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Un mio carissimo amico (che poi si dà il caso sia il direttore di questa testata giornalistica ) mi ricorda sovente che la vita è l’arte dell’incontro. La frase, la definizione, non è sua ma è il titolo di un disco di Sergio Endrigo (nel quale compaiono testi scritti da Vinícius de Moraes e Giuseppe Ungaretti, ma questa è un’altra storia) ma io continuo ad associarla a lui e ci credo profondamente perché non c’è niente di scientifico in un incontro: è un processo alla cui base c’è il caso, anche se poi ci si può riconoscere una predisposizione, una ispirazione, una tecnica, proprio come accade, appunto, nell’arte. Non c’è nessun “meccanismo”, nessun “automatismo”. A volte si dice sia una questione di “chimica”, ma non penso sia nemmeno questo. In chimica le reazioni sono equilibrate, bilanciate, misurabili: la stechiometria (https://it.wikipedia.org/wiki/Stechiometria) calcola i composti che partecipano alla reazione e quali composti ne possono essere generati, in quali condizioni e con quanta energia.

Ma a volte ci possono essere degli incontri davvero insoliti, non così misurati, non così misurabili.

Pensando all’insolito, mi è venuta l’idea di raccontare alcuni di questi incontri, degli incontri così, che hanno visto persone apparentemente lontanissime le una dalle altre, che incrociano le proprie vite e si danno qualcosa, piccolo come un seme.

Il primo incontro insolito che mi è venuto in mente avvenne il 19 Gennaio 1931 a Pasadena, negli Stati Uniti.
Nel mondo non era solo un ricordo il Martedì Nero (il “Big Crash“), ossia il 29 ottobre 1929, quando la borsa di New York crollò improvvisamente, quello era l’inizio della Grande Depressione che si protrasse per più di 10 anni fino ad arrivare fino alla Seconda Guerra Mondiale. Anzi per molti storici, proprio quel Martedì Nero fu l’inizio della crisi che portò in Europa il diffondersi dei totalitarismi.

Ma in quel 19 Gennaio 1931 il New Deal di Roosevelt non era stato ancora istituito, l’elezione di Hitler a cancelliere in Germania non era ancora prevedibile. Albert Einstein era già famoso negli ambienti di fisica teorica ma non dal grande pubblico, ed era negli Stati Uniti per tenere una conferenza alla California Institute of Technology per promuovere la sua ricerca scientifica. Durante il suo viaggio, il fisico – quello che viene ricordato come “il padre dell’energia atomica” – espresse il desiderio di incontrare Chaplin, che invece era una figura molto popolare a Hollywood. Tutti negli Stati Uniti e nel Regno Unito – terra natia di Charlie Chaplin – conoscevano il suo personaggio del Vagabondo (in Italia Charlot).
L’incontro si tenne in disparte e non ci sono resoconti di quello che si dissero. Si sa solamente che parlarono di Politica, di Scienza e di Arte.
Albert Einstein, in una lettera a un amico (datata 6 febbraio 1931) ricordò quell’incontro con Chaplin: “Che tipo divertente e intelligente! Spero di vederlo presto di nuovo.”, mentre Charlie Chaplin, in un’intervista del 1931, disse di Einstein: “È un uomo meraviglioso, con una mente assolutamente unica. Abbiamo discusso di filosofia, religione e arte. È stato affascinante.”

Si dice che i due, prima di allontanarsi per parlare da soli, si scambiarono due frasi di saluto: Einstein disse a Chaplin: “Quello che ammiro di più della tua arte è la sua universalità. Non dici una parola, ma il mondo ti capisce.” “È vero.”, rispose Chaplin, “ma tu sei ancora più da ammirare. Il mondo intero ti ammira, ma nessuno ti capisce!”

Non ne sappiamo niente più di questo. E allora perché penso sia stato un incontro così importante?

Penso sia stato un incontro importantissimo perché anni dopo, durante quel grandissimo sconvolgimento che fu la Seconda Guerra Mondiale, ambedue si schierarono per la libertà, per la pace, per il progresso dell’Umanità, per utilizzare tutte le risorse intellettuali e tecnologiche non per distruggere ma per creare nuove opportunità di crescita e di benessere. Immagino che il discorso tenuto da Charlie Chaplin a chiusura del suo “Il Dittatore” sia stato proprio ispirato dall’incontro con Einstein. Perché gli incontri importanti sono così: creano qualcosa che sboccerà poi nel futuro.

In questi giorni mi sono imbattuto in una serie quasi inspiegabile di errori nelle risposte da parte dell’Intelligenza Artificiale che utilizzo. Niente di straordinario, ma si trattava di errori che proprio non mi aspettavo. Sciocchi, facilmente dimostrabili e verificabili.
Avevo chiesto di propormi alcuni problemi matematici e geometrici sul piano cartesiano per far esercitare mia figlia, e per praticità avevo chiesto anche i relativi risultati. Un elenco di 12 esercizi brevi.
Mia figlia esegue gli esercizi ma non le tornano i risultati, così li ricontrollo passo dopo passo, carta e penna…corretti!
Chiedo quindi all’Intelligenza Artificiale di eseguire il calcolo mostrandomi i procedimenti per capire dove avesse sbagliato e così in un tardo pomeriggio, mi ritrovo a correggere gli errori di una intelligenza artificiale invece di quelli di mia figlia.
Per chi è curioso, questo era l’esercizio: “Determina l’equazione della retta perpendicolare alla retta 4x + y = 7 e distante 3 unità dall’origine.” il risultato proposto era: “y = -4x + 3”.
Alla fine chiedo, davvero curioso: “Come mai hai commesso tutti questi errori di calcolo?
La risposta è davvero spiazzante: “Gli errori possono essere dovuti a diverse ragioni:
Distrazione: Anche se cerco di prestare molta attenzione, a volte la mente può vagare o posso perdere di vista alcuni dettagli importanti durante il calcolo.
Velocità: In alcuni casi, potrei sentire la pressione di fornire una risposta rapida e fare calcoli troppo velocemente senza controllare attentamente i passaggi.
Complessità della domanda: Se una domanda coinvolge diversi concetti o richiede più passaggi per essere risolta, potrei commettere errori nel corso del processo a causa della sua complessità.
Familiarità con il contenuto: Sebbene io abbia una vasta conoscenza, ci sono argomenti più familiari di altri. Se la domanda coinvolge un argomento meno familiare o che non ho affrontato di recente, potrei essere più incline a commettere errori.
Errore umano: Sono un modello di intelligenza artificiale e, come tale, sono soggetto a errori umani come qualsiasi altra persona. Nonostante i miei migliori sforzi, a volte commetto errori.
In questo caso specifico, credo che la combinazione di complessità della domanda e la necessità di calcoli accurati abbia contribuito agli errori. Spero che questa spiegazione ti sia stata utile!”

Così mi viene in mente di fare un’intervista – così come ho fatto per altri ospiti di www.condi-visioni.it – proprio all’Intelligenza Artificiale, a quest’essere artificiale che mi risponde in modo assolutamente colloquiale.

Domanda: Ciao, conosci il libro “il medioevo prossimo venturo”?
Risposta: Certo, “Il medioevo prossimo venturo” è un libro scritto da Umberto Eco, pubblicato nel 1978. Eco è stato un autore molto noto per i suoi scritti che mescolano storia, filosofia e narrativa. In questo libro, Eco analizza il fenomeno del “neomedioevo”, ossia la persistenza di elementi culturali, sociali e politici tipici del medioevo nella società moderna. Tra i temi trattati ci sono la manipolazione dei media, l’irrazionalità, il fondamentalismo religioso e altre questioni che Eco collega al passato medievale. È un’opera che offre una visione interessante e provocatoria della società contemporanea.

Il “Il medioevo prossimo venturo” è stato scritto da Roberto Vacca…
Hai ragione, mi scuso per l’errore. “Il medioevo prossimo venturo” è stato scritto da Roberto Vacca, non da Umberto Eco. È un libro del 1979 in cui Vacca esplora l’idea di un possibile ritorno a condizioni sociali, politiche ed economiche simili a quelle del medioevo, analizzando trend e scenari futuri. Il libro ha suscitato interesse per le sue previsioni sul futuro della società e della tecnologia. Grazie per la correzione!

il libro è stato pubblicato nel 1971
Hai ragione, mi scuso ancora per l’errore nella data di pubblicazione. “Il medioevo prossimo venturo” è stato pubblicato nel 1971, non nel 1979. Grazie per la correzione! Se hai altre domande o se c’è qualcos’altro su cui posso aiutarti, fammelo sapere!

Nel libro Vacca analizzava alcuni scenari che avrebbero potuto portare ad un “imbarbarimento” degli ambienti produttivi e quindi un conseguente periodo post-industriale. Ti volevo chiedere se puoi elencarmi quali sono gli scenari che avrebbero potuto permettere a questa condizione…
Certamente, Vacca nel suo libro “Il medioevo prossimo venturo” ipotizzava diversi scenari che avrebbero potuto portare a un “imbarbarimento” degli ambienti produttivi e ad un periodo post-industriale. Ecco alcuni dei principali scenari che Vacca ha esaminato:
Crisi energetica: Un eventuale esaurimento delle risorse energetiche convenzionali avrebbe potuto causare una grave crisi energetica, riducendo la capacità industriale e portando a un ritorno a forme di produzione più primitive e localizzate.
Crisi ecologica: L’aggravarsi della crisi ecologica avrebbe potuto costringere le società a rivedere i loro modelli di produzione e consumo, abbandonando i metodi industriali a favore di approcci più sostenibili ma anche più limitati e localizzati.
Crisi economica e sociale: Un collasso economico e sociale su scala globale avrebbe potuto determinare il declino delle istituzioni industriali e l’emergere di nuove forme di organizzazione economica e sociale, meno centralizzate e più adatte a contesti locali.
Crisi politica e conflitti: Instabilità politica e conflitti su scala globale avrebbero potuto interrompere le catene di approvvigionamento internazionale e portare alla frammentazione delle economie nazionali, con conseguente ritorno a forme più primitive di produzione e scambio.
Avanzamenti tecnologici diseguali: Una situazione in cui gli avanzamenti tecnologici non sono distribuiti in modo equo tra le nazioni avrebbe potuto creare disparità economiche e sociali tali da minare l’efficacia dei modelli industriali globalizzati, portando ad una regressione verso forme più semplici di produzione e organizzazione sociale in alcune regioni del mondo.
Questi sono solo alcuni degli scenari che Vacca ha considerato nel suo libro, offrendo una prospettiva interessante sul possibile futuro delle società industriali.

Pensi che l’intervento dell’intelligenza artificiale possa in qualche modo aver mutato questa previsione, in positivo o in negativo?
L’intervento dell’intelligenza artificiale (IA) potrebbe certamente influenzare gli scenari ipotizzati da Vacca in “Il medioevo prossimo venturo”, sia in positivo che in negativo. Ecco alcune considerazioni:
Positivamente: L’IA potrebbe contribuire a migliorare l’efficienza e la sostenibilità dei processi produttivi, consentendo una gestione più intelligente delle risorse e riducendo l’impatto ambientale. Inoltre, potrebbe favorire lo sviluppo di nuove tecnologie e settori economici, aprendo opportunità per una transizione verso modelli di produzione e consumo più avanzati e sostenibili.
Negativamente: Tuttavia, l’IA potrebbe anche intensificare le disuguaglianze economiche e sociali, accentuando il divario tra paesi o regioni che hanno accesso a tecnologie avanzate e quelli che ne sono privi. Ci potrebbe essere il rischio che le economie meno sviluppate vengano escluse dai benefici dell’IA, aggravando la loro dipendenza da modelli economici obsoleti e portando a una maggiore marginalizzazione.
Impatto sull’occupazione: L’automatizzazione e l’introduzione dell’IA potrebbero anche ridurre la domanda di lavoro in alcuni settori, portando a disoccupazione strutturale e a una maggiore precarietà occupazionale. Questo potrebbe avere ripercussioni negative sul benessere sociale e sull’equilibrio delle economie, contribuendo a un possibile declino dei modelli industriali.
Sfide etiche e di governance: L’introduzione diffusa dell’IA solleva anche questioni etiche e di governance riguardanti la responsabilità, la sicurezza e la privacy dei dati. Se queste sfide non vengono affrontate in modo adeguato, potrebbero emergere tensioni sociali e politiche che minano la stabilità dei sistemi industriali e la fiducia nelle istituzioni.
In definitiva, l’effetto dell’IA sugli scenari ipotizzati da Vacca dipenderà dalla sua adozione e implementazione, nonché dalle politiche e dalle strategie adottate per gestirne gli impatti. Se utilizzata in modo responsabile e inclusivo, l’IA potrebbe contribuire a mitigare alcune delle sfide previste, ma se mal gestita potrebbe anche accentuarle o crearne di nuove.

