimilato per trattenere solo le cose buone e belle, il resto via nel più breve tempo possibile. Perché di tempo non ce n’è molto, la sua giornata da donna bionica sembra paragonabile ed equiparabile a 4 o 5 di quelle dei “comuni mortali”, degli “esseri normali”, perché lei è veramente ma veramente straordinaria in tutto ciò che fa e noi abbiamo avuto la fortuna di conoscerla e di intervistarla per Condivisione Democratica, costringendola per un attimo a “fermarsi”. 

(Immagine dell’Ospite)

Fitness model e fashion addicted, professioni in questo momento che vedono una grande competizione anche con protagonisti molto noti nel mondo dello spettacolo. Come si arriva ad essere unici, originali, a distinguersi ed a garantire un buon livello?

“Quando la richiesta è tanta aumenta l’offerta, ecco perché il settore del fitness ha sempre rappresentanti. Questo trend era già iniziato prima della pandemia, durante il Covid con la chiusura dei centri sportivi moltissimi si sono organizzati per proporre esercizi da fare a casa oppure all’aperto. Anche personaggi famosi, più o meno competenti e preparati hanno cavalcato l’onda del business reinventandosi P.T. e proponendo tramite canali a pagamento routine di allenamento.

Sono tantissime le nuove “mode” del mondo fitness, crossfit, pilates, zumba, io penso di distinguermi perché non ho mai abbandonato il body building old style, a parere mio l’unico allenamento veramente in grado di modificare le proporzioni del corpo.

Io eseguo e propongo gli esercizi fondamentali del culturismo variando a volte le tecniche di esecuzione.

A livello di risultati un’ora di palestra equivale a 5 di nuoto, 10 ore di crossfit, a 20 ore di esercizi a corpo libero.

Io che non amo raccontare favole o prendere in giro la gente, dico che è molto difficile ottenere un fisico come il mio senza l’utilizzo di pesi anche molto elevati”.

(Immagine dell’Ospite)

Karla Kol Fit è ora diventato un brand conosciuto ed apprezzato, con una importante novità in arrivo di cui però al momento non vogliamo svelare nulla per lasciare nei lettori la curiosità e l’interesse. Proprio durante il periodo di chiusura dovuto al covid, non si è isolata e non si è fermata alimentando ancora di più il suo atteggiamento costruttivo e produttivo.  Ci racconti meglio il suo percorso professionale.

“Io ho un carattere molto forte reagisco sempre alle difficoltà, non mi piace subirle. Quando hanno chiuso le palestre ho avuto qualche giorno di rabbia, ho comunque continuato i miei allenamenti a casa e mi sono subito mossa per trovare una soluzione. Ho trovato delle palestre che davano la possibilità agli agonisti di potersi allenare, quindi io che sono un’ atleta, mi sono iscritta ad una federazione pesistica ed ho ripreso i miei workout. La prima palestra che ha dato questa possibilità era a Bergamo. Partivo da Milano per andarci 4 volte alla settimana. Niente può fermarti se tu non vuoi stare fermo…. poi con locali, ristoranti, negozi chiusi e avendo quindi più tempo a disposizione ho cercato di sfruttarlo al meglio e con l’aiuto di un art Director bravissimo ho creato il mio logo. È stata una grandissima soddisfazione. I primi prodotti di merchandising sono già usciti ma la grande sorpresa è in arrivo… quindi quello che per molti è stato un periodo di pausa per me è stato invece di grande impegno”.

Il suo profilo Instagram è seguito per lo più da uomini, cosa non ha funzionato con le donne?

“Ho un modo di propormi troppo strong, ho cercato di ammorbidire la mia immagine ma sarebbe stato uno snaturare la mia personalità, quindi ho scelto di continuare ad essere semplicemente me stessa e ….. chi mi ama mi segua. Il modello che propongo può sembrare irraggiungibile, irrealizzabile, troppo lontano da una “normalità” cui molte donne, per una serie di esigenze, impegni ed impedimenti, vorrebbero indirizzarsi. Ma credo fortemente che solo puntando al massimo si possano raggiungere livelli ed obiettivi che conducano a risultati soddisfacenti. E poi credo che se si punta in alto scendere un po’ non rappresenti una grande frustrazione e delusione, semplicemente un piccolo ridimensionamento che può essere accettato senza troppi compromessi. Ma se si parte già da un livello troppo basso ben presto si finisce sul divano con pigiama pantofole e vaschetta di gelato al cioccolato”. 

(Immagine dell’Ospite)

Della sua vita privata non si sa nulla, lei protegge molto la sua immagine nel mondo virtuale. A noi però può svelare qualcosa. 

“Ho una sorella e due nipotini fantastici. Credo sia più che sufficiente. A chi importerebbe della mia vita privata in fondo? Il messaggio che voglio comunicare attraverso i miei video e le mie foto è un messaggio di creazione del proprio universo fatto di corpo mente anima e cuore. Anche i commenti che aggiungo sono tutti orientati nella stessa direzione, vivere bene. Quindi raccontare la mia vita privata non aggiungerebbe molto al mio lavoro. Ad ogni modo molto di me si può comprendere, a chi interessa, proprio dai miei post che raccontano e presentano me mentre faccio sport, viaggio, sono in casa, presento luoghi e persone e molto altro ancora. Ma sono certa che i miei followers sono seriamente interessati ai miei allenamenti che condivido con tutti perché in fondo sono la parte più importante e significativa della mia vita, ciò in cui credo molto ed in cui investo la maggior parte della mia giornata”. 

Bellissima, impegnatissima, attiva su diversi fronti, ironica, creativa, propositiva, solare e coraggiosa. Karla Kol avrà pure qualche difetto.

“Ovviamente …. come tutte le dive sono nervosa, capricciosa, impaziente e vanitosa”.

(Immagine dell’Ospite)

Il mondo del fitness e dell’immagine è cambiato moltissimo in questi ultimi anni con l’arrivo della tecnologia più avanzata, dei social, della figura di influencer. Molti i benefici ma anche molti danni, lei che bilancio ne ha fatto?

“Le figure che i social propongono sono modelli esteticamente perfetti e difficilmente raggiungibili, questo potrebbe creare nelle persone, soprattutto più insicure, uno stato di inadeguatezza e sconforto.

Mai scoraggiarsi davanti a qualcuno che ci sembra migliore di noi, iniziare invece un percorso ed un lavoro su noi stessi per cercare di raggiungerlo ed anche se questo non sarà possibile comunque avremo apportato dei miglioramenti in noi stessi. Non odiamo chi ci sta davanti ma cerchiamo di raggiungerlo. Se riuscissimo a trasformare l’invidia e l’insicurezza in energia produttiva, invece che in delusione rabbia e sconforto, avremmo molta più gente in salute, allegra e felice”. 

Quanto conta nella vita un po’ di sano egoismo ed un pizzico di cinismo?

