Tu lo sai cosa significa “inspiration porn”? No?! Molto bene, perché non vedevo l’ora di raccontartelo… hai presente Maria Chiara Giannetta sul palco dell’Ariston? Il monologo sui ciechi che ha stuzzicato i tuoi dotti lacrimali, ma senza portare a casa il risultato, perché di ste robe alla fine non se ne può quasi più. Come? Ti è sfuggito qualcosa? Ora ti spiego tutto: dopo quattro puntate di Sanremo a qualcuno è sembrato doveroso trattare il tema delle disabilità. La giovane e talentuosa attrice interpreta una detective cieca (ma con il superpotere di un udito infallibile) nella fiction “Blanca”. Per far aderire meglio il suo personaggio si è fatta aiutare da quattro persone non vedenti, che le hanno mostrato come vivono la loro quotidianità. L’attrice, munita delle migliori intenzioni, ha voluto condividere con gli spettatori questa intensa esperienza, ma come nella maggior parte dei casi, la prospettiva è quella degli abili, oggettivando per l’ennesima volta delle persone, persone cieche, a cui su quel palco è stata tolta anche la voce, a favore di questo monologo forzatamente strappalacrime, tenuto della stessa Giannetta, su quanto siano meravigliosi, incredibilmente coraggiosi e di grande ispirazione i suoi “custodi”, i suoi “angeli”. Praticamente dei cuccioli di foca dietro al vetro di un acquario. Cuccioli a cui è stata fatta una carezza e a cui dedicare degli occhi commossi ed una voce tremolante. Questo approccio mainstream non è altro che una visione dichiaratamente pietistica della rappresentazione delle persone con disabilità che diventano fonte di ispirazione proprio per la loro disabilità.
Nulla togliere alla bravissima attrice, ma hai mai pensato che
la parte di un disabile possa essere interpretata da… (rullo di tamburi)… un Vero
Disabile? Perché questa cosa a me riporta alla mente il teatro elisabettiano, quando
le donne venivano interpretate (a gran fatica) dagli uomini perché considerate degli
esseri dall’emotività troppo instabile e assolutamente non adeguate al palco.
Hai mai pensato che un disabile possa esistere anche senza dei superpoteri che compensino i suoi limiti, che lo rendano una “persona speciale”, come se per giustificare la sua esistenza, si debba per forza elevare a protagonista di imprese straordinarie o eventualmente a creatura straordinaria nel compimento di azioni quotidiane del tutto ordinarie. Hai mai pensato a come il termine “diversamente abile” si faccia carico di aspettative corrotte? Ti manca la capacità di camminare, di sentire, di vedere, o hai problemi mentali, ma io devo per forza trovare in te qualcosa che compensi questa imperfezione, perché non puoi farmi sentire a disagio per questo. Non è accettabile. Devi sicuramente avere qualche super qualità che ti restituisca una dignità. Il problema in questo è proprio la parola “io”, nucleo portante dell’universo. Chiusura selettiva alla possibilità di immaginare di vestire i panni dell’altro, ma per davvero, non solo per farti sentire meno peggio. Da spettatore, quando guardi questi siparietti, non ti scappa di pensare che forse l’altro sia un soggetto vero e non un personaggio di fantasia, che abbia delle emozioni proprie e non sia messo lì a solleticare le tue e a farti stare più sereno? Ti viene mai il dubbio che questi momenti si possano trasformare in cultura invece che la conferma dell’ennesimo stereotipo?
Valentina Tomirotti (https://instagram.com/valetomirotti?utm_medium=copy_link) al riguardo scrive sul suo profilo Instagram: “Non si fa! (Non è banale, è reale) è questione di rispetto dell’essere umano: la gente non capisce che queste gag sono deleterie per i diritti civili di ognuno di noi. L’insulto non è solo la parolaccia, è nel gesto, nell’idea, nell’atteggiamento.”
Non posso fare a meno di chiedermi perché ci faccia stare così bene tirare fuori il nervo scoperto della pena, della pietà, di questa empatia dozzinale, perché ci faccia stare bene raccontare con stupore che una persona non vedente riesca ad alzarsi al mattino, farsi il letto e prepararsi il caffè. Perché vedere prima i limiti per poi elevarsi in uno slancio di ammirazione. Perché abbiamo sempre bisogno di qualcosa che ci aiuti a digerire la disabilità, come se fosse il pranzo di Natale a casa di zia Lina. Forse perché ci fanno sentire a disagio? Indegni di ciò che abbiamo e di cui non siamo comunque mai contenti?
Ora ti sarà sicuramente più facile capire a cosa si riferisca l’Inspiration Porn (pornografia motivazionale), termine usato per la prima volta da Stella Young , attrice, scrittrice e attivista per i diritti dei disabili, che, durante il suo TED speach, nel 2014, ha deliberatamente utilizzato il termine “porn” per sottolineare che il meccanismo è lo stesso dei film a luci rosse, ovvero quello di oggettivare un piccolo gruppo di persone, in questo caso disabili, a beneficio di un grande gruppo di persone.
Lo scopo è quello di motivare ed ispirare, in modo che tu possa pensare: “Beh, per quanto brutta sia la mia vita, potrebbe essere peggio. Potrei essere quella persona.”
Ma, come giustamente fa notare Stella Young, cosa accade se
tu sei quella persona? Se devi costantemente diluire la tua disabilità per chi
ti sta intorno, per confortarlo, per alleviare il disagio nei suoi occhi?
Quando non puoi esistere perché sei troppo concentrato a pensare a come gli
altri ti percepiscono.
Alex Dacy (https://instagram.com/wheelchair_rapunzel?utm_medium=copy_link)
in una campagna di sensibilizzazione su Instagram dice “Sono orgogliosa di
essere disabile. Il momento in cui ho smesso di annacquare la mia disabilità
per placare lo sguardo abile è quando la mia vita è iniziata davvero.
La campagna è del 2020 e si chiama “Disabile DesiderAbile”, pensata e promossa da MySecretCase (nato come e-commerce di sex toys fino a diventare un portale di educazione sessuale, intesa come un vero e proprio diritto per il benessere psicofisico) per infrangere il tabù della sessualità legato alla disabilità. Una campagna fatta di tante voci e tante storie che parlano del bisogno di ognuno di noi: vivere una sana sessualità, oltre i pregiudizi, oltre l’ossessione della perfezione estetica, o l’ansia di performare. E come potrà essere una strada che parte dal pietismo per arrivare al desiderio? Lunga e scoscesa. Perché è difficile pensare di avere delle risposte istituzionali senza che prima vengano abbattuti certi muri. Credo che il cambiamento sia più facile e rapido nel singolo individuo, che nella comunità, quindi ogni singolo individuo si ritenga responsabile dell’influenza che ha sulla società in cui vive. Ogni singolo individuo si senta in dovere di fare un passo in avanti, di aprirsi al dialogo, di mettere in discussione ciò che vede, di cambiare prospettiva, di non fermarsi in superficie.
Tra l’abilismo e l’inspiration porn, ci sono molte bucce di
banana su cui si rischia di scivolare, non sempre per mancanza di sensibilità o
per cattiveria, il più delle volte si cade a causa di un’inadeguata educazione.
C’è ancora molto da fare per edificare una società davvero inclusiva, per
riconoscere che siamo tutti esseri umani con caratteristiche eterogenee e che
abbiamo il diritto di pari opportunità e trattamento. Credo che un buon punto
di partenza sia la comunicazione, quella vera, quella costruita sull’ascolto,
sull’onestà, sull’empatia, sull’apertura verso l’altro. E credo che la buona
comunicazione richieda la collaborazione di tutte le parti coinvolte.
Apparenza, finzione, difficoltà di riconoscere la sostanza dalla forma, il falso dal vero, l’autenticità della parola dal pensiero autentico. Tutto questo è quello che ci circonda, oggi più che mai, nella quotidianità, nella vita privata e in quella lavorativa. Chi di natura è sé stesso sempre, in ogni occasione, con chiunque, si trova in grande difficoltà, è come se vivesse senza pelle, esposto, privo di protezione, incerto su come muoversi. E’ proprio da queste riflessioni e dal pensiero utopico di un mondo dove si recita solo sul palco che ho pensato di intervistare Manuele Guarnacci, regista, attore ed insegnante di laboratorio teatrale, per dar voce a chi ci può davvero spiegare il ruolo della maschera teatrale, l’importanza del teatro amatoriale, i benefici e le difficoltà di chi intraprende un percorso di questo tipo, raccontarci insomma di quel mondo che sarebbe fantastico fosse l’unico dove si finge…
Vi presento Manuele Guarnacci….
Nato nel 1984, contemporaneamente agli studi accademici di Arte Drammatica
e ai successivi esordi nel professionismo teatrale si è laureato in Relazioni
Internazionali con voto 110/110, con una tesi triennale riguardante i
laboratori teatrali come forma di cooperazione ed una tesi specialistica sui
pericoli della comunicazione virtuale.
Ha accumulato esperienze come attore, regista e assistente, lavorando con alcuni dei più importanti artisti del panorama italiano (Giorgio Albertazzi, Gabriele Lavia, Michele Placido, Valerio Binasco, Alessandro Haber, Alessio Boni, Luca Barbareschi…), debuttando nei più importanti teatri di tutta Italia e anche all’estero ( da citare: il Fringe Festival di Edimburgo con Maurizio Lombardi).
Già all’età di 19 anni
muoveva i primi passi come regista e da allora, pur crescendo le esperienze,
non ha mai smesso di operare nel territorio, appassionandosi alle potenzialità
del teatro come strumento di formazione umana anche per i non professionisti.
Ha seguito corsi di dramma terapia, lavorando in contesti di teatro integrato
(dedicato a persone disabili), si è specializzato nel teatro per stranieri,
teatro nelle aziende, ha fatto esperienza nelle carceri e in contesti cosiddetti
“a rischio”.
Attualmente guida il progetto Teatro Quindi, con cui porta avanti 9 laboratori per un totale di quasi 100 adulti iscritti. Questi corsi hanno come principale obiettivo l’arricchimento del bagaglio umano attraverso il teatro.
Manuele intanto ti ringrazio per la disponibilità…ci puoi spiegare il ruolo della maschera dall’antichità Nell’antichità la maschera teatrale aveva una valenza funzionale: rendere evidente, visibile e amplificato il personaggio che si interpretava, lì dove non esistevano strumenti acustici, scenografici e di luce evoluti come oggi. Ma aveva anche un valore di altro tipo: permetteva di distinguere subito l’attore dal personaggio. Quest’ultimo poteva quindi essere interpretato con massima potenza, audacia, provocazione, senza rischiare di essere confuso con l’interprete. Le forme stesse delle maschere, grandi e dai tratti esasperati risaltavano il gioco metaforico e simbolico. Il travestimento spettacolare, in grado di attirare subito l’attenzione del pubblico e farlo entrare in un esercizio collettivo di fantasia, è presente in tutte le culture del mondo di ogni epoca.
Nell’epoca della Settima Arte il Teatro ha ancora senso? E per il pubblico che impatto ha? E’ una domanda affatto scontata, che anzi è importante porsi costantemente. Negli ultimi decenni il teatro ha inseguito troppo spesso altre forme artistiche e culturali (cinema, musica, arti figurative, danza, conferenze) che sembrano più al passo con i tempi e riescono ad avere un rapporto vivo e d’interesse con il pubblico. Giustamente l’arte si contamina ma il senso profondo e caratteristico del teatro è la sua stessa forza e specialità: un luogo specifico in cui tante persone si danno appuntamento in un tempo specifico per condividere dal vivo uno scambio di energie e rituali fortissimi che trovano forma e vibrazioni a partire dai corpi veri e vivi degli attori. E’ l’unica arte che si basa su persone che davanti ad altre persone vivono storie e vicende che, per quanto arricchite di poesia e dinamiche metaforiche, rimangono sempre concrete, leggibili, identificabili nella quotidianità dello spettatore. Al contrario del cinema tutto avviene dal vivo, nel qui ed ora che rende potente il rituale collettivo e personale; al contrario della musica, fotografia e pittura gli strumenti principali sono attori in carne, ossa, voce e lo spazio fisico in cui si muovono.
Che ruolo ed importanza può avere il teatro amatoriale? Il teatro amatoriale, soprattutto in una città come Roma, è ancora troppo sottovalutato, schifato e forse temuto dal mondo professionale. Credo si debba imparare dallo sport, dove anche il dilettantismo è vissuto con molta importanza. L’esperienza teatrale fa bene a tutti, è un grande esercizio per la mente, lo spirito e le relazioni con noi stessi e gli altri. Al tempo stesso il mondo amatoriale dovrebbe essere considerato il punto di partenza per nuovi circuiti di appassionati che possono tornare a riempire le platee dei più grandi teatri. Per questo mi dedico col massimo livello di impegno e di ricerca costante per lavorare al meglio con gli amatori. So che la nostra arte oggi più che mai può essere arricchente, quasi terapeutica, rispetto alla vita atomizzata che viviamo. Al contempo è preziosissimo anche per me godere di tanti rapporti umani che mi riportano vite, mestieri, pensieri, condizioni così diverse tra di loro. Il professionismo teatrale sa essere molto noioso e lontano dalla realtà sociale, è fondamentale per me e per la mia sensibilità artistica trovare modo di immergermi e fare esperienza delle “vite degli altri”.
In questo momento storico particolare, con la pandemia che ci ha allontanato dalle sale e dai luoghi di ritrovo, cosa si respira dietro le quinte? Sono venuti al pettine tanti nodi decennali su un sistema che non funziona. In Italia abbiamo degli esempi (la musica, lo sport) di circuiti che riescono ad evolversi e ad avere basi importanti su cui poggiarsi anche in momenti di difficoltà. Il pubblico li segue con passione ma questo è dovuto anche ai meccanismi con cui si muovono. Il teatro purtroppo ha molti problemi decennali e sta perdendo fiducia in se stesso. Io sono convinto che il suo valore è più alto che mai, proprio oggi, in cui siamo costretti alle distanze e abbiamo paura degli altri, dei corpi. Stiamo disimparando l’empatia, l’ascolto, lo scambio, il valore del racconto e dello stare insieme. Il teatro ha una funzione enorme se riesce a trovare il modo di farsi valere. Dopo il panico iniziale, lo svuotamento delle sale, la disoccupazione di molti ed molti esperimenti inconcludenti, in questo ultimo periodo, l’inverno 2021-2022, alcuni teatri stanno tornando ad avere numeri importanti di spettatori. Sono proprio quei teatri che non hanno smesso di investire, rischiando molto, ma hanno saputo farlo con una sensibilità particolare verso il pubblico e la comunità che li circondava. E’ importante chiederci non cosa vogliamo portare in scena ma di cosa ha bisogno la società. Chi lo ha fatto ha trovato molte risposte nel teatro da poter portare avanti.Nei miei corsi il primo anno di pandemia è stato caratterizzato da una marea di problemi pratici, gestionali (distanze, mascherine, coprifuoco, greenpass…). Chi ha potuto e ha scelto di continuare, fortunatamente la maggior parte, aveva però un bisogno enorme di quell’appuntamento, insieme al proprio gruppo di compagni, per giocare insieme con la fantasia condividendo dolori ma anche energie. Quest’anno, con la ripresa di tutte le attività, anche i corsi sono tornati a riempirsi ma la frenesia è ancora piena di paure, frustrazioni, stanchezze emotive e ogni giorno entrano in sala prove persone spente o piene di negatività che vanno “rigenerate”. Il miglior antidoto per fortuna è il teatro, concentrarsi su quello, la nostra passione, che ripaga tutti i sacrifici con la bellezza, il divertimento, energie e fantasie nuove. E si esce dal palco tutti più freschi.