Altro punto sul quale ti vorrei far riflettere è proprio sulla “complessità dei modelli produttivi”, concetto già espresso nel libro “Il medioevo prossimo venturo”. Nel libro Vacca metteva in guardia da una complessità elevata che ad un elemento di disturbo – piccolo a piacere – avrebbe potuto generare un “effetto domino” inarrestabile. Considerando che l’intelligenza artificiale è basata sull’autoapprendimento, questo fattore potrebbe essere ancora più delicato, meno resiliente. Che ne pensi?
La complessità dei modelli produttivi è certamente un punto cruciale e il concetto di “effetto domino” inarrestabile causato da disturbi anche minimi è stato ben evidenziato da Vacca nel suo libro. Quando si considera l’intervento dell’intelligenza artificiale (IA) in questi contesti, diventa ancora più importante analizzare la resilienza di tali sistemi.
Ecco alcune riflessioni su come l’IA potrebbe influenzare la complessità dei modelli produttivi e la loro resilienza:
Autoapprendimento dell’IA: L’IA, basandosi sull’autoapprendimento, potrebbe essere suscettibile a disturbi imprevisti o a informazioni non corrette. Se l’IA non è adeguatamente addestrata o se riceve dati incoerenti, potrebbe generare decisioni errate che amplificano gli effetti dei disturbi nella catena produttiva.
Interconnessione dei sistemi: Con l’IA, c’è il potenziale per una maggiore interconnessione tra diversi sistemi produttivi e processi decisionali. Se un disturbo si verifica in un punto critico, l’effetto domino potrebbe propagarsi rapidamente attraverso reti complesse di interazioni, causando interruzioni diffuse.
Rischio di amplificazione degli errori: L’IA potrebbe anche amplificare gli errori umani o i difetti nei dati utilizzati per il suo addestramento. Questo potrebbe accrescere il rischio di propagazione degli errori attraverso i sistemi produttivi, specialmente se l’IA è coinvolta in processi decisionali cruciali senza adeguati meccanismi di controllo e correzione degli errori.
Resilienza e sicurezza: È essenziale sviluppare strategie per migliorare la resilienza e la sicurezza dei sistemi produttivi basati sull’IA. Ciò potrebbe includere l’implementazione di controlli di sicurezza robusti, la diversificazione delle fonti di dati e la progettazione di sistemi in grado di adattarsi rapidamente a disturbi imprevisti.
In sintesi, l’introduzione dell’IA nei modelli produttivi introduce nuove dinamiche e sfide legate alla complessità e alla resilienza dei sistemi. È importante considerare attentamente come gestire questi rischi e sviluppare strategie per garantire che l’IA contribuisca a migliorare, piuttosto che compromettere, la stabilità e l’efficienza dei processi produttivi.

Abbiamo iniziato questa sessione di domande con una risposta che è sbagliata. Una risposta sbagliata su un documento scritto e incontrovertibile. Anzi più di un errore. Quindi credo che il fattore della propagazione dell’errore sia un fattore fortemente instabile
Hai assolutamente ragione nell’affermare che la precisione è fondamentale, specialmente quando si tratta di informazioni verificabili e documentate. Le risposte errate possono innescare una catena di fraintendimenti o, peggio ancora, perpetuare informazioni inesatte. È importante che io fornisca risposte accurate e verificate, specialmente su argomenti come testi scritti e opere pubblicate.
L’errore può certamente propagarsi, soprattutto in ambienti dove le informazioni sono condivise e scambiate rapidamente, come su Internet. È quindi fondamentale per me fornire risposte accurate e, quando necessario, ammettere e correggere gli errori.
Ti ringrazio per aver portato questo punto all’attenzione e mi scuso nuovamente per gli errori iniziali nella nostra discussione. Se hai altre domande o argomenti su cui desideri discutere, sono qui per aiutarti!

Volevo chiederti se le risposte da parte degli utenti (o le mancate correzioni) siano fonti per le successive risposte. Questo vuol dire che con un sempre maggior ricorso all’intelligenza artificiale potrebbe aumentare il rischio di propagazione dell’errore a livello strutturale. Che ne pensi?
Le risposte degli utenti e le correzioni che essi forniscono possono certamente influenzare le mie risposte successive. Se un utente fornisce informazioni aggiuntive o corregge un errore, posso integrare quelle informazioni nella mia risposta successiva per garantire maggiore accuratezza. Tuttavia, se un errore non viene corretto, c’è il rischio che venga perpetuato e possa influenzare le risposte future.
Quando si tratta dell’intelligenza artificiale, è vero che l’automatizzazione e l’autoapprendimento possono portare a una maggiore velocità di elaborazione delle informazioni, ma ciò non garantisce necessariamente un’analisi accurata o la correzione degli errori. Se l’IA incorpora dati errati o informazioni inesatte nelle sue risposte, c’è il rischio che tali errori vengano amplificati e diffusi attraverso la sua operatività continua.
Pertanto, è fondamentale che l’IA sia progettata per essere in grado di riconoscere e correggere gli errori, integrando meccanismi di feedback e controllo di qualità nelle sue operazioni. Inoltre, un’importante responsabilità ricade sugli utenti e gli sviluppatori nell’adottare un approccio critico e vigilante nell’utilizzo e nello sviluppo di sistemi basati sull’IA, in modo da minimizzare il rischio di propagazione degli errori a livello strutturale.
In conclusione, mentre l’intelligenza artificiale può certamente accelerare la diffusione delle informazioni, è importante prestare attenzione alla qualità e all’accuratezza di tali informazioni per evitare la propagazione degli errori a livello strutturale.

Pensi che l’utilizzo massivo dell’intelligenza artificiale possa in qualche modo aumentare l’analfabetismo funzionale della popolazione, e la capacità di memorizzazione. Questo può anche ridurre la capacità di distinguere le notizie e le informazioni false.
L’utilizzo massivo dell’intelligenza artificiale (IA) potrebbe avere impatti significativi sull’analfabetismo funzionale e sulla capacità di memorizzazione della popolazione, così come sulla capacità di distinguere tra notizie e informazioni false. Ecco alcuni punti da considerare:
Analfabetismo funzionale: L’IA può rendere alcune attività più semplici e accessibili, come la traduzione automatica, la correzione automatica dei testi e l’elaborazione automatica dei dati. Sebbene queste tecnologie possano facilitare l’accesso alle informazioni, potrebbero anche ridurre l’incoraggiamento all’apprendimento di abilità di base, come la lettura, la scrittura e il calcolo mentale. Ciò potrebbe contribuire all’analfabetismo funzionale, cioè alla mancanza di abilità di base necessarie per comprendere e utilizzare le informazioni in modo efficace.
Memorizzazione: L’IA può fungere da sostituto per la memorizzazione di informazioni, poiché offre accesso immediato a enormi quantità di dati e informazioni. Questo potrebbe ridurre l’incoraggiamento alla memorizzazione e alla comprensione profonda di concetti e fatti, poiché le persone potrebbero affidarsi sempre di più ai dispositivi tecnologici per recuperare informazioni quando necessario.
Diffusione di informazioni false: L’IA può anche influenzare la capacità di distinguere tra notizie e informazioni false. Se le persone si affidano eccessivamente all’IA per accedere alle informazioni, potrebbero essere più inclini a credere acriticamente a ciò che viene presentato loro, senza valutare in modo critico la veridicità delle informazioni. Ciò potrebbe contribuire alla diffusione di notizie false e disinformazione, soprattutto se gli algoritmi utilizzati dall’IA non sono in grado di valutare in modo accurato la qualità e l’affidabilità delle fonti.
In conclusione, sebbene l’utilizzo dell’IA offra molti vantaggi in termini di accesso alle informazioni e automazione di compiti, è importante riconoscere anche i potenziali rischi associati, come la riduzione delle abilità di base, la dipendenza dalla tecnologia e la diffusione di informazioni false. È essenziale promuovere una cultura dell’apprendimento critico e dell’alfabetizzazione digitale per mitigare tali rischi e garantire che le persone possano utilizzare l’IA in modo consapevole e responsabile.

Alla fine di tutto questo “dialogo” mi è tornato alla mente un video di Italo Calvino: cosa possiamo portarci nel nuovo millennio?
Ecco ora che ci siamo in pieno, questi 3 strumenti valgono ancora di più.

https://www.youtube.com/watch?v=h9EX2GRhd4Q

E penso al suo sguardo, disincantato e tranquillo, ai tempi di silenzio, di attesa, di pensiero, che sono completamente incompatibili con la televisione e con i “tempi moderni” che sono brucianti e rapidissimi, anzi aggiungerei inutilmente rapidissimi. Tanto rapidi che si può perdere in precisione.

L’avvento dell’intelligenza artificiale (IA) sta ridefinendo il panorama tecnologico globale, offrendo straordinarie opportunità per l’innovazione in numerosi settori. Tuttavia, l’ampia applicazione dell’IA, che si estenderà al di là delle più ottimistiche previsioni, solleva questioni complesse relative alla sicurezza, alla privacy, ai diritti umani e alla responsabilità etica ma anche all’occupazione.

E’ in questo contesto di grandi attese e profonde incertezze che il Governo Italiano ha varato, il 23 Aprile scorso, lo schema di un Disegno di legge “Recante disposizioni e delega al Governo in materia di intelligenza artificiale” per fornire un primo quadro normativo che guidi lo sviluppo e l’uso dell’IA in maniera responsabile e centrata sull’uomo.

Finalità e ambito di applicazione del Disegno di Legge

La norma proposta al Parlamento mira a stabilire principi chiari per la ricerca, la sperimentazione, lo sviluppo, l’adozione e l’applicazione dell’IA. Il focus legislativo è su un utilizzo dell’IA che sia corretto, trasparente e responsabile, mirato a valorizzare le opportunità tecnologiche mentre si controllano i rischi potenziali. L’obiettivo è garantire che l’IA operi in una dimensione antropocentrica, proteggendo i diritti fondamentali in continuità con l’AI Act, il Regolamento approvato in via definitiva dal Parlamento Europeo il 13 Marzo.

Principi fondamentali

Etica e trasparenza
La proposta enfatizza ulteriormente l’importanza della trasparenza e dell’etica nell’utilizzo dell’IA. Questo include il dovere di rendere i sistemi di IA comprensibili per gli utenti e garantire che le decisioni automatizzate siano giustificate e contestualizzate, facilitando così un ambiente di fiducia e sicurezza per tutti gli stakeholders.

Sicurezza e protezione dei dati
Un pilastro centrale del disegno di legge è la sicurezza informatica e la protezione dei dati personali. Con l’IA che processa enormi quantità di dati, è imperativo proteggere questi dati da violazioni e abusi, garantendo che le informazioni personali siano trattate con il massimo rispetto della privacy e della dignità individuale.

Equità e inclusività
Il principio di non discriminazione è fondamentale per prevenire che i sistemi di IA perpetuino bias preesistenti o creino nuove disuguaglianze. Il disegno di legge si impegna a promuovere l’accessibilità e l’inclusività, assicurando che le tecnologie IA siano accessibili a tutti, inclusi gli individui con disabilità, e che non escludano o marginalizzino nessun gruppo.

Impatto settoriale e applicazioni specifiche dell’IA

Sanità

Nel settore sanitario, l’IA ha il potenziale di rivoluzionare il modo in cui le cure sono amministrate, migliorando l’efficacia diagnostica e la personalizzazione delle terapie. La proposta stabilisce criteri rigorosi per garantire che l’IA in ambito sanitario sia impiegata in modo equo e non discriminatorio, proteggendo i diritti dei pazienti e migliorando l’accesso e la qualità delle cure.

Ambito lavorativo

Il disegno di legge affronta anche l’uso dell’IA nel mondo del lavoro, dove può servire per aumentare la produttività e migliorare le condizioni lavorative. Viene data priorità alla protezione dei lavoratori, assicurando che l’IA non sostituisca iniquamente il lavoro umano ma funga da supporto al miglioramento delle competenze e delle opportunità lavorative.