“Io amo molto i felini e ho imparato a vivere come fanno loro, i gatti sono i miei maestri di vita, per questo ho una vita stupenda…Loro hanno un rapporto bellissimo con sé stessi, con chi li ama, con la casa e con la natura. Sono creature meravigliose. Non fanno nulla per bisogno, sono liberi, per questo tutto ciò che donano è puro e sincero. Vivere pensando di più a sé stessi cercando di razionalizzare non è un male, ma un dovere che abbiamo verso noi stessi. Io parlo di rispetto che ognuno di noi dovrebbe avvertire come esigenza irrinunciabile, rispetto per ciò che siamo e che vogliamo trasmettere”. 

(Immagine dell’Ospite)

Quali sono le sue passioni oltre lo sport?

“Tantissime: la danza che ho iniziato a praticare all’età di 5 anni, la musica, la lettura, il teatro, la guida sportiva e di conseguenza i motori, la moda, l’arte nello specifico la pittura.

Da buona esteta ho un’attrazione verso il bello in ogni sua forma ed espressione.

Avere tanti interessi ci tiene attivi e giovani e rende la vita molto più dinamica e divertente”.

Quando ha inizio la sua attenzione per il corpo, per la salute, per una vita sana ed equilibrata? 

“Quando il primario mi ha preso per i piedi mettendomi a testa in giù per farmi piangere ho pensato: questo fa bene alla circolazione ma se mi sculaccia troppo forte mi spacca i capillari!”

Spesso si associa la bellezza ad una vita di enormi sacrifici e rinunce, ciò che lei comunica però è tutt’altro. Il messaggio è che si può realmente avere ciò che si sogna attraverso un percorso di grande felicità e serenità. 

“E’ semplicemente perché faccio quello che mi piace. Mi spiego: se una donna è paffutella ma è felice e si mette a dieta soltanto perché glielo chiede il fidanzato o perché vede che le sue amiche sono più magre di lei vivrà rinunce e stress. Se lei è felice della sua condizione non deve fare assolutamente nulla.

Non esistono canoni estetici di riferimento, ciò che è fondamentale è saper e voler vivere in un corpo che ci faccia stare bene, che ci faccia sentire a posto con noi stessi”. 

“Quando tutte le giornate sono uguali, sei tu che devi trovare il modo di farle diventare differenti e speciali”. Certamente un motto straordinario, ma non crede che molto spesso il punto di partenza differente può influire su tale atteggiamento rendendo le cose a volte difficili per non dire impossibili?

“La mente di una persona vincente non prende neppure in considerazione la parola impossibile”.

(Immagine dell’Ospite)

Il vissuto di ognuno di noi determina il corso della nostra vita in una direzione piuttosto che in un’altra. Ma è l’atteggiamento nei confronti di questo vissuto che fa la differenza. Il suo messaggio, molto potente, è che non bisogna fermarsi mai, neppure davanti alle tragedie, a traumi profondi, a pericoli, ostacoli, complicazioni e impedimenti. E soprattutto che bisogna essere produttivi ed operativi al massimo. Perché è cosi difficile da far passare questo messaggio?

“Non è un messaggio difficile da far passare, semplicemente c’è chi ha voglia di recepirlo e chi no.

E’ molto più facile piangersi addosso piuttosto che rimboccarsi le maniche e darsi da fare. Chi non ha avuto difficoltà nella vita? Chi di noi non ha attraversato momenti più o meno complessi, dolorosi, pesanti? Eppure molto spesso le persone con identiche situazioni di partenza sono arrivate in punti lontani anni luce. Cosa ha fatto la differenza? Si tratta di percorsi che hanno visto qualcuno lasciarsi andare pensando che nulla sarebbe potuto mai cambiare e migliorare e qualcun altro ripetere a sé stesso ogni giorno “voglio una vita migliore, me la merito e me la prendo”. Il mondo è traboccante di opportunità e volerle cogliere è uno stimolo che ognuno di noi dovrebbe coltivare quotidianamente dedicando a questo aspetto magari lo stesso tempo che impiega per allenarsi in palestra, per vedere un film, una cena con gli amici, la lettura di un buon libro, un viaggio, una buona dormita. Troppo spesso dedichiamo tempo, troppo tempo, ad aspetti della nostra vita che non lo meritano, discussioni, litigi, guerre personali, prese di posizione, cause. Tutta energia che intanto ci avrebbe portato un passo avanti verso il nostro traguardo”. 

Molto spesso si è sentito il binomio palestre-anabolizzanti, doping, farmaci. Qual è la realtà in questo ambiente che dovrebbe rappresentare un tempio per la salute del corpo e della mente?

“Non esiste nessuno sport senza contaminazioni dovute a sostanze dopanti, la gente purtroppo lo ricollega sempre e solo al body building”.

La sua ironia è sorprendente, nella sua pagina Instagram una serie di piccole gags che vanno a toccare argomenti di vita quotidiana. L’ironia è un’arma di difesa o è soltanto una sua spiccata caratteristica?

“Sono molto ironica, anche autoironica. Amo ridere e scherzare e non mi piace chi si prende sempre troppo sul serio. Diffidare sempre dei seriosi e dei noiosi, così come dei “perfetti”, la vita è un continuo di cambiamenti, adattamenti, ci si modella, il corpo come la mente, a seconda dell’età, delle circostanze, dei luoghi. E’ tutto uno spettacolo meraviglioso di colori, luci e suoni. Vedere e sentire sempre le stesse cose non serve a molto, spostare la visuale anche stando in casa è uno strumento infallibile di vivacità e dinamicità”. 

Il secondo posto della sua classifica sull’ipocrisia lo assegna alla frase “i soldi non fanno la felicità”, cos’è che fa realmente la felicità?

“Proprio perché trattasi di frase ipocrita la risposta è contenuta nell’affermazione stessa: la felicità si ottiene facendo quello che ci piace e per farlo servono i soldi. Spesso anche avere idee geniali, creatività, intuizione, non porta alla realizzazione per mancanza di mezzi. Questo non significa mollare il proprio sogno, arrendersi, sentirsi sconfitti e non realizzati, più semplicemente significa che se non hai i soldi devi farli, devi trovare il modo per accumulare denaro da utilizzare per ciò che vuoi. Si deve pur partire da qualche parte, chi parte già avvantaggiato e chi invece il vantaggio deve costruirselo per poi trarne ogni tipo di beneficio possibile. Non mi stancherò mai di ripeterlo, la parola impossibile non esiste”. 

(Immagine dell’Ospite)

Ormai tutti scrivono libri su ogni argomento. Le è mai venuto in mente di cimentarsi in tale ambito magari con un manuale ironico e irriverente del sano vivere in pace con sè stessi e con gli altri?

“No, ma ho pensato ad una mia biografia che sarebbe molto più interessante. Mi piacerebbe raccogliere tutte le mie esperienze, il mio vissuto, il passato ed il presente, il futuro che sto costruendo e che vedo realizzarsi giorno per giorno. Ci sono moltissime storie in un’unica storia che è la mia vita e tanti momenti, incontri e situazioni che sarebbe bello condividere con altre persone. Sono certa che dopo la lettura di questo possibile libro autobiografico le donne, anche le donne oltre agli uomini, sarebbero dalla mia parte e riuscirebbero a vedere tutto ciò che da un profilo Instagram (@Karlakol_fit) non è possibile cogliere completamente. Ripercorrere tutto ciò che ho fatto e tutto ciò che sono stata nei vari periodi della mia vita sarebbe un bel viaggio e di compagni di avventura ne troverei molti altri, in fondo la mia è una bella storia con momenti anche di grande difficoltà, forse quelli più importanti per rafforzare il mio coraggio e la mia volontà”.

