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‘L’Identità’ Category

“Quando la Patria chiama!…” tuonò il pingue e rubizzo podestà del piccolo borgo, al microfono della tribuna d’onore del campo sportivo. Davanti a lui, l’intero paese, riunito, come ogni sabato, per assistere alle manifestazioni di romana virilità dei suoi giovani, ardimentosi, figli.

“Speriamo che resti senza voce!”, urlò, dalla prima fila, uno dei più ardimentosi, prima che l’uomo potesse proseguire il suo stentoreo sermone.

Il ragazzo venne, ovviamente, fermato, identificato e portato via. Lo attendeva una punizione esemplare: sospeso da tutte le scuole del Regno.

Era il 1938 e aveva da poco compiuto sedici anni. Ventitré anni più tardi, sarebbe diventato mio papà.

Ogni volta che certa retorica torna a lordare di sé la realtà – spezzando le reni alla verità, imbellettando tutto e tutti di un’epica posticcia e ridicola, e trasformando l’informazione in indecente propaganda – ripenso alla lucidità e al coraggio di quel ragazzino (che, cinque anni dopo, si sarebbe unito alla Resistenza) e mi dolgo di non essere mai stato alla sua altezza. A questo punto, è evidente che non lo sarò mai. Mea culpa.

Ho scritto centinaia di articoli e due romanzi per denudare e denunciare l’ipocrisia subdola, velenosa e profondamente antidemocratica dei “benpensanti”. Eppure, malgrado tutti i miei sforzi, nulla in quella montagna di pagine ha la forza e l’efficacia di quel “speriamo che resti senza voce!”, urlato da un ragazzino, durante una delle ore più buie, dolorose e nefaste della Storia italiana.

Le parole sono banconote: hanno un “valore nominale” e uno “reale”. Quando il secondo non corrisponde al primo – cosa che accade con raccapricciante frequenza – non sono che carta straccia.

Se dico “ti amo” ma, in realtà, voglio solo indurti a fare sesso con me, l’amore di cui parlo non esiste. Evocarlo, non è altro che un modo immondo per riuscire a estorcerti ciò che – senza mentire, blandire e frodare – non riuscirei mai a ottenere da te.

Insieme a Dio e famiglia, patria è tra le parole più inflazionate in assoluto. Non solo da noi, a dire la verità. Ma questo non consola affatto. Al contrario: deprime e fa infuriare ancora di più.

Il “valore nominale” è altissimo; il “valore reale”, bassissimo. Talmente basso che, spesso, rasenta lo zero. E, a volte – come sta accadendo in questi ultimi anni – precipita addirittura sotto zero.

La parola patria è stata, infatti, ridotta a specchietto per le allodole: un vetrino colorato che viene spacciato per diamante, con l’unico scopo di convincerci a sacrificarci per un simulacro, vuoto e inutile come un dente cariato. Un “vitello d’oro”, che dei gran sacerdoti senza fede e senza scrupoli ci spingono ad adorare, consapevoli del fatto che, solo in nome di parole come Dio, patria e famiglia, riusciranno a farci commettere ogni genere di bassezza e scelleratezza.

Non lasciamoci incantare, quindi, dall’apparente nobiltà di quella parola. Di mera apparenza si tratta, appunto. Di nobile, infatti, è rimasta solo la parola. “Flatus voci”: una breve emissione di fiato e un suono che durano un secondo e, un secondo dopo, si disperdono nel nulla, come fumo di sigaretta.

Chi si serve di quella parola, lo fa per un unico obiettivo: servirsi di noi. Ci chiama “figli” ma si guarda bene dal riconoscerci ruolo e dignità di figli. A meno che non ci sia qualcuno convinto che figlio significhi suddito o servo.

Eppure questo squallido giochetto psicologico fa breccia facilmente in quel che resta delle nostre teste e coscienze. Teste e coscienze lobotomizzate da decenni di tv spazzatura, di informazione compiacente – che, in molti casi, da controllore del potere, si è trasformata in scendiletto dei potenti (nel 2024, secondo il World Press Freedom Index di Reporters Without Borders, l’Italia si è posizionata al 46° posto nella classifica internazionale della libertà di stampa), dall’orgia di stupidità, ignoranza, follia e odio dei social media e da un consumismo senza controllo, che ci spinge a desiderare – come una droga – pagandolo profumatamente, l’inutile e a fuggire – come la peste – tutto ciò che potrebbe dare senso, valore e profondità alle nostre vite, persino quando è gratis.
“Panem et circenses”: ricetta millenaria ma, ahimè, sempre efficace.

E, così, quando ci chiamano figli (valore nominale altissimo, valore reale inesistente), ci sentiamo, istintivamente, obbligati a “onorare il padre” (patria deriva, appunto, dall’aggettivo latino patrius «paterno», «del padre»). E, dunque, a fare tutto ciò che gli astuti cantori del culto della patria ci chiedono. Nefandezze e follie incluse.

E noi onoriamo il padre senza chiederci chi egli sia davvero, dimenticando che il comandamento cristiano (dietro al quale i predicatori senza scrupoli del falso patriottismo nascondono le loro inconfessabili intenzioni) ha valore unicamente se rispettiamo, davvero e in toto, la Parola di Cristo.

Una Parola che, non solo ci impone di amare il nostro prossimo come noi stessi (Mc. 12,29-31) ma, addirittura, di amare i nostri nemici: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano” (Mt. 5,44).

Due richieste, queste ultime, che nessuno dei gran sacerdoti del falso culto della patria condivide, né ci chiederebbe mai di rispettare, per due ragioni evidenti persino ai ciechi: essi odiano ogni genere di prossimo: negri, ebrei, musulmani, migranti, stranieri, omosessuali, intersessuali, transessuali, transgender, queer, gender fluid, gender creative, non-binari, pansessuali, demisessuali, ma anche donne, giovani, vecchi e poveri; non fanno altro che creare nemici: interni o esterni, reali o presunti. Secondo costoro, infatti, non esiste patria senza un nemico. Nemico che non solo noi figli non dobbiamo azzardarci ad amare ma che ciascuno di noi deve imparare a odiare con tutto sé stesso.

Un figlio può benissimo decidere di amare comunque suo padre, pur sapendo che egli è un assassino, un violento (dentro e fuori la famiglia), un ladro, un bugiardo, un cialtrone, un ruffiano. Tale scelta, però, è una scelta individuale che impegna solo quel figlio.

Un cittadino, invece, non è affatto tenuto a onorare una patria “solo chiacchiere e distintivo”, che non lo ama, non lo rispetta, e non solo non fa assolutamente nulla per lui ma, spesso, lo vessa e lo danneggia pesantemente.

Il celebre chiasmo con il quale, il 20 gennaio 1961, John Fitzgerald Kennedy chiuse il suo discorso di insediamento – «Non chiedete cosa può fare il vostro Paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese» – rappresenta, senza dubbio, un’invenzione retorica di grande forza e fascino.

Dato, però, che Kennedy usa la parola “country” [paese] e non “nation” [nazione] o “homeland” [patria], il vincolo morale che egli richiama non è né basato sul diritto di nascita (nazione deriva dal verbo latino “nasci”: nascere) né di territorio. Si tratta, semmai, di un vincolo che potremmo definire sociale, nel senso che ci viene dalla parola latina socius: «socio», «unito», «partecipe», «alleato». Un legame paritario ed egualitario, dunque, fondato su riconoscimento, rispetto e solidarietà reciproci tra tutti coloro i quali – a qualunque titolo e da qualunque parte del mondo provengano – danno vita alla comunità di quanti vivono in un certo Paese.

Non un vincolo sbilanciato, nel quale il soggetto forte (la patria) può tutto e il soggetto debole (il cittadino) può nulla o quasi; il primo è titolare di tutti i diritti, il secondo, solo di doveri; il primo vive alle spalle del secondo per soddisfare i capricci del primo.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non farebbe gravare su di noi un debito pubblico stratosferico, giunto a un passo da quota 3mila miliardi (2.918mld): il 137% del nostro PIL, pari a 49.450 euro di debito per ogni “figlio”.
Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe un’evasione fiscale scandalosa: tra i 90 e i 100 miliardi di euro l’anno, secondo le stime interne. Stime internazionali, invece, la valutano tra i 100 e i 120 miliardi (Fondo Monetario Internazionale) se non, addirittura, 200-250 miliardi (EU Tax Observatory).
Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe di accumulare, nel cosiddetto “magazzino della riscossione”, più di 1.200 miliardi di euro (più di 6 volte il PNNR) di tasse dovute e mai riscosse, il 90% delle quali lo Stato non vedrà mai.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non lascerebbe che il peso dell’Irpef si scaricasse, per oltre l’80%, sulle spalle di lavoratori dipendenti e pensionati.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe che i salari medi degli italiani fossero tra i più bassi d’Europa. Secondo Eurostat, i salari medi in Italia sono significativamente inferiori rispetto a quelli di molti altri paesi dell’Unione Europea. Il salario medio annuale in Italia si aggira intorno ai 31mila euro, contro una media dell’UE di circa 33.500 euro. In confronto, paesi come Lussemburgo e Danimarca registrano salari medi significativamente più alti, rispettivamente oltre 72mila euro e 63.300 euro. Anche in Francia e Germania i salari medi superano i 40mila euro annui, evidenziando una differenza di circa 14-15mila euro rispetto all’Italia.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe né la cultura androcentrica e ottusamente misogina alla base di un fenomeno drammatico e ingiustificabile come la violenza sulle donne. Secondo l’Istat quasi 7 milioni di donne (6,8mln) hanno subito, nel corso della loro vita, violenza fisica o sessuale: il 31,5% (quasi una su tre) delle donne italiane tra i 16 e i 70 anni. La Relazione annuale del Ministero dell’Interno, inoltre, segnala che, nel 2022, si sono registrati oltre 15mila casi di stalking e violenza sessuale (in media, 41 al giorno; 1,7 ogni ora); secondo l’associazione D.i.Re – Donne in Rete contro la Violenza, infine, una delle forme più comuni di violenza contro le donne è la violenza domestica. Nel solo 2023, più di 23mila donne si sono rivolte ai centri antiviolenza. In media, 63 al giorno, 2,6 ogni ora.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe la follia dei femminicidi, più della metà dei quali attribuiti a partner o ex partner e circa il 20% ad altri parenti: 4 omicidi su 5 avvengono, quindi, nell’ambito familiare. Nel 2023, i femminicidi sono stati 120 (quasi 1 ogni 3 giorni); 80 nei primi otto mesi di quest’anno. Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe il fatto che le donne italiane guadagnino meno (4,2% secondo Eurostat; 5- 7% secondo Istat, 10,7% secondo ODM Consulting) dei loro colleghi uomini, in un Paese che – secondo il Global Gender Gap Report 2023 del World Economic Forum – si posiziona al 79° posto su 146 paesi nella classifica generale della disparità di genere, che comprende partecipazione economica e opportunità, accesso all’istruzione, salute e sopravvivenza, empowerment politico.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe un tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) del 22-23%, né accetterebbe che il 14,9% dei giovani tra i 15 e i 29 anni rientri nei cosiddetti NEET (“Not in Education, Employment, or Training”): giovani che non studiano, non lavorano e non seguono alcun tipo di corso di formazione. Un tasso, quello italiano, significativamente superiore alla media UE, che si attesta sull’11,2%.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Tutto questo, senza parlare della scandalosa situazione della giustizia nel nostro paese (spesso ridotta a questione di protezioni politiche & Co. o di disponibilità economiche dei singoli), del folle smantellamento della sanità pubblica (già oggi tra i 4,7 e i 7 milioni di italiani hanno rinunciato a curarsi, per problemi economici, liste d’attesa troppo lunghe, difficoltà di accesso alle strutture sanitarie, eccessiva distanza dalle strutture mediche), della totale mancanza di attenzione, rispetto e risorse per scuola pubblica, università e ricerca scientifica.
Alla luce di tutto questo, la domanda che dobbiamo porci è: dove diavolo è il sedicente “padre” di tutti questi “figli”?

Ognuno di noi interroghi la propria coscienza.
Un fatto, però, emerge con indubitabile, dolorosa, chiarezza: fino a quando la patria non comincerà a parlare con voce di libertà, giustizia, eguaglianza, diritti e pari opportunità per tutti i suoi figli, attuando – nei fatti e non negli slogan elettorali – il mandato costituzionale (Art. 3) che recita “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, non sarà davvero patria.

E ogni volta che ci chiamerà, più che il diritto, avremo il dovere di urlare: “speriamo che resti senza voce!”

Non so se esista un angolo di mondo la cui popolazione sia completamente autoctona e il suo sangue non si sia mai mischiato a quello di nessun’altra etnia. Ammesso e non concesso, però, che esista, una cosa è certa: non è l’Italia. Per fortuna, aggiungo, visti gli inquietanti rischi, mentali e fisici, connessi all’endogamia. Sessuale o culturale che sia, non fa molta differenza. Senza considerare che, se un posto del genere esistesse, sarebbe arido, deserto e triste, e destinato a una fine di solitudine e dolore.