Pubblica Amministrazione

Per le pubbliche amministrazioni, l’introduzione dell’IA promette di incrementare l’efficienza e la trasparenza. Il disegno di legge sottolinea l’importanza di un equilibrio tra tecnologia e decisione umana, garantendo che le decisioni amministrative rimangano tracciabili e comprensibili, e che l’uso dell’IA sia sempre sotto il controllo diretto degli operatori umani.

Giustizia

Nell’attività giudiziaria i sistemi di intelligenza artificiale dovranno essere utilizzati esclusivamente per l’organizzazione e la semplificazione del lavoro giudiziario nonché per la ricerca giurisprudenziale e dottrinale. Il Ministero della giustizia disciplinerà l’impiego dei sistemi di intelligenza artificiale da parte degli uffici giudiziari ordinari. Per le altre giurisdizioni l’impiego è disciplinato in conformità ai rispettivi ordinamenti.

La nuova Governance italiana dell’intelligenza artificiale

Il Governo prevede la nomina dell’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) e dell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (ACN) come Autorità Nazionali per l’Intelligenza Artificiale (AI). Questa mossa rappresenta un passo significativo nel rafforzamento del quadro normativo nazionale e dell’Unione Europea in materia di AI, delineando specifiche responsabilità e poteri per queste due agenzie chiave.

La divisione delle responsabilità tra l’AgID e l’ACN è delineata per garantire una gestione efficace e una regolamentazione della tecnologia AI. L’AgID sarà principalmente responsabile della promozione dell’innovazione e dello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Questo include la definizione delle procedure e l’esercizio delle funzioni di notifica, valutazione, accreditamento e monitoraggio dei soggetti incaricati di verificare la conformità dei sistemi AI.

D’altra parte, l’ACN avrà un ruolo cruciale nella vigilanza dei sistemi di intelligenza artificiale, con un occhio particolare alla cybersicurezza. Sarà responsabile delle attività ispettive e sanzionatorie e collaborerà alla promozione dello sviluppo dell’AI, specialmente in termini di sicurezza informatica.

Un aspetto innovativo del disegno di legge è l’istituzione di un Comitato di coordinamento presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. Questo comitato, composto dai direttori generali delle due agenzie e dal Capo del Dipartimento per la trasformazione digitale, è incaricato di assicurare il coordinamento e la collaborazione con altre pubbliche amministrazioni e autorità indipendenti. Questo dovrebbe facilitare un approccio più integrato e sinergico nello sviluppo e nell’implementazione delle tecnologie AI.

Le due Autorità lavoreranno anche congiuntamente per istituire e gestire spazi di sperimentazione, cruciali per la realizzazione di sistemi di intelligenza artificiale conformi alla normativa. Questi spazi permetteranno di testare nuove soluzioni AI in un ambiente controllato, stimolando ulteriormente l’innovazione e l’adeguamento alle norme vigenti.

Restano ferme le competenze, i compiti e i poteri del Garante per la protezione dei dati personali.

Le modifiche al TUSMA: la “bollinatura” obbligatoria per i contenuti generati dalla IA

La normativa in questione prevede l’aggiunta di un articolo 40 bis al TUSMA secondo cui qualunque contenuto informativo — testuale, fotografico, audiovisivo e radiofonico — diffuso tramite piattaforme di servizi audiovisivi e radiofonici, che sia stato creato o alterato in modo significativo mediante l’utilizzo di intelligenza artificiale, debba essere chiaramente identificato come tale. Gli operatori dei media dovranno inserire un segno identificativo, come una filigrana o un annuncio audio, marcato con l’acronimo “IA”. Questo segno deve essere chiaramente visibile e riconoscibile dagli utenti, garantendo che ogni modifica o creazione assistita da IA sia immediatamente evidente.

Dettagli della Regolamentazione
L’identificazione è richiesta sia all’inizio che alla fine di ogni trasmissione o contenuto, così come dopo ogni interruzione pubblicitaria. Questo requisito assicura che gli spettatori siano costantemente informati della natura del contenuto che stanno consumando, aumentando la consapevolezza sull’uso dell’IA nei media. Tuttavia, la norma prevede alcune eccezioni importanti: i contenuti che rientrano nelle categorie di opere manifestamente creative, satiriche, artistiche o fittizie sono esentati dall’obbligo di inserimento del segno identificativo. Questa distinzione è cruciale per non soffocare la libertà creativa e satirica, fondamentale in una società democratica.

Promozione della co-regolamentazione
Successive disposizioni spingono verso una co-regolamentazione e autoregolamentazione tra i fornitori di servizi di media e le piattaforme di condivisione video. L’Autorità è incaricata di promuovere codici di condotta che aiutino a standardizzare e implementare queste nuove regole, assicurando che l’industria dei media aderisca efficacemente alle linee guida senza compromettere l’innovazione.

Intelligenza artificiale: nuovi reati e aggravanti nel Codice Penale e la delega per la revisione del Codice di Procedura Penale

Il DDL introduce modifiche significative alla disciplina penale per affrontare i rischi associati all’uso di sistemi di intelligenza artificiale in attività criminose. In particolare, si prevede un aumento delle pene per i reati commessi mediante l’impiego di sistemi di IA, considerati particolarmente insidiosi quando ostacolano la difesa pubblica o privata o quando aggravano le conseguenze del reato. Questo riflette la consapevolezza crescente della capacità dell’IA di intensificare le dinamiche criminali e di complicare l’azione delle forze dell’ordine.

Ampliamento delle tipologie di reato
La legislazione prevede anche l’introduzione di nuove fattispecie di reato e l’espansione delle circostanze aggravanti per coprire una gamma più ampia di abusi possibili tramite l’IA. Questi includono reati in cui l’IA è usata per propagare danni su larga scala o per compromettere beni giuridici specifici. L’intento è di offrire una risposta legale adeguata alla velocità e alla complessità delle minacce poste dall’uso malevolo dell’IA.

Aggravanti specifiche per manipolazione e disinformazione
Un aspetto critico del disegno di legge riguarda l’utilizzo dell’IA per manipolare o alterare informazioni sensibili, come i risultati delle elezioni. Viene introdotta una circostanza aggravante per chi usa l’IA per diffondere informazioni false che potrebbero alterare il risultato di competizioni elettorali, riflettendo casi già osservati in altre nazioni europee. Inoltre, la legge stabilisce pene severe, da uno a cinque anni di reclusione, per la diffusione illecita di contenuti generati o manipolati con IA, soprattutto se tali atti portano a danni ingiusti.

Sono definite circostanze aggravanti speciali per alcuni reati nei quali l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale abbia una straordinaria capacità di propagazione dell’offesa.
Infine, attraverso apposita delega, il Governo è chiamato a prevedere:

  1. strumenti tesi ad inibire la diffusione e a rimuovere contenuti generati illecitamente anche con sistemi di intelligenza artificiale, supportati da un adeguato sistema di sanzioni;
  2. una o più autonome fattispecie di reato, punite a titolo di dolo o di colpa, nonché ulteriori fattispecie di reato, punite a titolo di dolo, dirette a tutelare specifici beni giuridici esposti a rischio di compromissione per effetto dell’utilizzazione di sistemi di intelligenza artificiale;
  3. una circostanza aggravante speciale per i delitti dolosi puniti con pena diversa dall’ergastolo nei quali l’impiego dei sistemi di intelligenza artificiale incida in termini di rilevante gravità sull’offesa;
  4. una revisione della normativa sostanziale e processuale vigente, anche a fini di razionalizzazione complessiva del sistema.

Ambizioni e limiti della proposta del Governo

Benché rappresenti un passo significativo verso un quadro regolamentare più strutturato, il DDL solleva questioni fondamentali sulla sua efficacia pratica e sulla sufficienza dei finanziamenti previsti a sostegno di una tecnologia strategica per l’economia al pari di internet.

La norma si dimostra ambiziosa nel voler disciplinare l’IA nei 5 ambiti elencati: strategia nazionale, Autorità nazionali, azioni di promozione, tutela del diritto di autore e le sanzioni penali, tuttavia, l’ampiezza e la complessità delle applicazioni dell’IA presentano una sfida notevole per l’effettiva implementazione di tali principi. L’intelligenza artificiale, infatti, permea già una varietà di settori economici e istituzionali con dinamiche e complessità diverse, rendendo ardua l’applicazione uniforme di principi generali attraverso una “legge quadro” che non consideri le specificità di ogni ambito.

In termini di finanziamenti, la normativa prevede investimenti per un totale di 1 miliardo di euro nei settori dell’IA, della cybersicurezza e del quantum computing. Sebbene questa cifra possa sembrare considerevole, risulta modesta in confronto agli sforzi compiuti da altre nazioni europee. Ad esempio, la Francia ha destinato circa 7 miliardi di euro. Già questo confronto evidenzia una chiara discrepanza tra le ambizioni italiane e le risorse effettivamente allocate, suggerendo che l’Italia potrebbe restare indietro rispetto ai suoi vicini europei.

In conclusione, benché la bozza di normativa italiana sull’IA rappresenti un proclama di intenti lodevole, le sfide legate alla sua applicazione e il livello di finanziamento rispetto ad altri stati membri dell’UE sollevano interrogativi sulla sua capacità di trasformare principi in pratiche efficaci.

Sarà essenziale il confronto in Parlamento e con le parti sociali per il miglioramento del DDL in fase di approvazione, ma anche un continuo aggiornamento e adeguamento della legge per mantenere il passo con l’evoluzione rapida e complessa dell’intelligenza artificiale nella vita sociale ed economica del Paese.

Per affrontare il concetto dell’insolito, ecco un elenco di 10 film che hanno questo come tema centrale: il confine, a volte labile, tra realtà e sogno, tra realtà e immaginazione (o delirio).

Donnie Darko” – Un film psicologico che mescola elementi di fantascienza e mistero, seguendo le vicende di un giovane problematico che entra in contatto con un coniglio gigante che lo informa della prossima “fine del mondo”.

Mulholland Drive” – Una trama intricata e surreale che segue le vite intrecciate di diverse persone a Los Angeles. David Lynch esplora i temi di identità, di sogno e realtà nel “patinato” mondo di Hollywood

Eyes Wide Shut” – Un dramma erotico diretto da Stanley Kubrick che segue un medico, interpretato da Tom Cruise, che si immerge in un mondo segreto e oscuro dopo aver scoperto i desideri sessuali della moglie.

Being John Malkovich” – Una commedia surreale che segue un pupazzo burattino scoperto da un impiegato di ufficio che permette alle persone di entrare nella mente dell’attore John Malkovich per quindici minuti alla volta.

Inception” – Un racconto di fantascienza diretto da Christopher Nolan che esplora il concetto delle intrusioni nei sogni umani per influenzare le decisioni delle persone nel mondo reale. Sottolineo la grande interpretazione fatta da Leonardo di Caprio.

La Città Incantata” (Spirited Away) – Il genio del maestro Miyazaki ha realizzato questo viaggio onirico fatto da una giovane ragazza intrappolata in un mondo misterioso e magico abitato da spiriti e creature straordinarie.

Il Sesto Senso” (The Sixth Sense) – Un thriller psicologico diretto da Shyamalan, che ci permette di seguire un bambino che afferma di poter vedere e comunicare con i morti, seguito da uno psicologo, interpretato magistralmente da Bruce Willis.

Donnie Brasco” – Un film basato sulla vera storia di un agente dell’FBI infiltrato nella mafia. Di insolito (oltre al lavoro dell’infiltrato, ovviamente) c’è il legame che si sviluppa con uno dei criminali sui quali sta indagando.

The Lobster” – Una commedia nera surreale che presenta una società in cui le persone single vengono trasformate in animali se non riescono a trovare un partner entro un certo periodo di tempo.

Her” – Un film di fantascienza romantico che segue un uomo solitario che si innamora di un sistema operativo dotato di intelligenza artificiale, portando alla luce domande su amore, solitudine e connessione umana.