Ha mai dovuto affrontare l’invidia, la cattiveria, l’ostilità?

“Certo, come tutte le persone su questa terra, ma dormo comunque sonni tranquilli. Chi non combatte quotidianamente con questi grandi sentimenti? Io però non combatto mi limito ad osservarli e possibilmente ad evitarli, non amo confrontarmi con qualcosa che potrebbe distrarmi e togliermi energie, per quello che faccio e per quello che sono di energie ne ho tanto bisogno e non posso permettermi il lusso di disperderle”. 

Come dicevamo il mondo femminile non è molto a suo favore, ha molte amiche?

“Poche ma sicuramente di qualità, anche in questo sono molto esigente e selettiva. Non è certo la quantità che può avere significato nella vita, e mi riferisco soprattutto alla sfera emotiva e degli affetti. Sarebbe dispersivo anche quello, avere troppe persone con cui condividere ore e giornate, e poi mi domando quanto sarebbe realistico poter affermare di avere molte amicizie profonde, persone a noi così vicine da rappresentare un valido punto di riferimento. La realtà è che dobbiamo ritenerci fortunati se nella vita abbiamo qualche incontro profondo e vero, dove la sincerità e la libertà di essere sé stessi si possa manifestare al cento per cento”. 

L’ignoranza ed il pregiudizio spesso associano una bella donna alla ricerca di una vita facile e comoda. Il suo modello di donna invece mette in evidenza un lavoro costante e continuo per arrivare ad ottenere risultati non da ostentare ma da proporre. Cosa danneggia ancora il mondo delle donne?

“Io credo che indifferentemente sia nel mondo femminile che nel mondo maschile, in generale nel mondo degli esseri umani ci si danneggi da soli, non si può sempre ricercare il danno in qualcun altro per cercare di sopportare meglio le conseguenze. Dobbiamo avere il coraggio di fare le scelte giuste, di sopportare gli errori, di ripartire, di cadere e farsi male, di non giudicarsi sempre e troppo severamente, di essere autoironici quando è necessario, di alleggerire invece di andare sempre in giro con una zavorra di cui non riusciamo a liberarci per mentalità, pregiudizi, limiti, paure. Bisogna lavorare su noi stessi anche con estrema onestà che non vuol dire giudizio ma analisi e comprensione. Dobbiamo imparare a volerci bene ed a proteggerci da tanta confusione e superficialità. Oggi tutti parlano, tutti hanno una soluzione, una risposta, un argomento. Ma è vero? C’è la sostanza in tutta questa concentrazione di tutti sappiamo tutto? Io credo che quando si parli di danno la prima persona a cui bisognerebbe rivolgere l’attenzione siamo noi stessi. Dobbiamo saperci ascoltare senza nessuna ipocrisia”. 

Adora i complimenti, le lusinghe e gli apprezzamenti. Lo dice schiettamente e con grande onestà. Quanto è dannosa l’ipocrisia nella vita di noi donne?

“Esattamente come per tutti, maschietti compresi. Sentirsi apprezzata è una bella gratificazione e ti da anche la misura del lavoro che stai facendo su te stessa, significa che stai facendo bene, che stai indirizzando bene tempo ed energie, che ciò che vuoi comunicare con l’esterno viene compreso e recepito molto bene. Non amo la volgarità, ovviamente, ma uno sguardo compiaciuto, una frase di apprezzamento, un complimento, un gesto di attenzione manifestato con cura, rispetto e garbo di sicuro mi fa molto piacere. Tutto ciò lo trovo sano”.

La libertà di una donna di essere bellissima e non in pericolo credo sia un traguardo ancora lontano, lontanissimo dall’essere raggiunto. Spesso la bellezza viene vista quasi come un invito, un proporsi, una disponibilità. La legge non aiuta. Come ci si difende da questa concezione “malata” della società?

“Io non mi ritengo brutta eppure non mi sono mai sentita in pericolo. E’ ovvio che la bellezza non è tutto, deve essere accompagnata dall’intelligenza nel sapersi districare nella giungla della quotidianita’. Ad ogni modo non penso si debba parlare di difesa quanto piuttosto di un giusto equilibrio. Noi donne abbiamo tutte le risorse necessarie per gestirci nel migliore dei modi, senza né prevaricare l’uomo e nemmeno sottometterci. Credo che nel corso degli anni ci siano stati molti fraintendimenti tra uomo e donna e questo ha finito con indebolire entrambe le parti, quando al contrario la differenza avrebbe dovuto rappresentare una risorsa preziosa, perché che siamo differenti bisogna riconoscerlo ed accettarlo, senza per questo dare giudizi di valore che a nulla servono e che soprattutto non esistono. Il valore di una persona appartiene a qualcosa di molto più profondo ed intimo che non sia semplicemente la differenza di sesso. Su questo dobbiamo soffermarci e non parlare di difesa, attacco, sono termini in qualche modo aggressivi che non fanno che alterare ancora di più un equilibrio che dovrebbe esserci e che è andato perso con il tempo. E nemmeno parlare di ruoli secondo me ha una qualche utilità”. 

Instagram @KarlaKol:_fit

Viviamo nell’epoca delle quarantene, dell’isolamento, dove il tempo sembra fermarsi e le finestre di casa sembra che sviluppino le grate in totale autonomia. Rischi di essere travolto da un senso immenso di noia o di essere assordato dal rumore dei tuoi pensieri, i tuoi veri pensieri, senza l’alibi dell’organizzazione dell’inutile e frenetica routine. Questa insolita esperienza prevede l’attraversamento di varie fasi, capitanate in maniera universalmente riconosciuta dalla fase rappresentata dall’autocommiserazione alienante sui social, seguita a ruota dall’accoppiata vincente netflix e schifezze (o comfort food se vi sentite raffinati) e che poi si dirama a seconda delle personalità e dello stile di vita. Io ho scelto il pacchetto lettura distratta, scrittura e tuffo rovesciato con doppio avvitamento nella nostalgia, che prevede il tentativo di riordinare le foto sull’hard disk. 689 miliardi di foto su 76 terabyte che ti danno quel  vago senso di vertigine. Ti arrendi prima ancora di aver movimentato anche un solo file, ma non puoi resistere alla tentazione di buttarci un occhio. Ed eccole lì, le tue emozioni, tutte le persone che sei stata in questa folle vita, tutte le persone che hai incontrato e quei posti che “wow, ma ci sono stato davvero?”. Il fidanzatino del liceo, “oddio, ma come eravamo vestiti?!?”. 