Diversità è ricchezza
Ci piaccia o no, infatti, diversità è ricchezza. Mettiamocelo in testa una volta per tutte. Capirlo è facile. Non serve aver letto un milione di libri. Basta guardarsi intorno: ce lo insegna la Natura. Che mondo sarebbe il nostro con un solo fiore, un solo frutto, un solo pesce, un solo uccello, un solo essere umano, magari brutto, sporco e cattivo?

Non solo: che musica si potrebbe mai scrivere con un’unica nota? Quale poesia, romanzo, opera teatrale, sceneggiatura con un’unica parola? Quale tela si potrebbe dipingere con un unico colore? Quale danza o balletto, potrebbe nascere da un unico passo?

Noi italiani siamo fortunati, quindi – molto fortunati – a poter vantare (il verbo non è scelto a caso) di essere il frutto dell’incontro e della fusione di così tante grandi culture, visioni, lingue, voci, tradizioni, storie, fedi.

Identità parola plurale, dinamica, aperta
La Storia stessa del nostro Paese ci insegna che – come dicevano i latini – identità è, di fatto, un “pluralia tantum”: una parola che ha soltanto il plurale. Esistono, infatti, le identità ma non l’identità, per la semplice ragione che ogni identità – anche la meno articolata e complessa – è sempre la sintesi di più identità diverse.

Sintesi dinamica, tra l’altro, dal momento che nessuna identità è data una volta per tutte. Le identità non smettono mai di evolvere. Esattamente come quella di ciascuno di noi. È a tutti evidente, infatti, che ciò che siamo oggi è diverso sia da ciò che eravamo ieri che da ciò che saremo domani.

Le identità evolvono da sempre, dunque. Ed evolveranno per sempre. Per fortuna, aggiungo. Altrimenti, sul nostro pianeta vivrebbero 8 miliardi di “homo sapiens”. E i 200/300mila anni che ci separano dal nostro antenato più simile a noi sarebbero trascorsi inutilmente.

E, dato che è plurale e dinamica, identità è, inevitabilmente, una parola aperta. Apertissima, anzi, dal momento che è il frutto di centinaia di migliaia di anni di incontri, inclusioni, fusioni.

Inclusioni – attenzione – non esclusioni. Che non sono solo assurde e incomprensibili: sono, soprattutto, impraticabili. Oggi ancora più di ieri. Chiudersi in un’ottusa e ridicola pretesa autarchica, significherebbe, infatti, condannarsi all’estinzione, prima ancora che all’insignificanza politica, economica, sociale e culturale.

Migriamo da 2 milioni di anni…
Gli esseri umani non hanno cominciato a migrare agli inizi degli anni Novanta, per sbarcare a Lampedusa, conquistare lo stivale e imporci il loro Dio, occupare le nostre case, portarci via lavoro e donne e turbare i sonni di noi benestanti/benpensanti, “cattolici da pasticceria” (come li ha definiti il capo della cattolicità), come proclamano le voci – scriteriate, storicamente infondate e irrazionali – della galassia nazionalista, patriottica, sovranista, sciovinista, protezionista, anti-globalista, autarchica e identitaria.

Piccola parentesi: a proposito di Dio, vale la pena ricordare che Ebrei, Cristiani e Musulmani credono tutti nello stesso Dio. Inoltre, i cattolici antisemiti farebbero bene a non dimenticare che Gesù, insieme a tutta la sua famiglia e agli apostoli, era ebreo. Chiusa parentesi.

… per soddisfare bisogni primari
Gli esseri umani hanno cominciato a migrare circa 2 milioni di anni fa, quando l’Homo erectus ha lasciato l’Africa e ha iniziato a diffondersi in Asia e in Europa. Le sue migrazioni erano guidate da bisogni primari fondamentali: terra, acqua, cibo, focolari sicuri e accoglienti, protezione dai predatori (animali e no) e la necessità di assicurare una progenie in grado di garantire la sopravvivenza della specie.

Siamo tutti africani.
Sì, siamo tutti africani: facciamocene una ragione. I primi ominidi, infatti, sono apparsi nel cuore dell’Africa circa 7-6 milioni di anni fa. E, sempre in Africa, è emerso il genere Homo, il cui primo rappresentante – Homo habilis, considerato un progenitore dell’Homo erectus – è vissuto circa 2,8/2,4 milioni di anni fa. I suoi fossili sono stati trovati principalmente in Africa orientale, in Tanzania e Kenya. Prove fossili e genetiche (analisi del DNA mitocondriale e del cromosoma Y) indicano, infine, che tutte le popolazioni moderne discendono da un gruppo di umani – Homo sapiens – che si è evoluto in Africa circa 300mila anni fa.

L’orco Globalizzazione
Anche l’orco Globalizzazione, che tanto ci terrorizza, non è nato – come qualcuno vuole farci credere – dopo la caduta del Muro di Berlino. Chi lo sostiene ha gioco facile. Dopotutto, si tratta di indottrinare teste sempre più vuote e coscienze sempre più aride. Combinazione ideale per infestare l’opinione pubblica con i venefici frutti della malapianta della paura.

La globalizzazione è nata millenni fa. E non per il capriccio di qualche capotribù proto-buonista/comunista o paleo-turbo-capitalista. È nata per un bisogno vitale, ineludibile: la sopravvivenza. Un dettaglio tutt’altro che trascurabile, non vi pare? Rinunciare alla prima, dunque, significa, di fatto, rinunciare anche alla seconda.

Autarchia è follia.
Ecco perché, a terzo Millennio avviato, l’idea di chiudersi in una sorta di autarchia2.0 non è soltanto anacronistica e stupida: è letale. Oltre che oggettivamente impraticabile. E non da oggi: da sempre. Non lo dico io: lo dice la Storia. Quella vera, non una delle mille bufale revisioniste, messe in giro ad arte dal, sempre più nutrito, consorzio dei nostalgici delle più grandi follie del recente passato.
Nessuno, in nessun angolo del pianeta, può, infatti, illudersi di essere completamente e felicemente autosufficiente. Sarebbe una follia. Follia ancora più grande in un Paese come il nostro, che dipende così tanto dagli altri, per materie prime e beni indispensabili alla sua stessa sopravvivenza.

Dipendiamo dalle risorse degli altri…
A causa della limitata disponibilità di risorse naturali e dell’elevata domanda interna, infatti, ogni anno, noi italiani, spendiamo, a seconda delle fluttuazioni nei prezzi internazionali e delle quantità dei beni di cui abbiamo bisogno (tra questi: petrolio e derivati, gas naturale, macchinari industriali e apparecchiature tecnologiche, automobili e componenti per l’industria automobilistica, ferro, acciaio, rame e altre materie prime metallurgiche, prodotti chimici e farmaceutici, grano e cereali e persino frutta esotica e verdure fuori stagione) tra i 140 e i 217 miliardi di euro, rispettivamente il 7% e il 10,85% del PIL, una cifra che equivale al nostro Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Scusate se è poco.

La domanda è: saremmo mai in grado di produrre tutti questi beni “in casa nostra”?

… e dalle braccia degli altri
Per non parlare del bisogno, ormai patologico, di manodopera straniera, soprattutto per tutti quei lavori che noi italiani non vogliamo più fare: raccolta di frutta e verdura, ad esempio (si stima che, ogni anno, l’agricoltura abbia bisogno di 300/350mila stagionali); manovali, muratori, carpentieri, posatori di pietre, addetti a scavi e demolizioni, montatori di ponteggi (si stima che il 30-40% della forza lavoro nell’edilizia sia costituita da immigrati); cura e assistenza degli anziani (sono circa 850mila le/i badanti, in larga maggioranza immigrati); pulizie domestiche e di edifici pubblici, alberghi, ristoranti; camerieri, lavapiatti, aiuto-cuochi; camionisti, trasportatori, rider…

Una dipendenza, questa dalla manodopera straniera, destinata a crescere, soprattutto per due motivi:

  1. le preoccupanti dinamiche demografiche: abbiamo uno dei tassi di natalità più bassi al mondo (in media, circa 1,24 figli per donna: un valore ben al di sotto del livello di sostituzione – 2,1 figli per donna – necessario per mantenere stabile la popolazione nel lungo termine) e una popolazione sempre più anziana: circa il 23% degli italiani hanno un’età pari o superiore ai 65 anni, cosa che ci colloca tra i paesi più anziani a livello globale;
  2. le esigenze del mercato del lavoro, per il quale – secondo alcune stime – l’Italia avrebbe bisogno di 200/300mila lavoratori immigrati all’anno, per coprire le carenze di manodopera in settori chiave come quelli ricordati sopra.

Domanda: supponendo di rimandare a casa tutti gli immigrati che, attualmente, lavorano da noi (per lo più sfruttati, senza diritti e senza tutele) e di chiudere le frontiere ai migranti, chi di noi sarebbe disposto a rinunciare al proprio lavoro e a dedicarsi, per il bene di tutti, a una vita di fatica, sfruttamento, povertà ed esclusione sociale?

Un popolo di migranti.
Non so se siamo mai stati davvero – come voleva la retorica fascista – un “popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di navigatori, di colonizzatori, di trasmigratori”. Una cosa, però, è certa: siamo stati e siamo ancora un popolo di migranti. Si stima, infatti, che, tra metà Ottocento e metà Novecento, tra 25 e 30 milioni di italiani siano emigrati all’estero: uno dei più grandi flussi migratori della storia moderna.

Le principali ondate migratorie sono state tre:
1861-1915: tra 9 e 14 milioni di italiani (circa il 31%-48% della popolazione media di quel periodo) lasciarono il Paese, dirigendosi verso l’America Latina (in particolare Argentina e Brasile), gli Stati Uniti e l’Europa;
1916-1945: tra 6 e 10 milioni di italiani (circa il 14,8%-24,7% della popolazione media di quel periodo) emigrarono negli Stati Uniti, in Europa e in Sud America;
1946-1960: tra 5 e 6 milioni di italiani (circa il 10,5%-12,6% della popolazione media di quel periodo) emigrarono verso l’Argentina, l’Australia, il Canada, il Venezuela e altri paesi europei.

Un pianeta di italiani.
Migranti produttivi. In tutti i sensi, visto che si calcola che, oggi, in giro per il mondo, ci siano tra i 60 e gli 80 milioni di persone di origine italiana. Un’Italia-figlia, persino più popolosa della sua madrepatria, che conta solo 59 milioni di figli.

Tra i 25 e i 30 milioni di questi nostri “cugini” e “nipoti” vivono in Brasile (10/15% della popolazione), tra i 20/25mln in Argentina (40%/50%), 17/18mln negli Stati Uniti (5/6%), 1/2 mln in Venezuela (3/7%), 1,5mln in Canada (4%), 1/1,5mlm in Francia (2/3%), 1,4 milioni Uruguay (40%), 1 mln in Australia (4%), 700mila in Germania (0,85%) e 500mila in Svizzera (6%).

Due domande:

  1. Se i suddetti Paesi adottassero politiche anti-stranieri/immigrati, e decidessero di liberarsi di tutta quella gente e rimandarla a casa sua, noi dove ce li metteremmo?
  2. Se tutti questi italiani di seconda/terza generazione decidessero – in base allo ius sanguinis, così caro ai nostri sovranisti/nazionalisti – di richiedere la cittadinanza italiana (la trasmissione della cittadinanza non ha un limite di generazioni) e trasferirsi da noi, come gestiremmo l’ingresso nel nostro Paese di milioni e milioni di migranti legali?

L’identità italica non esiste

Siamo sicuri che i tratti somatici di tutti questi italo-brasiliani/argentini/statunitensi/venezuelani/canadesi/francesi/uruguaiani/tedeschi/svizzeri rappresentino l’italianità?
Ma, soprattutto: cos’è questa fantomatica italianità?
Un fantasma, appunto, dal momento che non esiste alcuna “identità italica”. E non per chissà quale pregiudiziale ideologica, ma per la semplice ragione che la Storia ci dice che il nostro Paese è uno tra i melting pot più antichi e ricchi di “bio”-diversità di tutto il pianeta.