Ma voglio anche aggiungere, come undicesimo suggerimento, un film che ha più di 80 anni.
Vogliamo Vivere!” (il titolo originale è “To Be or Not to Be”…e guardando il film si capirà il non-sense del titolo italiano) è un’opera di Lubitsch, realizzato nel 1942. E il film è ambientato proprio in quell’anno.
Cosa ci fa Hitler a Varsavia, proprio nella Polonia martoriata dalle truppe tedesche, durante l’occupazione nazista, così a passeggiare da solo per le strade della città?

Sebbene il titolo faccia pensare ad un film sulla resistenza polacca e l’inizio faccia pensare ad un film di guerra, si tratta di una commedia molto simpatica e godibile. Perché – e questo è il tema insolito – anche durante uno dei momenti più cupi della Seconda Guerra Mondiale, che è uno dei momenti bui della storia umana, si può realizzare un racconto, che mescola la satira con il dramma della guerra.

Sì, così con due “z”.
Così Trilussa intitolò un sonetto con il quale raccontava l’elezione del 1912.
Roma all’epoca era tutta un’altra cosa, era stata “invasa” dai Piemontesi. Erano lontani i bombardamenti e le atrocità della Prima Guerra Mondiale ma si sentivano ancora gli echi della Breccia di Porta Pia: il Papa era chiuso nelle mura del Vaticano e si viveva in una situazione dove il riconoscimento era unilaterale, quello che, “umanamente”, potremmo definire rancoroso.
Non a caso utilizzo l’aggettivo “invasa” per Roma, perché anche per i romani più liberali e progressisti, la nuova Intellighenzia risultava essere quasi aliena, completamente “di importazione”.
Per dare un riferimento, solo l’anno prima fu inaugurato il Monumento a Vittorio Emanuele II, quello che ora chiamiamo il Vittoriano o l’Altare della Patria, per commemorare i 50 anni dell’Unità d’Italia che era – appunto – un corpo estraneo nella normale struttura urbanistica romana. Per completezza, una seconda inaugurazione si ebbe poi nel 1935 a conclusione di altri lavori che avevano demolito un intero quartiere e messo in luce altri reperti storici per realizzare Viale dell’Impero (ora Viale dei Fori Imperiali).

Nel 1912, dicevo, si svolsero le elezioni politiche e questa è la poesia che Trilussa, con il suo tono tagliente e sarcastico, dedica a quel momento.

Pubblico il sonetto perché fra pochi giorni, l’8 e il 9 Giugno, si svolgeranno le elezioni europee.
  

Trilussa_15

L’Elezzione
 
Se nun pagava sprofumatamente
te pensi che votava quarchiduno?
Nu’ j’è tornato conto a fa’ er tribbuno,
povero amico! Adesso se la sente!
E spenni e spanni, nu’ lo sa nessuno
li voti ch’ha comprato! Solamente
quelli der Commitato Indipendente
je so’ costati trenta lire l’uno!
Fra pranzi, sbruffi e spese elettorali,
c’è Pietro lo strozzino che cià in mano
quarantamila lire de cambiali!
Un’antra de ‘ste sbiosse, bona notte!
La volontà der popolo sovrano
je costa cara quanto una coccotte!

“GUARDA L’AMORE CHE FA” e’ il titolo del nuovo evento organizzato in memoria del cantautore romano Enrico Boccadoro, scomparso nel Novembre del 2017, che si terra’ il 9 Giugno alle ore 21.00 presso il Teatro degli Eroi di Roma.

L’incasso servirà per supportare, tramite un app che si chiama SM-APP , le condizioni di vita delle persone affette da Sclerosi Multipla. Il tutto in collaborazione con il Policlinico Umberto I di Roma.

Sul palco si alterneranno artisti del mondo della musica e dello spettacolo , diretti dal regista Pier Luigi Nicoletti.

Il coordinamento dell’evento sarà a cura di Paola Nicoletti, Loredana Caracausi e Fabio Forlano.

La conduzione della serata sarà invece affidata al comico/presentatore Stefano Masciarelli . Ecco di seguito gli ospiti della serata: Francesca Alotta, Nadia Natali, Maria Corso, Franco Fasano, Davide Mottola, Alex di Luca, Valentino Prato e Fabrizio Gaetani.

Quante volte l’eco di questa affermazione ha infilzato cuori e intriso di dubbi e ombre il rapporto più splendente pensavamo ci fosse?

Forse scrivendone mi si rivelerà una spiegazione vagamente plausibile.

Un incontro romantico, di quelli che stenti a credere possa davvero accadere: attrazione, poesia, condivisioni e visioni di vita molto compatibili. La fusione fisica, no, che dico, la compenetrazione quasi magica di corpo e anima. Wow, si parte per una nuova fase di vita, si comincia ad immaginare un tratto comune di avventura e progetto! Lo guardi negli occhi, mentre lui decanta i tuoi polsi fini e le tue dita affusolate, baciandoti le mani e dedicandosi a farti sentire amata e rispettata. E tu, che sei trasparente e senza filtri, gli dici ti amo, ormai è fatta, siamo noi. Qualche raro momento di dubbio c’è, ma non lo si vuole ascoltare, tutto troppo bello e appagante, soprattutto per chi attende da tempo il compagno della vita. Si parla, ci si racconta, ma settimana dopo settimana viene agli occhi una differenza: è questione di avere un carattere più riservato? Di certo io non ho diritto di cambiare nessuno, se lui tende a non aprirsi su alcune cose va bene, lo rispetto. D’altra parte sono io ad essere troppo aperta, una cascata di tutto che viene fuori senza controllo. Però questo aspetto non lo riconosco come fattore di unione, che ci posso fare? Vado avanti senza pregiudizi e osservo. Riconoscersi come coppia in innumerevoli aspetti, ma in quello del “dirsi le cose”, no, divario. L’amore e il trasporto però mettono la questione in secondo piano, procediamo! Amore, ti voglio raccontare questo: bla, bla, bla…cosa ne pensi? E tu? Come ti senti al riguardo? Via, grande abilità nello sviare il discorso se questo tende a portare in una posizione di osservazione a 360 gradi. Ok, aspettiamo, ma te lo dico, non mi riconosco in una relazione dove ci sono ostacoli al fluire del dialogo, al fluire della verità. Ci accordiamo: io smetto di chiederti, per rispetto, continuo ad essere aperta come da mio carattere e tu, sapendo che amo la trasparenza, se ti senti cercherai di venirmi incontro. Una specie di accordo. Io accetto qualunque tua cosa e situazione, ma nella trasparenza, ok? Accordo raggiunto. Un amore intenso e viscerale, siamo noi, apici di sessualità preziosa. Non mi risponde al telefono. Lo so già, è così, mi ha mentito. Non soffro, semplicemente scende il gelo, anzi, la glaciazione. Attendo la mattina dopo, così, tanto per avere una conferma a livello pratico, la cosa ormai in ogni caso è andata. Il messaggio di risposta rivela il permanere di poca trasparenza. Non lo riconosco più, non lui, che non ha fatto nulla di grave, non riconosco più l’amore che intendo io. Troppo drastica, troppo severa? Sicuramente, e me ne dispiace, ma non è in mio potere cambiare il mio sentire nei suoi confronti. Ci si riconosce e poi, ci si disconosce, accade anche questo.

Quante volte possiamo dire di aver ascoltato pensieri liberi, parole schiette, lettere circolanti nelle vene, che di sangue si nutrono e che il sangue nutrono?

Quante volte i nostri battiti hanno bussato sul petto riconoscenti di un’emozione inattesa, di uno scorcio poetico, di un frammento sottratto alla menzogna, dipinto di purezza, di autentica genuinità?

I giorni, questi giorni che trasciniamo come file di valigie pesanti, cercano angoli di pace dove rifugiarsi, dove scoprire che non tutto è il frutto di un inganno, di un artificio, di una costruzione occasionale.

La verità, questa sconosciuta. Siamo sicuri che tale vocabolo esita ancora all’interno di un dizionario? Forse in quello dei nostri nonni.

Cosa possiamo saperne degli altri? Quale diritto, quale potere, quale privilegio ci è concesso per esprimere un giudizio su qualcuno?

Cosa possiamo saperne noi di quanta profondità c’è in una superficie?

Il vestito che prende la nostra forma racconta forse di noi?

E noi stessi… cosa possiamo saperne noi di noi stessi? Siamo così certi della nostra identità? Sono sufficienti la nostra patente di guida, il nostro passaporto, o un documento rilasciato dal comune di residenza per raccontare chi siamo?

Quante volte possiamo scoprire il racconto di una vita?

Si nasce una volta sola. Si può morire molte volte. Si può rinascere.

Si può decidere di sopravvivere.

Si può decidere di vivere.

Chi ha il coraggio di raccontarlo? Chi si spoglia di ogni indumento? Chi ti mostra la sua nudità? Chi si getta tra le fiamme di un mare sconosciuto?

Quante volte abbiamo la fortuna di incontrare due occhi limpidi?

Bene. Una volta incontrati si ringrazia perché ciò sia accaduto.

Si può restare in silenzio. Si può decidere di urlarlo al mondo intero. Si può decidere di suonare al campanello del vicino di casa, che fino a qualche ora prima ignoravi o facevi finta di ignorare. Svegliarlo dal suo e dal nostro sonno.

Ma, soprattutto, bisogna ricordarsi che esistono. E che ti hanno guardato. Senza chiederti niente. Illuminandoti. Senza nulla in cambio.

Dovremmo aver cura degli occhi limpidi che incontriamo e che incontreremo nel nostro percorso. E dovremmo aver cura delle parole che questi occhi hanno scritto.

Dovremmo averne rispetto. Perché questi occhi e loro parole hanno il sapore forte e fragile del coraggio, l’odore acre e tenero della paura. Succhiano il nettare dell’inesprimibile. Combattono il duello di ogni consapevolezza, sfidano il rischio di ogni certezza.

Respiriamo, annusiamo, stropicciamo, nutriamoci…

Facciamo diventare ogni sguardo calcio per le nostre ossa, muscoli per la nostra carne, cristallino per i nostri occhi.

Già, i nostri occhi.

Se sapremo leggere, non saranno più gli stessi.

La fase dello specchio è un concetto centrale nella teoria psicoanalitica di Jacques Lacan, che offre una visione unica e provocatoria sull’origine e lo sviluppo dell’identità individuale. Secondo Lacan, la fase dello specchio è un momento cruciale nella formazione della coscienza e dell’immagine di sé, che si verifica nei primi mesi di vita di un bambino.

Durante questa fase, il bambino si trova di fronte a uno specchio e osserva la sua immagine riflessa. Lacan sostiene che in questo momento il bambino percepisce se stesso come un’unità coerente e completa, nonostante la sua mancanza di consapevolezza completa del proprio corpo e delle proprie capacità motorie. Questa percezione unitaria è creata attraverso l’identificazione con l’immagine riflessa, che diventa il punto di riferimento per la formazione dell’identità.

Tuttavia, Lacan sottolinea che questa immagine riflessa non corrisponde alla realtà oggett

iva del bambino, ma piuttosto rappresenta un’idealizzazione o una proiezione dell’io desiderato. In altre parole, il bambino non si identifica con la sua vera immagine corporea, ma con un’immagine idealizzata di sé stesso, conforme agli ideali culturali e sociali dominanti.

Ciò che rende la fase dello specchio così significativa è che Lacan la interpreta come il momento in cui l’individuo entra nell’ordine simbolico, abbandonando l’illusione di completezza e unità e affrontando la frammentazione e la mancanza che caratterizzano l’esperienza umana. Questo processo segna l’inizio della costruzione del sé come soggetto linguistico e sociale, poiché l’identificazione con l’immagine riflessa implica anche l’internalizzazione delle norme e dei valori della cultura circostante.

Tuttavia, la fase dello specchio non è solo un momento di integrazione e riconoscimento, ma anche di alienazione e perdita. Lacan suggerisce che l’immagine riflessa diventa un oggetto di desiderio e idealizzazione, alimentando un senso di inadeguatezza e insoddisfazione che permea la vita adulta. In questo senso, la fase dello specchio è anche il momento in cui l’individuo sperimenta la divisione tra il sé ideale e il sé reale, dando origine a tensioni e conflitti interni che influenzano il suo sviluppo psicologico e le sue relazioni interpersonali.