(Immagine di Lele Bissoli)

Le sbronze con le amiche, tuo marito (meno stempiato) che abbraccia una che ha approssimativamente la tua faccia, ma senza rughe, con qualche chilo in meno. La foto di te, che dormi abbracciata al cuscino di un hotel in Francia, con il sole del mattino che ti accarezza il viso. Il tuo cane, che era appena un cucciolo. Quei volti raggianti, immortalati prima di un bacio o prima di fare l’amore. La risata di un amico che non c’è più (pugnalata inaspettata in mezzo alle scapole). E poi ci sono le foto della tua infanzia, testimonianza ineluttabile che tutti ne abbiamo avuta una, e ti sembra ancora di sentire l’artificiale senso di protezione e sicurezza della tua famiglia, che pur non essendo quella della mulino bianco, sapeva sorreggerti in qualche modo, prima che tu ti armassi e preparassi le ali per spiccare il volo.  Ci sono le foto del cibo, che hai scattato compulsivamente in ogni ristorante in cui sei stato, con la complicità dell’amica invasata con Instagram o lo scherno di chi questo sport non lo pratica. E poi tra queste immagini ci sono anche le foto delle foto dei nonni, rigorosamente in bianco e nero. 

Tre o quattro foto, quante ne bastavano una volta a racchiudere tutta la storia di una vita. 

(Immagine di Lele Bissoli)

Siamo intorno agli anni ’50, loro giovani, innamorati e incredibilmente rigidi, in una posa probabilmente infinita, due statue scolpite nella pietra, come se stessero facendo la cosa più solenne della vita, quello che noi facciamo più e più volte al giorno. Abbiamo un’evoluzione della fotografia, da evento grandioso, concesso ben poche volte nella vita, ed eseguito rigorosamente da un professionista, a istantanee pronte a cogliere qualsiasi frammento della quotidianità e renderlo instagrammabile. Spesso questi due estremi condividono il manierismo, che da eccesso di emozione si è trasformato in disperata ostentazione. Capita che ci sia un po’ di finzione dietro ad una foto. Ma non sempre. Le foto che preferisco infatti sono quelle che non pubblico, quelle che faccio quando mi perdo in qualche posto, quelle dove il soggetto è venuto male perché stava ridendo troppo, quelle dove l’emozione non è patinata, ma grottescamente reale. Dietro ad ogni foto, in ogni caso c’è una storia, un vissuto, un’eredità di emozioni, che riceviamo o tramandiamo. Questo ha la capacità di congelare la bellezza, metterla al riparo dal tempo e farcela ripescare all’occorrenza. Una buona fotografia è come una vita vissuta bene, la ricerca della luce perfetta e un sapiente utilizzo delle ombre. È basata sull’aprire la mente alla bellezza, in tutte le sue manifestazioni. Questo in qualche modo richiama l’arte, la sua capacità di colpire dritto all’anima e di ribellarsi al tempo, alla mutevolezza e all’entropia. È il nostro spicchietto di immortalità. 

E se si parla di arte fotografica, non posso non pensare a Suzanne Stein, fotografa americana di professione e supereroina di vocazione. Il suo potere è mettere poesia nelle immagini più devastanti che una mente possa immaginare, il degrado della società americana, il lato oscuro del sogno americano. Suzanne trasforma in arte quello che gli umani abitualmente non accettano nemmeno nel loro campo visivo, i suoi soggetti sono quelli che non vuoi vedere, ma che esistono e che hanno bisogno che gli venga restituita una dignità. Uno dei suoi principali campi d’azione è Skid Row, quartiere losangelino, (da cui prende il nome di un noto gruppo musicale degli anni ’80), che segna in maniera prepotente il confine di Downtown, la zona centrale dedicata agli uffici.


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Tra questi due quartieri esiste una specie di varco spazio temporale, tra uomini e donne d’affari, nei loro completi fatti su misura e lo scenario post-apocalittico degli ultimi, degli abbandonati, degli emarginati, di chi è stato masticato con gusto e sputato a terra, come un pezzo di gomma insapore. Chi ha visitato bene Los Angeles sa di cosa sto parlando. Interi marciapiedi occupati da senza tetto, approssimativamente cinquemila anime, tra cui reduci di guerra, persone con handicap fisici, tossicodipendenti. Anime abbandonate da una società abilista e spietata, per la quale il valore di una persona è calcolato in base alla sua produttività. Addentrarsi in questo folle mondo non è facile ed è pericoloso, ma con grande determinazione e pazienza, ma soprattutto con grande umanità Suzanne ci è riuscita, riportando alla luce del mondo storie di vite importanti, né più né meno della nostra. Testimonianza di un’eredità sociale malsana, assordante grido di aiuto, non lanciato dalla fotografa, né dai suoi soggetti, ma dalle nostre coscienze di spettatori. La fotografia è un potente mezzo, le immagini sono come freccette conficcate nel cervello, questa è l’istantanea dell’eredità ricevuta, che non deve necessariamente essere l’ereditarietà che lasceremo noi.

Robin by Donatella Lavizzari

La mia è una storia magica e ve la voglio raccontare.
Durante una passeggiata nel centro di Roma, la mia mamma incinta e la sua amica umana, incontrarono Olympia Pratesi, figlia di Fulco (fondatore e Presidente Onorario del WWF Italia).
Era talmente bella che lei se ne era innamorata al primo sguardo.
In famiglia avevano sempre avuto barboncini e la mamma le ricordava tanto l’adorata Sheila, che purtroppo, dopo una lunga vita felice, era volata in cielo tra le altre stelle.
Iniziarono a parlare e quando Olympia si presentò, dicendo il proprio cognome, l’altra signora trasalì perché era stata un’allieva di suo padre Fulco, durante il corso di restauro dei monumenti, alla Facoltà di Architettura.
Si creò un legame tra di loro e al giorno dell’ottantesimo compleanno di FulcoOlympia si presentò a casa con uno scatolone come regalo di compleanno.
Fulco pensò che fosse il solito regalo tecnologico digitale, ma quando lo aprì, uscì il mio bel musetto color albicocca.

Robin da cucciolo
courtesy@Fulco Pratesi

Lui e la moglie Fabrizia impazzirono dalla gioia e cominciarono a pensare come chiamarmi.
Poiché in giardino c’era un loro nipotino che stava giocando con arco e frecce, chiesero a lui di scegliere un nome. E lui disse, con fare deciso: ‘Robin Hood!
Oltretutto Robin in inglese significa pettirosso… non potevano trovare nome migliore per un rossiccio come me!
Credo proprio di essere stato inviato dal Cielo per donare gioia a tutti loro.

Ho sentito Fulco che confessava alla nostra amica Donatella che da subito ero compenetrato nella sua vita ed ero persino in sintonia con il suo carattere, a volte impulsivo.
Io sono sempre stato gentile, disponibile e, a sua detta, anche intelligente, ma soprattutto un cane ‘comodo’, perché sono piccolo e peso solo 4 kg.
Insomma sono indispensabile, un amico prezioso. Così come lo sono state Suna e Sheila prima di me.
Suna era un po’ più piccola e candida come la neve. Ecco perché l’avevano chiamata come il bianco uccello marino. Sheila invece aveva il mio stesso colore ed era adorabile!