Sono davvero tanti, infatti, i popoli non italici che hanno contribuito a renderci quelli che siamo oggi. Impossibile non ricordare almeno i più importanti: Fenici (popolo semitico originario di una regione che corrisponde all’attuale Libano, con colonie che si estendevano in parte della Siria e lungo le coste del Mediterraneo), Greci, Celti (tribù indoeuropee emerse in una regione dell’Europa centrale che comprendeva le attuali Austria, Svizzera, Germania meridionale e Francia orientale), Goti (originari dell’attuale Svezia meridionale: si divisero in due rami: i Visigoti, che, dopo aver attraversato i Balcani, si stabilirono in Gallia [l’attuale Francia] e nella Penisola Iberica [Spagna e Portogallo] e gli Ostrogoti, che si stabilirono nelle regioni orientali dell’Europa, intorno al Mar Nero, in un’area che corrisponde all’attuale Ucraina, Moldavia e Romania, per poi migrare in Italia), Longobardi (originari dello Jutland, oggi parte della Danimarca, che migrarono attraverso la Germania settentrionale), Vandali (probabilmente originari anch’essi della Scandinavia o della penisola dello Jutland), Unni (provenienti dalle steppe dell’Asia centrale o dalla Mongolia), Normanni (Vichinghi originari di Norvegia, Danimarca e Svezia, che si stabilirono nella Normandia in Francia prima di espandersi in altre parti d’Europa), Arabi, Franchi, Spagnoli, Francesi e Austriaci.
Ci piaccia o no, dunque, nel nostro sangue c’è il sangue di tutte queste genti. Impossibile, quindi, parlare di italianità. A meno che non ci sia qualcuno in grado di stabilire quale percentuale di sangue “italianamente puro” (vale a dire non fenicio, greco, celtico, gotico, visigotico, ostrogotico, longobardo, vandalico, unno, normanno, arabo, franco, spagnolo, francese e austriaco) sia necessaria per potersi dire effettivamente italiani. Cinque per cento? Dieci? Quindici? Trenta? Cinquantuno per cento?
Non scherziamo, per favore. Possiamo anche continuare a ignorare – o fingere di ignorare tutto questo – ma al nostro patrimonio genetico non interessano le nostre credenze, convinzioni, elucubrazioni. Possiamo strillare quanto vogliamo, ma lui resta quello che è: il prodotto di millenni di incroci avvenuti in un Paese che, per la sua posizione geografica nel Mediterraneo, è stato, fin dall’antichità, un crocevia di grandi popoli, grandi culture, grandi commerci.

È scientificamente dimostrato, infatti, che il nostro DNA è un mosaico di influenze genetiche e culturali diverse e che noi italiani condividiamo marcatori genetici con popolazioni del Mediterraneo orientale, del Nord Africa, dell’Europa centrale e settentrionale, e del Medio Oriente. Le cose stanno così: accettarlo o no, non le cambia.

Lingua italiana?
Per tutto questo, neanche la lingua italiana è al 100% italiana. Il nostro alfabeto, ad esempio, ha origini fenicie (1200 a.C.), è stato poi modificato dai Greci (IX secolo a.C.), ha influenzato l’alfabeto degli Etruschi (che vivevano nell’Italia centrale, prima dell’ascesa di Roma) e, infine, è stato adottato dai Latini. Con l’espansione dell’Impero Romano, l’alfabeto latino si è diffuso in gran parte dell’Europa e in alcune parti dell’Africa e del Medio Oriente. Dopo la caduta dell’Impero Romano, l’alfabeto latino è rimasto in uso grazie alla Chiesa cattolica, che lo utilizzava (e ancora lo utilizza) per la scrittura dei testi religiosi, e si è evoluto nelle lingue romanze, tra cui l’italiano.

Per non parlare del nostro lessico, che ospita più di 23mila parole di origine straniera. Parole di uso così comune e frequente, che non sappiamo nemmeno che provengono da greco, inglese, francese, spagnolo, tedesco, arabo, russo, provenzale, giapponese, portoghese, turco, longobardo, ebraico, hindi, sanscrito, cinese e persiano. Cosa vogliamo fare? Bandire tutte queste parole dai nostri vocabolari e rinunciare a usarle, solo perché non presentano i caratteri dell’italianità?

Numeri italiani?
E cosa dovremmo fare, allora, dei numeri che utilizziamo, visto che provengono dall’antico sistema numerico indiano (primo/sesto secolo d.C.), successivamente adottato e perfezionato da studiosi arabi e persiani, i quali li diffusero nel mondo islamico e, attraverso di esso, in Europa?
Vogliamo rinunciare anche a loro?

Già che ci siamo, allora, perché non rinunciare anche ad aritmetica, algebra e geometria, visto che sono arrivate a noi dopo un processo di sviluppo millenario, che ha coinvolto civiltà decisamente non italiche come Sumeri, Babilonesi, Egizi, Greci, Arabi, Persiani e Indiani?

Città italiane?
E cosa vogliamo fare delle molte, importanti, città italiane fondate da popolazioni non italiane? Qualche esempio? Ancona, Catania, Messina, Napoli, Reggio Calabria, Siracusa, Taranto (Greci), Cagliari e Palermo (Fenici), Milano e Torino (Celti), Trieste (Illiri). Ma la lista, ovviamente, è molto più lunga di così. Potremmo sempre raderle al suolo, per farle ricostruire da veri italiani. Ma, oltre alla incommensurabile perdita di bellezza, arte, storia e cultura, e tralasciando questioni come tempi e costi, e il problema di dove ospitare gli oltre 5 milioni di persone che vivono in quelle città, la domanda è: siamo davvero sicuri che riusciremmo a trovare tutta la manodopera italiana di cui avremmo bisogno?

Nemmeno la cucina italiana è davvero italiana.

L’italianità non esiste nemmeno in cucina, visto che alcuni alimenti che consideriamo testimonial-simbolo della nostra cucina nel mondo non sono affatto italiani: pomodori e patate, ad esempio, originari, rispettivamente, del Messico/Perù e delle Ande; il riso, originario dell’Asia (Cina e India); il mais, anima della polenta, e il peperoncino, anch’essi originari delle Americhe; il basilico, originario dell’Asia tropicale (India, in particolare); la melanzana, originaria dell’Asia meridionale (probabilmente, India); lo zucchero, originario dell’Asia meridionale (India) e persino il caffè, originario dell’Etiopia, che si diffuse in Europa attraverso la penisola arabica e il mondo islamico.

Cosa vogliamo fare? Rinunciare a tutte queste meraviglie poiché non possono vantare natali italiani e alle mille prelibatezze che le nostre bisnonne, nonne e madri hanno creato, grazie ad esse? La nostra cucina, come la nostra identità, è uno straordinario mosaico di influenze ed è proprio questo che la rende unica e inimitabile.

Ha ragione Brandolini

Che dire? Ha ragione Brandolini: “La quantità di energia necessaria per confutare una stronzata è di un ordine di grandezza superiore a quella necessaria per produrla”. Infinitamente superiore, mi permetto di chiosare.

Lo dimostra il fatto che mi ci sono volute ben quattordici cartelle (e dubito fortemente che saranno sufficienti) per provare a spiegare i motivi principali per i quali l’identità – almeno così come concepita e propagandata dai tribuni della galassia identitaria – è un falso storico, una visione anacronistica e completamente impraticabile dell’esistenza. In una parola: una stronzata.
Il fatto che siano in molti – troppi – a darle credito, non significa affatto che essa lo meriti davvero. Non sempre, infatti, un grande successo è sinonimo di grande qualità. Anche Albano e Romina o Toto Cutugno – sia detto con rispetto – hanno venduto milioni di dischi. Questo, però, non li rende certo Elvis né i Beatles. E nemmeno ce li avvicina.
Spesso, il successo di un’idea non dipende dalla sua effettiva grandezza ma dalla piccolezza dei suoi estimatori. Per una formica, anche un bassotto è un gigante. E la Storia, purtroppo, è piena di folle che si sono lasciate sedurre da folli.

Nel solo Novecento, l’Europa ha vissuto sotto il giogo di ben 13 regimi totalitari, più o meno sanguinari, per complessivi 415 anni senza libertà, pace, diritti, democrazia. E, sebbene, i risultati disastrosi e tragici di quelle esperienze siano sotto gli occhi di tutti, certe parole d’ordine continuano ad affascinare legioni di stolti, ignari e creduloni.
Come si spiega? Onestamente, non lo so. E la Storia, ahimè, dimostra che non esiste una ricetta che consenta di liberarsi, una volta per tutte, delle menti tiranniche, oppressive, spietate e sanguinarie che hanno ridotto in cenere Europa, Asia Orientale e Sudorientale, Nord Africa e Pacifico, prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Quello che so è che, rispetto al “secolo breve”, la situazione, oggi, è ancora più critica, a causa di un nefasto allineamento di pianeti: genitori inesistenti, scuole e università che sono l’ombra di quelle della seconda metà del Novecento, più di quarant’anni di tv spazzatura, un’informazione, ormai, ridotta a propaganda e gossip di bassa lega e all’incontenibile strapotere di Internet e dei social media.

A proposito di questi ultimi aveva ragione da vendere Umberto Eco, quando osservava che hanno dato «diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli». «Il dramma di Internet – aggiungeva Eco – è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità».
È vero: siamo in balia degli scemi del villaggio. Ed è un vero dramma. Anche perché il villaggio è ben felice di questo stato di cose, dal momento che si identifica – appunto – negli “scemi” e si sente confortato nella propria mediocrità. Mal comune…

Al pari degli indifferenti, odio gli “identici”, perché, uccidendo le differenze, uccidono la verità. E, con essa, la libertà. E, con la libertà, il senso e il valore stesso dell’esistere.
Chiudo parafrasando un sublime incipit tolstoiano: “Tutte le persone intelligenti, sono intelligenti a modo loro; tutti gli stupidi si somigliano”.
E quella tra gli stupidi non è solamente l’identità più diffusa ma è di gran lunga la più pericolosa che esista in Natura. Come ammoniva l’immenso Dietrich Bonhoeffer, infatti, «Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con la forza […]. Ma contro la stupidità non abbiamo difese. Qui non si può ottenere nulla, né
con proteste, né con la forza; le motivazioni non servono a niente».

Cerchiamo di non dimenticarlo.

Questa coppia di concetti è inscindibile, a partire dalla coincidentia oppositorum eraclitea che vede l’unità e identità degli opposti. Per la psicoanalisi l’Io prende la forma dall’Es indistinto, nel suo processo di formazione attraverso il Super-Io, il censore, il moralizzatore che rappresenta l’altro generalizzato. Ma l’Io è essenzialmente memoria, un filo che collega le esperienze nel tempo, per cui fragile e mutevole.
Oggi l’identità, in gran voga nella politica, è un termine molto abusato, che chiama in causa modo anacronistico l’”identitario”: la nazione, l’etnia, il suolo di nascita, la religione, il colore della pelle e così via. Anacronistico perché a tre secoli circa dalla Rivoluzione Francese, sembravano acquisiti gli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza che si accompagnavano ad un certo cosmopolitismo.
Anche il filosofo Kant, di cui celebriamo quest’anno i 300 anni dalla sua nascita, da buon illuminista richiama nella sua opera “Per la pace perpetua” (1795), oltre che la forma repubblicana, un diritto internazionale basato su un federalismo di Stati la cui libertà è garantita dal non intervento
di altri Stati esterni.

Arriviamo al nostro Mazzini, figura semi-dimenticata, oggetto di un recente revival della destra, che da sempre cerca di appropriarsene in malo modo, mistificando il suo messaggio patriottico in nazionalistico. Come ha ben spiegato Maurizio Viroli (Nazionalisti e Patrioti. Editori Laterza, 2019), filosofo e storico alla Princeton University, il primo si richiama valori repubblicani di tipo etico-politico difendendo i legittimi interessi dei cittadini ma elevandoli agli ideali del convivere libero e civile, l’altro si richiama a valori omogenei etnico-culturali legati a vincoli di sangue (si vedano le recenti diatribe tra Ius sanguinis, Ius solis e Ius culturae), a una visione contrapposta “noi-loro” che vuole generare sentimenti di distinzione e superiorità.

La società del rischio ha portato incertezze, paure, smarrimento, sentimenti su cui prosperano le destre in tutta Europa e nel mondo, portatrici di supposti messaggi securitari che passano attraverso la difesa dell’identità (non a caso abbiamo più volte ascoltato il refrain della “sostituzione etnica”).
Le conseguenze sono autocrazie, chiusure degli stati in sé stessi, che tendono a negare diritti civili e conquiste che sembravano acquisite per sempre, nazionalismi e guerre fratricide (basti pensare agli attuali conflitti che si stanno allargando in modo incontrollato.)

Venendo alla società liquida, teorizzata da Baumann, che vede non solo le relazioni ma anche un Io sempre più liquido, esasperatosi con i social media, si è affermata in modo estensivo la messa in scena di sé. Possiamo definirci attraverso i profili con identità multiple, in grado di rappresentarci secondo quello che desidereremmo essere o, come vorremo essere visti dagli altri, il che acuisce quel processo di diffrazione dell’Io e di dissociazione esistenziale quale fenomeno già in atto da tempo con l’avvento della post-modernità.
Emblematico in tal senso il Pirandello di Uno, nessuno e centomila con la cessazione da parte del personaggio principale dei contrasti tra l’Io ed il mondo e la “rinuncia” a quest’ultimo.
Alla liberazione dell’Io moderno e a queste sue forme, riconducibili anche alla condizione umana, resta in tutta la sua problematicità la ricerca dell’Opera della street artist Laika, dal titolo “Italianità” autenticità e di un rinnovato rapporto con il mondo che non può non passare per la veridicità delle relazioni con l’Altro ma, soprattutto, attraverso il suo riconoscimento. È la relazione che cura le lacerazioni della contemporaneità e sviluppa in modo armonioso l’identità.