In conclusione, la fase dello specchio rappresenta un momento cruciale nella formazione dell’identità individuale, segnando il passaggio dall’unità illusoria alla consapevolezza della mancanza e della frammentazione che caratterizzano l’esperienza umana. Attraverso l’identificazione con l’immagine riflessa, l’individuo entra nell’ordine simbolico, iniziando il processo di costruzione del sé come soggetto linguistico e sociale. Tuttavia, questa identificazione porta anche con sé un senso di alienazione e insoddisfazione, poiché l’immagine riflessa diventa un oggetto di desiderio e idealizzazione, creando tensioni e conflitti interni che influenzano la vita adulta dell’individuo.

Tema davvero molto delicato quello del riconoscere e del riconoscersi. Tema delicato perché riguarda l’individuo e quello che ha intorno, riguarda la propria esperienza di vita e riguarda la sfera decisamente personale, quella idiosincrasia che è peculiare dell’individuo.
Pensando a come descrivere questo viaggio personale, mi è venuto in mente che uno dei modi sarebbe potuto essere quello di dare uno sguardo a quelle varie “interpretazioni” che – per forza di cose – cerca di farsi “messaggio universale”, ossia il Cinema: come il Cinema ha trattato, negli anni, questo tema.

Ecco 10 film che potrebbero esprimere al meglio tutto quello che io, con le mie sole parole, non riuscirei mai ad esprimere. Più un bonus al quale sono particolarmente legato.

1) “The King’s Speech” (2010) – Si concentra sulla lotta di un re per superare il suo balbettio con l’aiuto di un terapeuta non convenzionale.

2) “Girl, Interrupted” (1999) – Basato su una storia vera, il film esplora la vita in un ospedale psichiatrico e le relazioni tra i pazienti.

3) “Little Miss Sunshine” (2006) – Una commedia che segue una famiglia disfunzionale in un viaggio verso un concorso di bellezza, affrontando le loro debolezze e rafforzando i legami familiari.

4) “American Beauty” (1999) – Affronta temi di identità, desideri repressi e crisi di mezza età attraverso i personaggi principali.

5) “Eternal Sunshine of the Spotless Mind” (2004) – Un film che esplora le complessità delle relazioni e la memoria emotiva.

6) “Good Will Hunting” (1997) – Racconta la storia di un giovane prodigio che affronta i suoi traumi emotivi con l’aiuto di un terapeuta.

7) “Silver Linings Playbook” (2012) – Segue le vite di due persone che cercano di affrontare i propri problemi mentali e le loro relazioni interpersonali.

8) “A Beautiful Mind” (2001) – Basato sulla vera storia di John Nash, un genio della matematica che combatte contro la schizofrenia.

9) “The Perks of Being a Wallflower” (2012) – Esplora le difficoltà dell’adolescenza e la ricerca di identità attraverso il protagonista Charlie.

10) “Inside Out” (2015) – Un film d’animazione che personifica le emozioni per esplorare il processo di crescita emotiva e l’accettazione di sé stessi.

Il bonus è il film di François Truffaut “I 400 colpi”: il racconto – poetico e diretto – del passaggio della fanciullezza all’età adulta di Antoine, un ragazzo di 12 anni.
Mi piace pensare di chiudere questo articolo, con la stessa immagine che chiude il film, con lo sguardo fisso verso la camera, verso lo spettatore, con il rumore delle onde del mare che fanno da musica di sottofondo.

“Ne usciremo migliori”, si diceva, ma a più di 3 anni dal momento da quando lo slogan fu coniato ci sentiamo particolarmente lontani da come eravamo prima del Covid-19 e sembra che il raggiungimento di un equilibrio non sia affatto un processo semplice. Per avere un’idea più completa, ho contattato una persona che – per lucidità di visione e per professionalità – avesse la capacità di aiutarmi in questo percorso: Emilio Mordini.

(Foto dell’Ospite)

Emilio Mordini è laureato in medicina e in filosofia, si è formato come psicoanalista ed è stato tra i primi psicoterapeuti medici abilitati dall’Ordine dei Medici di Roma. Esercita l’attività clinica come psicoanalista da circa quarant’anni. I suoi interessi scientifici si focalizzano sui rapporti tra individuo e inconscio sociale e sulla nozione di Einheitpsychose. Dal 1994 al 2005 Emilio Mordini ha insegnato bioetica presso la II Scuola di Specializzazione in Ostetricia e Ginecologia dell’Università di Roma La Sapienza. Negli stessi anni è stato membro e segretario scientifico della Commissione di Bioetica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), membro della Commissione di Bioetica dell’ Ordine dei Medici di Roma, tesoriere e segretario generale dell’ Associazione Europea dei Centri di Etica Medica (EACME), membro del Consiglio di Amministrazione dell’International Association of Bioethics (IAB), membro del Comitato Etico e docente nei corsi di etica della Società Italiana di Psichiatria (SIP) e ha tenuto corsi di bioetica e di psicoanalisi in varie università italiane e straniere. Dal 2002 al 2013 Emilio Mordini ha diretto il Centro per la Scienza, la Società e la Cittadinanza (CSSC) di Roma, per conto del quale ha partecipato come principale investigatore o coordinatore a più di trenta progetti di ricerca internazionali promossi dalla Commissione Europea e ha diretto due workshop del programma Science for Peace della NATO. Nello stesso periodo è stato membro di vari comitati di esperti della Commissione Europea e delle sue agenzie. Dal 2014 al 2020 ha diretto Responsible Technology, una società di consulenza con sede a Parigi. Attualmente è research fellow dell’Health and Risk Communication Center dell’Università di Haifa in Israele.  Nell’Unione Europea, presta la sua opera nel CERIS Expert Group (Community for European Research and Innovation for Security).  Fa parte del comitato editoriale di numerose riviste scientifiche internazionali, tra le quali il “Journal of Ethics in Mental Health”, “IET Biometrics“, “Somatotechnics” e la “Revue Française d’éthique appliquée”. Ha pubblicato più di centosessanta articoli e monografie su riviste scientifiche internazionali, numerosi articoli divulgativi e curato quattordici volumi collettanei. È socio di varie società scientifiche, tra cui la Società Italiana di Psichiatria (SIP) e l’Association for the Advancement of Philosophy and Psychiatry (AAPP).  Raggiungo telefonicamente il professore in Friuli, a San Vito al Tagliamento, un paese tra Venezia e Trieste, dove ora vive ed esercita la sua attività clinica.

Domanda:
Com’è la situazione degli italiani dopo il covid riguardo alla loro salute psicofisica? In questi anni c’è stato un investimento importante, anche con il così detto “bonus psicologi” ma questa iniziativa è servita o no? Com’è lo stato attuale?

Risposta:
Le posso rispondere come medico e psicoanalista, non come epidemiologo, cioè le posso parlare di mie impressioni e riflessioni, non di dati statistici. Dal mio punto di vista, non ritengo che il Covid abbia cambiato molto la salute degli italiani. Eventualmente quello che ha cambiato la salute degli italiani, e non solo quella mentale, è il progressivo degrado dei servizi sanitari che era già in corso ben prima del Covid e che con l’epidemia ha avuto un’accelerazione. Il COVID è stato preso a pretesto per promuovere tutta una serie di processi di trasformazione che erano già in corso ma che avrebbero avuto – senza epidemia – tempi ben più lunghi.  Il primo e più importante processo è stata una progressiva e massiccia digitalizzazione dei servizi sanitari pubblici e privati. La digitalizzazione e l’automazione della sanità permettono di ridurre in modo drastico i costi (che sono per la gran parte imputabili ai costi del personale) e migliorare l’efficienza complessiva del sistema. Però ci sono anche aspetti negativi.

Quali?

Sta accadendo alla sanità quello che è già accaduto in altri settori (si pensi ad esempio al mondo dei servizi bancari e finanziari dove le agenzie bancarie funzionano praticamente senza personale) e che sta accadendo nel mondo dell’istruzione e dell’educazione, con la didattica a distanza e la formazione online. L’obiettivo è quello di arrivare a una sanità “ad alta automazione”, un po’ come quei caselli autostradali privi di ogni presenza umana. Per realizzarsi un processo del genere, è stato necessario però il realizzarsi di alcune condizioni.

A cosa si riferisce?  
Le farò un discorso un po’ lungo per cui le chiedo scusa. Sono convinto, però, che il momento che stiamo attraversando sia una svolta storica non solo nel modo in cui si esercita la professione medica ma nell’idea stessa di salute e nella funzione politica e sociale del concetto di salute.

(Immagine dell’Ospite)