Pensate che Fulco mi ha raccontato che la portava anche al cinema!
Una volta andarono a vedere ‘Mia moglie è una strega’ e poiché si annoiava un po’ (le piacevano solo i film gialli), si mise a gironzolare per la sala, tra le poltrone, e a un certo punto, quando apparì sullo schermo un gatto, lei si mise ad abbaiare a più non posso tra lo stupore generale e le risate della gente!
Che pazzerella che deve essere stata….ma sicuramente dolce e amorevole come me.
Citando Fulco, i gatti sono atavicamente degli animali da inseguire abbaiando. Magari però ritenendo prudente desistere dal chiassoso inseguimento quando uno di essi si ferma e ci guarda in maniera interrogativa.

Fulco ha sempre avuto un collegamento speciale con tutti noi animali, un amore immenso, uno scambio di emozioni che sono davvero impagabili.
Non potrei desiderare di meglio.
Donatella dice sempre che lui è in simbiosi, in sintonia con il pianeta Terra, e che ne è Ambasciatore per eccellenza. Come non volergli bene?

Lui si arrabbia sempre molto quando noi barboncini siamo chiamati cani ‘radical chic’ e quindi, per la sua grande ironia, lui stesso si è definito tale. Ha persino scritto un articolo sul Corriere della Sera, dove spiega l’importanza e l’imbarazzante intelligenza di noi barboncini.
Lui dice che siamo diversi dalle altre razze canine perché siamo simili al lupo. Noi abbiamo una conformazione cranica sferica e non piatta nella parte superiore….quindi mooooolto più cervello!

Al contrario dei lupi, io preferisco dormire in una meravigliosa cuccia imbottita che sta ai piedi del letto di Fulco e ogni mattina, verso le 7, mi avvicino e gli lecco la mano per svegliarlo.
Lui si alza e, dopo i tipici riti degli umani, raccoglie il Corriere della Sera e la Repubblica che gli sono stati consegnati e si avvia verso il soggiorno, dove si accomoda su una grande poltrona.
Io lo seguo e mi piazzo lì davanti, guardandolo fisso negli occhi fino a quando mi fa cenno di salire accanto a lui. E così me ne sto al calduccio, mentre legge i quotidiani (credo proprio che il film ‘Una poltrona per due’, si sia ispirato a noi).

Robin by Donatella Lavizzari

Poi mi viene voglia di farmi un giretto per la casa, ma poco dopo ritorno e riconquisto la posizione per farmi un bel pisolino, fino a quando la mia amica Giusy mi porta a passeggio. Con lei mi diverto sempre e faccio delle pazze corse nel parco. Sono talmente veloce che sembro un missile!
Anche con Fulco inscenavo sempre frenetici caroselli sul prato e lo sfidavo a un gioco di riporti con i rami secchi, interrompendolo solo per brucare fili d’erba a scopo digestivo o per stendermi pancia a terra con la lingua di fuori.

Al rientro, mi dirigo verso la cucina, dove mi attendono delle squisite ali di pollo lessate mischiate con il riso soffiato: una vera bontà!
Prima di iniziare a papparmi questa delizia, vado in perlustrazione attorno al tavolo perché da lì scende sempre qualcosa di buono.
Aspetto con pazienza che mi allunghino pezzettini di formaggio o bocconcini di carne.
Ora sì che si ragiona! Si deve sempre iniziare il pranzo con un antipasto sfizioso… stimola l’appetito!
E poi, vogliamo discuterne? Vi sembra che mangiare dentro una ciotola sia appropriato e dignitoso per un cane del mio stile? Insomma! Aggiungete un posto a tavola! Ehm… sì, lo confesso, sono un po’ snob.

Ma non sono certo l’unico eh! Pensate che una volta, durante un’escursione nel Parco del Circeo, abbiamo incontrato Gruyère, un cinghiale molto socievole e educato. Si è avvicinato per salutarci e Fulco gli ha offerto del formaggio. Lui si è ritratto inorridito! ‘Ma stiamo scherzando? Io mangio solo quello svizzero!
E noi siamo scoppiati in una fragorosa risata!

courtesy@Fulco Pratesi

E’ proprio vero, Fulco parla con tutti gli animali. Ovunque vada, riesce sempre a incontrare pennuti, pelosi vari, tipetti di ogni razza e colore, che gli diventano subito amici.
Girovagando nell’Oasi WWF del Lago di Burano, nella Maremma grossetana, avvistammo un gruccione, un bellissimo uccello dal becco lungo e nerastro, leggermente ricurvo verso il basso, e dalla livrea variopinta. Un’esplosione di colori che usciva a mo’ di pennellate dal ‘fondo’ castano del dorso e dall’azzurro del ventre, con sfumature di giallo, verde, nero e arancione.
Vedendoci arrivare, iniziò a volare in tondo sulla testa di Fulco.
Poco dopo si posò lì vicino e si fece accarezzare la testa come se fosse un cucciolo domestico. Un gesto davvero inusuale per uno che adora gli spazi aperti e vive in zone ricche di vegetazione spontanea e cespugliosa, presso i corsi fluviali, i litorali e i boschi con radure.
Ma ho imparato che tutto diventa possibile con Fulco!

courtesy@Fulco Pratesi

courtesy@Fulco Pratesi

Lui è come San Francesco, comunica con tutti noi. E’ il mio supereroe.
Ogni giorno, sul terrazzo dove ci sono le mangiatoie, arrivano tantissimi uccellini che gli raccontano dei loro viaggi e delle loro avventure.
E lui annota tutto e li ritrae con pennelli e acquarelli. Dovreste vedere quanto è bravo! Ha un talento incredibile!
Li ama come se fossero suoi simili, come dei figli!

Il menu principale del ristorante ‘Terrazza Pratesi’ è costituito da semi di girasole, pezzi di grasso, mele spaccate in due e soprattutto briciole di torte e di biscotti che fanno la felicità di pettirossi e cinciallegre, passeri e cinciarelle, capinere e occhiocotti.
In questo luogo c’è realmente quella biodiversità tanto amata e raccontata da Francesco Petretti nei suoi libri e nei suoi documentari naturalistici.
A proposito! Anche lui è stato allievo di Fulco!

Una volta atterrò persino un uccellino che gli portò una foglia di salvia molto profumata. Credo avesse voluto fargli un omaggio per la sua bontà e gentilezza.
Anche le farfalle lo amano! Si posano sulle sue dita, come se fossero incantate da un richiamo irresistibile.

D’estate, nella casa di campagna, venivano a trovarlo persino alcuni ratti. Uno, in particolare, lo faceva abitualmente e ogni volta si mangiava tutte le pesche che riusciva ad acchiappare, guardando con quegli occhietti furbi sia lui sia Fabrizia.

courtesy@Fulco Pratesi

Amo stare in sua compagnia! A volte schiaccio un pisolino accanto a lui e sogno.
Sogno di guidare un’auto sportiva rossa fiammeggiante e di attraversare campi e prati, villaggi e fattorie sperdute.
Ehi! Attente!’, dico rivolgendomi ad alcune signore mucche che stavano per attraversare la strada. E loro prendono a scappare di qua e di là, mentre oche e anatre starnazzano indignate sbattendo le ali e una gallinella, per lo spavento, deposita un uovo, fuggendo di corsa!