Quello che dai te lo dai, quello che non dai te lo togli” Alejandro Jodorowsky

Giovedì 19 settembre, in occasione di Ouverture 2024 di TAG Torino Art Galleries, e venerdì 20 e sabato 21 in adesione a Exhibi.To, Ferdi Giardini ha inaugurato, negli spazi della Galleria Riccardo Costantini Contemporary, la sua ultima mostra “Altre voci, altre stanze”.
Nei lavori in esposizione, installazioni e sculture luminose, Ferdi Giardini trasforma materiali come plexiglass, cartoncino, alluminio e LED, in opere
d’arte che sollecitano la nostra percezione.

Ferdi Giardini non è solo uno scultore, un designer, un artista, la sua figura ricorda antichi personaggi dal profondo sentire e dal ruolo fondamentale, alchimisti, stregoni, “allenatori di anime”, precettori. La capacità di trasformare elementi comuni in originali creazioni luminose è la caratteristica principale della sua pratica artistica: ogni materiale scelto porta con sé una storia, una possibilità di metamorfosi che esplora con personale innovazione. Sperimentare costantemente la creatività, inventare, cambiare, modificare, aggiungere, togliere, staccare, fare a pezzi, ricostruire, ma comunque tutto sempre e solo al servizio della ricerca di armonia e di gusto per trasmettere emozioni positive.

“Vivo di sensazioni e percezioni, le traduco in ogni mia creazione, dalle sculture alle lampade, agli ornamenti, in ogni oggetto
c’è l’emergenza di assecondare una esperienza profonda che mi dice che conoscendo l’anima dei materiali, i loro modi di rapportarsi agli agenti meccanici e fisici (luce, colore, forze e resistenze) si possono creare oggetti utilizzando al meglio le caratteristiche dei materiali stessi nella loro espressione concreta” – Ferdi Giardini.
Nelle opere in mostra, il plexiglass diventa un prisma di luce. Le sculture, così realizzate, la catturano e riflettono, dando vita a giochi di trasparenze e colori che mutano a seconda dell’angolazione e dell’’intensità della luce stessa. Ferdi Giardini ha generato i propri lavori pensando anche a una loro duplice fruibilità: le opere vivono infatti con un proprio raffinato carattere anche se spente.
L’alluminio, con il suo fascino industriale, è modellato in forme fluide e dinamiche.
Le superfici metalliche, o in plexiglass quando l’alluminio ne è di supporto, riflettono la luce LED in un caleidoscopio luminoso, creando un contrasto tra la freddezza del metallo e il calore della luce. I LED, riuscendo a variare in intensità, permettono all’artista di giocare con la luce, trasformando ogni lavoro in un’opera viva e mutevole.
Le sculture di Ferdi Giardini non solo catturano l’occhio, ma invitano il visitatore a esplorare le interazioni tra luce, materia, forma e falsa prospettiva. Ogni passo rivela una nuova sfumatura di colore, un nuovo gioco di ombre e luci. Sono più che semplici sculture luminose, sono meditazioni sulla trasformazione e la rinascita.
Attraverso la sua arte, Ferdi Giardini ci invita a vedere il potenziale nascosto nei materiali quotidiani, a riconoscere la bellezza nella semplicità e a celebrare l’infinita possibilità di trasformazione della luce e della materia.

“La luce è vita. La luce è il sole che ho dentro, che fa chiarezza, che non permette incomprensioni o equivoci, concede ombre, come è nella sua natura, ma non oscure, esse sono sempre il riflesso dell’essere presente e vivo.
La mia luce vuole chiarezza, autenticità, originalità e paradossi simpatici, non concede spazio a falsità, ipocrisie e subdole energie, la mia luce non è manipolatoria, è semplice e pura, quanto più vicina alla cromaticità del sole, che fa bene, che da il bene e ti accompagna con “attenzione” e non con “preoccupazione”.
Sostanziale la differenza!
La mia luce è quella pura, viva dei quadri di Caravaggio, a volte cruda ma vera e perfetta.
Caravaggio riusciva a dare quella inconfondibile drammaticità e schietta luce sui corpi, sui drappeggi, grazie ad un banale espediente: il suo studio era tutto dipinto di nero, con una sola fonte di luce, in un lato della stanza. A volte era una finestra, quindi con la luce del sole se di giorno; se di notte era una quantità smisurata di candele per illuminare i suoi modelli, sempre solo da un lato: la luce, nessun’altra interferenza.
La luce mette in chiaro ed io adoro le persone chiare e schiette, mi annoiano le persone che si truccano per nascondere nell’ombra i lati oscuri, offendono in questo modo la luce dell’anima loro e degli altri.
I miei clienti, i miei amici dopo aver installato le mie creazioni mi dicono “Ferdi, ci hai portato la luce, finalmente!”, come un profeta? Un guru? Un messia? Ma no, quello che faccio è semplice, faccio incontrare le mie conoscenze e i miei piaceri con i desideri di chi cerca le mie opere.
Il colore poi mi fa letteralmente impazzire, io sono coloratissimo, io sento il colore come sento l’aria, il vento, il profumo, lo devo portare indosso, lo devo comunicare, devo essere contagioso” – Ferdi Giardini
Ferdi Giardini interpreta la realtà ma anche il mondo del possibile, dell’immaginario, dell’ipotetico, con le proprie risorse personali e con la sua identità di creatore, prova a risolvere a modo suo i problemi, “deve riordinare il caos di forme in cui si è espressa la vita nel passato in qualcosa di nuovo” come diceva Adriano Tilgher.
Identità, dunque, come coscienza di sé e della responsabilità del proprio agire, del messaggio comunicato attraverso opere nate da una precisa consapevolezza di ciò di cui si vuole rendere partecipe l’altro. Identità come scopo, come realizzazione, come obiettivo, come progettualità dell’io d’artista al servizio dell’osservatore, dello studioso, del pubblico nella sua più vasta e meravigliosa variabilità. Le opere di Ferdi Giardini hanno una identità gigantesca e straordinariamente individuabile in qualsiasi contesto, con qualsiasi luce e dietro qualunque tipo di colorazione o materiale o forma. La magia di Ferdi Giardini è unica ed inconfondibile, moderna, eccentrica, bizzarra, stravagante ed elegante, raffinata ma mai ostentata, quasi semplice ed essenziale. La riconosci e diventa irrinunciabile per sempre.

Biografia dell’artista
Ferdi Giardini nasce a Torino nel 1959, frequenta e si diploma l’Accademia di Belle Arti del corso di Scenografia, di Torino, lavora nel mondo del teatro per circa cinque anni, contemporaneamente agli ultimi due anni di teatro, affianca la ricerca artistica. Incomincia a dipingere e a realizzare grandi installazioni, realizzate in diversi e inconsueti materiali, re-inventati e trasformati come un alchimista. Iniziano negli anni ottanta le prime mostre in Italia e all’estero, abbandona definitivamente il teatro, e affianca un altro interesse, crea corsi di formazione per i Comuni e gli Istituti Scolastici, rivolti sia agli insegnanti, che agli studenti.
Inizia negli anni novanta ad occuparsi di prodotti in serie, argomento diametralmente opposto al prodotto unico e irripetibile del mondo dell’arte! Una sfida con se stesso, che dopo alcune “invenzioni” realizzate in produzione limitata, hanno il suo apice, quando firma il primo contratto con l’Azienda di illuminazione: LUCEPLAN, nel 1998, inventando e costruendo il ventilatore da soffitto: “Blow”, venduto ancora oggi a distanza di decine d’anni in tutto il mondo. 
Seguirà la lampada “Teda” 2001 in tre versioni: parete, esterno, tavolo, e la lampada, “Voilà” 2015, da parete, per l’azienda OLUCE, il tavolo luminoso “Bancorè” 2007, la lampada da soffitto “Splash” 2007, e la lampada da soffitto “Echinos” 2007, per la ditta ILTILUCE. 
Dal 2004 al 2011, ha la cattedra presso il Politecnico di Torino per il corso di Disegno industriale della Facoltà di Architettura.
Attualmente continua la sua curiosità-ricerca nel campo del design, in quello artistico, e in quello didattico, partecipando a dibattiti, conferenze, mostre personali e collettive. Le ultime due mostre personali in ordine di tempo, sono state realizzate per la galleria  Riccardo Costantini di Torino, e una retrospettiva con i lavori di “finto metallo” degli anni ottanta, per la galleria di Davide Paludetto. Nel 2020 realizza per la ditta Rimani di Torino, l’illuminazione della hall di ingresso e per la sala riunioni. Dal 2021 insegna all’Accademia di Belle Arti di Sanremo le materie: Design e Eco Design.

Informazioni sulla mostra:
Artista: ​​Ferdi Giardini
Titolo: ​​Altre voci altre stanze
Sede: ​​​via Goito, 8 – Torino
Date: ​​​19 settembre – 19 ottobre 2024
Orari: ​​​da martedì a sabato ore 11.00 | 13.00 – 15.00 | 19.30
Lunedì e domenica chiuso.
Informazioni: ​Riccardo Costantini Contemporary
t. +39 011 19226893 | +39 348 6703677
​ info@rccontemporary.it

“Sii te stesso; tutti gli altri sono già occupati.”

Suona frivolo e leggero, ma al suo interno questo aforisma di Oscar Wilde (e chi altri avrebbe potuto scriverlo..?) ha in sé un certo carico di profondità. Perché non c’è altro modo per essere vivi, se non essere autentici. Ma cosa significa davvero? La ricerca dell’identità è un viaggio antico quanto l’umanità stessa, e in effetti pensatori e filosofi di ogni epoca, fin dall’antichità si sono confrontati con il quesito: chi siamo davvero?
Ecco vorrei scrivere un articolo sull’identità e sulla maschera e per questo invocherò Socrate e Oscar Wilde.
Wilde, con il suo usuale sarcasmo, sosteneva che “La maschera che porti mostra più verità di quanto credi.” E se non pensiamo ad una maschera di cartone, questo pensiero si riflette sulla visione che sosteneva Socrate, che con il suo famoso motto “Conosci te stesso”, spingeva gli individui a guardare oltre le apparenze e a interrogarsi sulla propria natura. La maschera è parte del gioco dell’identità, mentre per Socrate la ricerca interiore, con il suo rigoroso processo, sosteneva che ve ne fosse una sola di identità per il proprio “Io”.

Le maschere che scegliamo di indossare fanno parte di chi siamo, o sono solo strumenti di sopravvivenza sociale?

Identità fluida e cambiamento: Eraclito e il mondo moderno
Eraclito, il filosofo del divenire, ci ricorda che “Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume”: l’identità non è statica. Le nostre identità si evolvono con le esperienze, con ciò che consumiamo sui social media, con i cambiamenti di lavoro, di relazione, di ambiente.

La comicità dell’identità: ridere di se stessi
“Non sono felice di essere chi sono, ma sono anche troppo pigro per essere qualcun altro.” così George Carlin vede l’inerzia che abbiamo rispetto al nostro cambiamento: un processo faticoso che a volte cerchiamo di evitare per rifugiarci nelle nostre certezze, nelle abitudini, nelle cose, negli oggetti, negli spazi, nei tempi nei quali sentiamo il nostro essere, che lo definiscono. L’identità come “cosa” delimitata dai nostri limiti, come da confini.

L’identità digitale: il nuovo Sé
Su ogni social network, nel mondo di internet, sui siti, sulle app, la nostra identità online è spesso una versione filtrata (quando non proprio edulcorata) di noi stessi. Wilde, se fosse vissuto oggi, probabilmente avrebbe commentato qualcosa del tipo: “Non si può uscire di casa senza sé stessi e senza il sé per i propri follower.” come fosse un bastone da passeggio da dandy.

Forse la lezione finale la possiamo trarre da Wilde stesso: “La vita è troppo importante per essere presa sul serio.”
E così è anche per l’identità.
Sta a noi trovare il giusto equilibrio tra profondità e leggerezza, tra maschera e autenticità, in un viaggio che, dopotutto, ha solo una destinazione.

Contrariamente a quanto, comunemente, pensiamo, i totalitarismi non nascono mai dalla follia sanguinaria di un leader. Nascono sempre dal
servilismo del primo lacchè di quel leader.
E non ha alcuna importanza stabilire cosa determini quella prima, irredimibile, genuflessione: codardia, paura, credulità, stupidità, interesse personale o desiderio di rivalsa/vendetta nei confronti del resto del mondo.

Solo una cosa importa: riflettere sul fatto che, senza lo zerbinarsi di quel primo lacchè, nessun leader diventerebbe mai tale. E, di conseguenza, nessun autoritarismo nascerebbe mai.

Scusate se è poco.
Leader, infatti, significa “guida”, “comandante”, “capo”. È del tutto evidente, quindi, che, senza nessuno da guidare, nessuno da comandare, nessuno a capo del quale mettersi, non può esistere alcun “leader”. E, dunque, nessuna leadership.

Per usare una terminologia social: senza un primo “follower” non può esistere alcun “influencer”. Game over.