Nel programma di laboratorio teatrale ritieni opportuno inserire il lavoro di improvvisazione con uso della maschera della commedia dell’arte? Se sì, che difficoltà riscontri nei partecipanti alle attività?
Si, inseriamo anche dei percorsi con le maschere fisiche ma in questo periodo di mascherine ne abbiamo già molte… L’obiettivo principale è riuscire a lavorare con le maschere psicologiche. Capire che ne indossiamo sempre alcune e che questa arte permette di sperimentarne altre, diverse, accettare l’idea che siamo liberi di cambiarle, imparare a gestire noi stessi e il nostro rapporto con gli altri vivendo ruoli diversi da quelli in cui rischiamo di rimanere chiusi nella vita quotidiana.
Secondo la tua esperienza, quale ritieni siano le peculiarità principali che hai riscontrato negli allievi che intraprendono un percorso di questo tipo? Le difficoltà, i benefici, le emozioni…
Troppo spesso incontro allievi e allieve che vogliono
essere non solo guidati ma costretti a fare cose. E’ indice di una profonda
insicurezza ma anche della voglia di rompere i propri schemi. Il problema è che
finché sarà qualcun altro, l’insegnante, il regista, a trascinarti oltre i tuoi
limiti non acquisirai mai la vera consapevolezza e gestione di te, dei processi
e percorsi interiori che ti hanno portato a quei risultati. Allora solitamente
preferisco strade più lunghe ma che portano l’attore e l’attrice ad una
autonomia sui passi che stanno facendo, sia tecnici che umani.
Si pensa che la formazione culturale sia da relegare alla gioventù e alla scuola, invece anche da adulti abbiamo bisogno di “cibo per la mente”. I nostri corsi sono aperti a tutti, principianti, esperti, timidi, mattatori, giovani e vecchi. Nel momento in cui una nuova persona si presenta cerchiamo di capire, tra i 9 gruppi diversi, quale può essere quello che fa al caso suo, sia umanamente, sia per il percorso che si prevede di fare. Gli stimoli che può dare il teatro sono molteplici: lavoro sul corpo, sulla voce, sui testi, sul rapporto con noi stessi, con gli altri. Ci sono allievi che dopo 8 ore in ufficio vogliono principalmente divertirsi, stare in allegria giocando sul palco, altri invece hanno voglia di approfondire tecniche drammatiche complesse, perdersi e riscoprirsi profondamente dentro i personaggi e le loro emozioni, altri ancora vogliono esplorare l’espressività fisica e vocale per imparare a relazionarsi meglio… L’importante in questi casi non è il livello di partenza ma gli stimoli e i percorsi che si vogliono fare insieme agli altri. E noi insegnanti mettiamo con piacere le nostre esperienze e tecniche sempre in discussione per ricercare costantemente nuovi percorsi artistici e pedagogici.
Ringrazio Manuele e gli faccio i complimenti, e sono complimenti speciali perché il suo non è solo un ruolo di insegnante di un’attività ludica ma anche, e forse soprattutto, sociale.
E’ chiaro dalle sue risposte che chi decide di mettersi
in gioco in un percorso di questo tipo è alla ricerca non solo di divertimento
ed evasione ma anche di introspettività, bisogno di mettersi in gioco e di provare
a vincere le proprie rigidità, paure, insicurezze e magari di scoprire lati di
sé sconosciuti.
Il Teatro…mettere maschere per poterne togliere altre.
LATO A: Nineteen Days (Dave Clark – Denis Peyton) ACCOMPAGNAMENTO: The Dave Clark Five QUALITÁ ARTISTICO MUSICALE: Buona + Il leader Dave Clark, batterista, fu una specie di despota all’interno del gruppo, ciò comunque non comportò alcuna rottura di formazione per almeno alcuni anni. Di certo il gruppo era realmente ben preparato e disposto a mostrare musicalmente la propria autenticità artistica, riscontrabile nei tantissimi dischi incisi durante la carriera. Nineteen Days era una sorta di allucinazione rock, brano ben tirato e cantato con grande impatto corrosivo; i fiati, che non difettavano mai, erano uno dei distintivi riconosciuti della band. Brano ultra compresso e molto ritmato che dimostra come il gruppo fosse ben maturo per presentarsi in qualunque locale dove la musica scorresse a fiumi. Nonostante una loro ben precisa e distinguibile impronta musicale, alcune strizzate d’occhio al repertorio beatlesiano, sponda Lennon, non mancano affatto (cfr. con Dizzy Miss Lizzy…).
LATO B: I Need Love (Dave Clark – Mike Smith) ACCOMPAGNAMENTO: The Dave Clark Five QUALITÁ ARTISTICO MUSICALE: Super- Sempre in co-abitazione con il leader, scritta dal tastierista e cantante Mike (Michael George) Smith, I Need Love è una disperazione d’amore, con un testo decisamente indigente in piena contrapposizione con la qualità della musica che lo sostiene. Un innamorato disperato e bisognoso d’amore, pronto a bussare alla porta della ragazza amata affinché finalmente lei gli dedichi un po’ di attenzione e un po’ d’amore. Lanciata durante lo speciale televisivo Hold On! serrato, brillante e coinvolgente, I Need Love non si discosta dalla percezione del già udito, ma perdoniamo tutto ragazzi, un brano talmente travolgente, con basso e chitarre che avvampano ed elettrizzano al massimo anche il più smaliziato degli ascoltatori. Un finale impetuoso è quanto di più adatto ad un pezzo così irresistibile. Insomma, al tirar delle somme: un 45 giri con il quale, se intorno al 1966/67, vi foste presentati ad una festicciola danzante, di quelle che ben ricordiamo, sarebbe stato meglio legarvelo alla cintura dei vostri pantaloni ben saldo, poiché le possibilità che qualcuno ve lo sgraffignasse sarebbero state davvero infinite e maledettamente giustificate! Scovate il 45 – se ancora non lo possedete – e mettetevi finalmente con l’animo in pace !
THE DAVE CLARK FIVE COLUMBIA EMI N° DI CATALOGO: SCMQ 7035 STAMPATO IN: ITALIA DATA: 1967 RARITA’: MEDIA QUOTAZIONE: EURO 25,00 / 35,00 QUALITÀ GRAFICA DELLA COPERTINA: 8
NOTE EVENTUALI: Pubblicata in UK il 28 ottobre del 1966, nel nostro Paese arrivò qualche mese dopo e quindi nel 1967. Fenomenale gruppo inglese, sempre ossessionato (ma non erano gli unici!) dallo strapotere dei Beatles, tanto è vero che quando i Fabs fecero uscire la pellicola di A Hard Day’s Night, immediatamente i DC5 si impegnatono in Catch Us If You Can ovvero, Prendeteci se potete e Nineteen days era una delle canzoni di punta del film che non raggiunse, come prevedibile, la popolarità del lungometraggio degli Scarafaggi.
Lo ammetto. Sono stata anche io e lo sono di tanto in tanto tuttora, attirata in quel vortice di vanità ed esibizionismo che impera attualmente nella nostra società: fotografarsi nelle più svariate situazioni, dando in fondo anche sfogo alla propria creatività, ma indubbiamente in un moto incontenibile di vanità.
Quando sono arrivata, nel leggere la favola di Apuleio “Eros e Psiche”, alla quarta prova iniziatica della bella Psiche, è stato come ricevere una carezza di assoluzione rispetto al mio peccato di vanità e, conseguentemente, una sorta di generalizzata assoluzione nei riguardi delle numerose donne che cedono alla tentazione dei selfie. La favola di Psiche, esoterica e illuminante per ciò che concerne in particolare l’evoluzione spirituale femminile, ci racconta come la bellissima e coraggiosa moglie mortale di Eros, osteggiata e messa duramente alla prova da Afrodite, riesce a superare le prime tre difficilissime prove pur di riuscire a ricongiungersi al suo amato Eros e a venir elevata ed infine accolta nell’Olimpo. Soffermiamoci su ciò che simboleggia la quarta prova, dove la vanità femminile trova una sua sublimazione. Narra Apuleio: “Ma per quanto frettolosa di portare a termine il servizio, le vinse l’animo una temeraria curiosità e si disse – Sciocca che sono! Io che porto la bellezza degli Dei non me ne prenderò neppure un pochino per piacere al mio bellissimo amante? – e detto così dischiuse il vasetto. No, dentro non v’era nulla di tutto questo, niente bellezza ma un sonno infernale”.
Come ci indica Erich Newman nel suo saggio “Amore e Psiche” Il tentativo di Afrodite di annientare Psiche raggiunge il suo culmine nella quarta prova: l’unguento di bellezza che Psiche deve andare a prendere è proprietà di Persefone, dea degli inferi. Mettere nelle mani di Psiche l’unguento di bellezza è un’astuzia degna proprio di Afrodite e della sua conoscenza della natura femminile. Quale donna potrebbe resistere a questa tentazione, e come potrebbe resistere proprio una Psiche? Lei che ha tra le mani l’unguento di bellezza della dea e decide di aprire il vasetto e di usare per sé l’unguento, dovrebbe essere perfettamente consapevole del pericolo che questo comporta. Tuttavia decide di non dare ad Afrodite quello che ha così faticosamente acquisito e lo ruba. Psiche è una mortale in lotta con una dea. Ma questo fallimento di Psiche spinge lo stesso Eros a entrare in azione, trasforma il fanciullo in uomo e l’amante fuggitivo in salvatore.
Quindi ci sarà un epico lieto fine a questa favola di tribolazione dell’animo femminile in cui trova il suo senso ed il suo sposto, financo la vanità, diventando un fattore di crescita iniziatica, in quanto diretta e motivata, dalla ricerca e la conquista dell’amato. Insomma, ragazze, giovani e meno giovani…se la sappiamo gestire con eleganza, la vanità può essere poetica e creativa. Ovvio…non esageriamo!
con le tue infinite apparenze, i tuoi infiniti volti…
con il profumo della primavera che accarezza il vento, con le dune che iniziano a colorarsi, accompagnate dalle giornate che si allungano, e che invitano le rondini a tornare e le lucertole a sguizzare, in allegria…
Il mio T9 appena scrivo “masc” mi suggerisce “mascherina”, tanto per sottolineare quanto questo momento storico sia pieno del sistema di protezione individuale che copre bocca e naso, ma per un lungo periodo la “mascherina” era usata per coprire gli occhi e parte del volto, come sistema di protezione individuale sì, ma non dalle malattie, ma dalle rappresaglie dei gendarmi.
Certo non parlo di rapinatori o di assassini che cercano di non essere riconosciuti dai poliziotti, ma di quelli che sbeffeggiavano i potenti e, al pari di rapinatori e assassini, potevano essere perseguiti dalla giustizia. Il Carnevale ha avuto questo ruolo sociale per molti anni, per secoli. Tanto da poter avere proprio un momento preciso dell’anno dedicato. Sembra che il nome derivi da “Cernem Levare“, cioè “eliminare la carne” che è quello che si faceva durante la cena dell’ultimo giorno del periodo quando si approssimava il Mercoledì delle Ceneri ed iniziava la Quaresima della Pasqua. Ma le origini sono ancora più lontane e senza andare a pensare ai babilonesi o agli antichi greci, pensiamo agli antichi romani che avevano il Calendario che terminava proprio alla fine di febbraio (il giorno in più, quel 29 Febbraio, infatti prima era un giorno aggiuntivo messo proprio alla fine dell’anno) e in quei giorni potevano festeggiare con il sovvertimento dell’ordine normale delle cose, delle convenzioni sociali. Un pò a ricreare il caos primordiale da quale il nuovo anno può nascere. Il Servo diventa padrone e il Padrone serve i propri schiavi.
Il caos vissuto forse anche come segno apotropaico in una società così strutturata come quella romana e completato da una rigenerazione che può essere il processo, con una condanna e con un funerale.
Una distruzione prima della ricostruzione.
Mi sembra effettivamente di buon auspicio, soprattutto per questo 2022 che è iniziato “in salita”.
Il Carnevale ora è una sfilata di travestimenti e di costumi che possano far ridere o che facciano in qualche modo far sentire di “appartenere” ad una comunità che ha una passione in comune. Basta vedere i costumi che indossano i ragazzi per capire: tantissimi supereroi (da Spiderman a Ironman, passando per Hulk e Thor), qualche anime (vado per supposizione, perché non ne conosco nessuno) e qualche personaggio di Film “cult” o delle serie TV Netflix (le maschere di Dalì diventate famose per La Casa di Carta, tanti personaggi StarWars ad esempio), tanti animaletti simpatici (essenzialmente cani e gatti, ma ho visto anche una mucca) e poi personaggi esotici (ballerine di flamenco, odalische che indossavano la mascherina chirurgica prima che fosse su tutti i nostri volti, agghindatissime Frida Kahlo, Antichi romani,…).