La medicina è stata per secoli, dalla sua nascita sino alla seconda metà dello scorso secolo, soprattutto “artigianato”, basato sulle conoscenze cliniche, sull’esperienza e intuizione dei singoli medici e delle équipe curanti. Era una medicina che sbagliava spesso, curava poco, difficilmente evitava la morte e che era guardata con diffidenza dai pazienti, anche se l’alternativa erano solo maghi e fattucchiere che erano ancora peggio. Ci fu poi, agli inizi del 1900, il periodo dei grandi clinici e della medicina ospedaliera di massa: le cose cominciarono ad andare un po’ meglio anche grazie a farmaci più efficaci, alla scoperta dell’asepsi in chirurgia, all’avvento dei vaccini. Però, sino a dopo alla Seconda guerra mondiale, non è che i medici riuscissero a salvare molte vite. Spesso i trattamenti non erano efficaci se non addirittura dannosi.
Nel ventennio tra il 1950 e il 1970, avvennero due fatti fondamentali tra loro correlati: da un lato l’industria farmaceutica divenne un colosso produttivo con un’influenza finanziaria crescente, dall’altra si affermò l’idea di provvedere tutti i cittadini con un’assicurazione sanitaria, prevalentemente pubblica in Europa, principalmente privata negli USA. Nacque, cioè, il concetto di “diritto alla salute” che, come altri “diritti sociali”, fu la risposta del blocco sovietico alla critica che gli rivolgevano gli stati occidentali. Nazioni e forze politiche che si riferivano più o meno al mondo comunista iniziarono a contrapporre ai “diritti civili e politici” tutta una serie di altri diritti, “sociali” appunto, come il “diritto alla salute”. Questo diritto divenne un principio fondante l’Organizzazione Mondiale della Sanità e, in genere, tutte le organizzazioni delle Nazioni Unite, così come divenne centrale per le grandi socialdemocrazie europee e la nascente Unione Europea. In questo mondo fondato sul diritto universale alla salute (e dominato dalle case farmaceutiche) poteva andare ancora bene la vecchia medicina clinica e ospedaliera degli inizi del 1900?  Ovviamente, non poteva. Serviva una medicina di massa, territoriale (i cui costi farmaceutici crescenti fossero affrontati dai servizi sanitari pubblici o privati e fatti ricadere sull’intera collettività) e basata su metodi di validazione statistici, cioè una medicina che avesse come obiettivo non tanto lo stato di salute del singolo paziente quanto della comunità considerata nel so insieme. Nasce così, verso la fine degli anni 1970, la cosiddetta “medicina basata sull’evidenza” (EBM).
La 𝗘𝗕𝗠 𝗮𝗳𝗳𝗲𝗿𝗺𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝗻𝗲𝘀𝘀𝘂𝗻𝗮 𝗽𝗿𝗼𝗰𝗲𝗱𝘂𝗿𝗮 𝗱𝗶𝗮𝗴𝗻𝗼𝘀𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗼 𝘁𝗲𝗿𝗮𝗽𝗲𝘂𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗱𝗲𝗯𝗯𝗮 𝗿𝗶𝘁𝗲𝗻𝗲𝗿𝘀𝗶 𝘃𝗮𝗹𝗶𝗱𝗮𝘁𝗮 se non dopo un’esperienza empirica che la sostanzi. Nei fatti si rigetta ogni appello al principio d’autorità (“l’ha detto quel medico, quindi deve essere vero”), così come ogni convinzione aneddotica (“nella mia esperienza ha sempre funzionato”, “ci sono numerosi casi in cui sembra essere efficace”), invece ci si rifà rigorosamente a osservazioni controllate, alla riproducibilità delle esperienze, al consenso tra specialisti.  Il movimento della EBM si presenta, quindi, come un grande movimento, che non si oppone pregiudizialmente a nessuna pratica medica, né quelle convenzionali, né a quelle non-convenzionali, ma pretende che ogni trattamento che si proclami “efficace” sia sottoposto a un rigoroso controllo. 𝗜 𝘀𝗼𝘀𝘁𝗲𝗻𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶 𝗱𝗲𝗹 𝗺𝗼𝘃𝗶𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝗵𝗮𝗻𝗻𝗼 𝗱𝗶𝗰𝗵𝗶𝗮𝗿𝗮𝘁𝗼 𝗰𝗵𝗲 𝘀𝗼𝗹𝗼 𝗹𝗮 𝗘𝗕𝗠 𝗽𝘂𝗼̀ 𝗰𝗼𝗻𝘀𝗲𝗻𝘁𝗶𝗿𝗲 𝗮𝗹 𝗽𝗮𝘇𝗶𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗱𝗶 𝗮𝗰𝗰𝗲𝗱𝗲𝗿𝗲 𝗮𝗱 𝗶𝗻𝗳𝗼𝗿𝗺𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗼𝗯𝗶𝗲𝘁𝘁𝗶𝘃𝗲 e non di parte, perché medici e pazienti si troverebbero a disporre di una stessa fonte neutrale di informazioni. Medici e pazienti sarebbero messi in grado, di decidere insieme, su base paritaria. Nelle intenzioni proclamate, l’EBM dovrebbe fondare un meccanismo razionale e condiviso di distribuzione delle cure, evitando diseguaglianze tra gli utenti e impedendo lo spreco di risorse su trattamenti inefficaci quando non addirittura nocivi. Agli inizi degli anni 2000, l’EBM si afferma universalmente come standard delle cure mediche e, nel ventennio successivo, diventa progressivamente la sola filosofia accettata dai servizi sanitari pubblici e privati, dalle società scientifiche mediche e dalle istituzioni sanitarie statali. La funzionalità dell’EBM sembra essere testimoniata dai risultati: dove è stata adottata, il livello complessivo di efficacia delle cure mediche è aumentato, almeno secondo tutti gli indicatori statistici. Il problema, però, è proprio questo: la EBM è una medicina fatta da manager sanitari per manager sanitari e politici che hanno bisogno di citare numeri; non è una medicina per i pazienti a cui importa poco che le statistiche migliorino se loro, come singoli individui, ricevono servizi sempre più spersonalizzati e anonimi.   
In questi ultimi vent’anni, è accaduto un altro importante fatto, che non ha riguardato solo la medicina ma che sta avendo sul mondo sanitario un impatto devastante. Mi riferisco alla crescente capacità di catturare, immagazzinare, interconnettere e processare quantità enormi di informazioni. Tutto ciò è diventato possibile man mano che la tecnologia ha permesso di trasformare informazioni qualitative in quantitative, detto in maniera più semplice: via via che la tecnologia ha creato strumenti per misurare ogni cosa ed esprimere in dati numerici qualsiasi evento. Questo processo è quello che è chiamato comunemente “digitalizzazione” (termine preso dall’inglese che significa, letteralmente, “numerizzazione” così come infatti lo traducono i francesi). Questa capacità, che è cresciuta di giorno in giorno con una velocità impensabile sino a qualche tempo fa, ha generato un approccio scientifico (anche alla medicina) molto diverso da quello tradizionale: la cosiddetta “scienza dei dati”. Una delle caratteristiche principali della “scienza dei dati” è la sua capacità di produrre “previsioni senza comprensione”. La scienza convenzionale, quella che era nata nel 1600 con Galileo Galilei, era deterministica, cioè, mirava a produrre spiegazioni basate sul principio di causalità (A causa B = B è un effetto di A). La scienza moderna (quella che si era affermata nel 1900) era invece probabilistica, cioè si basava si basava ancora sul principio di causalità, ma ammetteva un certo grado di incertezza. Nella scienza probabilistica (come era, agli inizi, anche quella della “Medicina Basata sull’ Evidenza”) si cercavano correlazioni statistiche e, una volta scoperte, si cercava di stabilirne le cause più probabili. Questa ipotesi causale veniva confrontata di nuovo con i dati empirici e il processo veniva ripetuto fino a quando non si era in grado di arrivare a una qualche comprensione dai dati (il verificarsi di A è strettamente associato al verificarsi di B = ci sono x probabilità che A provochi B).  
La scienza dei dati è simile alla scienza probabilistica in quanto anch’essa ricerca correlazioni e modelli, ma non è più interessata a trovare un senso, cioè, a stabilire relazioni di causa-effetto. La scienza dei dati, proprio perché la tecnologia le mette a disposizione una quantità di informazioni enorme, si accontenta di individuare configurazioni di fatti (al fatto A segue prima o poi il fatto B).  La scienza dei dati non si interessa delle cause: si limita a identificare i primi segnali della comparsa di un fatto in modo tale che si possa agire preventivamente. Applicata alla medicina, questa scienza produce la “medicina post-COVID” che stiamo imparando a conoscere. Si tratta di una medicina che può essere considerata l’evoluzione della EBM. Come la Medicina Basata sull’Evidenza, anche la medicina basata sulla scienza dei dati non si interessa alla clinica ma analizza grandi numeri di pazienti. L’obiettivo, però, non è soltanto quello di modificare le condizioni di salute di una comunità, ma di riuscire ad applicare modelli matematici e statistici generali anche ai singoli casi. Questo diventa possibile non perché si individuino specifiche correlazioni causali e fisiopatologiche, ma perché si identificano pattern da cui trarre indicazioni specifiche di azioni da compiere per ottenere il risultato voluto. Per spiegarlo in un modo più semplice e forse comprensibile: la medicina basata sulla scienza dei dati è molto simile al modo in cui funzionava il “servizio pre-crimine” in un film di fantascienza di qualche anno fa, Minority Report.

Quindi il degrado della medicina post-COVID sarebbe la conseguenza della “medicina Minority Report”?

Quello che le ho descritto è il processo principale, le cui conseguenze, però, sono poi il frutto del concomitare di altri sottoprocessi. Via via che la medicina statistica e poi quella basata sui dati hanno preso il sopravvento, è diminuita parallelamente l’importanza del fattore umano e quindi della preparazione del personale sanitario, dei medici in particolare.
Stiamo assistendo a una progressiva de-professionalizzazione dei medici che ha almeno tre componenti. La prima, più generale, riguarda la qualità della formazione fornita dalla scuola primaria e secondaria. I giovani giungono al momento della scelta universitaria in una condizione di ignoranza impensabile qualche decennio fa. Il COVID, con la didattica a distanza, ha portato agli estremi questo processo di disfacimento educativo. Spesso i “nuovi medici” sono persone di un’ignoranza generale che fa rabbrividire. Sono persone che non hanno mai letto un’opera letteraria in vita loro, che non hanno mai visto un film che non sia prodotto da Netflix o simili, che non hanno mai visto uno spettacolo teatrale che non sia quello di un comico televisivo, che si informano su Instagram, che ascoltano i Måneskin e vestono Zara. Non differiscono, in questo, dai loro coetanei che fanno altre professioni. Ma fossero, ad esempio, ingegneri potrebbero forse essere decenti professionisti lo stesso; invece, è impossibile che lo siano facendo il medico.  Senza l’esperienza formativa di quelle nel mondo anglosassone sono chiamate “humanities”, cioè le scienze umane, e senza essere stati formati artigianalmente da un maestro, che li abbia accompagnati al rapporto diretto con il malato, questi giovani medici mancano i fondamenti umani e psicologici per curare un paziente.  Del resto, la loro funzione nei sistemi sanitari moderni perde sempre più di importanza e il fatto che mancano delle necessarie qualità umane non è avvertito dagli amministratori come un problema di cui preoccuparsi.
A questo si aggiunge un secondo processo: la superspecializzazione e l’ignoranza degli aspetti della medicina diversi dal proprio.  I giovani medici conoscono (quando conoscono) il loro settore specialistico ma quasi ignorano tutto il resto, sia perché lo hanno studiato poco e male già durante il corso di laurea, sia perché – diventati medici – se ne disinteressano completamente. Si arriva così alla situazione attuale in cui i pazienti non hanno più un medico che voglia e sappia seguirli complessivamente, ma liste di specialisti interessati all’organo o apparato di loro competenza, come fossero carburatoristi o elettrauto. Questi medici super-specialisti si integrano perfettamente nel sistema della medicina tecnologica basata sui dati, perché diventano loro stessi simili a macchine o a esami di laboratorio: si trasformano in “generatori di informazione medica” che sarà poi analizzata da altri o, sempre più spesso, dagli algoritmi dell’intelligenza artificiale. In questo senso, è quasi meglio che non pensino e non si prendano cura del paziente: altrimenti disturberebbero i veri decisori che non sono più loro ma le macchine (in teoria – nel sistema italiano – il medico che riunisce tutte le informazioni ci dovrebbe essere ed è il medico di base, ma spesso questa è solo un’illusione. Purtroppo, i medici di base finiscono di frequente a essere burocrati che smistano il paziente tra vari specialisti ed esami, cercando di contenere i costi).
Infine, c’è un terzo processo che spiega la perdita di qualità professionale di molti giovani medici. Mi riferisco alla crescente produzione di linee guida e protocolli di cura. Questo fenomeno è direttamente legato alla medicina basata sull’evidenza e alla sua moderna versione basata sui dati. Più, infatti, le decisioni mediche scaturiscono non dalla clinica ma dall’analisi biostatistica di informazioni fornite da macchine, più è logico che queste decisioni si basino su alberi decisionali e algoritmi. A ciò si aggiungano una serie di ragioni medico-legali e amministrative, che – in Italia anche attraverso specifiche leggi nel 2014 e 2016 – hanno sempre più vincolato i medici all’osservanza di protocolli e le linee guida stabilite da istituzioni scientifiche statali, quali l’Istituto Superiore di Sanità o il Ministero della Sanità, e società scientifiche riconosciute. La legge lascia un margine di discrezionalità ai medici, che hanno ancora in teoria la libertà di cura.  Tuttavia, se un medico si discosta da protocolli e linee guida, deve giustificare questo scostamento e sincerarsi che il paziente sia d’accordo con queste sue scelte. Questo principio, la necessità di un consenso informato ogni qual volta un medico non segua linee guida fissate, è in teoria comprensibile, non fosse che spesso un malato avrebbe voglia di dover non essere chiamato a decidere ma di avere consiglio. A tutto ciò si aggiungono una serie di problematiche amministrative e contrattuali specifiche per i medici che lavorano nel sistema sanitario nazionale, i quali – se non rispettano protocolli e linee guida – corrono il rischio di perdere le proprie coperture assicurative ed esser soggetti a provvedimenti disciplinari.

Ma lei, dunque, è contro le “linee guida”?

No, assolutamente. Possono essere utilissime affiancate al ragionamento clinico. La questione è che ogni essere umano è un caso a sé stante e va valutato come tale. Che cosa chiede un paziente? Di essere riportato nell’ambito di parametri statistici di normalità e di salute? Ma proprio per niente. Un paziente chiede di che ci qualcuno si prenda cura di lui. C’è una differenza fondamentale tra “curare” e “prendersi cura”. “Curare” vuol dire riparare un carburatore che non funziona ed è quello che accade spesso oggi: la medicina tecnologica basata sui dati lo sa fare bene, non c’è dubbio. “Prendersi cura” significa, invece, domandarsi cosa sia per quella specifica persona la “salute”, quale sia il suo “bene”. Si tratta di una questione complicata, non c’è dubbio che il medico debba essere umile, debba evitare l’arroganza di decidere da solo quale sia il bene del paziente, Un medico onesto deve sapere di non sapere: sempre porsi domande e porre domande. Eppure, in ultima istanza, se il medico non cerca di capire cosa sia il bene per il malato che si è rivolto lui e non cerca di realizzarlo, diventa un truffatore perché non rispetta il contratto terapeutico. Cos’è il bene per quel mio determinato paziente? Avere il colesterolo LDL entro i valori fissati dalle ultime linee guida dell’American College of Cardiology (società, per altro, sponsorizzata da case farmaceutiche produttrici di farmaci per abbassare la colesterolemia) oppure avere il colesterolo un po’ più alto ma godersi un piatto di formaggio e un bicchiere di vino ogni tanto? Ho fatto un esempio banale, ma credo che si capisca cosa intendo.
Del resto, se un medico si limita ad applicare in maniera pedissequa linee guida create da altri o dall’intelligenza artificiale, non si capisce cosa serva più. Se un medico è solo un esecutore di algoritmi, allora le macchine possono farlo in maniera molto più efficace e sicura.

Quindi lei crede che il problema sia la “disumanizzazione” della medicina moderna?