A gran velocità raggiungo le montagne. La strada sale ripida con molte curve, fino a raggiungere un ponticello di legno che sta sopra un tortuoso ruscelletto.
Mi arrampico fino alla cima e volo giù dall’altra parte, raggiungendo la pianura che si estende fino all’orizzonte.
Ed ecco, che all’improvviso, qualcosa si muove laggiù! Vedo una linea scura… sono cavalli selvaggi con le loro ondeggianti criniere al vento.
Sento già lo scalpitio dei loro zoccoli sul terreno e i loro nitriti.
Vorrei tanto cavalcarne uno, come nel far west!

Uno di loro si avvicina, si chiama Morello. I suoi occhi e il suo pelo corvino risplendono alla luce del sole.
Io gli offro una zolletta di zucchero (per favore non chiedetemi che cosa ci fa una zolletta di zucchero su un’auto sportiva guidata da un barboncino!), ma lui preferisce di gran lunga la gomma da masticare che ha adocchiato sul cruscotto e, in un baleno, la prende e la mette in bocca, roteando sorpreso gli occhi perché non aveva mai mangiato qualcosa di simile e così strano!

Mentre è tutto preso a capire come mai i suoi denti non s’incrociano più nel modo giusto, gli metto il lazo al collo e con un salto mi lancio coraggiosamente sul suo dorso.
Lui si solleva scalpitando, affonda la testa tra le zampe anteriori, rinculando di scatto e facendo di tutto per disarcionarmi!
Sebbene mi stia aggrappando a lui con tutta la mia forza, scivolo goffamente sotto la sua pancia, riuscendo a malapena a risalire in groppa, attaccandomi alla criniera.
Con un forte schiocco si rompe la bolla fatta con il chewing gum e puffete mi risveglio un po’ stralunato. E Fulco è lì che mi accarezza sorridendo e mi dice: ‘Robin che avventura hai sognato? Hai surfato sull’oceano insieme ai delfini come la volta scorsa o sei andato con un razzo sulla luna?!’.

Io spalanco gli occhi e ricambio il sorriso, strofinandomi addosso a lui, e poi li richiudo e volo sui mari con il mio rapido vascello pirata.
Ad un tratto, una voce dolce rompe il silenzio: ‘Fulco! Robin!’.
E’ Fabrizia che ci chiama.
E’ ora di scendere in cambusa a preparare la cena.

foto @ https://thevision.com

Di Sandro Pertini restano alcune immagini indimenticabili, consegnate alla memoria da spezzoni televisivi.
Sono immagini che hanno scandito alcuni degli avvenimenti della storia italiana, come, per esempio, la strage alla stazione di Bologna o la vittoria dei Mondiali di calcio nel 1982.
In tutti quegli avvenimenti Pertini era presente sia nel suo ruolo istituzionale sia con la sua carica di grande umanità, con la sua storia che veniva da lontano, dalla guerra partigiana e dalla prigionia sotto il fascismo.
Era una figura che gli italiani sentivano vicina.
Divenne una sorta di nonno per i bambini e una vera e propria icona Pop.

PAZ, il geniale e visionario artista Andrea Pazienza vedeva in Pertini l’ultimo esemplare di una razza di uomini duri ma puri come bambini“, una luce nella notte di una prima Repubblica compromessa dalla corruzione e dal malaffare.
Con profonda ammirazione e complicità affettuosa lo trasformò in fumetto, dedicandogli storie, sketch umoristici, tavole e tantissimi disegni.
Un campionario vastissimo e prezioso, che si estende dal 1978 al 1987, e che vede persino il luogosergente Paz fare da spalla al temibilissimo Pert in imprese in nome della libertà e della giustizia.
Testimonianza di come Pertini fosse uno dei personaggi principali nell’immaginario dell’artista.
Pertini ebbe sempre un rapporto divertito con la satira che lo prendeva di mira, tanto da avere una collezione di tutte le sue caricature e invitare al Quirinale i vari autori, da Tullio Pericoli alla redazione del “Canard enchainé”.

Dalla mostra «Paz e Pert» a Roma al Palazzo Incontro
(2010 Fandango Libri S.r.l. Copyright Mariella e Michele Pazienza)

Nella sua figura, come mai prima di allora e come mai sarebbe accaduto dopo, un’intera nazione si riconosceva e riconosceva i valori ‘puliti’ della politica e ciò che la politica dovrebbe rappresentare nella sua accezione più alta: solidarietà, vicinanza e attenzione alle persone.

Ricordare Pertini, raccontarne la storia, ha senso non solo perchè ci consente di ripercorrere la storia di un italiano che attraversa il Novecento con piglio energico e picaresco, ma perchè ci permette anche di fare un punto su noi stessi, su come eravamo e su ciò che siamo diventati.
Ci restituisce l’idea che possa esistere una politica in grado di tracciare la linea di un’etica civile e solidale, capace di guidare una società dialogante, aperta e più conciliante.

Ph. Donatella Lavizzari

Andrea Santonastaso
foto @ https://teatrodellargine.org

Realizzare uno spettacolo biografico non è mai facile perchè si rischia di cadere nel didascalismo o, ancor peggio, nell’agiografia. Soprattutto quando si vuole affrontare una figura come quella di Sandro Pertini, che si staglia come un gigante nella memoria e nell’immaginario collettivo, capace di rassicurare un’intera nazione durante gli anni difficili, a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta.

Andrea Santonastaso
foto @ https://teatrodellargine.org

Nicola Bonazzi, Andrea Santonastaso e Christian Poli hanno accolto questa grande sfida.
SANDRO è senza dubbio alcuno, un’opera teatrale che dipinge al meglio la figura del ‘primo impiegato italiano’, ‘del politico mai Ministro‘, come lui stesso amava definirsi.
Nelle parole di Poli e Bonazzi (SANDRO è scritto da Christian Poli, con inserti drammaturgici e regia di Nicola Bonazzi) e attraverso la voce e la forte presenza scenica di Andrea Santonastaso, prende vita quel piccolo grande uomo che mai si è piegato.

Andrea Santonastaso
foto @ https://teatrodellargine.org

Andrea Santonastaso
foto @ https://teatrodellargine.org

Con un monologo, viene raccontato il carismatico Presidente e, al tempo stesso, l’uomo perseguitato, il partigiano, il combattente per la libertà e l’uguaglianza.
Una voce politica in grado di dire cose spesso scomode (come per es. i rischi di un fascismo sempre incombente), dette in virtù di una vita passata per 13 anni in reclusione e in confino, a causa della lotta serrata contro la dittatura.
SANDRO è uno spettacolo a ‘tesi’ perchè prova a ricordarci che sono esistite persone che hanno combattuto per i propri ideali, fino a pagarne conseguenze molto gravi.

Ph. Donatella Lavizzari

Pertini Alessandro, del fu Alberto e di Muzio Maria, avvocato, socialista, fu confinato politico nell’isola di Ventotene.
Qui di seguito, voglio riportare uno stralcio di un suo racconto, pubblicato in Italia, il terzo volume della Geografia di Enzo Biagi.