Una volta però il Carnevale era la sfilata delle maschere del teatro popolare e che, per un periodo dell’anno, diventavano quasi personaggi “normali”, accolti nella società e ancora più ascoltati. Rappresentazioni macchiettistiche e caricaturali dei vizi e dei costumi, ma anche dei “potenti”. Nello “sberleffo” verso il signorotto locale o verso la “classe dirigente”, il Carnevale svolgeva la propria funzione sociale. Da questo nascono le nostre “maschere nazionali”. Ne abbiamo tante, ne cito solo qualcuna, andando sù e giù per lo stivale. C’è Arlecchino che nasce a Bergamo ed era il servo svogliato ma furbo che si ingegnava in mille truffe e imbrogli per diventare ricco e c’è Pulcinella, nato tra i vicoli di Napoli che col primo condivide l’indole furba e truffaldina, ma con un tratto distintivo: non riesce proprio a tenere un segreto e dice sempre la verità anche se in modo strambo. Uno che indossa un vestito completamente colorato mentre l’altro uno completamente bianco, con la caratteristica mascherina nera. A Roma Meo Patacca e Rugantino erano sempre pronti ad attaccar briga, uno scontroso bullo trasteverino il primo, un gendarme il secondo, anche se comunque di estrazione popolare. I veneziani prendevano in giro i ricchi facendoli rappresentare da Pantalone che è vestito in modo superbo, ma è di una avarizia esagerata, Bologna faceva il verso ai suoi dotti facendoli diventare dei Dottor Balanzone pedanti, vestiti con la toga e sempre pronti a metter giù citazioni dotte, anche se senza né capo né coda. A Milano è Meneghino, a Firenze è Stenterello, a Perugia è Bartoccio, a Genova Capitan Spaventa il personaggio che in modo a volte sbruffone ed esageratamente vanaglorioso tira fuori le sue doti cercando di impressionare. Tutti uomini? E no, abbiamo anche Colombina e Corallina, Giacometta e Rosaura che spesso in tutto questo “carnevale” delle commedie dell’arte hanno un ruolo di primo piano come tessitrici di intrecci complicati ed esilaranti.
Tante maschere, tante storie che si intrecciano, ma un unico scopo, quello di prendersi un pò meno sul serio e capire che anche i potenti, quelli che sembrano infallibili, sono in realtà fallibili e hanno tanti e tanti vizi, oltre alle proprie virtù e – almeno per una volta all’anno – se ne può parlare tranquillamente. Con o senza maschera sul volto.
Siamo nel pieno del Carnevale, una festa popolare che affonda le sue radici in un antico passato.
I dolci, gli scherzi, i travestimenti rendono il Carnevale uno dei periodi più allegri e divertenti dell’anno.
Le “maschere” sono protagoniste indiscusse: insieme a quelle tradizionali quali Arlecchino, Colombina e Pulcinella, legate alle tradizioni locali del teatro popolare, ritroviamo molti personaggi protagonisti di favole classiche e moderne avventure: fate e maghi, principesse e principi, supereroi della Marvel, fantasmi, strane creature e personaggi fantastici.
È una festa molto amata dai bambini ed anche molto apprezzata dagli adulti.
Basti pensare ad alcune delle più classiche manifestazioni della tradizione popolare come il Carnevale di Venezia, di Viareggio, di Putignano, per citarne alcuni tra i più conosciuti, caratterizzati da sfilate di carri allegorici i cui protagonisti non solo sono maschere della Commedia dell’Arte ma rappresentano goliardicamente anche personaggi della cultura e della politica del nostro tempo.
Molto particolare è anche il Carnevale di Tufara, in provincia di Campobasso: l’ultimo giorno di Carnevale si assiste alla sfilata del diavolo, tra corse, danze, salti e acrobazie.
Una manifestazione che origina dalle tradizioni contadine e che riecheggia riti propiziatori legati alla natura e alla fertilità, nel periodo di passaggio tra l’inverno e la primavera, i un connubio tra sacralità religiosa e profano.
Il tema delle maschere e dei travestimenti riecheggia nelle culture di tutti i tempi che, con il Carnevale, prende forma dalla tradizione e dal teatro popolare.
Un tema affrontato in letteratura e approfondito dalle scienze sociali.
Utilizzando la metafora del teatro drammaturgico, il sociologo Erving Goffman ha evidenziato come ciascun individuo metta in atto una rappresentazione di sé stesso nel corso delle proprie relazioni sociali quotidiane, dove l’identità individuale coincide, di volta in volta, con la maschera che egli indossa nelle differenti messe in scena sociali.
Non possiamo fare a meno di volgere l’attenzione anche al pensiero di Luigi Pirandello, da cui emerge il contrasto tra maschera e volto, tra apparire ed essere, tra esteriorità e interiorità. Un precursore dei nostri tempi, dove tale contrasto emerge ancor più potentemente per il tramite delle tecnologie e per l’uso ormai quotidiano dei social media. La realtà – ma di quale realtà stiamo poi parlando? – diviene una realtà virtuale, in cui è facile immergersi fino a perdere la propria identità.
Ed ecco che la maschera, da ciascuno indossata nel quotidiano, si tramuta in una moltitudine di maschere da mostrare, in una società sempre più caratterizzata da istanze narcisistiche, per apparire, per simulare ciò che viene richiesto dai ruoli e dalle circostanze, per conquistare uno spazio nella realtà virtuale…o forse anche nella realtà di tutti i giorni!
Oggi, forse in misura maggiore rispetto al passato – chissà poi se questo dipende dalla percezione di ogni donna o uomo che vive nel proprio tempo – viviamo un periodo storico in cui il contesto sociale e culturale è caratterizzato da profonde incertezze, accentuate trasversalmente dalla pandemia e, in questi ultimi giorni, da conflitti geopolitici che si tramutano in guerre.
Siamo in un’epoca fortemente connotata da spinte narcisistiche e individualistiche, in cui è attribuita una grande importanza al successo, al denaro, e all’apparenza, che spesso sconfina nell’ostentazione.
Spesso sono le generazioni di giovani ad essere viste come quelle che maggiormente popolano i social, cercando di conquistare il proprio spazio e la propria identità, anche nel tentativo di costruirsi un’immagine che possa portarli al successo (il web pullula di influencer, di beniamini da imitare). Ad una attenta osservazione non sfuggirà, tuttavia, che si tratta di un fenomeno trasversale, in cui narcisismo ed esibizionismo contagiano copiosamente tutte le fasce d’età.
Forte è la spinta a condividere la propria immagine di sé, spesso indossando una maschera, per apparire, per fare bella figura, per celare le proprie incertezze e insicurezze.
La maschera rappresenta l’aspetto esteriore con cui ciascun individuo si presenta all’altro, ciò che gli altri vedono e giudicano. Ciò che appare è visibile, ma può anche non corrispondere alla realtà.
Come è possibile distinguere il vero e dal falso?
«In ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico» è la frase cardine del film “La migliore offerta” di Giuseppe Tornatore. Il protagonista, Virgil Oldman, esperto di arte, sottolinea che spesso, nel ricreare un’opera d’arte, «il falsario non resiste alla fatale tentazione di metterci del suo», ciò che in qualche modo rende l’opera comunque autentica. Allora forse possiamo ipotizzare che non sempre celarsi dietro ad una maschera equivalga a fingere. Sono sempre presenti elementi di autenticità. Ciascuno vede la realtà attraverso il proprio modo di essere, le proprie idee e rappresentazioni del mondo, che mutano nel corso della vita.
Dunque, indossare maschere è un’abitudine quotidiana.
Che non significa soltanto apparire, talvolta significa anche proteggere le proprie fragilità o semplicemente scegliere a chi e come, dal proprio punto di vista, secondo la complessità del proprio mondo, regalare all’altro quel che si ritiene la parte più autentica e più preziosa di sé stessi.
Aristotele diceva che l’apparenza è il punto di partenza per la ricerca della verità e in fisica è proprio così.
Sentito mai parlare di forze apparenti? Le forze apparenti entrano in gioco in fisica per spiegare il cambiamento dei principi della dimamica in sistemi non inerziali. Un sistema non inerziale è un sistema che si muove in modo accelerato. Tutto, forse anche nelle relazioni sociali, è molto più semplice se i sistemi di riferimento degli osservatori si muovono in moto rettilineo e senza accelerare o decelerare, in questo modo si osservano le stesse identiche cose pur stando in sistemi di riferimento differenti, ma questi purtroppo sono solo modelli fisici, nati per semplicaficare il problema e tirare fuori una teoria che spesso si rivela molto più complessa.
Quando i due osservatori si trovano su sistemi di riferimento che non viaggiano più a velocità costante non riescono più a percepire le stesse sensazioni, in questo caso le forze. L’osservatore sul sistema non inerziale avverte le cosidette forze apparenti, dovute alla sua accelerazione, mentre l’altro nel suo sitema inerziale no. Un bel gran casino, non si capisce più nulla…ma non è quello che ci accade sempre confrontandoci quotidianamente con le persone? Non sempre riusciamo ad essere lineari e costanti ed è così che creiamo un’apparenza di noi stessi che non sempre corrisponde a realtà, ma “don’t panic”, fermiamoci un secondo e osserviamo meglio…immaginiamo un osservatore seduto in una macchina che viaggia a velocità costante ed uno fermo alla fermata dell’autobus. In macchina il conducente ha una palla sul sedile, che succede se improvvisamente frena (decelera)? Sappiamo tutti che la palla cade a terra, ma in fisica il movimento è associato alle forze e quale forza spinge la palla a terra? La forza apparente creata dalla decellerazione dell’auto, forza che per l’osservatore che aspetta l’autobus non esiste, lui potrebbe dire che è l’auto che scivola sotto la palla perché decelera.
Benché apparente, la forza che l’automobilista avverte é presente e viva così come l’apparenza che creiamo, se pur involantariamente, di noi stessi.
Perchè nascondiamo spesso la nostra vera natura dietro una data immagine? Per convenzione sociale? Per compiacere gli altri? Io non lo so eppure spesso ci ritroviamo ad essere vittime delle apparenze, che come le forze anche se apparenti hanno delle conseguenze a volte positive a volte negative. Forse in fisica, capito il meccanismo, lo schema diventa più chiaro ma nelle relazioni sociali, a mio parere, esistono troppe variabili per arrivare alla vera realtà e non sempre siamo disposti a spendere il nostro tempo per scoprirla. Anche se “il tempo è relativo” all’atto pratico c’è che nella vita non ne abbiamo poi così tanto e sprecarlo sarebbe un gran peccato, non ci resta che valutare quando vale la pena di indagare se effettivamente dietro all’apparenze c’è una bella realtà, cosa che non sempre è così facile. Anche il Sole ha fatto scherzi, dal nostro punto di osservazione, fino a che qualcuno non ha indagato, sembrava che si muovesse per apparire di giorno e scomparire di sera, in realtà poi si è capito che era il nostro sistema di riferimento Terra a muoversi, questo è quello che si dice moto apparente, lo si può osservare nel Sole e in molti altri astri.
Valutiamo quale sia il Sole o l’astro per cui valga la pena scoprire realtà che va oltre l’apparenza, il nostro tempo su questo Mondo è limitato e per stare bene non ci estra altro che consumarlo nei migliori dei modi, cercando di fare sempre quello che ci si fa stare bene per vivere serenamente e se per noi vale la pena studiare quello che va oltre l’apparenza facciamolo, potremmo trovare una bella realtà o aver fatto solo una nuova esperienza.
Può mai andare d’accordo il pieno con il vuoto? Due vocaboli così distanti, due concetti così apparentemente in contrasto, possono mai trovare una via d’intesa, una logica comune che li unisca, oltre quella della evidente contrapposizione? A quanto sembra, sì.
Quando il vice direttore Giorgio Gabrielli, conscio della mia perdurante traballante situazione di salute, con animo costruttivo e sempre presente mi ha suggerito il tema dell’eredità come leitmotiv del numero in corso, un sussulto ha accarezzato le corde della mia sensibilità, messa a dura prova negli ultimi mesi.
Renato Scarpa ci ha lasciato. Un caro amico, un amico del nostro giornale, un amico della bellezza, della cultura e della poesia italiana. E cosa ha lasciato? Certamente una grande eredità. Certamente un patrimonio di sentimenti, di onde spirituali, di gesti nobili e puri, di vissuti preziosi, di sconfitte abbattute, di incoraggiamenti sottesi. Sì, certamente una grande eredità. Ma anche un profondo ed incolmabile senso di vuoto. La consapevolezza che nulla potrà riempire, appunto, il vuoto che ha lasciato.
Questo accade per ogni creatura speciale che incontriamo nel nostro viaggio, e che poi perdiamo. Per ogni piccolo o grande paesaggio che affrontiamo o che guardiamo dall’alto. Questo è il destino di ogni essere, umano o animale, che prepotentemente si affaccia nella nostra vita. Ed è il destino di noi stessi per qualcun altro, sin dal primo giorno, gridando con il nostro primo pianto il desiderio di esserci e di iniziare a camminare.
Forse è arrivato davvero il momento di fermarci un istante. Osservare al microscopio la fretta e l’arroganza dei nostri giorni, l’incuria della nostra superficialità, la cattiva educazione delle nostre parole. Dovremmo analizzare i batteri che si insinuano in ogni lettera che esprimiamo, allontanare ogni tarma che può far cedere da un momento all’altro i bastoncini che le compongono.
Ne parlavo alcuni giorni fa con Faby (@_NonDirmelo_), una sensibilità curiosa ed intelligente, incontrata scambiando alcuni pensieri su twitter. Ha espresso la mancanza di educazione di buona parte del mondo social e la pesantezza da riunione condominiale di linguaggi ed espressioni.
Ecco cosa voglio ricordare, in questo momento, di Renato. L’eredità delle sue parole. Il contenuto di ogni suo pensiero, le carezze di ogni sua espressività, il caldo, spontaneo e tenero abbraccio di ogni racconto.
E invitare tutti farne tesoro. Tutti.
E allora… facciamo un pieno di parole, ma che non siano vuote. Coloriamole anche di allegria, di squisita ironia, di profonda leggerezza. Ma non lasciamole in pasto alla banalità, al tanto per dire, al vento che se le porta via, alla rissa o alla pesantezza di una riunione condominiale…
Ecco. Il rispetto per le parole.
Caro Renato,
il nostro giornale è dedicato a te.
E al cucciolo di uomo che ci aiuterai a preservare.
Il 27 Gennaio è svolta la Giornata della Memoria. Ho scritto questo articolo mentre mancavano pochi giorni al triste ricordo e le preparazioni erano ancora in atto. Sui social network iniziavano ad apparire i primi post con delle immagine evocative, nelle scuole si iniziavano a preparare delle ore nelle quali saranno stati ospiti i – pochissimi superstiti – o le loro testimonianze sarebbero state proiettate ai ragazzi.
E’ un nostro dovere civile ricordare quello che è effettivamente successo, quello che è stata una macchia nera per l’umanità. Un’assoluta mancanza di valore morale e di valore civile che sono non su una fazione politica, non su un popolo, ma sul mondo intero, sul genere umano: non una colpa da espiare, ma un monito per ricordare che tipo atrocità può perpetrare l’uomo sull’uomo.