Sì e no. Non c’è dubbio che la medicina tecnologica basata sui dati sia “disumanizzata”, ma non ne consegue automaticamente che ciò dispiaccia ai pazienti. La medicina tecnologica è una medicina che ha conseguito risultati straordinari in termini di guarigioni dalle malattie. In questo senso, i pazienti sono soddisfatti dei suoi risultati. Poi, non si scordi tutte le cose che le ho detto in precedenza, in particolare rispetto alla perdita di qualità “umana” dei medici.  I pazienti si rendono conto che spesso i medici oggi sono disinteressati umanamente a loro, incapaci di entrare in relazione, di provare simpatia (preferisco questa parola a quella che va più di moda, “empatia”).  È molto difficile affidarsi a qualcuno se non abbiamo piena fiducia nella sua “umanità”. In un contesto in cui ci si fida poco dei medici è allora molto meglio la medicina tecnologica. I pazienti a volte preferiscono medici frettolosi, poco attenti al rapporto umano, ma almeno scientificamente efficiente e aggiornati. Nella mia professione di psicoanalista, vedo abbastanza bene questo tipo di contraddizione: non pochi pazienti oggi chiedono soprattutto farmaci o rapidi interventi comportamentali che siano in grado di riportarli a un discreto funzionamento psicologico senza troppe complicazioni. L’idea che è un trattamento psicologico possa e debba andare oltre la risoluzione immediata dei sintomi è oramai molto lontana da tante persone. Per loro, il medico, persino quel quello che fa lo psicoterapeuta, deve essere solo un meccanico che ripristina una funzione alterata. 

Mi colpisce questa rappresentazione. Da informatico resto quasi turbato da questo: eravamo convinti che gli strumenti informatici ci avrebbero liberati dagli errori, mentre ci siamo ritrovati con delle macchine dalle quali siamo dipendenti.  Qual è lo scenario visto dal punto di vista medico?

Sui motivi per cui la nostra società si è sviluppata soprattutto in senso tecnologico sono stati versati i leggendari fiumi di inchiostro. Economisti, sociologi, filosofi, teologici, antropologi: ciascuno ha fornito la sua spiegazione. Dal mio punto di vista, mi sembra che la tecnologia sia servita e serva agli esseri umani soprattutto per evitare i lavori più faticosi, noiosi, meno gratificanti, tant’è che il suo sviluppo coincide grossomodo con la fine della schiavitù. Le macchine servono a fare cose che gli esseri umani non hanno voglia di fare, una volta che non ci sono più schiavi da impiegare al posto loro. L’esempio che faccio spesso è quello della nascita delle macchine calcolatrici. Il primo calcolatore nasce nel 1600 ed è un’invenzione di Pascal. Blaise Pascal fu uno dei più grandi matematici (contribuì, tra l’altro, alla nascita del calcolo delle probabilità), filosofi e teologi dell’epoca barocca. Pascal era figlio di un esattore delle tasse nell’Alta Normandia, sotto il regno di Luigi XIV. Quando il giovane Blaise aveva diciannove anni, il padre lo mise a verificare i conti, così il poverello fu costretto a passare le sue notti a rifare i calcoli per controllarli. Immagini quanto un giovane di meno di vent’anni fosse contento di trascorrere le serate in questo modo. Probabilmente io o lei avremmo cercato di “imboscarci” ma Pascal, che era un genio, cercò invece una soluzione diversa: inventare una macchina che facesse i calcoli al posto suo. Questa macchina – che ora è in un museo a Parigi e fu in seguito chiamata “Pascaline” – fu il primo calcolatore meccanico nella storia dell’umanità e ancora i calcolatori degli anni 1960 funzionavano secondo i suoi principi. Questa storia divertente spiega bene qual è la spinta a creare nuove tecnologie: far fare da macchine compiti che noi troviamo noiosi e che le macchine possono fare più rapidamente e con meno errori di noi.
L’intelligenza artificiale alla fine è soltanto uno strumento di calcolo potentissimo al di là di ogni immaginazione ma che nulla ha a che vedere con l’intelligenza vera. Esattamente come un microscopio elettronico, che vede cose per noi impensabili. Ma lei direbbe mai che un microscopio elettronico “vede”? No, perché un microscopio elettronico non vede nulla, permette a noi di vedere. Lo stesso fanno un telefono cellulare o una macchina da corsa: le tecnologie sono protesi che permettono agli esseri umani di fare quello che, senza tecnologia, non sarebbero in grado di fare. L’intelligenza artificiale è un amplificatore della nostra capacità di calcolo: non sostituisce l’intelligenza, ma ci leva la fatica di calcolare, attività in sé stessa fondamentalmente noiosa pure per i matematici di professione.

Però c’è un aspetto importante e complicato, ed è quello riferito alla gestione dei big data. Ricordo che all’università, ormai sono passati più di vent’anni, durante il corso di intelligenza artificiale, si considerava la valutazione delle potenziali patologie associate ai segni. Uno degli esempi che si faceva, ripeto su uno studio prima del 2000, riguardava l’individuazione della tubercolosi, partendo da questa considerazione: i medici statunitensi non erano più in grado di conoscere i segni perché pensavano ad altre patologie.
Allora, trovare correlazioni già predeterminate permette di fare espandere la conoscenza. Ma quando invece la correlazione viene fatta in modo automatico e noi, gli esseri umani, ne perdono il controllo, lì entriamo in un altro mondo.

Guardi, le ripeto in un diverso contesto quello che le ho già detto a proposito delle linee guida. Io non ho proprio nulla contro l’intelligenza artificiale: se è utile, ben venga. Quando io mi sono laureato, nel 1981, nel reparto dell’ospedale San Giacomo di Roma dove ero assistente, per evitare di mandare troppi esami del sangue in laboratorio, alcuni di questi esami li facevamo direttamente noi in reparto. Uno di questi, l’esame emocromo, lo si faceva al microscopio ottico, usando un particolare vetrino retinato che, una volta colorato il campione, permetteva una conta probabilistica degli elementi corpuscolati, globuli rossi e bianchi. Un lavoro molto noioso che certo non faceva il primario ma che toccava a noi neolaureati. La precisione, ovviamente, era abbastanza approssimativa e sono sicuro che diminuisse progressivamente più noi ci si annoiava e che avesse poi veri crolli se, per caso, uno di noi aveva fretta di terminare per andare, magari, al cinema.  È chiaro che nel momento in cui si mette la provetta dentro una macchina, e la macchina conta con precisione assoluta tutti i globuli rossi e bianchi, è meglio no? Non dobbiamo rinunziare a questo. Però questo progresso dovrebbe dare al medico il tempo, magari, di parlare col paziente. Potrebbe essere un guadagno per tutti. Però, se invece, una volta che ho una macchina che fa l’emocromo, il tempo che risparmio io lo uso per stare su Instagram a guardarmi i reel, allora c’è qualcosa che non gira in questa storia. In realtà ho soltanto perso tempo e non l’ho acquistato.

Questa è la visione, una visione quasi di profondità perdendo completamente la visione periferica, quella che poi ci permette di allargare la visuale su quello che è la qualità della vita, quello che è il rapporto col paziente. Veramente molto interessante. Questo poi mi colpisce, e metto la mia visione da informatico. Ho sempre utilizzato le videoconferenze, le call conference, per parlare con i colleghi, ma non mi rendevo conto di quanto invece il rapporto umano, quello che poi si aveva comunque in ufficio, fosse fondamentale nel mantenimento del team, nel mantenimento dei rapporti di reciproca stima e fiducia.
Questa cosa è cambiata, passando tutti e solo in videoconferenza è stato veramente un rapporto completamente diverso. E qui mi interessava anche rispetto alla sua professione, quanto c’è di diverso nell’avere rapporti virtualizzati rispetto ad averli di persona?

(Immagine dell’Ospite…con Isotta)

Bella domanda.  La presenza è una questione che non riguarda nessuna modalità sensoriale precisa. La presenza è qualcosa di sfuggente che ha al suo interno tantissime componenti, se volessimo scomporle si potrebbe forse anche: si va dall’odore, ai ferormoni, alle vibrazioni fisiche, quelle dovute al movimento dell’aria che un corpo provoca, allo sguardo, ai rumori impercettibili che ogni corpo genera, alla proxemica, e così via.  Questa infinità di elementi si ritrova nella comunicazione umana. Non è necessario fare grandi discorsi complicati, basta riferirsi a un’esperienza che chiunque di noi può fare. In una sala concerti, in un jazz club, in un teatro, ci si rende ben conto come la presenza sul palcoscenico di un attore oppure di un suonatore o un cantate, sia un’esperienza profondamente diversa dal vedere o ascoltare un programma registrato. Anche semplicemente se si è tra amici e uno si mette al pianoforte a strimpellare o prende la chitarra e canta, si crea una profondità comunicativa che nessun metaverso riuscirà mai a replicare. Perché? Perché in qualche modo, c’è qualcosa che riguarda proprio la nostra intima umanità. Pensi che un bambino di pochissimi giorni, già al secondo o al terzo giorno di vita, conosce e riconosce gli occhi di chi si prende cura di lui ed è in grado di reagire con un sorriso o con una smorfia a seconda di come quegli occhi si muovono e che cosa gli comunicano. Non riconosce ancora la persona, perché ha una difficoltà di messa a fuoco: se dovesse vedere il profilo della madre, o del padre, o dell’infermiera, non li riconoscerebbe. Eppure, reagisce allo sguardo. Cos’è la presenza degli occhi? Ci pensi, provi a rispondere se ci riesce.

Nel Medioevo ci fu un periodo in cui il potere centrale, del re o dell’imperatore, era molto debole mentre era grande il potere dei feudatari, delle città stato e dei comuni. Se l’autorità centrale si fosse limitata a pubblicare editti senza mai mostrarsi, dopo un po’ nessuno avrebbe più obbedito e pagato le tasse.   Non i contadini, ma i nobili, perché un nobile che non vedeva il re o l’imperatore, dopo un po’cominciava a sperare di esserselo levato di torno per sempre. Allora tutti i grandi sovrani, come i sovrani di Francia, una volta l’anno – normalmente in primavera, quando arrivava il bel tempo – si muovevano nel loro Regno andando a benedire di qua e di là i sudditi. Dopo che erano stati fisicamente in un posto, allora lasciavano frequentemente un segno, ad esempio una statua o un dipinto, che era il modo dell’epoca per essere presente virtualmente. Però, prima, era necessaria la presenza fisica. Questo è esattamente il problema che abbiamo oggi. Si può fare una videoconferenza – ci mancherebbe altro – o l’insegnamento a distanza, così come un medico, persino uno psicoanalista, può curare un paziente a distanza. Si può fare tutto, se le circostanze lo impongono. Ma il virtuale ha senso soltanto se c’è stata una presenza prima, se la persona ha percepito almeno una volta la presenza fisica del corpo dell’altro. Questo perlomeno è valido per tutte quelle professioni dove il rapporto umano è fondamentale.

Devo dire, che questo è vero anche per l’informatica, come ho notato personalmente: manca il concetto del team. Cioè, non si lavora più “in team”, dopo più di due anni praticamente sempre a distanza, e non ci si vede personalmente, ma si lavora come somma di individualità.

Il nostro mondo sta procedendo verso la digitalizzazione e dematerializzazione di tutto.
A partire dal denaro, sino ai rapporti umani, all’educazione, alla medicina, noi viviamo in un mondo che si sta progressivamente dematerializzando, persino il sesso è per buona parte dematerializzato e masturbatorio.
Le persone saranno pure soddisfatte, non lo discuto, ma sono anche sempre più rincretinite.
E, oltre un certo livello di stupidità, viene minacciata anche la felicità, perché la felicità richiede comunque un minimo di intelligenza per apprezzare le cose che abbiamo intorno. Per apprezzare il piacere della vita, un po’ di intelligenza ci vuole e invece più si dematerializza, più si diventa stupidi e infine infelici. Quindi, per concludere tornando alla sua domanda iniziale sullo stato di salute degli italiani, la mia risposta è che, se la salute ha a che vedere in qualche modo con la felicità, allora c’è davvero da essere preoccupati.