Anche se nessuno ci pensa mai, è proprio questo il punto nodale della questione: così come non può esserci un pastore senza pecore o un esercito senza soldati, non può esserci nemmeno un regime senza lacchè. Anche perché, per quanto violento e ben armato possa essere, quanti uomini è in grado di eliminare un uomo solo, prima di essere sopraffatto dalla reazione della moltitudine che gli si oppone?

Per dirla con parole assai più illuminate delle mie (Étienne de La Boétie: “Discorso sulla servitù volontaria”, 1576), il tiranno non ha altra forza che quella che gli uomini gli danno e «ha il potere di danneggiarli unicamente in quanto essi vogliono sopportarlo, che non potrebbe far loro alcun male, se essi non preferissero subirlo, invece di contrastarlo». «Son dunque gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smetter di servire, sarebbero liberi». «È il popolo – dunque – che acconsente al suo male o addirittura lo provoca». Il che dimostra che «la libertà non viene affatto desiderata, per la buona ragione che, se gli uomini la desiderassero, l’otterrebbero».

Aveva ragione il Grande inquisitore dostoevskijano: «Non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura».

Da tutto questo consegue che: se, nell’istante nel quale, nelle folli menti di Mussolini, Hitler, Stalin, Pinochet, Videla o Pol Pot (solo per citare i primi nomi che mi sono venuti in mente) prendeva forma l’idea di trascinare il mondo nell’abisso, accanto a quei sei personaggi in cerca di orrore, ci fosse stato qualcuno in grado di assestare loro un vigoroso e, ovviamente, risolutivo “calcio nel culo” (metaforicamente parlando, s’intende), nessuno dei suddetti signori sarebbe mai riuscito a realizzare il suo folle progetto criminale e il mondo si sarebbe risparmiato decenni di persecuzioni, massacri, torture, lutti e orrori indicibili.
Del resto, qualunque incendio – persino il più devastante che possa deturpare il volto del nostro infelice pianeta – nasce sempre da una prima, minuscola, scintilla.

Per spegnere quella prima scintilla, può essere sufficiente persino un semplice sputo. Per domare un “incendio” delle proporzioni – ad esempio – di una Seconda Guerra Mondiale ci sono voluti, invece, sei interminabili, drammatici anni, e tra i 70 e gli 85 milioni di morti, in gran parte civili (50-55 milioni).

Permettetemi, allora, una domanda: secondo voi, uno sputo e un vigoroso e risolutivo “calcio nel culo” valgono o no sei anni di guerra mondiale e decine di milioni di morti?
Supponiamo che avesse davvero ragione Raskol’nikov (il giovane omicida protagonista di “Delitto e castigo”) e che, in virtù della loro superiorità, alcune persone abbiano il dovere di oltrepassare la legge morale (Raskol’nikov parla, esplicitamente, di “diritto al delitto”), per realizzare la «distruzione del presente in nome del meglio», non credete che – esattamente per quella stessa ragione – chiunque di noi si trovasse accanto a una mente folle, nell’istante nel quale al suo interno scoppia la scintilla dell’orrore, avrebbe il dovere, di soffocare, sul nascere, quella scintilla e fare di tutto per mettere quel folle in condizione di non nuocere?

Perché è così importante capire che, quella del primo lacchè, è la responsabilità più grande di tutte? Perché è così importante sottolineare che è il lacchè, e non il folle, il vero responsabile dello scoppiare di quegli incendi che, per anni – decenni, a volte – mandano in fumo milioni e milioni di chilometri quadrati di libertà, diritti, pace e democrazia?
Perché la tentazione di farsi zerbino può cogliere chiunque di noi, in qualunque momento.

Nessun essere umano ne è immune.
E nessuno di noi può avere la certezza assoluta di non cedere alla paura o alle lusinghe del potere. Vere o false che siano.

Aveva ragione da vendere, allora, Ettore Petrolini – “insuperabile interprete della beffarda anima romanesca” [Treccani] – quando, a teatro, si rivolse a un signore che, fischiando, aveva interrotto la sua recitazione: “Io non ce l’ho con te – disse – ma con quelli che ti stanno vicino e non ti hanno ancora buttato di sotto!”.

Riflettiamo, dunque, sul fatto che, se ciascuno di noi si rifiuterà di genuflettersi per primo, nessuno si genufletterà.
E, se nessuno, si genufletterà, il generale Follia si ritroverà senza esercito e l’unica cosa che riuscirà a mettere a ferro e fuoco sarà il suo putrido, livoroso e velenoso fegato.

“Il guaio è che gli uomini studiano come allungare la vita, quando invece bisognerebbe allargarla.” Penso a questa frase di Luciano De Crescenzo quando inizio a leggere le esperienze di Guendalina Stabile.

Dopo essersi laureata all’Università Luiss di Roma, con un percorso che ha combinato studi in Impresa e Management e una specializzazione in Marketing, ha scelto di seguire la propria passione per i viaggi e la comunicazione digitale.
Nel 2018, con grande determinazione, ha creato un progetto che unisce queste due dimensioni, trasformando il suo interesse in una carriera freelance. Oggi è una professionista del Content Creation e della Comunicazione Digitale, lavorando su blog e canali social che raccontano storie di viaggio, e supportando brand e individui attraverso consulenze mirate a migliorare le loro strategie online e offline. Ha saputo creare una community appassionata e un lavoro che riflette a pieno la sua identità e i suoi valori.

Si definisce una “Libera Viaggiatrice” che ha come centro del suo modo di agire l’ottimismo, nella passione e nella libertà. Inizio a porle alcune domande proprio con la sensazione che mi condurrà alla scoperta del suo mondo interiore, così come, seguendola sui social network conduce nei vari angoli del mondo.

Il tuo progetto di Content Creation e Comunicazione Digitale è iniziato nel 2018. Cosa ti ha spinto a lasciare il percorso tradizionale post-laurea e creare qualcosa di tuo, coniugando passione e lavoro?

Nel 2017 ho concluso il mio percorso di laurea magistrale in economia e marketing ed ho subito cominciato a lavorare in una grande azienda nel settore del marketing. Il blog e la relativa pagina Instagram sono nati proprio nel 2018 come hobby mentre svolgevo il mio lavoro principale. Ho sempre avuto un grande amore per i viaggi sin da bambina, trasmesso in primis dalla mia famiglia che mi ha sempre portato in viaggio con sé intorno al mondo. Mi ha inoltre sempre entusiasmato scattare foto e scrivere dei miei viaggi e quindi un progetto online che coniugasse i social e la mia formazione di marketing, le foto e la scrittura di viaggio è entrato in modo del tutto naturale nella mia vita.

Il progetto “eleutha” è cominciato quindi come attività parallela al mio lavoro e piano piano ha preso sempre più spazio fin quando è diventato nel 2022 il mio lavoro principale. E’ stato un lungo percorso sicuramente mosso dalla volontà di trasformare la mia passione nel mio lavoro. Purtroppo non mi rispecchiavo nella vita d’ufficio che stavo conducendo e questo ha sicuramente alimentato il mio desiderio di cercare una vita che mi desse più libertà e che mi soddisfacesse appieno. Oggi sono davvero felice della mia scelta.

Viaggiare è una parte centrale del tuo progetto. Come sono cambiate le tue esperienze di viaggio da quando hai iniziato a crearne contenuti per il tuo blog e i canali social? Hai notato un impatto sul modo in cui ti relazioni con i luoghi e le persone che incontri?

Il mio progetto online ha sicuramente inciso sul modo che ho di rapportarmi ad un viaggio perché ad oggi non è più solo vacanza ma a tutti gli effetti anche lavoro. Anche quando non sono in viaggio appositamente per creare contenuti per un brand o una struttura ricettiva ma solo per il mio piacere personale, ho comunque il pensiero di creare contenuti autentici ed interessanti per la mia community. Quando la passione diventa lavoro si finisce per lavorare sempre e non lavorare mai allo stesso tempo. Ad esempio uno dei miei ultimi viaggi che non aveva nulla a che fare con collaborazioni di lavoro è stato l’on the road nell’ovest degli Stati Uniti che la mia migliore amica ed io ci siamo regalate per i nostri 30 anni. Non avevo nessun obbligo di creare contenuti ma quei paesaggi mozzafiato e le atmosfere da film mi hanno ispirato tanti contenuti foto – video che hanno raccontato la nostra avventura e che sono stati apprezzatissimi dalla mia community di viaggiatori. Quando invece sono in viaggio appositamente per creare contenuti è a tutti gli effetti lavoro con impegni, scadenze, un programma da seguire ed obiettivi da raggiungere in cui però cerco sempre di vivere appieno momenti e destinazioni. La linea che separa lavoro e vita personale è molto difficile da mantenere ma faccio sempre tutto con grande entusiasmo e gratitudine per riuscire a lavorare facendo quello che amo. 

Oltre a creare contenuti di viaggio, offri consulenze di marketing. Come riesci a bilanciare il lato creativo con quello strategico e consulenziale? E come questi due aspetti si influenzano a vicenda?

Il marketing mi ha sempre appassionato ed ha sempre fatto parte della mia vita a partire dagli anni dell’università. In fondo con il tempo due strade che sembravano così distanti come quella del creator online e del professionista nel campo del marketing si sono rivelate più vicine del previsto. L’online marketing, l’influencer marketing e la creator economy sono tutte facce dello stesso dado. Un momento in cui me ne sono davvero resa conto è stato in Thailandia. Partecipavo ad un viaggio stampa con l’ente del turismo ed un pomeriggio è stata organizzata una riunione tra giornalisti, creator, imprenditori di attività locali ed i rappresentanti dell’ente Thailandese. Abbiamo discusso di destination marketing quindi di targeting e segmentazione del mercato, di strategie di comunicazione, punti di differenziazione e di online marketing. Quel pomeriggio ho potuto dare il mio contributo sia come creator che come professionista di marketing e ricordo di aver pensato che si fosse davvero chiuso un cerchio e che tutto il mio percorso, per quanto insolito, avesse avuto un senso.

Lavorare come freelance in ambito digitale richiede una continua innovazione. Come ti mantieni aggiornata sulle nuove tendenze nel mondo della comunicazione digitale e quali strumenti trovi più utili per migliorare la tua strategia?

La mia e quella dei miei colleghi è una professione in continuo cambiamento e che sono consapevole continuerà a cambiare nel corso degli anni. Dovremo essere bravi a cambiare col mercato. Personalmente cerco di rimanere sempre aggiornata attraverso podcast o conferenze ma soprattutto essendo sempre presente sulle piattaforme e confrontandomi con colleghi italiani ed internazionali. Essere presente ogni giorno è l’unico modo per rimanere aggiornati in un mondo in divenire.

I social media sono una grande parte del tuo lavoro. Qual è la tua filosofia personale quando si tratta di creare contenuti per la tua community? C’è un messaggio o un valore che cerchi sempre di trasmettere?

Cerco sempre di conoscere e condividere i luoghi del mondo in modo rispettoso e consapevole e di ispirare chi è seduto dall’altra parte dello schermo a fare altrettanto. Amo condividere luoghi ed esperienze autentiche e particolari, senza dimenticare di lasciare ai viaggiatori informazioni utili per poter replicare tali esperienze. Credo nell’ottimismo e nella positività che cerco sempre di trasmettere nelle mie interazioni online ed offline. Credo nel presentare i posti del mondo attraverso le loro bellezze naturali, la loro cultura, storia ed arte senza per forza cercare sensazionalismi come spesso si vede, ma piuttosto lasciando a volte spazio alla riflessione personale ed pensiero critico. Quando ho raccontato delle terribili condizioni di lavoro della grande miniera d’argento di Potosì in Bolivia, della storia di rinascita delle favelas Colombiane o fatto riflessioni sulle  attuali condizioni di vita dei nativi americani nelle riserve, sulla povertà di Cuba o sulla bomba atomica di Hiroshima senza dubbio non ho ottenuto grandi numeri in termini di views ed interazioni, come avrebbero attirato contenuti più leggeri, ma mi è sembrato doveroso condividere per onestà intellettuale e per cercare di raccontare davvero, con pensiero critico, un viaggio ed una destinazione.

Quanto credi che le esperienze di viaggio abbiano contribuito a modellare la tua identità? In che modo i luoghi che visiti e le persone che incontri influenzano il modo in cui vedi te stessa e il mondo?

Moltissimo. Sicuramente senza le mie esperienze di viaggio sarei una persona differente. Da ogni viaggio si torna cambiati ed arricchiti. Non solo si portano a casa le meraviglie viste ma anche le riflessioni fatte, le storie delle persone incontrate e tutto ciò che si è imparato di nuovo, da una nuova lingua ad una nuova ricetta, da una nuova tradizione  a nuove possibilità di vita. Viaggiare mi ha fatto capire più di ogni altra cosa quanto il nostro sia solo un modo di vivere di tanti e che più si allarga il proprio orizzonte più si comprenda come le possibilità siano infinite. Ho dormito a casa di una famiglia che vive su una delle isole galleggianti del Lago Titicaca in Perù,  ho conosciuto un pescatore nato, cresciuto e vissuto sempre sullo stesso piccolo atollo indonesiano, ho immaginato come potrebbe essere la mia vita se decidessi di trasferirmi a Rio de Janeiro o nel nord della Norvegia. Miliardi di possibilità, luoghi e stili di vita differenti che anche se non scegli osservi ed interiorizzi e contribuiscono come tanti mattoncini a formare la persona che sei ed a forgiare ciò in cui credi.