Prima di tutto cosa ricordiamo?
Il 27 gennaio del 1945, il Maresciallo Ivan Konev e la sua 60ª Armata delle truppe sovietiche impegnate sul “1º Fronte ucraino” scoprirono per primi il campo di concentramento nazista vicino alla città polacca di Oświęcim (in tedesco Auschwitz).
Non era il primo campo di prigionia e il primo campo di concentramento dedicato alla “Soluzione Finale” liberato – 6 mesi prima era stato liberato il campo di Majdanek e anche i campi di Belzec, Sobibor e Treblinka che erano stati smantellati nel 1943 dai nazisti – ma la scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente, per la prima volta, al mondo intero l’orrore del genocidio nazista. Anche Auschwitz era stato abbandonato dai nazisti, scappati freneticamente circa dieci giorni prima portando con loro tutti i prigionieri sani in quella che fu una “Marcia della Morte”, visto che molti prigionieri morirono durante la marcia stessa.
L’ONU – Organizzazione delle Nazioni Unite – il 1° Novembre 2005 scelse questa data per ricordare la Shoah, lo sterminio del popolo ebraico.
Un dovere morale ricordare. Sarebbe molto più facile non accogliere questa eredità pesante dai nostri nonni, facendo finta che non sia accaduto, in una sorta di rimozione collettiva, anche un pò auto-assolutoria. Come a pensare che si sia immuni dal vortice di Odio e di Indifferenza, di empatia verso le sofferenze altrui. Il dovere morale infatti è anche quello di “raccontarlo bene”, di farlo acquisire alle giovani generazioni perché l’odio è insito nell’essere umano e solo comprendendolo è possibile liberarsene.
Mentre stavo scrivendo questo pezzo, che poteva benissimo concludersi nel capoverso precedente, mi è caduto l’occhio su una notizia: La statua di Theodore Roosevelt è stata rimossa dall’ingresso del Museo di Storia Naturale a New York. Ora capiamoci, la statua è davvero interessante a livello statistico e capisco per quale motivo il movimento “Black lives matter” ne abbia chiesto la rimozione. Theodore Roosevelt è stato il 26° Presidente degli Stati Uniti d’America, dal 1901 al 1909, un militarista convinto – anche a discapito del Premio Nobel per la Pace che gli fu consegnato nel 1906 – un “Cowboy” senza tanti scrupoli e giri di parole. Un personaggio quasi fumettistico – non è possibile dimenticare il fratello “pazzo” di Mortimer Brewster in “Arsenico e Vecchi Merletti” che si credeva per l’appunto Roosevelt tanto da farsi chiamare Teddy – che chiuse la propria carriera da Presidente andando in Africa per un viaggio di caccia dal quale ritornò con più di tremila trofei (seguito e acclamato dai giornali statunitensi). Insomma Roosevelt in questa statua è ritratto a cavallo con accanto un Pellerossa e un Africano che lo seguono a piedi. A piedi nudi. I tratti somatici marcati, gli ornamenti tipici delle tribù nordamericane o centro africane e, quei piedi nudi, segni dell’assoggettamento, della schiavitù. pLa statua è stata rimossa per poter essere esposta nella nuova “Theodore Roosevelt Presidential Library” di Medora, in Nord Dakota, che aprirà nel 2026.
Non è la prima volta che questa situazione si presenta. Le opere artistiche, i fregi sui palazzi, le statue nelle piazze, i templi nelle città. Sono stati distrutti fregi fascisti o nazisti in Europa, distrutte statue di Stalin o Lenin nelle piazze ex-sovietiche o le statue di Saddam Hussein a Bagdad. Segni dell’oppressione anti-democratica sistemate nelle piazze, rimosse dopo con una nuova coscienza di cittadinanza. O con una nuova coscienza civica, che è quella che ha fatto restituire all’Italia la Stele di Axum che prima era nei pressi del Circo Massimo a Roma, fino a vent’anni fa.
La Damnazio Memoriae ai quali i regnanti erano destinati nel caso di malgoverno o di “crimini contro il proprio popolo” (che poi a volte potrebbero anche essere riletti come crimine contro una casta dei vincitori) era un modo per eliminare storia da quei libri che sono i monumenti artistici.
Nella nostra epoca – dove si scrive e si legge più di tutto quello che si sia mai scritto e letto nel passato, sommato – che senso ha effettivamente eliminare un segno? Certo sicuramente può essere meno “ostentato”, perché a ben guardare le piazze sono un luogo “attuale” e non musei da mantenere inalterate nei secoli.
L’eredità che abbiamo ricevuto dal passato, visto che parliamo di questo, a volte non è proprio “politicamente corretta”, non è “allineata con il sentimento” attuale, non è accettabile con il sentimento attuale democratico o religioso che sia.
Ma questo è il compito della nostra generazione: sta a noi preservare quella memoria per non far finta che non ci sia mai stata. Non si può riscrivere il passato, come si faceva nell’universo distopico di “1984” di Orwell o in quello di “Fahrenheit 451” di Bradbury, e non lo si può semplicemente nascondere, perché i fatti del passato sono destinati, prima o poi, a riemergere se non assimilati, se non elaborati, e se non si ha la capacità di contestualizzarli. Leopoldo II del Belgio e Winston Churchill hanno avuto un passato non proprio specchiato, se rapportato al pensiero attuale, ed è giusto non nascondere i loro lati oscuri, quando non addirittura spregevoli, ma questo per farne persone a tutto tondo, com’è giusto che si possa fare a “distanza storica”.
Per poter lasciare una eredità migliore, dobbiamo arricchirla delle nostre conoscenze, renderla più elaborata, più complessa, più profonda.
‘La bellezza apre l’anima e ci fa vedere il paradiso. Solo lì troveremo tutte le risposte.’ Renato Scarpa
Ci sono cose nella vita che hanno un valore inestimabile e che non si misurano con la durata nel tempo, ma, come scrive Fernando Pessoa, nell’intensità con cui avvengono. Per questo motivo ci sono dei momenti indimenticabili, delle cose inspiegabili e delle persone Incomparabili. Renato Scarpa era una di queste. Penso che lui abbia lasciato un segno. Un profondo e indelebile segno proprio lì, in quel piccolo posto chiamato cuore. Renato resterà per sempre nella vita di chi lo ha amato e di chi gli ha voluto bene, di chi lo ha conosciuto e di chi lo ha apprezzato, sia come Uomo sia come Artista.
Classe 1939, milanese di nascita ma romano d’adozione, dopo il Teatro tascabile (un collettivo teatrale maturato in ambito universitario) Scarpa approfondì i suoi studi frequentando l’Accademia d’Arte drammatica, dove ebbe tra gli insegnanti Nanni Loy. Si dedicò con grande impegno anche al teatro, frequentando il Piccolo di Strehler e il Grassi. Sul grande schermo, il suo esordio avvenne alla fine degli anni Sessanta, con il film ‘Sotto il segno dello scorpione’ dei fratelli Taviani.
Attore versatile, dalle mille sfaccettature, in grado di interpretare ruoli sia comici che drammatici, con una carriera lunga oltre cinquant’anni, Scarpa è stato protagonista di moltissimi capolavori diretti da registi del calibro di Mario Monicelli, Steno, Dario Argento, Dino Risi, Marco Bellocchio, Liliana Cavani, Luigi Comencini, Roberto Rossellini, Nanni Moretti, Luciano De Crescenzo, Peter Del Monte, Giuliano Montaldo, Nicolas Roeg e tanti altri. Voglio ricordare ‘Suspiria’, ‘A Venezia un dicembre rosso shocking’, ‘Ricomincio da tre’, ‘Un sacco bello’, ‘San Michele aveva un gallo’, ‘Così parlò Bellavista’, ‘Un borghese piccolo piccolo’, ‘Piedone a Hong Kong’, ‘La stanza del figlio’, ‘Habemus Papam’, ‘Il Postino’, ‘Mia madre’, ‘Giulia e Giulia’, … Scarpa ha lavorato anche in produzioni estere come ‘Il talento di Mr. Ripley’ e ‘The Tourist’, e negli ultimi anni lo avevamo visto recitare in ‘Diaz’ di Daniele Vicari, ‘Il racconto dei racconti’ di Matteo Garrone e ‘I due papi’ di Fernando Meirelles..
“Bravo, lei è un vero imbecille“. Spesso raccontava, ridendo, che questo era il più bel complimento che gli era stato fatto nella sua lunga carriera, riferendosi, ovviamente, alla sua straordinaria interpretazione di Robertino, in ‘Ricomincio da tre’, (interpretazione che, come tante altre sue, ha per me il tocco di genialità surreale). E mentre ricordava quel film e i giorni trascorsi insieme all’amico Massimo Troisi, dal suo sguardo traspariva un miscuglio di gioia, amore e commozione. Ogni volta che parlava di lui, diceva sempre che aveva un animo puro e che era una di quelle persone che si incontrano quando la vita ha deciso di farti un regalo.
Talento, semplicità, profondità, gentilezza e discrezione, queste sono le cifre che hanno contraddistinto il percorso umano ed artistico di Renato Scarpa, un uomo nobile che, con la sua ricca umanità, la sua sensibilità rara, il suo immancabile sorriso e il suo garbo, ha regalato gioia, accarezzando il cuore di molte persone.
Tra i tantissimi pensieri pubblicati in suo ricordo, mi ha molto colpito quello che Rosaria Troisi ha condiviso sulla pagina ufficiale del fratello Massimo: ‘Grande, caro Renato, amico mio! Non ti lascerò andare, metterò il lucchetto al cuore e sarai per sempre in dolce compagnia, con le persone che ho amato di più in questo mondo. Il Signore ti abbia in gloria, amico mio, grazie per avermi onorato della tua amicizia.’
Qui di seguito ho raccolto le testimonianze di alcuni amici e le opere di Artisti che hanno voluto onorare Renato Scarpa.
Un uomo delicato, puro. Un’anima semplice e meravigliosa. Un amico speciale. Mi mancherà tutto di lui. La sua bontà, innanzitutto. E i suoi complimenti per i miei piatti. La “scarpetta” che non mancava mai. ‘Ho visto la guerra, la fame. E’ un crimine lasciare qualcosa nel piatto.’ Ti voglio bene Renato.
Nancy Cuomo – Cantante e produttrice discografica
Qualche anno fa, incontrai Renato Scarpa per caso a Roma, al Teatro Olimpico, durante una serata dedicata al Maestro Franco Califano. Ho sempre avuto rispetto e una grandissima ammirazione per il modo in cui Scarpa interpretava i suoi personaggi, così straordinariamente veri. Abbiamo parlato del periodo che stavamo vivendo e di quanto fosse diventato difficile fare l’attore. Abbiamo poi ricordato i film di cui eravamo stati insieme protagonisti e ci siamo commossi ripensando all’amicizia che legava entrambi al regista Gianfranco Mingozzi. Renato aveva un aspetto mite. Mi ha sempre colpito la sua grande umanità. Era un piacere ascoltarlo parlare di Sergio, il personaggio ipocondriaco interpretato in ‘Un sacco bello‘ di Carlo Verdone. Grazie Renato per averci regalato tutti quei personaggi così strabilianti! Il Cinema italiano dovrebbe essere più riconoscente con Attori di questo spessore.
Carlo Mucari – Attore e cantante
Una umanità e una sensibilità che mi avvolgevano ogni volta che ero vicino a lui, anche senza parlare.
Loretta Rossi Stuart – Attrice, autrice, coreografa
La sua umanità oltrepassava i confini umani, la sua amicizia e il suo affetto erano per le persone a cui voleva bene un dono prezioso. Un’anima gentile, un uomo meraviglioso. Ciao Renato, ciao amico mio.
Davide Mottola – cantautore, compositore, musicista e produttore artistico.
Facendo il mestiere dell’attore, ritengo che Renato Scarpa sia stato un gigante. Un riferimento come artista e come uomo. Ho avuto il privilegio di conoscerlo e ho respirato la sua umanità e simpatia. Grazie Renato per tutti i ruoli che ci hai regalato, ma soprattutto per la tua grande umiltà e semplicità. I tuoi consigli li porterò sempre con me.
In anteprima per Condivisione Democratica il poeta Maurizio Gregorini presenta la sua ultima opera “Ki. Segni dello spirito”, nata dal profondo legame spirituale con l’amico Angelo Cordelli. Una preziosa esclusiva per i nostri lettori, testimonianza non solo della loro incomparabile amicizia, ma delle certezze e insieme dei dubbi della vita ed oltre.
L’intimità più sacra di un poeta che dialoga con il suo “altro allo specchio” per coglierne la sua eredità e trasformarla in un unico ed eterno canto d’amore.
Esce la nuova edizione di “Ki. Segni dallo spirito” del poeta romano Maurizio Gregorini. La prima (anch’essa privata e di sole cento copie, novembre 2020), fu mandata in stampa affinché Monsignor Angelo Cordelli, a cui il libro è dedicato, potesse vederlo e goderne. A quella edizione era inclusa una lettera che nella nuova versione non trova spazio (la riportiamo qui per la singolare significatività: “Angelo, caro unico amico, sai bene come non sia solito mostrare la mia intimità. L’educazione che ho ricevuto da Letizia ha dato frutti delicati, in mezzo alla volgarità che ci circonda; riesco solo a legare a me con la poesia gli affetti più cari e, anche se per motivi dissimili, come è avvenuto tempo fa per Raffella Belli con ‘Scaglie di passione’, ora accade con te. Non conosco atto d’amore più appassionato, più forte e tenace. Do alle stampe ‘KI. Segni dallo spirito’ perché te lo devo: ore e giornate e anni trascorsi insieme in un dialogo solo apparentemente asimmetrico, tu dalla parte della fede di Dio, io da quella della religiosità dello spirito. È testimonianza non solo della nostra incomparabile amicizia, ma delle certezze e insieme dei dubbi. Dinanzi allo strazio, all’angoscia di questo periodo, le parole si indeboliscono, non riescono a raccogliere il pensiero ed esprimerlo: ho il cuore lacerato, ogni suono che nella mente si compone in una frase mi appare un esile balbettio che non posso ridire sulle labbra. Può darsi che, barca e remi in mano, occorra avviarsi quietamente sulle acque dell’oceano del Nulla; quel ‘Nulla’ che – lo sai – è qui inteso nell’accezione turoldiana, come luce e pienezza, e non buio o vuoto. Inutile negarlo: innanzi alla morte che inizia a bussare assiduamente alla porta della vita, restiamo inermi.