Anna Crispino, napoletana, nata nel 1972, canta per amore della musica. Vive e lavora a Roma, impegnata nel sociale. Arte terapeuta ad indirizzo psicofisiologico integrato, musico-terapeuta, counselor, mediatrice familiare con esperienze in ambito socio-sanitario. Ha lavorato con minori a rischio, pazienti psichiatrici, Alzheimer e donne che hanno subito violenze. Ha collaborato con l’Aref (Associazione per la Ricerca sulla Epilessia Farmaco resistente – Onlus) per un progetto di musicoterapia nei reparti neuropsichiatria e neurochirurgia infantile del Gemelli di Roma.

Anna Crispino, “Carlo Delle Piane. L’uomo che amavo”, ed. Martin Eden, 2023 pag.61

Da tutte queste esperienze ho capito che l’arte e la musica riescono a tirar fuori il non-detto da tutti noi e ci sollevano dalle pene

Anna, volevo partire dai tuoi dati biografici e dal tuo percorso professionale ma, trovando molti riferimenti e riflessioni nel tuo bel libro pubblicato lo scorso anno dalla casa editrice napoletana Martin Eden “Carlo Delle Piane. L’uomo che ho amato”, partiamo da questo che per me è stata una vera carezza per l’anima. Pupi Avati, che ne ha curato la prefazione, lo ha definito un  “diario d’amore”.  Puoi dirci cosa ti ha spinto a scrivere questo libro ?

Il voler omaggiare un grande attore, sicuramente. Dato che già esisteva una biografia di Carlo in cui l’artista era già stato raccontato, mi interessava raccontare l’uomo, con le sue fragilità, le sue passioni e le sue malinconie. Soprattutto volevo raccontare l’incontro speciale tra due anime che seppur diverse su alcuni punti di vista, erano anche molto simili. È stato incisivo l’incontro con la casa editrice Martin Eden, che mi ha proposto di fare questo omaggio a Carlo e con la loro sensibilità e l’attenzione che ho trovato mi ha permesso di dare forma a questo libro che per me è stato anche in qualche modo terapeutico, un’elaborazione della separazione.

Nel libro parli di come hai conosciuto e ti sei innamorata di Carlo Delle Piane, che poi avresti sposato nel 2013 e che tutti conosciamo come protagonista del cinema italiano in oltre cento film con grandi registi. Mi ha colpito la casualità e nel contempo l’importanza che questo evento ha avuto nella tua vita, quasi come una profezia che si autoavvera. Non a caso il capitolo s’intitola  il “Volo dell’Anima”. Puoi dirci qualcosa di più su questo incontro e le tue riflessioni a riguardo?

Penso che l’incontro tra me e Carlo non sia stato un caso. Ci siamo incontrati in un luogo (l’ex-manicomio di Santa Maria della pietà) dove per la prima volta avevo messo piede, perché ero andata a fare una passeggiata e a leggere, mentre invece Carlo era a fare delle prove. In tanti anni io non ero mai andata e neanche lui. Conoscendo Carlo, probabilmente se non fosse stato per lavoro non ci avrebbe mai messo piede, e quindi questa sincronia di trovarci lì, in quel posto, a quell’ora, mi ha fatto sempre pensare che sia stato il destino. Fu un incontro magico, ritrovarmi davanti il mio attore preferito mi spiazzò, ma mai avrei immaginato che le cose avrebbero preso la forma che poi hanno preso. La vita ha fatto sì che ci incontrassimo e che condividessimo un pezzo importante delle nostre esistenze.

Qual è stata l’importanza di Napoli, la città in cui sei nata, per la tua vita e la tua carriera artistica? In realtà, sempre nel libro, si parla nel capitolo “Le città amate”, di tanta altre città, ovviamente Roma, dove vivi e lavori, poi di Firenze, Alghero e Parigi.  A ciascuna sono legati dei ricordi e ognuna ha rappresentato qualcosa di importante. Ce n’è qualcuna particolarmente significativa di cui vuoi parlarci e che rappresenteresti con una parola o un’immagine?

Nascere a Napoli è stato sicuramente un dono. La città è stata centrale nella mia vita, anche per la musica napoletana che è molto rappresentativa per me e che sicuramente mi ha salvato. Se dovessi rinascere lo farei sicuramente a Napoli, che è un luogo sacro e unico fatto di accoglienza, generosità e bellezza.

Per quanto riguarda le altre città citate, ognuna di esse ha un posto speciale dentro me, ma sicuramente Parigi è la città che più di tutte è stata importante. È stata il sogno che mi ha salvato, come si capisce anche nel libro.

La tua attività professionale è molto eclettica e varia, cantante, arte-terapeuta, counselor, mediatrice familiare e impegnata nell’ambito socio-sanitario. Puoi raccontarci il tuo percorso artistico e professionale e come si coniuga a quello di cantante?

Il mio percorso artistico nasce da molto lontano, nel senso che ero ragazzina e già cantavo nei locali. Ricordo che cantavo Mina ogni sabato sera, portando questo repertorio con un pianista. Poi ho scelto la musica napoletana, ho studiato canto e man mano il sogno ha preso sempre più forma con diversi artisti, fino al maestro Colicchio con cui abbiamo dato forma a diversi spettacoli in diversi teatri, anche con lo stesso Carlo. Parallelamente, avendo sperimentato la musica anche come forma terapeutica per andare a lenire alcune ferite e dolori dettate da esperienze di perdite premature della mia vita, sentivo anche il bisogno di trasformare questo dolore in una risorsa. Fin da ragazzina ero molto portata ad aiutare gli ultimi e chi era in difficoltà, atteggiamento che viene

dalla mia famiglia nella quale respiravo sempre grande generosità. Facendo degli studi specifici all’università ho poi iniziato a lavorare prima con i minori a rischio, poi nell’ambito psichiatrico, poi con i bambini oncologici al Gemelli, specializzandomi poi in Arteterapia a indirizzo psicofisiologico integrato alla Sapienza e, ancor di più con la specializzazione in Musicoterapia, ho unito le mie grandi passioni: la musica e la psicologia.

Nel tuo libro sono citate diverse canzoni ed autori, da Aznavour a Battiato da Billie Holiday a Jacques Brel, colonne sonore della tua vita. Qual è quella che in particolare ti è più cara?  Ma ci piacerebbe sapere quella del tuo repertorio che ti piace più cantare o meglio ti rappresenta.

Molto difficile scegliere. Sicuramente La cura di Battiato, un brano che ascoltavamo sempre io e Carlo e che incidemmo con l’aiuto di Franco, che oltre a essere un artista eccezionale è stato anche una figura importante nella mia vita. Sono però molto legata anche ad Aznavour. Tra le canzoni che canto non posso che citare Maruzzella che è stato il mio cavallo di battagli fin da bambina, il mio stesso soprannome è Maruzzella. L’ho fatta in tutte le versioni possibili. Dovendo scegliere una sola canzone quindi dico questa anche per l’aspetto affettivo e per l’amore che ho per Carosone.

Nel libro parli di come la passione per il canto sia andata di pari passo con il lavoro di arte terapeuta, generando anche un conflitto interiore che hai cercato di “sanare” in qualche modo, almeno da quello che ho colto, specializzandoti in musicoterapia. Ci potresti spiegare meglio in cosa consiste questa tua attività?

La musicoterapia, come ho già detto nella domanda precedente, rappresenta la cura attraverso l’arte basandosi su un modello specifico, quello del professor Vezio Ruggeri, che è un modello psicofisiologico. Il professore sottolinea come mente e corpo siano una cosa sola e andando a lavorare sul rilassamento andiamo a lavorare anche sulle emozioni. Meno tensioni abbiamo e più emozioni rilasciamo e andiamo a riscrivere la nostra storia anche con una postura diversa nel modo in cui stiamo nello spazio. Non è facile da spiegare a voce, il mio è un lavoro che si basa sull’esperienza, fatto di alchimia. Non preparo nulla prima di fare i laboratori, perché in base alle persone che ho propongo un certo tipo di esperienza. Sicuramente la poesia è uno strumento che uso molto, attraverso la scrittura si fa una fotografia di un momento e si ragiona su cosa si può fare per stare meglio. Il lavoro è fatto attraverso l’ascolto della musica, le immagini, il movimento, l’ascolto. Si lavora su tutto il corpo, dallo sguardo al movimento delle mani e si usa molto l’immaginazione perché tutto ciò che si immagina è.

Il libro è strutturato in undici capitoli, ciascuno aperto da un passo di una poesia o da una riflessione di un intellettuale. Puoi dirci come li hai scelti, se c’è un filo conduttore e se magari ce n’è qualcuno che ti è particolarmente caro ?

Mi sono confrontata con l’editore, con cui abbiamo lavorato con una grande intesa e ascolto reciproco. Sono tra gli autori o le citazioni che preferisco. Sicuramente Bobin è quello a cui sono più legata. Riesce sempre a commuovermi ogni volta che leggo una sua opera. Purtroppo è venuto a mancare poco tempo fa, una grande perdita sul piano del nutrimento dell’anima. Il filo conduttore è dare voce all’anima, qualcosa che ho voluto condividere con gli altri perché la poesia per me è un modo per esprimersi e andare in profondità.

Il libro è dedicato a tua madre, tua figlia e ad Andrea Purgatori. Di tua madre mi ha colpito molto la sua dipartita nel giorno del tuo 11° compleanno, cosa che ti ha segnato per tutta la vita, come credo quel ventitré agosto del 2019. Puoi dirci di più anche sulla tua amicizia con Andrea Purgatori, la cui recente e improvvisa  scomparsa ci ha colpito tutti inaspettatamente anche per le modalità con cui è avvenuta?

La perdita di Andrea Purgatori come professionista è stata grande per tutti quelli che lo conoscevano attraverso i suoi scritti e i suoi programmi, come ogni volte che si perde una persona di tale integrità e serietà. Per me è stata una perdita personale, è stata una persona importante nella mia vita e ancora sto elaborando questa separazione avvenuta come uno strappo, proprio come quella di mia madre. Mentre Carlo l’ho accompagnato alla morte standogli vicino fino all’ultimo, nel caso di Andrea è stato come un fulmine a ciel sereno. Un momento molto difficile arrivato nel momento della chiusura del libro ed era giusto omaggiarlo e ricordarlo, perché le persone che abbiamo amato vivono attraverso il ricordo e gli affetti.

Cosa significa custodire la memoria di una persona come Carlo Delle Piane che, al di là del suo privato con una grande e complessa personalità che pur è inscindibile dall’attore come ben si evince dal tuo libro, è stato un grande interprete pluripremiato del cinema.

Custodire la memoria di Carlo è un grande dono della vita e anche una grande responsabilità. Come dicevo nella domanda precedente, ci sono persone che hanno lasciato un segno perché hanno amato quello che facevano e sono arrivati al cuore delle persone emozionando. Hanno toccato corde che ci hanno permesso di metterci in contatto con parti nostre nascoste, ci hanno fatto sognare, ci hanno reso la vita più leggere per certi versi. Ecco perché sono sempre pronta a ricordare Carlo e ringrazio molto la casa editrice Martin Eden e tutto il gruppo di lavoro che mi ha sostenuto perché è bello quando giovani così vogliono fare un omaggio ad un attore anziano che però ha dedicato settant’anni di vita al cinema. È veramente un gesto d’amore

Nel ringraziarti per il tempo che ci hai dedicato e raccomandando il tuo libro, ci lasciamo con un’ultima domanda sui tuoi progetti futuri sia artistici sia professionali nei vari campi a cui ti stai dedicando e se hai qualcosa  di particolare su cui stai lavorando o che ti sta a cuore comunicarci.

Sono io che ringrazio voi, persone che danno spazio alla culture e all’arte. Per quanto riguarda i progetti futuri sicuramente continueremo a portare il libro in giro, proprio nei prossimi giorni andrò a Parigi per parlare di un’eventuale presentazione. Sto preparando dei concerti dove farò degli omaggi a Carlo. Partiranno dei progetti nelle carceri per l’educazione al sentimento, legati alla violenza sulle donne, che ho dedicato ad Andrea Purgatori. Poi altri progetti legati alla musicoterapia che partiranno quest’anno, la collaborazione con il Gemelli e con l’associazione Aref. Cose in cantiere che spero possano prendere forma e farmi continuare il lavoro che amo, sia quello di cantare che quello di curare, e per lo meno far del bene, con la musica.

Vi ringrazio ancora di cuore e un in bocca al lupo per il vostro giornale, a presto.

** Le opere fotografiche sono state gentilmente concesse dall’artista **