Domenica 25 luglio: una serata come tutte le altre. Quando la radio diede il comunicato ci avevano già rinchiusi nel camerone.
Eravamo più di settecento, nella stragrande maggioranza comunisti: Longo, Terracini, Scoccimarro, Camilla Ravera, Secchia. Poi c’erano Ernesto Rossi e Riccardo Bauer, del partito d’azione, e anche degli anarchici, gente che veniva dalle prigioni, naturalmente, che aveva fatto la guerra in Spagna, che era stata nei campi di concentramento francesi.

…. Noi laggiù vivevamo secondo regole immutate, che dovevano essere rispettate con rigore: si poteva uscire dagli stanzoni, dove alloggiavano dalle tre alle cinquanta persone, verso le otto del mattino, bisognava rientrare per le otto di sera.
Non si doveva superre un certo limite, appunto, il confino.

Camilla Ravera racconta nelle sue memorie le strade sassose, le siepi gialle dei fichi d’India, il mare grande e azzurro che ci circondava: paesaggi che erano vietati.

….Un giorno il direttore mi mandò a chiamare: ‘Ho una bella notizia per voi. E’ arrivato un telegramma che dispone per la vostra liberazione’.
‘ Grazie’ dissi. ‘Però io non me ne vado finchè qui resta uno solo di noi
.’
Ma Camilla Ravera, che diede sempre prova di una straordinaria forza morale, Terracini e altri, mi convinsero che dovevo partire, per andare a perorare la causa dei detenuti, e così non diedi pace a Senise, Capo della Polizia, e a Ricci, che era agli Interni; li andavo a trovare ogni giorno con Bruno Buozzi. Erano restii, avevano nei confronti dei comunisti paura e odio. Minacciammo uno sciopero generale e l’argomento li convinse.
Quando arrivò l’ultimo di Ventotene, potei andare a trovare mia madre.
Era molto vecchia e mi attendeva. Stava sempre seduta su un muretto che circondava la nostra casa. ‘Che cosa fa signora?’ le domandavano. ‘Aspetto Sandro‘ rispondeva.”

Ph. Donatella Lavizzari

Pertini ha combattuto per i propri ideali, mai asseriti in maniera semplicistica o ingenua, ma sempre dentro l’agone delle idee, con la forza combattiva di chi si oppone ad una visione sopraffattoria della politica.
Per questo motivo, nello spettacolo, la vicenda biografica di Pertini viene contrappuntata da una voce ‘corale’, l’Odiatore, che prova a rappresentare grottescamente questi impulsi violenti, prevaricatori, di cui spesso siamo tutti preda: perchè SANDRO non vuole essere solo il racconto della vita di un uomo, ma prova a rappresentare la possibilità, l’utopia, il desiderio di un’umanità più cordiale e disponibile.
Come cornice, una scenografia essenziale, minimalista, ma caratterizzata da una forte potenza suggestiva e animata dall’alternarsi di buio e luce, e dai bellissimi disegni dello stesso Santonastaso, che vengono, di volta in volta, proiettati sulla quinta scenica.

SANDRO è uno spettacolo che ti entra dentro, ti avvolge in un abbraccio fatto di emozioni, pensieri, sentimenti, riflessioni, … e tu stai lì, immobile.
Ascolti, respiri, chiudi gli occhi… e ti lasci andare in quell’incanto chiamato Teatro.

GRAZIE ad Andrea Santonastaso, Artista Necessario.

https://youtu.be/6uqf8kqy5Mg

Dietro di me
li sento allineati
i miei antenati.
Non visibili, li sento
mentre spronano
l’anima ad agire,
a schivare
un effetto domino,
a spezzare la catena
di cadute secolari.
Li sento allineati
i miei antenati.
Sono dietro
e dentro me
nelle cellule e nel dolore
in una memoria
che sfugge alla memoria
e che solo il corpo
ricorda e trattiene.
Sia pace, nei secoli dei secoli.
(Isabella Lipperi)

Ero piccola, più bassa dei mobili del salotto, e mi piaceva aprire
le ante e guardare, guadare tutto, io quell’odore di legno lo sento ancora come
sento ancora il cigolio delle ante.

Dentro a quelle credenze c’era di tutto, c’era la ricchezza, perché sì eravamo una famiglia borghese e benestante. C’erano servizi di porcellana, bicchieri raffinati, tovaglie decorate, sopramobili eleganti e ancora svariate varietà di frutta secca (passione di mio padre e mia – eredità) e ancora bottiglie di svariati tipi di amari, digestivi, distillati.

(@martmosc)

In un mobile a parte c’era il giradischi, bellissimo e delicato quel giradischi, io e mio fratello avevamo sempre l’occhio vigile di mia mamma “mi raccomando, non toccate, la puntina è delicata!” e poi c’erano gli LP, i 33 e 45 giri, che meraviglia! Erano tantissimi, quelli di musica classica e lirica, il pop di quel periodo, anni 70, e degli anni precedenti, gli anni della loro giovinezza. Avevo una passione particolare per Gianni Morandi, ero una bambina “danzerina” e il Gianni nazionale mi faceva scatenare.

Poi c’erano loro, i dischi con contenuti impegnati, erano tanti, autori che leggevano testi di narrativa, poesie, classici ma nella mia memoria sono rimasti, tra tutti, i dischi di Milva che cantava pezzi sulla Resistenza e sui Partigiani, “Canti per la Libertà” (memoria – eredità).

Nella libreria, nei comodini dei miei, e in giro per la casa, c’erano tantissimi libri, di tutti i generi, e se ripenso ora a quelli che ricordo con particolare affetto mi vengono in mente i libri della collana Premio Strega, i libri della Fallacci e della Morante, il libro “Porci con le Ali” di Radice e Ravera ma soprattutto i libri sulle Guerre Mondiali e la Resistenza.

Antifascismo era l’aria che si respirava in casa, Resistenza era una parola e un concetto di cui si parlava, era un messaggio e un insegnamento che ci veniva dato in maniera diretta e indiretta, ricordo anche tanti film sul tema, ricordo di aver visto in tenera età film che non ho mai dimenticato, film crudeli ma educativi, “La notte di San Lorenzo”, “Kapò”, “Jovanka e le altre” solo per citarne alcuni dei meno famosi.

Da adolescente mia madre mi portava a teatro, ricordo delle meravigliose stagioni di prosa e di lirica, a volte mi annoiavo, magari non mi andava, però le vivevo e negli anni mi sono resa conto di quanto mi è rimasto di quei momenti.

In casa respiravo aria di cultura, storia, arte ma anche di leggerezza, mia madre mi diceva “ogni tanto fa bene staccare il cervello leggendo Gente o Oggi” e io questa filosofia di vita poi negli anni l’ho fatta mia, la “leggerezza” è indispensabile, e nei momenti bui ci ripenso spesso a quelle parole. La leggerezza di cui parlava mi madre mi ha fatto riflettere spesso, mi ha aiutato nella vita a confrontarmi con umiltà anche con persone che non avevano cultura, cercando di non avere quella pomposità che spesso vedo in certe persone che si si sentono pregne del loro sapere, spesso in maniera smisurata.