Poco resta da fare, ma possiamo farlo nel modo migliore, con fede, senza indifferenza, per chi va e per chi, ancora per poco, resta. Sono versi che portano il mio nome, e anche se le parole sono quelle di chi le ha scritte, questo libro ha in ogni sillaba l’impronta della tua anima. Rileggendomi, ho capito che gli autori erano due. Ecco perché te lo dedico, per quale ragione appartiene a me ma anche a te. L’affetto, le cure che mi hai sempre donato, te li ricambio, restituendoti col mio canto il tuo canto. Turoldo diceva che ‘mai la stessa onda si riversa nel mare, e mai la stessa luce si alza sulla rosa: né giunge l’alba che tu non sia già altro’. È vero, ogni giorno siamo sempre altro, ma con una fiamma inestinguibile nel cuore. Mi conosci nel profondo, non amo gli addii, preferisco gli arrivederci; e questo è un arrivederci. Ti lascio dunque alla lettura di queste pagine con una carezza leggera, quella delle parole dell’adorato Abbé Pierre: ‘Io sopporto di vivere così a lungo soltanto perché ho in me questa certezza: morire, lo si creda o no, è incontro’. Indubitabile. Sicuro che anche per te sia così. Ti abbraccio fraternamente”): al suo posto, in seconda e quarta di copertina, ci sono cinque commenti (compreso quello della sottoscritta) che chiariscono al lettore un libro di poesia di certo non di uso comune.
Sandro De Fazi parla di un “Libro ispirato, sapienziale e intensissimo, a partire dal ‘KI’ dell’antica filosofia cinese, che costituisce il dialogo direi ‘realistico’ tra il poeta e il suo amico sacerdote, dove la ‘realtà’ primaria delle energie vitali e spirituali è resa tangibile attraverso il linguaggio della poesia. Sono versi dal ritmo solenne e insieme discorsivo che contraddicono l’‘irrealtà’ che mai come in questo momento storico, appare in termini perentori ed esclusivi, laddove Gregorini ci fa ricordare e ci mostra un ben altro modo d’essere e di intendere il reale”; Duccio Benocci annota come “Questo di Gregorini, uomo garbato di altri tempi, è un vero atto d’amore nei confronti di Angelo Cordelli, nonostante le loro evidenti ‘diversità’: da una parte un ministro di Dio in terra, dall’altra un pensatore contemporaneo, valente scrittore e poeta di rara sensibilità, esperto tra l’altro di spiritualità e filosofie orientali. Non capita a tutti di aver un poeta per amico. Non capita a tutti di aver dedicata una intera raccolta di versi. Don Angelo l’ha avuta, seppur nel momento del distacco da questa terra”; Elena Antonini avvisa come questo libro di poesia sia “Un libro che perlustra le inquietudini genuine del poeta; la sua sensibilità contro l’inganno umano apre la porta oltre ciò che non è tangibile alla visione terrena. Versi con Angelo e per Angelo è la mia analisi di quest’opera: viaggio che entrambi percorrono verso l’accettazione di un discernimento celeste. Quella di Gregorini è una voce che dà respiro al dolore di due anime che aspirano alla consapevolezza, spasimo che si manifesta nel cerchio interrotto della vita. Cosicché ogni parola di questo ‘Ki’ si mostra come pugnalata intrinseca, una estasi reale di visioni e suoni su cui il lettore può solo lasciarsi trasportare”; e infine (e qui è anche la centralità del nostro nuovo numero), Sonia Corsi tratta il tema dell’eredità, non solo culturale, ma soprattutto umana: “Lettura importante quella dell’ultimo libro -purtroppo privato- del poeta Gregorini. Grazie alla potenza della poesia, l’amicizia e l’esperienza -anche nel dolore e nella conseguente morte- si trasformano in un dono che stravolge il senso della parola ‘eredità’. Un’opera poetica complessa e profondissima. Epifanica. Bellezza allo stato puro”. Chiude questa nuova versione di “Ki. Segni dallo spirito”, un originale e profondo -nonché toccante- intervento della poetessa Vincenza Fava. Maurizio Gregorini (Roma, 1962), giornalista e scrittore, presente in varie antologie, è autore di poesie, racconti, romanzi, saggi. Per la poesia, nel 2002, presso la Sala della Protomoteca del Campidoglio, gli è stato consegnato il ‘Premio Personalità Europea’. Tra i suoi libri ricordiamo il saggio biografico “Il male di Dario Bellezza” (tre edizioni, 1996, 2006 e l’ultima aggiornata del 2016), con cui si è aggiudicato il ‘Premio Mangialibri’ nella categoria “Miglior rapporto qualita/prezzo del 2006”; il romanzo “Neve e sangue”. Nel 2017 Castelvecchi manda in libreria “Sigillo di spine”, opera omnia poetica che ha ottenuto il Premio speciale della giuria della terza edizione del Premio Letterario Internazionale “Antica Pyrgos”.
Ci ha concesso un’intervista in anteprima ed in esclusiva e noi gli siamo molto riconoscenti per l’apprezzamento e la stima che ancora una volta riserva alla nostra testata.
Caro Gregorini, eccoci ancora una volta a conversare su una sua opera, tra l’altro molto complessa. Non le nascondo un certo imbarazzo e coinvolgimento dato che anche io ho avuto l’opportunità, tramite lei, di frequentare Angelo Cordelli, un uomo e un sacerdote anomalo, intelligente, colmo di fede e aperto ad ogni tipo di dubbio esistenziale, non solo di tematica religiosa. Innanzitutto, come sta?
“Come ogni persona che perde un affetto caro, un compagno di vita amato. Evitando equivoci, faccio subito chiarezza per ciò che esprimo coi termini ‘compagno’ e ‘amato’: il più delle volte il prossimo fa fatica a concepire una diversa dimensione dell’affetto e dell’amore, pensa subito a qualcosa di fisico, corporeo, insomma, considera l’amicizia intima una relazione sessuale (purtroppo capitò anche colla mia esperienza vissuta con Dario Bellezza) poiché -credo- non abbia gli strumenti per arrivare a comprendere che oltre alla fisicità, al linguaggio dei corpi, c’è anche l’amore non solo platonico, ma soprattutto spirituale. Ecco, la chiave per annoverare questa poesia è nella incorporeità, dato che comunemente, oggi, si tratta parecchio il tema della spiritualità, ma non se apprende il senso profondo. Vuole sapere se ne avverto la mancanza? Si. Era una delle rare compagnie con cui potevo discutere su tutto, soprattutto in ambito religioso, filosofico e poetico. E, sotto questo aspetto, Angelo aveva molto da insegnare, come del resto -perché negarlo?- ha imparato da me il linguaggio dell’anima. Pensi che alla poetessa Raffaella Belli (ma pure a Maria Paola Fortuna, una sua cara amica) disse che tramite il nostro legame si scopriva ogni giorno migliorato, come uomo certo, ma primariamente come sacerdote. Non la trova una cognizione magnifica? Peccato che a me direttamente non lo abbia mai detto. Ma va bene così, anche perché, dentro di me, ero certo di simile trasformazione, l’avvertivo”.
Ha riportato in seconda di copertina anche un mio commento: “Non considero questo un libro, non lo considero un dono. Mi viene più da pensare ad un miracolo e come tale lo accolgo. Il ‘grande evento’ è giunto e ha dilaniato le catene: espressione straordinaria che fa sentire il suo rumore”. Cosa l’ha spinta a stralciare la toccante lettera che gli aveva scritto e preferire queste annotazioni che sono state licenziate sui social?
“Col cancro Angelo ha convissuto due anni, e in questo tempo parecchie sono state le riflessioni e la percezione, non solo di ciò che stava capitando, ma di come si potesse concludere in serenità la propria vita. Insomma, come prepararsi alla morte. In questo Angelo provava una sorta di gelosia per le mie certezze sul ‘dopo morte’. Ma la mia esperienza era (ed è) dovuta all’impegno più che trentennale sulle letture buddiste, esoteriche, su tutta una documentazione da me studiata con attenzione partecipativa delle ‘near death experience’: i libri di Brian Weiss, Raymond A. Moody jr., Eben Alexander, Sylvia Browne, Anita Moorjani, Doreen Virtue (tanto per citarne alcuni), o testi come “Il viaggio delle anime” di Michael Newton, “Le prove scientifiche della vita dopo la morte” di Grant e Jane Solomon o “I morti parlano” del teologo Padre Francois Brune continuano ad essere per me di estrema rilevanza. Angelo viveva la contraddizione (tipica degli uomini religiosi) di sapere dell’esistenza di una eternità (di qui la sua fede) ma di non credere che ci potesse essere un contatto con quelli che chiamiamo morti: è noto come la Chiesa nutra la più grande diffidenza su questo tema: si sa, insegna l’eternità, ma non ammette che si possa viverla o mettersi in comunicazione con essa (sono parole di Brune, non mie). Questo per dire come anche lui tentasse di assimilare in che modo questo passaggio -a cui tutti noi siamo costretti- lo liberasse dall’angoscia o dal dolore di morire a cinquantasette anni. Conservo parecchi dei messaggi inviatimi in quei giorni in cui esprimeva tutta la sua afflizione. Gliene riporto solo due: ‘L’amore che ho per te è al di là del pianto e del riso. Se non ci fossi stato tu, ora non sarei sicuramente qui. Fai parte di me e la tua assenza mi è inconcepibile’; ‘Il dolore più grande è di non poterti stare più accanto per condividere insieme questa vita; ma spero che dove andrò potrò custodirti”. Francamente non so perché la rendo partecipate di queste parole, forse perché lei, Giovanna, conoscendomi, sa come prendermi, anche perché lei sa bene della mia riservatezza: di Angelo, della nostra confidenza, non parlo affatto volentieri. Ad ogni modo, lei nelle sue parole ha parlato di un ‘ miracolo’, mentre Angelo, in uno dei suoi ultimi messaggi ha utilizzato il termine ‘custodirti’, cioè, sorvegliare qualcosa con attenzione e cura. Ecco, non è questo un prodigio? Chi mai si sarebbe servito di un siffatto termine per esprimere una estensione spirituale?”
Ma non ha risposto alla mia domanda: cosa l’ha spinta a stralciare la toccante lettera che gli aveva scritto? La trovo una scelta bizzarra.
“Non potendo proseguire insieme nella vecchiaia (ma non è detto che a me capiterà di vivere così a lungo) Angelo era terrorizzato dall’idea che lo dimenticassi; lo sa Giovanna, parlo poco e raramente esprimo i miei sentimenti, con chiunque; accadeva anche con lui. La lettera e la prima edizione di ‘KI’ sono state il mio intimo responso al suo panico di essere obliato. E sono felice di averlo fatto, poiché non so esprimere con termini adatti l’appagamento, la gioia e la serenità che le cento copie donategli gli avevano arrecato. Nelle ultime tre settimane ha potuto salutare i suoi amici, i suoi affetti, donando loro copie del libro, a testimonianza di un’amicizia su cui parecchia gente aveva favoleggiato. Insomma, una sorta di sua rivincita sul significato di un sentimento diversamente commentabile (e come la si può descrivere un’ amicizia che vive permeata di beatitudine? Con quali termini terreni?), ma soprattutto un epilogo del suo essere uomo di fede. Ecco la ragione che mi porta a considerare questo testo poetico nostro, ossia, concepito insieme. A causa della terminalità della sua malattia, non avevo molto tempo a disposizione. Per cui, me lo lasci dire, sono grato a Fabio Capocci, editore delle edizioni Ponte Sisto, e a Daniela Carretti (che si è occupata dell’impaginazione, anche per la nuova edizione) poiché in sole due settimane il libro è stato realizzato e stampato. “KI. Segni dallo spirito” è un testo poetico generato principalmente dai nostri colloqui e considerazioni avvenute nel corso del tempo; è composto da tre fasi distinte ma, data la complessità del testo e non volendo esagerare, con lui ancora vivo, ho preferito dare alle stampe solo il primo atto. Sì è poi deciso, di comune accordo con Angelo, di realizzare una versione in cui trovava spazio il secondo atto un anno dopo la sua morte, e il terzo anno di editare il volume completo non in forma privata, ma pubblica. Cosa che ho promesso e che, naturalmente, farò. La nuova edizione ha una veste grafica diversa: in copertina e all’interno ci sono opere a firma di Emanuele Pantanella, particolarmente quella della copertina è un disegno che Angelo ha sempre amato e che voleva gli regalassi, ma purtroppo è un’opera amata anche da me e non ho mai ceduto (per singolo egoismo?), e comunque ora è nel libro. Ho estratto il ritratto di noi due e la lettera scrittagli unicamente perché, adesso che il dialogo si avvia verso la condivisione col lettore, oltre che intimo, trovavo inutile riproporre; al loro posto ho scelto d’inserire alcuni dei commenti scritti sui social da coloro che, conoscendolo e avendone avuta copia, ne hanno apprezzato il contenuto, e lei è tra questi. Il perché di questa scelta? Per la ragione che essendo anche questa una edizione fruibile per poche persone e, ancora, un tributo al suo credo, volevo vi stagnasse un’atmosfera di cordialità familiare, da Angelo inseguita perpetuamente”.
Cos’è per lei questo libro?