IN USCITA IL 7 NOVEMBRE IL FILM “IL RAGAZZO DAI PANTALONI ROSA” tratto dal libro di Teresa Manes. La vera storia di Andrea Spezzacatena “ucciso dal silenzio” il 20 novembre 2012.

Fu il primo caso in Italia di cyberbullismo che portò al suicidio un ragazzo minorenne.
Andrea Spezzacatena aveva appena 15 anni. “La verità resta che il suicidio di un adolescente sottolinea il fallimento dii una società”. Sono queste le parole di una madre Teresa Manes, che ha perso suo figlio. Andrea si è impiccato il 20 novembre del 2012 nella sua casa di Roma. Andrea oltre il pantalone rosa è il libro pubblicato dalla madre, il racconto doloroso, straziante, la ricostruzione di quegli attimi, la difesa di chi non poteva difendersi, il tentativo di comprendere e di aiutarsi, la speranza che questo possa non accadere mai più.
Da quel momento Teresa promuove dinamicamente, anche attraverso canali mediatici nazionali, campagne di prevenzione e contrasto del fenomeno del bullismo e del disagio giovanile. Il 27 dicembre 2021 per questo suo impegno profuso a favore dei giovani, è stata insignita dell’onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana.

Aveva 15 anni e 6 giorni quando si è impiccato – scrive Teresa Manes “Quando un figlio si suicida vieni ingoiato da una valanga di sensi di colpa. Sono andata da una psicologa per circa un anno, con tre sedute di 150 minuti cadauna a settimana. Ho fatto un lavoro di introspezione cosi profondo da levarmi l’anima per vedere di cosa era fatta. Non avevo ascoltato la sua sofferenza. Non avevo visto la sua solitudine.“….imperfetta, indubbia come donna mi piacevo come mamma…
Poi scoprii l’esistenza di una pagina facebook dove veniva etichettato come “il ragazzo dai pantaloni rosa” che aprì lo scenario del bullismo. Anzi de cyberbullismo.
Solo che i like su quella pagina erano solo 27, troppo pochi per essere considerati come influenti e determinanti per una scelta tanto estrema.
Non si è tenuto conto però che quel numero poteva essere rappresentativo di un gruppo classe, ad esempio. “Se ti metti lo smalto non puoi non aspettarti la presa in giro” disse davanti al giudice del tribunale ordinario, un avvocato difensore di uno degli insegnanti indagati (mio figlio si laccava le unghie nell’ultimo mese di vita). Mi venne in mente il caso della donna a cui venne negato di essere riconosciuta vittima di stupro perché indossava un jeans attillato quando fu aggredita”.

Al liceo Cavour di Roma lo chiamavano “il ragazzo dai pantaloni rosa” perché Teresa, la mamma, aveva erroneamente scolorito con la candeggina un paio di pantaloni rossi, che Andrea aveva comunque scelto di continuare a mettere nonostante fossero diventati rosa. I suoi compagni di scuola lo chiamavano anche in tanti altri modi, con crudeltà e ferocia, non credo affatto inconsapevoli di tutto ciò che stavano causando. Umiliato in rete costantemente fino al giorno del tragico evento.
Dopo il suicidio la magistratura, a seguito di due anni di ricerche, indagini ed interrogatori, negò si trattasse di un caso di bullismo e omofobia. Indirizzarono la loro attenzione sulla separazione dei genitori o un amore non corrisposto o su altro.

Dal libro di Teresa Manes è nato il film “Il ragazzo dai pantaloni rosa” (Eagle pictures e Weekend films, regia di Margherita Ferri, soggetto e sceneggiatura di Roberto Proia) che sarà nelle sale dal 7 novembre, il trailer del film a luglio ha avuto in 5 minuti oltre un milione di visualizzazioni, “segno evidente che di un film così se ne sentiva il bisogno. Servirà a far aprire gli occhi, spero anche i cuori”, scrive Teresa sulla sua pagina Facebook. Nel cast Claudia Pandolfi, Samuele Carrino, Andrea Arru, Sara Ciocca, Corrado Fortuna. Presentato al Giffoni Film Festival 2024 il film ha suscitato fortissime emozioni già dalle prime immagini accompagnate dalla canzone “Canta ancora” di Arisa. “E’ stato complesso trasformare questa storia in un film” racconta Roberto Proia “ho sentito forte la responsabilità che tutto questo comportava. Volevamo essere fedeli alla storia e non giudicanti, non raccontare i buoni ed i cattivi. Volevamo riuscire a comunicare con tutti, non solo ai bulli. Far capire che le parole possono suscitare reazioni diverse a seconda di chi le accoglie.
Per entrare nel mondo di Andrea era necessario che Teresa ci aprisse il suo cuore. E’ stato un viaggio complesso, a tappe, abbiamo riso e pianto, e siamo entrati nella mente di Andrea”. “Non esiste solo il bullo manifesto che attacca in modo esplicito e visibile” spiega l’attrice Claudia Pandolfi che nel film interpreta la madre di Andrea “quanti di noi sarebbero in grado di difendere chi viene attaccato? Quando si crea il clima cameratesco nel male è distruttivo, immagino che Andrea si sia sentito solo al mondo per questo, tanti aderivano a questa violenza senza attaccarlo direttamente”.
Il ragazzo dai pantaloni rosa è un film che racconta una storia che ha il diritto di non essere dimenticata.
“Neanche una settimana dopo i funerali di Andrea mi fu recapitata a casa una lettera di una professoressa con cui in buona sostanza ci manifestò cordoglio e vicinanza per la tragedia che ci aveva colpito duramente”, racconta Teresa Manes. “In quella lettera ricordava il sorriso di mio figlio dietro cui era stato bravo a mascherare un male di vivere giovanile, che si annida nelle ragioni più disparate e che nessuno, men che meno io, aveva saputo cogliere. Nella sua chiosa, quella professoressa, mi esortava a confinare la nostra triste storia nel silenzio, in segno di rispetto verso quel dolore che aveva spinto ad una scelta. Incredula davanti a quell’invito, ripiegai il foglio e preparai una valigia. Fu così che iniziò il mio viaggio verso le
scuole….consapevole del fatto che, se avessi chiuso la mia bocca, mio figlio sarebbe morto due volte”.

Andrea Spezzacatena è stato ucciso dal silenzio di persone che avrebbero dovuto comprenderlo, sostenerlo, aiutarlo e “riconoscerlo”, perché l’altra causa della morte di Andrea è stata la determinazione, la forza, il coraggio di non voler essere come i suoi aguzzini, come i suoi assassini, come i suoi coetanei. Voler affermare, a costo della vita, la sua identità, di ragazzo sensibile, profondo, dolce, buono e generoso, sì, è vero Andrea era “diverso” ma non nel senso in cui veniva raffigurato nelle chat, nelle discussioni, negli insulti, nelle umiliazioni e delle aggressioni, Andrea era “diverso” nel senso di “migliore” ed è stata propria questa sua impressionante forza ed affermazione a portarlo al suicidio. Non lo accetti un universo così sfatto, non ne vuoi far parte, non ti vuoi rendere complice di azioni e comportamenti che se oggi riguardano te domani riguarderanno qualcun altro, non cedi a compromessi, non ci credi più e non ti fidi più e soprattutto non ne puoi più di vivere e rivivere ogni giorno la stessa dinamica crudele, malvagia, persecutoria, ossessiva. Andrea ha smosso tante coscienze, Andrea continuerà a lottare, perché morire non sempre significa smettere di vivere ed Andrea è testimone di questo immenso e straordinario stato d’animo.

Leggete il libro e guardate il film. Comprenderete che la portata di un dolore e la quantità di lacrime che ti portano quasi a perdere un occhio per una infezione, possono suscitare sentimenti di comprensione e di aiuto verso il prossimo, e che ci può essere un altro tipo di risposta al male ricevuto ed è IL BENE. Teresa Manes è una madre che sta lavorando da dodici anni affinchè questo fenomeno disumano e purtroppo sempre più vasto, il bullismo ed il cyberbullismo, venga alla luce nella sua reale portata e porti consapevolezza in ognuno di noi, affinchè nessuno possa mai più tacere o sminuire o tentare di alleggerire un dramma che ha strappato via a tante famiglie il bene più prezioso: un figlio.

Il web scraping è la fonte di informazioni delle principali applicazioni di IA. Queste tecnologie, sebbene offrano vantaggi significativi, sollevano anche importanti questioni riguardanti la privacy.

Cos’è il Webscraping?

Il web scraping è in estrema sintesi una tecnica utilizzata per estrarre grandi quantità di dati dal web.

Questo processo automatizzato è ampiamente impiegato per vari scopi, come l’analisi del mercato, la ricerca accademica, il monitoraggio dei prezzi e molto altro.

In un mondo sempre più guidato dai dati, la loro raccolta massiva è diventata uno strumento essenziale per molte aziende.

Non sono solo le Big Tech ad utilizzare questa tecnica per ottenere vantaggi competitivi, come la raccolta di informazioni sui prodotti dei concorrenti o l’analisi dei trend di mercato desunte dai miliardi di utenti dei diversi social media più o meno segmentati.

Con l’espansione del commercio elettronico e l’aumento della disponibilità di dati online, le attività di web scraping sono aumentate. 

Diverse analisi di settore indicano che una percentuale considerevole di traffico web, in alcuni casi fino al 25-40%, può essere attribuita a bot di scraping. 

Nell’e-commerce o nella vendita al dettaglio questi tools consentono di recuperare informazioni sui prezzi dai siti web dei concorrenti e ritagliare offerte mirate su determinati target di clientela.

La pesca indiscriminata dei dati è ampiamente diffusa anche nel settore finanziario e degli investimenti raccogliendo nel web rendiconti finanziari, prezzi delle azioni e i più svariati indicatori economici che permettono di elaborare strategie di investimento mirate.
Utilizzo analogo nel settore immobiliare per individuare tendenze di mercato e dati sui prezzi, mentre nel mercato dei viaggi e turismo il web scraping consente di monitorare le disponibilità e i prezzi analizzando i feedback dei clienti.
Con l’espansione del commercio elettronico e l’aumento della disponibilità di dati online, le attività di strascico dati nel web sono aumentate. 
Diverse analisi di settore indicano che una percentuale considerevole di traffico web, in alcuni casi fino al 25-40%, può essere attribuita a bot di scraping. 

L’educazione della IA e la Privacy

Le principali applicazioni IA soprattutto quelle basate sul deep learning come chatbot e assistenti virtuali, ma anche in campi delicati come quello medico per la diagnosi precoce, apprendono ed evolvono tramite algoritmi che elaborano vasti set di dati.
Alcuni esempi:

Dati Comportamentali: Informazioni su come gli individui interagiscono con siti web, app, e dispositivi. Questo può includere dati di navigazione, preferenze di acquisto, e modelli di utilizzo. 

Dati Demografici: Età, genere, nazionalità, e altre informazioni demografiche possono essere usate per personalizzare e migliorare i servizi. 

Dati di Localizzazione: Posizione GPS, indirizzi IP, e altri dati di localizzazione che aiutano a comprendere le abitudini di mobilità e geografiche degli utenti. 

Dati di Interazione Sociale: Post sui social media, like, commenti, e altre forme di interazione sociale. 

Dati Biometrici: Impronte digitali, riconoscimento del volto, e altri dati biometrici usati per sistemi di sicurezza e identificazione personale. 

Questi contenuti oggetto del data mining possono includere informazioni personali sensibili, sollevando preoccupazioni sulla privacy degli individui che se ne vedono defraudati in rete senza nemmeno saperlo.
L’uso di dati personali nell’apprendimento automatico della IA può anche portare a vere e proprie violazioni della privacy, se non adeguatamente gestito.

Il punto di vista dei Garanti UE: più equilibrio tra innovazione e Privacy

La sfida dei prossimi anni sarà bilanciare le necessità “educative” e il potenziale dell’IA con il rispetto della riservatezza e dei diritti individuali dei cittadini.
Il Garante per la protezione dei dati personali italiano è stato il primo ad approfondire questi nuovi scenari con un’indagine su Open AI e suo ChatGPT che ha fatto conoscere al grande pubblico le potenzialità dei nuovi software basati sull’ intelligenza artificiale.
Nel provvedimento del 30 marzo 2023 veniva contestatala violazione del GDPR alla società statunitense preso atto che non esisteva alcun controllo all’accesso dell’ applicazione ai minori di 18 anni e: ”l’assenza di base giuridica che giustifichi la massiccia raccolta e archiviazione di dati personali per “addestrare” il chatbot”.
Solo dopo una serie di interlocuzioni finalizzate a rendere il software conforme al GDPR l’11 Aprile 2023 ne veniva permessodal Garante l’utilizzo in Italia condizionato all’ adozione di misure di salvaguardia dei dati personali degli utenti.