E poi
c’erano i racconti, i miei ci raccontavano il passato, gli anni bui del dopo
guerra, come viveva la gente, la povertà, l’adattamento, gli anni duri
dell’alluvione (alluvione del 1951 in Polesine) e della conseguente emigrazione
di migliaia di persone in cerca di un futuro nelle grandi città del Nord, ci
raccontavano la storia e chi eravamo, chi erano i veneti e della miseria che
c’era fino agli anni del boom economico. Memoria storica.

In casa si parlava di attualità, io ricordo benissimo alcuni fatti storici successi negli anni 70 e 80, seppur bambina o adolescente mi si sono impressi nella mente, non solo per il clamore mediatico ma soprattutto perché se ne parlava.

L’educazione
era un chiodo fisso di mio padre, fissato su come si doveva stare a tavola, sul
fatto che ci dovevamo rivolgere alle persone più grandi dando del Lei,
amici di famiglia compresi, ma attento anche ad insegnarci ad essere onesti,
corretti, leali, puntuali, di parola. Mio padre era maniacale, mia madre
decisamente più moderata.

Non ricordo
mai nessun atteggiamento o discorso razzista, omofobo, discriminatorio,
classista.

Da bambini, io e mio fratello abbiamo avuto gli stessi identici input, per fare una metafora dico che siamo stati come due piccoli guerrieri addestrati ad affrontare la vita che ci aspettava e muniti delle migliori armi e armature.

Da
quell’infanzia dorata sono passati decenni; gli anni, gli eventi e le
responsabilità hanno dato un colpo di spugna a tutto, la serenità che vedevo
con gli occhi di bambina è stata sostituita da sofferenza, dolore e difficoltà
di ogni tipo. I meccanismi famigliari sono cambiati.

Adesso i due piccoli guerrieri sono grandi, decisamente grandi, e nel corso degli anni hanno scelto cosa tenere e cosa lasciare andare.

L’Eredità

Nel corso della mia vita ho spesso ripensato a quello che mi è stato insegnato, i sentimenti contrastanti che ho provato mi hanno fatto barcollare e la tentazione di andare contro a tutto quello che prima vedevo speciale l’ho avuta in diversi momenti, potrei dire spesso.

(@martmosc)

Se oggi sono quella che sono non è grazie o per colpa dei miei ma per le scelte che ho fatto, io e solo io ho deciso cosa farmene dei loro insegnamenti, delle loro passioni, del loro modo di essere e di vivere.

Ho scelto io
quali armi tenere per difendermi e quali armature per proteggermi, ho scelto io
l’eredità che mi volevo portare dietro per affrontare la vita, le
difficoltà, gli altri, le relazioni, il lavoro.

Ora loro non
ci sono più, ormai da anni, e io provo una profonda gratitudine per alcuni
insegnamenti e valori che ho deciso di fare miei e la scelta è stata in fondo
piuttosto semplice, mi è bastato fidarmi dei ricordi, i ricordi migliori che
avevo, i ricordi che ho raccontato…

Avi 0

“Ogni volta può emergere qualcosa di diverso, purché lei tenga gli occhi chiusi: questo apre un varco attraverso il terzo occhio e tutto è sublimato. Riapre gli occhi e quasi si sorprende che sia proprio lui, il Dio che le scuote i sensi in quel modo soprannaturale; sempre lui che, nel formare una coppia fatta di due punte di energia atavica, rappresenta l’archetipo del maschio che, unendosi a lei, punta di tutta l’umanità femminile, crea il miracolo di unificare due ceppi di avi attraverso il loro amore”.

Gli avi. A livello cosciente li ho sempre trascurati, ma quello che scrivevo nel mio libro” Erosnauti”, l’estratto che ho riportato, è la prova che invece,  dimorano e aleggiano nel mio inconscio; prova ne è che il mio romanzo tantrico è frutto di episodi che, sebbene siano di natura onirica, sfuggente, leggermente psichedelica, ho davvero vissuto e condiviso col mio compagno del tempo. Ma quella sensazione, l’immagine dilatata e amplificata dai sensi, quella di rappresentare la punta dell’umanità femminile, frutto ed espressione di tutti i miei antenati, era concreta. Nella dimensione quotidiana, d’altra parte, la mia concezione che la chiave di tutto sia nel qui ed ora, ha sempre generato in me, un bisogno di tagliare col passato e quindi, la tendenza a non dare un gran peso a chi fosse venuto prima di me. E questo nonostante il mio albero genealogico sia decisamente interessante: da parte paterna risaliamo addirittura al Gattamelata da Narni, condottiero nato il 1370, di cui ricordo la storica statua equestre posta nel salotto di casa in posizione privilegiata: Erasmo Stefano da Narni,  detto il Gattamelata per la sua furbizia, capitano al servizio della Repubblica di Firenze, dello Stato Pontificio ed infine della Repubblica di Venezia. 

(Monumento di Donatello a Gattamelata da Narni – Padova)

Da parte materna arriviamo oltre oceano, nell’ esotica isola di Java, dove i nonni olandesi di mia mamma si stabilirono, dopo la realizzazione della prima, strategica, rete ferroviaria che dai Paesi Bassi si sarebbe diramata verso Oriente. Bene, non mi ha mai appassionata più di tanto la storia dei miei progenitori. Ultimamente, invece, succede che, fermo restando l’importanza e la preziosa necessità di saper vivere il presente, ho compreso che, se attuato nel modo giusto, accogliere e sublimare quel potente flusso di energia, umanità, esperienze, dolori e conquiste, può dare ancora più forza al mio essere fluttuante tra passato e futuro, a patto che il focus mi tenga sempre ben salda nel presente. Al proposito riporto una testimonianza di una sciamana di casa nostra che persegue la via taoista, cammino spirituale in cui mi trovo spontaneamente avvolta e trasportata, Selene Calloni Williams.

Dal libro “Wabi sabi”:

È possibile che alcuni dei tuoi avi a cui sei molto legato non abbiano potuto realizzare in vita i propri sogni a causa di svariati fattori, come la povertà, una guerra, un evento imprevisto. In questo caso è possibile che, a un livello profondo, inconscio, tu abbia ereditato il compito di rendere giustizia a chi non ha potuto completare il proprio obiettivo di vita. Considera l’impronta dei tuoi avi nel tuo destino non come un peso, ma come uno stimolo molto più vasto e potente alla tua missione di vita. D’altra parte, chi saresti senza i tuoi avi? Perché mai l’anima avrebbe scelto proprio quegli antenati se non per mostrarti, attraverso i loro volti, i loro successi e le loro sconfitte, il tuo cammino e il tuo traguardo? A volte mi capita di incontrare individui spaventati dal fatto che gli antenati possano esercitare un peso, un condizionamento sulle loro vite al punto da impedirne la realizzazione. Ma il “daimon”, la missione dell’anima, in verità viene prima di ogni altra cosa.