“Le parrà strano, ma non so risponderle. Non le nascondo che per parecchio tempo non riuscivo ad assimilare che piega stesse prendendo, tant’è che Castelvecchi era intenzionato ad inserirlo come inedito in ‘Sigillo di spine’, ma ottenne un netto rifiuto. Mi capitava di parlarne con Raffaella Belli sporadicamente, ammettendole che si trattava di un testo arduo da classificare. Poi però, coll’avvento della malattia di Angelo ho iniziato a comprendere, anche perché il contenuto dell’opera aveva toni di chiaro presentimento su ciò che sarebbe accaduto di lì a breve. Una sorta di preveggenza? Possibile; i poeti sono spesso chiaroveggenti. Lo sono stati Whitman, Goll, Trakl, tanto per fare un esempio. Stenterà a crederci, ma considero ‘KI’ un libro elaborato sotto dettatura. Di chi? Angeli, esseri incorporei, anime disincarnate… le chiami come meglio predilige, ma il succo non cambia: resto certo che si è trattato di un processo di scrittura automatica, una congiunzione spirituale a cui mi sono abbandonato e da cui mi sono lasciato trasportare. Non a caso più lo leggo, più mi sorprendono certi passaggi o certe associazioni di idee completamente estranee al mio stile, anche se di poesia con questa tematica iniziai a trattare quando nel 1987 preparavo il libro sul Cristo (“L’odore del nulla o l’eresia del Cristo scomposto”, Edizioni del Cardo, n.d.i.). Questo per ribadire che è un libro che sto tuttora scoprendo; però posso dirle cosa determina: il mio rifiuto di continuare a pubblicare con gli editori che di norma non pagano le royalties, o la rinuncia di divulgare un testo con editori non adatti (per la poesia, licenziare un testo con un piccolo o un grande editore cambia poco: gli editori lo editano ma non se ne occupano, non lo seguono affatto né lo promuovono. E’ la realtà): qualcuno di questi aveva chiesto di volerlo stampare, solo che, come al solito, essendo io un amabile seccatore, ho iniziato a discutere sulla scelta della collana, sulla preferenza della copertina, sul rifiuto di essere seguito da un editor (cosa mai gradita per i miei libri; per caso Penna, Virginia Woolf, Sereni, Vita Sackville-West, Ferlinghetti hanno avuto degli editor? Un ruolo imposto dalle grandi case editrici per chi ha intenzione di realizzare scrittura creativa, fatto che mi fa orrore), insomma, su come realizzare una edizione raffinata. E allora, come sovente accade, ho mandato a quel paese gli interessati e, dato che la prima stampa l’ho realizzata a mie spese quale dono per Angelo, ho preferito comportarmi di conseguenza anche per l’attuale, senza stare a discutere invano. Lei lo sa bene e lo ripeto: avere a che fare con gli editori è di una noia indicibile, a loro interessa solo vendere e guadagnare; si figuri un po’ se un libro simile sia facilmente commerciabile. Del resto alla mia età e con la mia esperienza -visto le innumerevoli pubblicazioni in trentacinque anni di attività poetica- posso anche permettermelo; inoltre, data l’intenzione a breve di avviare una mia piccola casa editrice, è anche un lavoro di prova su come intendo licenziare, in un prossimo futuro, libri di poesia”.
Scrittura automatica, congiunzione spirituale… sia più chiaro; davvero, non è accettabile che lei non sappia interpretarlo…
“Cosa vuole che le dica? Lo ha letto, e lei stessa ha commentato come si tratti di un grappolo di versi che ti lacera il cuore, di un incanto che scuote, lasciandoti svuotato da ogni senso possibile. E’ questo che lei pubblicò sulla sua pagina social, no? Vale anche per me: replico, è un libro che sto scoprendo e su cui sto lavorando ancora adesso”.
Bene, proferiamo del secondo atto, “Modifica sempiterna”. Ha appena detto che il libro si compone di tre sezioni e che in accordo con Cordelli le due restanti sarebbero state stampate in un arco di tempo da voi circoscritto. Però in questa sezione scrive: “…io scruto l’urna da mattina a sera/ pedinando d’avvertire l’incomprensibile/ incarnando mantra degli assennati d’Oriente/ intorno agitando campanelle/ e colpi nelle ciotole di metallo/ e bianco latte di mucca versato/ com’è d’uso nei riti funerari tibetani/ sempre indugiando segnali percezioni dispacci/ dall’invisibile e dall’universo/ perché spetta a me ora dare voce/ e novella lingua al tuo cuore bruciato/ in manifesto silenzio”; e ancora: “Fruscii, rumori, voci ovattate,/ presenze e impronte sul letto/ di notte mi destano d’improvviso,/ -sei tu? M’alzo, perlustro stanze/ della casa, anche i gatti sono fuggiti/ pei loro giri serali, appaiamo solo io e te;/ ma resti sigillato per bene nel tuo scrigno/ e di certo ardua t’è l’impellenza di venirne fuori”. Scusi, ma a me sembra che questi versi siano stati scritti dopo la sua morte.
“Diamine che attenzione!, non le sfugge nulla. Dovrei qui soffermarmi sul processo creativo, mutato notevolmente in questi ultimi anni. Sa bene come la musa non si presenti ogni mattina per consumare una colazione insieme, tutt’altro. Se da ragazzo ero solito scrivere versi terminandoli nell’arco di qualche minuto senza mai tornarci sopra, adesso annoto idee, sensazioni, percezioni per poi combinarle nell’attimo in cui l’ispirazione è chiara, diretta. Così, mentre per il primo atto tutto era già ultimato, per il secondo e il terzo mi sono lasciato coinvolgere dall’esperienza di questa morte; di conseguenza mi è capitato di inserire nel testo già elaborato influenze e fervori presentatisi dopo. Quindi perché non intercalarle? Il libro per e su Angelo è questo, non è mia intenzione scriverne un altro, accadimento tra l’altro capitato anche col saggio biografico su Dario Bellezza. Inoltre non necessito di licenziare un libro ogni due o tre anni, anche perché il ‘controllo’ da me operato sui versi è ora più pregnante, cioè, è mia intenzione essere certo di quel che vado, non scrivendo, ma licenziando. E’ possibile che quando queste poesie saranno editate per un pubblico vasto vi siano variazioni e modifiche significanti. Intendo dire che, se mi sarà possibile, vorrei eliminare nel testo tutta l’emotività soggettiva dell’esperienza, che deve restare intima e non fruibile a chiunque. Per ciò che concerne la scrittura diretta o la congiunzione delle anime il dialogo sarebbe troppo lungo e trattarlo qui risulterebbe poco esaustivo. Ad ogni modo, si tratta di certezze. Ora, sappiamo bene come ognuno di noi si ponga il quesito di quel che potrà accadere dopo la morte. Alcuni, scettici, non sono intenzionati a indagare sulla questione ed è un peccato poiché penso che arriveranno al capolinea completamente impreparati (del resto non è questo che insegna il buddismo tibetano o la filosofia zen? Mishima era solito dire che, al pari dei samurai, ognuno di noi dovrebbe alzarsi al mattino intuendo che quello potrebbe essere l’ultimo giorno sulla terra e dunque consigliava di essere accorti e preordinati ad un evento possibile in ogni momento). E come ci si preordina? Ascoltando il proprio cuore, la propria anima, la coscienza: la chiami come vuole. Io sono interessato a questa tematica da quando ero piccolo, sia per eventi medianici capitatimi, sia per predisposizione psicologica (la mia poesia ne è deposizione). Come dettole prima, oggi l’argomento è vasto e vi sono pubblicazioni esaurienti; basta andarsele a cercare. Poi ognuno se ne farà una propria idea, inutile discuterne, sono predisposizioni del cuore che debbono essere sostenute, almeno per ciò che mi riguarda e trattiene ancora in questo mondo. Il discorso non muta nemmeno sulla congiunzione delle anime: non siamo mai nati, non siamo mai morti (decantato da Battiato, che si è servito di parecchi trattati buddisti e spirituali per analizzare nei suoi testi simile tematica) è una realtà: essendo anime eterne, noi decidiamo di entrare nel tempo per conseguire esperienze scelte prima di cadere sulla terra. E prima di cadere sulla terra viviamo l’eternità nei vari mondi dell’universo, talvolta anche in gruppi predefiniti (di qui il grado di evoluzione spirituale della propria coscienza), ed è con le anime del nostro insieme di appartenenza astrale che azzardiamo di compiere questo nostro viaggio terrestre. Non esiste il caso, non esistono le coincidenze, non sussistono le anime gemelle: tutto è già sottoscritto prima della partenza dai mondi invisibili, incorporei. Lo so, posso essere preso per pazzo, e dunque? Come ogni argomento di fede tutto questo né si può provare scientificamente (ma anche qui sono state fatte scoperte interessanti), né si può condividere: è qualcosa che vive e alberga nel cuore. Ritengo siano fortunate le persone che l’intuiscono. Ed ora la poesia: la consapevolezza di essere un poeta e un poeta dello spirito s’è marcata nel corso del tempo, e per concretizzarla mi vengono in aiuto gli incorporei (e per tornare all’esperienza di Battiato, questa era una faccenda che egli stesso spiegava benissimo): visioni, indicazioni, pressioni, congetture: tutto viene imboccato alla mente tramite una sorta di trance; del resto, sarebbe possibile scrivere versi simili restando lucidi? Non penso, o perlomeno questa è la mia intuizione, e va bene così. Gli altri commentino come credano, io ho un sogno -poetico, ovvio- e di questo sogno ne faccio bandiera, cosciente che nella mia scrittura non posso più tacere. Una lettura difficile? Può darsi, ma l’esperienza della vita cos’è se non la condiscendenza totale delle problematicità? Evidenza capitata al grande Carlo Coccioli quando, intrattenendosi sui suoi saggi a tematica filosofica religiosa annotava che era ‘cosciente del fatto terribile che ogni giorno si facesse capire sempre meno’. Penso accada a chi è predisposto per il ‘grande evento’. Oltre questo non saprei cosa dire”.
Sia Dario Bellezza che Angelo Cordelli hanno scelto lei per condividere questa esperienza. Se ne è chiesto la ragione? L’attuale numero è dedicato all’eredità. Che tipo di lascito le hanno donato esperienze simili?
“Angelo -da uomo di fede- restò colpito dal saggio su Dario. Non si capacitava in che modo la serenità della presenza di un amico potesse far superare l’angoscia, la paura, la ribellione ad un poeta controverso, ma soprattutto era segnato dalla compassione e dal dono umano reciproco che io e Dario avevamo inteso. Credo fosse conseguenziale per lui scegliermi (con invidia di chiunque, le assicuro: si figuri, per gli altri un parroco che predilige un poeta al servizio dei parrocchiani è indecente): era certo della mia riservatezza, del mio rispetto, della mia deferenza nei riguardi della morte (e in questo sono parecchio buddista: so condurre, è una questione della mia natura, anche poetica; legga “Saper accompagnare” di Frank Ostaseski -sottotitolo, ‘Aiutare gli altri e se stessi ad affrontare la morte’ o “L’educazione del cuore” di Gibran e capirà cosa intendo), insomma, si fidava, per questo mi ha consegnato le sue ultime volontà e ha preteso che fossi custode delle sue ceneri (vede? Ritorna il suo messaggio: lui mi costudisce dal cielo e io lo sorveglio qui in terra). E poi, mi ha voluto perché ci si voleva bene, ma bene per davvero. Vi sono però delle differenze: quando capitò con Dario ero relativamente giovane, avevo trentaquattro anni, e la relazione, l’esperienza, anche innanzi alla morte e ad una morte per AIDS, era strettamente di natura poetica, ossia anche ingenua, se vuole. Con Dario eravamo amici, ma non strettamente intimi. Più che altro fu lui a percepire in me delle potenzialità che non credevo di possedere. E il suo lascito, soprattutto umano, è in un libro che considero uno tra i miei più sentiti. Con Angelo invece è capitato che s’è siglata una propensione compassionevole, soprattutto ora che la nostra società vede e vive la morte come fatto puramente clinico e l’esperienza del Covid ne è testimonianza. Io invece sono portato a credere che la morte sia un accadimento di enorme valenza non solo psicologica, ma emotivamente spirituale. La relazione con chi amiamo e da cui siamo amati, la concezione di divinità possibili, la conoscenza del dolore, in altri termini, l’altruismo. Ecco perché diviene significativo per chi affronta questa esperienza circondarsi di persone che si ritengono adatte, ossia in grado di raccogliere la sofferenza altrui. Credo -ma potrei cadere in errore- di essere stato un utile spunto di riflessione -anche se in forme diverse- sia per Dario come per Angelo. Prova ne è una struggente lettera che Angelo mi ha scritto due giorni prima di morire all’interno della seconda di copertina del nostro libro; e, ad ogni modo, ho cercato di fare e di dare il meglio che potessi fare o dovessi dare. Oltre le ipocrisie o i conformismi culturali, si è trattato di esperienze che hanno fornito risposte a degli interrogativi spesso perpetui. Sebbene l’eredità umana, misericordiosa, una eredità anche del perdono, è qualcosa difficile da chiarire e risolvere con parole esaustive, penso che ‘Il male di Dario Bellezza’ o ‘KI. Segni dallo spirito’ possano coinvolgere qualsiasi lettore a non respingere nulla, a raccogliere tutto il possibile, a portare dentro di loro esperienze simili, a mettervi sé stessi, interamente. Non si può scacciare il dolore, ogni dolore: è una via alla integrità del cuore; solo così si può capire che ogni contatto non è solo eredità, ma un meraviglioso dono”.
Cosa pensa di aver raggiunto con queste nuove poesie? Mi sembra di ricordare che quando uscì la sua opera omnia lei era intenzionato a sospendere nuove pubblicazioni…
“E’ vero. Poi però accadono eventi che coinvolgono il tuo sentire e, per quel che mi riguarda, alcuni sentimenti riesco a esporli solo in poesia. Il mio rifiuto di pubblicare va di pari passo con una crescita spirituale che non necessita di riscontri, per lo meno pubblici. Si tratta di una ricerca che coinvolge l’interiorità e non l’esteriorità. Forse è per questo che lo stile usato adesso può risultare enigmatico, e per chi ha poca frequentazione con letture specifiche, il ‘KI, può conseguire una dolorosa spina nel fianco: non solo ragguaglio di come la vita non termini con la morte fisica, ma resa ad una gioia che non è felicità (la felicità è fatta di momenti e di forme di dipendenza; lagioia invece permea l’essere nel profondo), ma risveglio dell’amore. I saggi indiani indicano come noi ‘siamo amore e viviamo nell’amore. Siamo in uno stato d’amore con tutti gli esseri senzienti; impariamo, cioè, ad accettare che siamo un’unica coscienza, un’unica famiglia, in molti corpi diversi’ (e qui torniamo al tema della congiunzione delle anime. Vede? Si tratta di un serpente che si morde la coda, null’altro); perlomeno questa è la lezione, ad esempio, di Ram Dass, divulgatore di filosofie orientali quando afferma che ‘una volta che si è sperimentato l’amore incondizionato, non possiamo più fuggire. Possiamo correre, ma non nasconderci. Il seme è piantato e crescerà a suo tempo’. Come dire che l’amore è uno stato dell’essere e non di certo un viaggio interminabile di chilometri e chilometri per trovare una felicità apparente, che non può essere tale se non emerge dal nostro cuore, da dentro di noi. Insomma, bisogna prendere come esempio l’esperienza di Cristo, che si è dissolto nell’amore, talmente disperso che in nome dell’amore s’è lasciato ammazzare. E i veri poeti che altro sono se non la deduzione di saper avvertire l’amore con evidenza cosmica? Non so cosa potrei aver raggiunto con i versi del ‘KI’, ma resto certo che segna uno spartiacque tra ciò che ho scritto prima e quel che sto scrivendo adesso, e ‘Sigillo di spine’ ne è conferma: c’è un prima e ora c’è un dopo. Il dopo è il ‘KI’. Ed è in questo anomalo seguito che credo si possa rintracciare il senso di una necessità che spinge l’animo ad affrontare tematiche poco comuni in poesia (ma poi mica tanto inusuali se leggiamo le poesie di Blake o di Clemente Rebora o di Turoldo). Forse la soluzione è nel perdersi, nell’abbandonarsi all’amore delle anime, un amore che proviene dall’essenza più elevata dell’essere (anche questo concetto lo spiega molto bene Ram Dass). Perlomeno la poesia dovrebbe innalzare simili stati dell’animo. Ah, sì, ovvio: non è detto che io ci riesca, magari resta solo una mia illusione, ma so per certo che in ‘KI. Segni dallo spirito’, oltre all’esperienza e alla dimostrazione della prosecuzione della vita dopo la morte, vi è l’intero mio vissuto poetico, una sorta di biografia dell’anima, una summa sul come muta e si trasforma un pensiero, uno spirito, un cuore; modifica che a sua volta può creare quella vibrazione empatica che permette di sbrogliare l’intricato mosaico che si chiama vita”.