A sua volta l’European Data Protection Board, l’organismo dei Garanti UE, si è inserito nella tematica decidendo di lanciare una task force specifica su ChatGPT.
Il problema di fondo è semplice ed è stato ben sintetizzato dal Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati personali in un suo intervento:

“I dati personali di miliardi di persone, frammenti della loro identità personale e “titoli rappresentativi” di un diritto fondamentale come il diritto alla privacy vengono letteralmente pescati a strascico dalle grandi fabbriche dell’intelligenza artificiale globale per l’addestramento dei propri algoritmi e, dunque, trasformati in assets commerciali e tecnologici di pochi al fine consentire a questi ultimi di fare business. Il tutto avviene come se il web fosse un’immensa prateria nella quale tutto è di tutti e chiunque può pertanto impossessarsene e farlo proprio per qualsiasi finalità”

Per proteggere i dati personali dal web scraping illegale, è essenziale il ricorso generalizzato alla l’anonimizzazione e la pseudonimizzazione dei dati e l’implementazione di sistemi avanzati di autenticazione e autorizzazione. 
Il consenso informato gioca un ruolo cruciale, assicurando che gli individui siano pienamente consapevoli di come i loro dati vengano utilizzati e abbiano il controllo su di essi.

Il Ruolo della P.A. delle aziende e degli sviluppatori

Gli sviluppatori e le aziende hanno la responsabilità di garantire che le applicazioni IA siano sviluppate e utilizzate in modo responsabile secondo il criterio fondamentale della Privacy by design.
Per far fronte al web scraping dilagante anche i siti web della Pubblica Amministrazione e dei privati devono adottare misure di sicurezza robuste ed efficaci in modo da non compromettere l’usabilità per gli utenti legittimi.
Le migliori pratiche in termini di sicurezza dei dati, come la crittografia l’anonimizzazione e la pseudonimizzazione dei dati ma anche l’implementazione di sistemi avanzati di autenticazione e autorizzazione con audit di sicurezza, sono fondamentali per proteggere i dati raccolti da accessi non autorizzati e abusi nella raccolta.

Il webscraping e l’IA che impara da esso hanno il potere di trasformare radicalmente il nostro modo di interagire con il mondo digitale sicuramente in meglio.

Tuttavia, è imperativo che innovazione e rispetto della privacy procedano di pari passo, garantendo che i benefici della tecnologia non vadano a scapito del diritto alla privacy dei cittadini siano essi digitali o meno.

Non pensavo di vedere il seguito di Inside Out, ma in un pomeriggio piovoso mi sono trovato sul divano a guardarlo e ne sono rimasto piacevolmente spiazzato. Come nel primo film la narrazione è lasciata alle emozioni, i pupazzetti curiosi che hanno sembianze umane hanno slanci caratteristici di quello che rappresentano e così abbiamo Gioia che è sempre allegra e Tristezza che invece non lo è mai, Disgusto e Rabbia, Paura che tremante è sempre in un angolo.

Ma in questo secondo film, che è uscito a quasi 10 anni dal primo (ma quanto tempo è passato!) in questo viaggio attraverso il prisma delle emozioni, si esplora profondamente il concetto di identità proprio nel momento della transizione dall’infanzia all’adolescenza. E così ad un certo punto, una notte, mentre Riley (la ragazzina protagonista) dorme, irrompono altre emozioni e cambiano tutto.

L’identità e la sua crisi
L’identità, come ben osservava Zygmunt Bauman nella sua “Intervista sull’identità”, è in continua evoluzione, specialmente nel contesto della “modernità liquida”, dove i confini del Sé si dissolvono e si ricostruiscono costantemente.
Così come dice Bauman l’identità di Riley è messa a dura prova perché non ha più una identità, una immagine di sè unica “cristallizzata”, ma è fluidità, un processo in movimento, con una negoziazione tra le varie emozioni.
Sono entrate anche Ansia, Invidia, Noia e Imbarazzo.

Se vogliamo possiamo “disturbare” anche Jacques Lacan, con la sua teoria della fase dello specchio, che ci ricorda che la percezione del Sé è mediata dallo sguardo dell’altro. Riley, come molti adolescenti, si trova di fronte a uno specchio simbolico: quello delle aspettative degli altri, della società e dei suoi pari. In questa fase della sua vita, le emozioni interne entrano in conflitto con l’immagine riflessa, portandola a un’esplorazione più complessa e dolorosa di ciò che significa essere se stessi.

La socialità e l’autodefinizione del Sé
Se Lacan sottolinea il ruolo dello sguardo dell’altro, George Herbert Mead offre una prospettiva complementare, concentrandosi su come il Sé si sviluppa attraverso l’interazione sociale. In Inside Out 2, il ruolo della famiglia, degli amici e dei compagni di scuola diventa cruciale nella definizione dell’identità di Riley. Riley si trova a gestire le sue emozioni in relazione a queste nuove interazioni sociali, cercando di definire chi è nel mondo esterno, mentre tenta di mantenere una coerenza interna.

Perché un cartone animato su un tema così importante e “pesante”?
Viene naturale chiederselo. E’ un prodotto per bambini, per ragazzi…e perché caricare di una valenza così importante un prodotto di intrattenimento?
Per parte mia direi che questo sia uno dei pochi spazi rimasti in quel focolare che vedeva riunirsi i componenti di una famiglia in un percorso che sia inter-generazionale, con un linguaggio visivo e simbolico dell’animazione che si presta ad una doppia lettura: da una parte, i più piccoli possono divertirsi con i colori e le avventure delle emozioni, dall’altra, gli adulti possono riflettere sulle profonde implicazioni del Sé e dell’identità della nuova generazione.

L’importanza del dialogo intergenerazionale
La bellezza di Inside Out 2, secondo me, è proprio in questo, nel suo approccio leggero e simpatico alla complessità dell’identità, rendendolo in qualche modo accessibile ma non banale.

Alla fine, Inside Out 2 è molto più di un semplice sequel: è un’opera che, attraverso la metafora delle emozioni, riesce a raccontare la storia di ognuno di noi. Utilizzando l’animazione come linguaggio universale, il film ci ricorda che il viaggio alla scoperta di chi siamo non finisce mai, e che ogni tappa di questo viaggio merita di essere esplorata con la stessa profondità emotiva e intellettuale con cui i grandi filosofi e pensatori hanno affrontato la questione dell’identità. E poi è l’occasione per non dimenticare completamente che siamo stati anche noi adolescenti e abbiamo dovuto affrontare lo stesso impatto delle “nuove emozioni”.

Ve lo consiglio.

La Settima Arte è stata da sempre uno strumento potente per esplorare il concetto di identità. Identità personale o identità collettiva. Identità complessa e sfaccettata. E i “colpi di scena” certamente non sono quelli che si possono avere a teatro, vista la visione “immersiva” che se ne può avere. La domanda “chi siamo veramente?” viene esplorata attraverso storie che mettono in discussione l’individualità, l’autenticità e le maschere che indossiamo. Dai thriller psicologici ai drammi filosofici, ecco un elenco di dieci film che mettono l’identità al centro della loro narrazione.

Fight Club (1999)
Basato sull’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, Fight Club esplora la crisi d’identità attraverso il personaggio del narratore (interpretato da Edward Norton), un uomo anonimo che soffre di insonnia e trova un modo estremo per affrontare il vuoto della sua vita. La lotta per riscoprire sé stesso lo conduce a incontrare, Tyler Durden (Brad Pitt), con cui sfida la società moderna. Il film pone domande sull’alienazione individuale, l’identità frammentata e il confine tra ciò che siamo e ciò che vogliamo essere.

Memento (2000)
La ricerca dell’identità diventa un rompicapo in Memento, dove Leonard Shelby (Guy Pearce) soffre di amnesia anterograda, una condizione che gli impedisce di creare nuovi ricordi. Il film di Christofer Nolan è strutturato in modo non lineare, riflettendo la frammentazione della memoria del protagonista e il suo disperato tentativo di dare senso a chi è, alla sua vendetta e alla sua vita. Questo thriller psicologico mette in luce come la memoria sia fondamentale per definire chi siamo.

The Truman Show (1998)
Nel Truman Show, Truman Burbank (Jim Carrey) scopre di vivere all’interno di un reality show, dove ogni aspetto della sua vita è stato manipolato e trasmesso in diretta. Questo film offre una potente riflessione sull’identità in una società mediatica, esplorando il tema del libero arbitrio contro il controllo esterno. Truman, alla ricerca della sua vera identità, si ribella al sistema che lo ha ingabbiato, rendendo evidente come la costruzione sociale influisca su chi pensiamo di essere.

Black Swan (2010)
La ballerina Nina Sayers (Natalie Portman) è costantemente divisa tra la perfezione che cerca e il lato oscuro che emerge dentro di lei. Black Swan è una discesa psicologica nell’ossessione, dove la dualità dell’identità viene esplorata attraverso il simbolismo del cigno bianco e del cigno nero. La metamorfosi di Nina mostra come l’identità possa essere mutevole, influenzata dalle aspettative esterne e dai desideri interni.

Lost in Translation (2003)
La solitudine e la disconnessione culturale sono al centro di Lost in Translation, dove due personaggi – Bob (Bill Murray) e Charlotte (Scarlett Johansson) – si trovano a Tokyo, cercando un senso di appartenenza. Il film di Sofia Coppola esplora la loro crisi esistenziale e il desiderio di ritrovare una connessione autentica con sé stessi e con gli altri. La loro amicizia diventa un rifugio per esplorare chi sono al di là delle aspettative sociali.

Her (2013)
In un futuro prossimo, Theodore Twombly (Joaquin Phoenix) sviluppa una relazione amorosa con un’intelligenza artificiale chiamata Samantha (doppiata da Scarlett Johansson). Her pone interrogativi su come la tecnologia influenzi la nostra percezione dell’identità e delle relazioni. Theodore, attraverso questa relazione virtuale, esplora il senso di solitudine e l’identità digitale, domandandosi se le connessioni artificiali possano essere autentiche quanto quelle umane.

Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004) di Michel Gondry
In questo film, la memoria e l’identità sono inestricabilmente legate. Joel Barish (Jim Carrey) e Clementine Kruczynski (Kate Winslet) decidono di cancellare i ricordi della loro relazione tramite una procedura sperimentale. Tuttavia, nel processo, Joel scopre che anche i momenti più dolorosi fanno parte di chi è. Il film riflette sull’importanza dei ricordi nella formazione dell’identità e su come il tentativo di cancellare il passato possa privarci di una parte essenziale di noi stessi.

Mulholland Drive (2001) di David Lynch
Mulholland Drive è un puzzle surrealista che esplora la confusione dell’identità in una Hollywood noir. Due donne (Naomi Watts e Laura Harring) si imbarcano in un viaggio onirico che sfuma continuamente tra realtà e immaginazione. Lynch utilizza simbolismi e narrazioni non lineari per rappresentare la dualità e la frammentazione dell’identità, rendendo il film un’esperienza unica nel suo genere, in cui chi siamo dipende dalle percezioni e dalle esperienze vissute.

The Double (2013)
Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Dostoevskij, The Double narra la storia di Simon James (Jesse Eisenberg), un uomo timido e anonimo, la cui vita viene sconvolta dall’arrivo di un suo doppio identico, ma carismatico e sicuro di sé. Il film esplora il concetto di identità attraverso il contrasto tra l’immagine che diamo al mondo e ciò che siamo veramente. La figura del doppio rappresenta il conflitto tra desiderio e realtà, mostrando come l’identità possa essere una costruzione instabile.

Persona (1966) di Ingmar Bergman
Un classico del cinema d’autore, Persona è un’indagine filosofica e psicologica sull’identità e sulla maschera che indossiamo. La storia segue l’attrice Elisabeth Vogler (Liv Ullmann), che perde improvvisamente la capacità di parlare, e la sua infermiera Alma (Bibi Andersson), mentre le loro personalità iniziano a confondersi. Bergman usa la metafora della “persona” (dal latino “maschera”) per esplorare la disintegrazione dell’identità e la crisi esistenziale, suggerendo che chi siamo è in gran parte una costruzione artificiale.

Questi film mostrano come l’identità possa essere fragile, mutevole e influenzata da forze esterne. Attraverso personaggi che cercano di capire chi sono veramente, i registi ci invitano a riflettere sulle nostre stesse vite e sul modo in cui definiamo noi stessi. Che si tratti di una lotta contro il sistema, un viaggio interiore o una discesa nella follia, l’identità rimane uno dei temi più affascinanti e complessi che il cinema possa esplorare.