Baden-Powell, o meglio, con tutto il titolo Sir Robert Stephenson Smyth Baden-Powell, primo Barone di Gilwell, è il fondatore del movimento dello Scoutismo a livello mondiale. Una personalità che andrebbe studiata e non solo raccontata: Generale delle British Army, Educatore, Scrittore. Un inglese della Londra bene che da militare diventa una guida, un esploratore, tanto da essere temuto dagli indigeni dell’Africa nera che lo temevano, tanto da dargli il nome di Impeesa, il lupo che non dorme mai, per il suo coraggio e la bravura nell’esplorare e nel seguire le tracce.
Uno dei tanti insegnamenti che ha lasciato ai suoi Scout e a tutte le generazioni a seguireè:
“Treat the Earth well. It is not inherited from your parents, it is borrowed from your children.”
Che potremmo tradurre come:
“Noi non abbiamo ereditato il mondo dai nostri padri, ma lo abbiamo avuto in prestito dai nostri figli e a loro dobbiamo restituirlo migliore di come lo abbiamo trovato.”
Un insegnamento antico, mutuato da un detto di quel popolo orgoglioso che sono i Masai.
Ma è così a pensarci: quello che noi ora abbiamo, quello che oggi gestiamo e utilizziamo, proviene a noi e siamo destinati a lasciarlo.
Se pensassimo fino in fondo a questo principio, non ci comporteremmo con fare da parassiti, come fanno gli animali o gli agenti patogeni parassitari che consumano tutto quello che c’è pensando poi di abbandonare l’ospite per andare a colonizzarne un altro. Un altro corpo da infettare, da consumare, per riprendere il ciclo.
Abbiamo fatto così con il nostro pianeta, finché c’erano altri territori da conquistare e da colonizzare – a pensarci anche Baden-Powell entrava in questo meccanismo, alla sua epoca – ma ora che sappiamo che abbiamo solamente questo pianeta, abbiamo delle risorse che stanno per finire, dovremmo proprio cambiare paradigmi di ragionamento.
Le risorse sono nella terra da quando si è formata o ha origini lontanissime nel tempo: il petrolio, giusto per citarne uno, ha una formazione nel Giurassico, tra i 200 e i 145 milioni di anni fa. Milioni di anni fa.
I nostri genitori lo hanno usato per il loro progresso e noi lo stiamo continuando ad usare per avere sempre più energia.
Loro, i nostri genitori, hanno avuto un momento di riflessione – l’austerità per la difficoltà nell’approvvigionamento del petrolio – ma non l’hanno ascoltato, ora tocca a noi. E’ un ragionamento grande, straordinamente “alto”, che ci parla di risorse energetiche, di approvvigionamenti, di strategie industriali, di piani nazionali o europei, sicuramente. Ma ci parla anche delle semplici cose, dei comportamenti che abbiamo quotidianamente. A volte è sufficiente fare un piccolo gesto per generare un grande cambiamento, come quando si mette, tutti i giorni una moneta in un salvadanaio per creare qualcosa da lasciare in eredità dopo.
Come diceva Martin Luther King, “È sempre il momento giusto per fare la cosa giusta.“.
Antonio Longo è una persona decisa e dalla visione limpida e netta, lo si percepisce al primo sguardo, dai suoi occhi che guardano intensamente l’interlocutore con il suo sorriso gentile. Lo incontro – virtualmente – alla scrivania del Movimento Difesa del Cittadino (MDC) del quale è divenuto Presidente da alcune settimane con un voto unanime dei rappresentanti. Laureato in Scienze Politiche, Specializzato in Sociologia della Comunicazione, giornalista professionista dal 1991, Antonio Longo ha dedicato la prima parte della sua carriera all’attività giornalistica e a prestare consulenza ad istituzioni pubbliche ed aziende private sulle problematiche della comunicazione. Con il tempo, si è avvicinato al mondo del consumerismo e ai relativi diritti dei cittadini ed utenti, fino ad aderire al Movimento Difesa del Cittadino, diventando uno dei massimi esperti nazionali, e fondando nel 2003 Help Consumatori, la prima e unica agenzia quotidiana d’informazione sui diritti dei cittadini-consumatori e sull’associazionismo organizzato che li tutela. Tutt’ora ne è il direttore. E’ stato Presidente nazionale del Movimento dal 1998 al 2016, successivamente Presidente Onorario, dal 2016 al 2021. Per dieci anni, con due mandati consecutivi, è stato componente del Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE). A Bruxelles ha rappresentato i consumatori italiani su indicazione unanime delle associazioni nazionali e in questi anni ha redatto pareri e presieduto gruppi di lavoro su varie tematiche, tra cui i diritti dei consumatori, le nuove tecnologie, Tlc, energia, protezione dei minori su internet e pagamenti elettronici. Dal 2015 al 2018 ha presieduto il Gruppo permanente Agenda digitale.
Dal gennaio del 2020 ha riabbracciato MDC con una nuova energica presenza, dimostrando il suo immutato attaccamento verso l’associazione, accettando il delicato incarico di Coordinatore Generale Nazionale. Nel dicembre del 2021 viene eletto nuovamente Presidente nazionale del Movimento Difesa del Cittadino, con il desiderio di rafforzare l’Associazione, intensificando la presenza sul territorio, promuovendo progetti, studi e campagne di sensibilizzazione rivolte alla tutela dei consumatori.
Un lungo Curriculum il suo, dedicato alla Comunicazione e alle organizzazioni dei consumatori. Direi quasi un precursore del mondo del consumerismo. Com’è iniziata questa avventura? Perché dalla comunicazione è passato a questo tema?
Una avventura davvero, iniziata con due telefonate: a metà del 1998 mi chiamano Altero Frigerio, direttore del Salvagente, il settimanale dei consumatori, ed Ermete Realacci, presidente di Legambiente. Altero era un mio amico dai tempi dell’università, Ermete lo conoscevo dagli anni del mio lavoro come conduttore e caporedattore di Italia Radio, l’emittente All news del PCI-PDS.
Mi parlano di una associazione che ha bisogno di una guida, un presidente, perché chi la dirigeva aveva preso altre strade. Mi informo meglio e scopro che il Movimento Difesa del Cittadino (MDC) aveva illustri natali, da Giorgio Ruffolo a Enzo Mattina, da Pierre Carniti a Carlo Caracciolo. Inoltre in quel periodo andavo alla ricerca di un lavoro extra giornalistico, perché avevo lasciato la radio con altri redattori nel 1994, quando era stata venduta al Gruppo Espresso e facevo consulenze per Centri di ricerca economici e sociali. Quindi ho accettato e a ottobre del 1998 sono stato cooptato ed eletto presidente nella sede di Piazza Cola di Rienzo. In fondo potevo continuare a scrivere, a comunicare con i cittadini, impegnandomi sul versante consumeristico proprio quando era stata appena approvata dal Parlamento la legge 281 che riconosceva le associazioni consumatori, costituiva il Consiglio nazionale consumatori e utenti (CNCU) presso il Mise e quindi faceva diventare le stesse associazioni protagoniste riconosciute non solo dai cittadini, ma anche dalle Istituzioni. Era una bella sfida!
Torna ad essere il Presidente del Movimento Difesa del Cittadino dopo 5 anni, dopo esserlo stato dal 1998 al 2016 e dopo esser stato Presidente Onorario. Questo numero di Condivisione Democratica è dedicato al concetto dell’eredità, intenso anche come senso della responsabilità e dell’impegno che deriva dal gestire pro-tempore non “proprio” ma “comune”, “collettivo”. Come responsabile di una associazione, come una comunità di persone, come vive questa eredità?
Dopo aver trascorso 18 anni come presidente MDC, nel 2016 avevo deciso di lasciare la presidenza per favorire un ricambio che portasse energie e idee nuove. Ero impegnato dal 2010 anche in Europa, essendo stato designato dal Governo italiano, dopo il voto del CNCU, a rappresentare i consumatori italiani nel Comitato Economico e Sociale Europeo, l’Istituzione comunitaria in cui è rappresentata la società civile organizzata e cioè imprese, sindacati e associazionismo. E nel 2015 ero stato confermato all’unanimità dal CNCU per un secondo mandato europeo. Volevo quindi dedicarmi di più e meglio alle tematiche comunitarie che hanno nei problemi della tutela dei consumatori uno degli ambiti più complessi ma anche più affascinanti del dibattito e dell’azione europea.
Nel 2020 sono stato invitato a tornare nel Movimento, che era in difficoltà economiche e organizzative, e ho accettato con grande entusiasmo. Non potevo abbandonare l’associazione che avevo contribuito a decollare e far crescere, facendola diventare una delle più importanti e autorevoli nel mondo consumeristico. Da questo punto di vista quindi si è trattato davvero di una presa di consapevolezza che l’eredità non poteva essere mandata al macero, mi richiedeva un nuovo impegno per superare le difficoltà e rilanciare il nome e il prestigio del Movimento. Ho accettato, a titolo gratuito e senza alcuna formalizzazione, di presiedere un Comitato di risanamento e insieme con il Comitato di Presidenza ho ripreso in mano la situazione economica e finanziaria, riorganizzando lo staff della sede nazionale, riannodando fili che erano interrotti con altre associazioni consumatori, aziende e istituzioni. I dirigenti mi hanno chiesto nel 2021 di tornare a rivestire il ruolo di presidente. Ho riflettuto molto prima di accettare, anche perché ho superato i 70 anni… e alla fine ho accettato, in coerenza con la mia convinzione che bisogna partecipare alla gestione dei beni comuni, alle battaglie per la tutela dei cittadini-consumatori.
E’ ancora una volta una sfida che con l’aiuto di tutti gli amici di MDC sono sicuro che vinceremo. Il miglior viatico è stato l’elezione all’unanimità lo scorso dicembre. Spero di onorare al meglio questo impegno.
Il Movimento Difesa del Cittadino ha una diffusione territoriale su tutta Italia e ha stretti legami anche con altre realtà dell’associazionismo, mi viene in mente, per citarne una, quella con Legambiente. Quanto è necessario essere “vicini” ai cittadini in un mondo così digitale oggi? E’ importante fare un fronte comune?
Venti anni fa una associazione consumatori aveva sostanzialmente un compito preciso e definito: tutelare i cittadini contro gli abusi delle società che fornivano servizi di elettricità, tlc, gas o servizi finanziari come banche e assicurazioni. C’era poi tutta la partita della Pubblica amministrazione con le sue vessazioni. Oggi lo scenario è cambiato profondamente. Con l’avvento delle nuove tecnologie digitali sono esplosi i problemi del digital divide, le fake news, le truffe on line, l’identità digitale e il conseguente furto di identità, il commercio on line…insomma tutto uno scenario complesso di fronte al quale le competenze tradizionali dei nostri avvocati ed esperti non sono sufficienti a dare risposte adeguate e offrire tutele.
Lo stesso è avvenuto per l’ambiente e la sensibilità di fronte ai problemi del riscaldamento climatico, alla tutela del territorio, dell’aria, dell’acqua. La convergenza di consumatori e ambientalisti è nell’ordine delle cose. Noi come MDC abbiamo da sempre un rapporto strutturato con la maggiore associazione ambientalista italiana, Legambiente, con la quale abbiamo anche una offerta di tesseramento comune, realizziamo progetti, facciamo insieme esposti alle Autorità di regolamentazione.
Da soli faremmo ormai ben poco, insieme con le altre associazioni consumatori, ambientaliste e del volontariato siamo tutti più forti e più adeguati alle crescenti esigenze dei cittadini
Il Movimento che presiede è teso non solo alla protezione dei consumatori, ma è anche impegnato nella promozione di progetti, di studi e campagne sensibilizzazione rivolte alla loro tutela attraverso forme di cittadinanza attiva, la promozione della libertà di informazione dei propri diritti per una gestione consapevole. Quindi non solo consumatori, ma Cittadini a tutto tondo?
Come dicevo sopra le tematiche e le esigenze a cui dobbiamo fare fronte sono diventate più complesse, toccano ambiti che prima ci erano sconosciuti come il digitale e l’ambiente, sono cambiati gli scenari, perché il web e il digitale hanno ampliato enormemente le opportunità per i cittadini, ma anche le possibili difficoltà nei servizi e negli acquisti dei prodotti. La società postmoderna e digitale ha cambiato l’approccio quotidiano alle tematiche del consumo. Emergono continuamente situazioni nuove, pensiamo agli ultimi 20 mesi e alla pandemia con tutti i cambiamenti nella nostra vita quotidiana, dalla DAD per i ragazzi allo smartworking per i genitori, dalle cautele nella vita collettiva col green pass alle pesanti ricadute sulla gestione ordinaria della sanità. A proposito della pandemia, mi piace ricordare che un vantaggio di questa drammatica situazione (forse l’unico, insieme ad uno sviluppo forte della solidarietà in forme anche nuove) è l’aver “costretto” tutte le famiglie e le imprese ad aumentare le competenze digitali, per le prenotazioni dei vaccini, lo scarico dei greenpass, gli acquisti della pizza on line e la conseguente esplosione del commercio elettronico.
La cittadinanza sta diventando un esercizio sempre più complesso, a cui rispondiamo realizzando progetti e iniziative. E’ significativo che gli ultimi progetti finanziati dal Ministero dello sviluppo economico li abbiamo titolati “E-consumers” e “MDC full digital”. Significativo anche che negli ultimi tempi ci siamo molto impegnati sul tema del sovraindebitamento, a causa della situazione di povertà, perdita del poso di lavoro e precarizzazione crescente causate dalla pandemia. Ecco, il nostro ruolo si sta ridefinendo, si sta ampliando, siamo chiamati a sfide sempre più complicate e dobbiamo attrezzarci adeguatamente.