La poetessa romana Raffaella Belli pubblica la sua nuova raccolta di poesie “Tende all’eterno ogni sospensione” edita da Edizioni “Il Simbolo”.
A distanza di tredici anni dalla sua ultima raccolta, Raffaella Belli torna alla poesia con un volume vasto e intenso, dove la voglia per una ricerca di luce e armonia si sposa al canto della vita. Con “Tende all’eterno ogni sospensione” (Edizioni “Il Simbolo”, prefazione di Elio Pecora, 153 pagine, 15,00 euro) il poeta conduce il lettore in un limbo segreto, dove ognuno di noi può sperimentare il senso di un’esistenza altra che sappia mutare ogni vibrazione di un respiro che anela all’equilibrio e alla pace dello spirito, poiché senza il presupposto e l’impegno di una naturale preghiera, nonché dei fini trasformativi di una educazione, non è possibile mutare il corso di questo mondo. Non a caso la stessa poetessa avverte nella nota finale al testo come “Le tre sezioni che compongono l’opera poetica, scritte negli ultimi anni, sono testimonianza di un mio sentire poetico in evoluzione costante”.

Raffaella Belli (Roma, 1970) esordisce nel 2001 con la silloge “Pensieri d’Azzurro” (Ibiskos Editrice, prefazione di Giovanna La Vecchia). Tra il 2002 e il 2005 ha pubblicato su periodici, quotidiani e riviste, le seguenti sillogi: “Occhi invisibili”, “L’equilibrio dei fiori”, “Lunafiamma”, “I cedri e l’acqua” e “Silenzio di tempo”, ricevendo attenzione e riconoscimenti in numerosi premi poetici.
Con Maurizio Gregorini, nel 2006, ha pubblicato la silloge “Scaglie di passione” (Edizioni del Cardo). Nel 2011, sempre per le Edizioni del Cardo esce la raccolta poetica “Elitra Diafana – Partitura”. Anche Elio Pecora, nell’introdurre il lettore a questa poetica avverte come la poetessa “Mai lasciando la giornata che logora e trattiene, porta in un altrove i suoi pensieri misti di aspre verità e di cercati rispecchiamenti”. E prosegue citando suddetti versi:

È linfa che corre veloce
la seduzione di un canto
nei recessi del tempo.
Lampo di onde silenti,
collegamento ritmico in un mondo
taciturno nell’estensione dell’attimo

per poi chiarire in che modo “in questi versi leggiamo molto e tutto di quanto sostanzia questo libro e ne rende la vivezza e la necessità. Ed è l’altrove della parola che s’interroga, che sfida sé stessa nei significanti, e si concede e si nega insieme per un’attesa inesausta di interiore salute, di bramata conoscenza. Non si distinguono luoghi né volti in questo poetare; l’indeterminatezza ne estende la comunanza e la durata. Il tempo si compie per ‘impenetrabili passaggi’ e l’essere si presenta come la sola vera misura dell’esistere.

Così ricorrono nei diversi componimenti, tutti brevi e densi, tutti chiari e inquietanti, sostantivi (compiutezza, trasparenza, riflessione, inerzia) che segnano domande estreme e pretendono risposte. E’ che qui si vuole ‘plasmare parole oltre la materia’, opporsi all’affanno ‘dei limiti in lotta’, rendersi consapevoli anche nella pena e nella discordia, appressarsi all’imponderabile altresì ‘nei vincoli della carne’. Risuonano parole che accompagnano verso un meno angusto tragitto: ‘La mappa del mondo /
sognata da passi / è celata dal viaggio’. E qui vale rammemorare quel che James
Hillman chiama ‘l’anima del mondo’. Chi va così pronunciandosi ha lasciato le
stanze e le voci per risalire agli inizi e chiedersi le ragioni prime, quindi interrogare
e interrogarsi per riconoscersi, finanche nella stupefazione. Quest’anima, non legata
a un nome e a un destino, appartiene a tanti e a tutto: ‘Trascinata nei gorghi’ va,
ancora va, promettendosi ‘un’intesa d’amore’ e scioglie dal silenzio ‘inattese
risposte’. Così vasto e intenso è il suo desiderio di luce e di armonia che pure nella pena più fonda non si sottrae al ritmo della Terra, al canto della vita. Ed è in questa ondulante sapienza la misura raggiunta, il possibile traguardo”.

Abbiamo intervistato la poetessa Raffaella Belli per i lettori di Condi-Visioni. Ci accoglie nella sua bellissima casa romana, tra quadri, libri, due gatti ed un’atmosfera d’altri tempi. Tutto somiglia a lei e lei somiglia a tutto ciò di cui è circondata. Una luce soffusa avvolge tutto e l’accoglienza è calda e serena.

Tutto è armonia e l’autrice di “Tende all’eterno ogni sospensione” ha un sorriso rassicurante che trasmette un infinito senso di pace. La poesia di Raffaella Belli è contorcente, i suoi versi si aggrappano alle viscere del lettore, ogni organo ne è profondamente ed intimamente coinvolto. E’ potenza pura, è urlo, è tenacia, forza, coraggio e conoscendo l’autrice tutto questo sentimento lacerante sembra celato, perché tutto ciò che noi vediamo è un volto rilassato con due occhi carichi di luce e di speranza. E’ rassicurante Raffaella Belli, è pacata, il tono di voce equilibrato e moderato, la sua ironia è
spiazzante, la sua autoironia è brillante, ed è disarmante e sorprendente venire a
conoscenza che quei versi arrivano da una donna così confortante ed incoraggiante.
Dentro di lei un mondo così profondo, intimo, personale raccontato con una potenza
devastante. Non deve essere stato assolutamente impresa semplice per lei, raccontarsi
così ferocemente, per questo forse dovremmo sapere apprezzare ancora di più tutto ciò che accade in questo nuovo libro edito da Edizioni “Il simbolo”.

Belli, ne sono passati di anni da quando la incontrai per prefarle il suo primo libro di versi. Le confesso che sono soddisfatta che abbia potuto, nel corso del tempo, trovare un giusto equilibrio di scrittura.
“Trova? Se così fosse la ringrazio davvero. Però per mia natura sono e resto sempre incerta, soprattutto se si tratta di scrittura, in questo caso, di poesia. Sono e resto assillata da dubbi: è giusto?, non è giusto?, questa poesia rende davvero ciò che intendo riferire? Sa, le confesso che ogni volta che rileggo versi da me scritti, il discutibile mi si presenta con sfrontatezza, lasciandomi incerta se si tratti di versi felici”.
Se così non fosse, non credo che un poeta della statura di Elio Pecora ne avrebbe aperto un dialogo col lettore. So bene come Pecora introduca solo libri di qualità.

“Guardi, sono ancora sorpresa: considerare che un poeta del calibro di Pecora
abbia speso parole significanti per il mio nuovo libro può solo significare che
davvero dovrei accettare il fatto che forse poeta lo sono per davvero. In altri termini:
devo considerare per forza di cose che in me vive anche questa identità”.
Ecco, identità. Questo nostro numero tratta proprio il tema della identità. Lei
come risolve la questione?

“Ah, proprio non saprei. Pero so che si tratta di un termine e un principio filosofico
che genericamente indica l’eguaglianza di un oggetto rispetto a sé stesso; nel mio
caso forse l’oggetto è la poesia stessa. Però in relazione ad altri oggetti l’identità è
tutto ciò che rende un’entità definibile e riconoscibile, perché possiede un insieme di
qualità o di caratteristiche che portano l’essere a divenire un tutt’uno col circostante.
Va anche detto, nel modo in cui ognuno di noi sa bene, che l’identità è anche presa di coscienza della propria individualità corporea, consapevolezza del valore del corpo come una delle espressioni della personalità.

Non è un caso anomalo che recenti ricerche chiariscono in che modo lo sviluppo dell’immagine corporea è il punto di partenza per la costruzione del sé in tutte le sue dimensioni. Infine, come ha affermato il filosofo Remo Bodei in un’intervista dell’Enciclopedia Multimediale
delle Scienze Filosofiche del 1996, il concetto di identità personale designa la
coscienza che un individuo ha del suo permanere lo stesso attraverso il tempo e
attraverso le fratture dell’esperienza. Ma tornando a noi, a me, se vogliamo
tratteggiare una probabile identità poetica, non posso non affermare che, in quanto
poeta, la mia identità è certamente visionaria. Come ogni poeta, anche io immagino
e ritengo vere cose non rispondenti alla realtà, elaborando, con le parole, disegni
inattuabili. Una sognatrice? Forse, anche se generalmente chi viene considerato tale
può essere soggetto a visioni, apparizioni soprannaturali, allucinazioni visive, ma le
assicuro che non è il mio caso. E soffermandomi sul mio nuovo libro di poesia, posso
dirle di essere una persona dotata di immaginazione e di sentimento, racconto il mio
mondo in modo verosimile, lasciando a me stesa la libertà di creazione e invenzione.
O perlomeno è quello che sostiene di me Maurizio Gregorini, editore di questo libro”.
Oh, il Gregorini: quando si tratta dei suoi versi c’è sempre lui di mezzo. Tra
l’altro anni fa avete licenziato una silloge insieme. So che lui stima molto il suo
lavoro. Tra l’altro io sarei una complice: vi feci incontrare anni fa e mai avrei
immaginato una totale empatia del vostro rapporto.

“Trovo Maurizio un uomo amabile. E sì, devo a lui una certa maturazione poetica. Sempre lì a chiedermi se scrivo nuove poesie, a volerle leggere, a consigliarmi su come costruire un libro. Anche nel caso di ‘Tende all’eterno ogni sospensione’ c’è stata la sua fermezza a volerlo editare. Aveva appena aperto la sua casa editrice e, nell’esprimergli la mia contentezza, ha chiesto immediatamente un libro. Ora, lei sa bene che io pubblico raramente, perché proprio nel modo in cui ci siamo detti poco fa, sono e resto esitante. Ma niente, ha voluto gli dessi le tre sezioni che sono parte
del libro e non c’è stato nulla da fare: alla mia incertezza ha avanzato il suo convincimento”.
E non ne è felice?
“Come non esserlo? Se non ci fosse stata la sua determinazione il libro non esisterebbe; forse tiene a questa nuova pubblicazione più di quanto ci tenga io (ride,n.d.i.). Ma è e resta per me un amico fidato, fondamentale. Pensi che a molti tiene sempre a dire che è come fossimo sposati, e in un certo senso è vero: sono certa di esistere poeticamente perché c’è sempre lui a sostenermi, contro ogni logica”.
Ma Gregorini ama la sua poesia…
“Sì, ed è sempre lui a ripetermi che debbo pensare, riflettere, scrivere, in quanto poeta, non in quanto persona comune. Mai incontrato un lettore più convincente di lui. Che dire? E’ evidente che si tratta di un destino che unisce le nostre anime”. Cosa pensa di aver aggiunto alla sua poesia con la nuova opera? “Proprio non saprei. Gregorini mi è solito affermare che, anche se i temi da me proposti sono ricorrenti, si tratta di una poesia affatto superficiale, che per penetrarvi si necessita di una rilettura costante, come si trattasse di un trattato spirituale; almeno a lui accade così. Non a caso ha scelto una incisione ottocentesca giapponese per la grafica e voluto mettere in quarta di copertina questi versi:

‘Soggiogata nell’ardente immortalità/ trascoloro ignara della tenebra./ Interminabili
fiammeggianti guizzi/ dispongono nelle altezze celesti/ la sontuosità d’ineffabili
amori./ Velato nel rigoglio dei fiori/ protetto dai perseveranti cieli,/ il canto della vita
mia/ narra di un giardino di pietre’.

Ma lui mi ama e non fa testo (ride di nuovo,n.d.i.). I motivi ricorrenti nei miei versi, lo ribadisco, sono sempre gli stessi: la luna, il mare, la terra, la flora, l’invisibile percepito nel visibile… in essi sono certa di riscontrare una libera spontaneità per una giocosità della naturale creazione: mi affascina il cosmo, l’energia, la fisica, l’imponderabile. Non spetta a me dire se abbia aggiunto o no qualcosa alle precedenti pubblicazioni; spero solo che chi si
appresta a leggere queste poesie ne gradisca la musicalità o un possibile fascino”.

Ci salutiamo con un caffè e le fusa dei gatti, rimane impressa in noi una immagine molto forte, un sentimento che ha accompagnato l’intera intervista, lo scambio di battute, la visita della casa, per tutto il tempo ci siamo sentiti avvolti e protetti, la poetica di Raffaella Belli e della sua casa ci tiene lontani da un mondo che non capiamo più e che ha perso e vuole farci perdere identità e natura. Per qualche ora siamo stati immuni al resto quasi con la certezza di una possibile salvezza. La poesia è vita e da vita ad ogni cosa, ne comprendiamo appieno la portata, ma la poesia di Raffaella Belli riesce a fare qualcosa di più, ci rende donatori di qualcosa di bello, di sano e di pulito a chi vuole comunicare con noi e vuole comprendere. Ci sono incontri particolarmente felici, questo è sicuramente uno tra quelli che potremo ricordare in un modo diverso. Leggere “Tende all’eterno ogni sospensione” (già il titolo è una poesia), è stato un viaggio lungo e memorabile, comodamente seduti su una poltrona ben imbottita e con un’ottima tappezzeria, eppure non esente da rischi, poiché la poesia, quella vera, ha in sé inevitabilmente il rischio della consapevolezza,
della coscienza e della verità.