Il Movimento Difesa del Cittadino, forse più di altre realtà del mondo dell’associazionismo, è coinvolto nelle sfide che la digitalizzazione ci pongono ormai da anni e sempre in modo più forte, più profondo, più pervasivo nelle nostra vita quotidiana. Cosa ci dobbiamo aspettare nel futuro di questa sfida?
Per noi le sfide saranno soprattutto nel rendere sempre più MDC una associazione totalmente full digital, come abbiamo titolato il progetto sopra citato. Vogliamo offrire tutto attraverso i canali digitali, dal tesseramento all’assistenza, dall’informazione alla consulenza vera e propria sui vari tempi. Vogliamo approfondire sempre più i temi della tutela dei minori, che vanno guidati nell’uso di internet. Nello stesso tempo ci stiamo già impegnando nell’accrescimento delle competenze digitali delle persone anziane, meno acculturate., aiutandole a superare il digital divide che rischia di isolarle e impedire sia l’esercizio dei loto diritti che l’accesso ai servizi. Pensiamo all’identità digitale, ormai indispensabile per accedere all’agenzia delle entrate, per iscrivere i figli alla scuola o per cambiare il conto corrente di accredito della pensione. Domani potrà arrivare il voto elettronico per il sindaco o il parlamento. Già oggi è possibile firmare per via digitale l’adesione ai referendum abrogativi o alle proposte di legge popolare. Conoscere internet o saper utilizzare la posta elettronica o l’identità digitale è il nuovo alfabeto.
A volte si sentono toni fantascientifici, quando non proprio distopici, di lotte contro aziende multinazionali più forti degli stessi governi che sembra aver fatto saltare gli equilibri democratici che esistevano negli anni passati. E’ davvero così?
Indubbiamente oggi Facebook o Twitter condizionano l’informazione politica, fanno cadere governi, provocano inchieste giudiziarie. Pensiamo a cosa è successo con Wikileaks, con la pubblicazione di documenti riservatissimi di governi di tutto il mondo, al caso Assange, con informazioni che hanno fatto conoscere trattaive e accordi segreti, manovre per far cadere governi o dare l’assalto a gruppi finanziari…
Molti governi hanno reagito duramente con inchieste penali e proposte di limitazione del diritto di pubblicazione. Parallelamente sono stati denunciati molti tentativi di condizionamento delle elezioni negli USA, Germania, Italia e altri Paesi attraverso fake news e altri interventi sui canali digtali.
Da parecchi anni c’è l’Internet governance forum, una iniziativa dell’ONU alla quale anche io ho partecipato nel 2016 nella sessione tenuta a Istanbul in rappresentanza dei consumatori europei, in cui si cerca di dare delle regole condivise sulla tutela dei minori, contro le truffe informatiche, per la difesa della libertà di espressione e dell’esercizio dei diritti civili e politici. I risultati non sono esaltanti ma è importante che il dibattito continui.
Mi piace concludere tornando al digitale. E’ una rivoluzionaria tecnologia che ha ridotto tempi e spazi, permettendo di fare un acquisto a migliaia di km e da qualsiasi punto della terra, di vedere un familiare che si trova in un altro Paese, di gestire il nostro conto bancario senza muoverci da casa e senza limiti di orario. Ma ha anche prodotto truffe, mobbing, pericoli, minacce. Anche il nucleare piò essere utilizzato per produrre energia o per la bomba atomica o per indagini e terapie mediche prima impossibili e che ora offrono grandi opportunità di salvezza. La tecnologia è neutra, dipende dall’uso che se ne fa. Non si deve demonizzare né esaltare, ma deve essere usata con intelligenza e sotto il controllo delle istituzioni democratiche.
Eredità, in diritto, indica generalmente il patrimonio ereditario, globalmente considerato d’una persona fisica, che alla sua morte passa nella titolarità giuridica d’un altro soggetto, l’erede, per successione a causa di morte. Il fenomeno ereditario rappresenta da sempre un aspetto cruciale dell’organizzazione istituzionale e sociale.
Molte culture hanno da sempre adottato un meccanismo successorio che privilegia la linea paterna. Per molto tempo anche in Italia il fenomeno successorio ha seguito il ‘diritto di primogenitura’, attribuendo il patrimonio ereditario al primo figlio maschio della persona deceduta.
E le donne? Per parlare dell’eredità delle donne scomodiamo nientepopodimeno che il libro della Genesi.
All’inizio il Dio degli ebrei aveva creato Adamo e Lilith. “Insieme li creo, uomo e donna li creo”, non uno dalla costola dell’altro. Furono creati insieme. Così è scritto nella scrittura originaria della Genesi. E così, in seguito, si ebbe la prima censura della storia. I rabbini presero un bisturi e rimossero sapientemente questa parte. E insieme a questo la sua collera, perché nell’atto sessuale Adamo pretendeva sempre di stare sopra di lei. Rimossero la pretesa di parità da parte di Lilith nell’alternanza del potere. Rimossero il disgusto di Adamo nel vederla coperta di saliva e di sangue, simbolo della grande energia vitale. Rimossero la sua forte carica sessuale e la potenzialità aggressiva nella difesa delle proprie ragioni. Lilith avrebbe potuto non esistere fin dall’inizio, ma evidentemente la sua esistenza era necessaria a segnalarne la conseguente oppressione. La parte rifiutata dell’archetipo femminile. La prima donna a caricarsi del simbolismo dei divieti posti sul desiderio femminile, e non solo quello sessuale.
Come scrive Romano Sicuteri in “Lilith e la luna nera”: “su di essa vanno ad aggregarsi tutte le influenze culturali, religiose e psicologiche trasformandola in un vero tabù”.
Togliendo di mezzo lei, questa parte della femminilità si inabissa nell’inconscio collettivo. Lilith, proprio perché rifiutata, diventa cattiva, sfrenata, violenta e nemica degli uomini che volevano sottometterla. Finisce nel mondo dei diavoli in una sorta di inferno senza possibilità di redenzione. La Bibbia la toglierà di mezzo, ma nell’immaginario delle popolazioni giudaico-cristiane sopravviverà a lungo, almeno fino al sedicesimo secolo, come diavolessa che uccide i maschi colpendoli nel sonno. In questo mito non si fa altro che raccontare la forza aggressiva delle donne e il loro desiderio di essere alla pari nella costruzione del mondo e nella trama della relazione. Attenzione però a caricare la parola aggressività del significato più appropriato e questo significato lo troviamo nel libro “l’aggressività femminile” di Marina Valcarenghi, psicoanalista di formazione junghiana, docente di psicologia analitica e psicoanalisi degli aggregati sociali:
“Con la parola aggressività intendo quella disposizione istintiva che orienta conquistare e a difendere un proprio territorio fisico, psichico e sociale nelle sue forme più diverse; o, in altri termini, quell’istinto che guida a riconoscere, ad affermare e a proteggere la propria identità. Con lo stesso significato, del resto, il termine aggressività è utilizzato nel linguaggio dell’antropologia e dell’etologia, oltre che della psicoanalisi. In nessun caso mi riferisco qui all’aggressività come Intesa nel linguaggio corrente con il significato di aggressione di uno spazio altrui.”
L’istinto aggressivo dipende dalla qualità del soggetto, dalla sua coscienza, dal suo inconscio e dal modello sociale in cui vive, perché l’aggressività, come qualunque forma dell’istinto, non contiene in sé un codice etico. Il punto è che l’aggressività umana è malata e oscilla fra due poli distruttivi, la rimozione e la depressione da una parte, e l’aggressione dall’altra. Che poi coincidono con l’incapacità di difendere il proprio territorio o l’incapacità di riconoscere il territorio altrui. Da qui forse ha origine anche quella confusione terminologica fa aggressività e aggressione, che induce a semplificare la complessità dell’istinto e ignorare la differenza culturale fa violenza e autodifesa.
Questa è la fondamentale premessa che fa Marina Valcarenghi nella sua introduzione.
È stata percepita per molto tempo un’inferiorità di genere ed è lì che deve essere cercata l’origine del deficit aggressivo che viene considerato, in modo erroneo, del tutto naturale, perfino in ambito scientifico. La Valcarenghi riscontra nelle pazienti una condizione di ipoaggressività o iperaggressività per compensazione. In altre parole due diverse manifestazioni sintomatiche di uno stesso problema: la difficoltà a riconoscere e a proteggere la propria identità e il proprio progetto di vita. Due manifestazioni che portano allo stesso risultato: l’inevitabile sconfitta della donna. Vi chiederete dunque come è possibile che si consideri naturale un modo di essere che genera sofferenza è che produce sintomi. Nella personalità maschile le cose non stanno così. Hanno tendenzialmente un rapporto più confidenziale con la loro aggressività e un meccanismo di autodifesa più naturale.
Secondo Konrad Lorenz, padre dell’etologia, il deficit aggressivo comporta l’impossibilità di affrontare compiti e problemi, la caduta di autostima e la perdita drammatica del senso dell’umorismo. Stiamo dunque parlando di una patologia del l’istinto aggressivo, non indagata proprio perché ritenuta normale anche dalle donne e scientificamente irrilevante da una psicologia arretrata. La stessa che considerava naturali il masochismo e il narcisismo nella sfera femminile. Ipotizzare che le donne non siano in grado per natura di difendere la propria identità significa affermare che le donne non siano pienamente soggetti e quindi in grado di esprimersi come tali nel mondo. Ma come mai questo deficit aggressivo, presunto naturale, comporta sofferenza e sintomi? Eppure questa ipotesi, oltre ad essere sostenuta dalla medicina e dalla psicologia del profondo, è stata imposta dalla religione e dalla politica, con la forza delle armi, del rogo, della tortura, da una legge che ha sancito per un tempo immemorabile l’inferiorità è la debolezza delle donne. Questa legge non è stata sostenuta solo da uomini, ma anche dalle donne, e ancora oggi in parte lo è. Ma non è mai stato dimostrato che le donne siano prive di un istinto aggressivo, Ne consegue dunque che ne siano state sistematicamente private. Un istinto però non è eliminabile può essere il massimo represso, respinto nell’inconscio dal quale invia segnali di disagio.
Ma perché le donne ne sono state private? Già da un tempo così lontano da non averne più memoria. E cosa ha convinto tutti che questa fosse la normalità?
“Se una donna è frigida, questo è un suo problema, ma se quasi tutte le donne sono frigide e la frigidità femminile è un valore sociale perché testimonia la temperanza e buona educazione, allora diventa naturale essere frigide. E infatti così è stato. Oppure se una donna non parla in pubblico, questo è un suo problema, ma se quasi tutte le donne non parlano in pubblico perché il silenzio è un lodevole segno di modestia o perché non sono adeguate, o sono intellettualmente inferiori, o non hanno niente da dire, allora per le donne diventa naturale non parlare in pubblico. E invece non è naturale per niente. Nei due esempi proposti l’aggressività rimossa genera l’inibizione della spinta autoaffermativa sia nella sfera sessuale sia in quella sociale, ma questa operazione non è indolore, appunto perché non deriva dall’istinto ma dalla sua perversione. Ora è noto che i traumi non sono solo personali e che l’inconscio collettivo registra i traumi collettivi provocando conseguenze nella vita delle aggregazioni umane. Lo studio dell’intreccio fra l’inconscio collettivo (formato dal sedimento di traumi ed esperienze rimosse da un gruppo) e la coscienza collettiva (formata dall’insieme cosciente dei fondamenti economici, politici, religiosi e culturali di un gruppo) costituisce quella che io chiamo psicanalisi sociale (e che è quindi altro dalla psicologia sociale) e che potrebbe aiutare a rendere ragione di fenomeni antichi e complessi e, quando sia il caso, a trasformarli … In altre parole noi donne siamo all’interno di un processo in cui non possiamo avviare una liberazione personale senza spezzare le catene di un condizionamento collettivo e viceversa. La questione dell’aggressività sembra al centro di questo processo.“
Le donne non sono state le uniche vittime di questa repressione, ma sono state certo l’unica maggioranza ad esserne colpita, e in modo così diffuso e sistematico da corrompere la propria identità individuale e sociale causando una caduta verticale dell’aggressività, in quanto non si può difendere un territorio che non c’è. E questo territorio ci è stato negato a partire da una fase dell’evoluzione molto lontana. È il caso di ritrovare il coraggio di sentirci soggetti nell’indagine e a riconoscere la nostra inequivocabile complicità in quella repressione.
Chiudete gli occhi, immaginatevi il padre della psicanalisi all’inizio del ‘900 e tutta la scienza de profondo impegnata a indagare la mente umana e l’inconscio. La donna ha iniziato ad essere considerata un rompicapo in un’indagine unilateralmente definita da un modo maschile di pensare, che non ha mai dato la possibilità alla donna stessa di contribuire a spiegarsi in quanto soggetto. Jung fece un piccolo passo avanti indagando pioneristicamente la differenza di genere muovendosi nell’area delle competenze per territorio, che vede le facoltà degli uomini più sviluppate nella sfera intellettiva e spirituale e le donne nell’ambito delle pulsioni e del sentimento. Seguendo il suo principio della complementarietà degli opposti nella psiche, Jung pensava che le donne avessero il compito di sviluppare la loro parte inconscia definita Animus e collegata al pensiero, e che gli uomini, al contrario, avrebbero dovuto di conoscere i loro aspetti femminili, definiti Anima, collegati alla sfera dei sentimenti e della vita naturale.
Ora sappiamo che l’intensità pulsionale, emotiva e intellettiva è uguale in entrambi i generi, ma in forme diverse dell’energia.
Due modi complementari di prendere contatto con l’esperienza e non due modelli, entrambi mutilati, di vivere l’esperienza. Andremo così ad associare il pensiero maschile ad uno schema analitico, logico-deduttivo e penetrativo e il pensiero femminile ad un meccanismo sintetico, induttivo e ricettivo. Come è ben noto tutta la cultura occidentale è fondata sulla definizione greca di Logos, che circoscrive il pensiero maschile per eccellenza, eclissando quasi completamente il pensiero femminile, di cui ne restano vaghe tracce nella mitologia e nella storia. Basti pensare che le prime parole del Debello Gallico sono: “ Gallia est omnis divisa in partes tres”. Questo ci indica come il pensiero maschile delimita il suo oggetto di indagine, per penetrarlo ed arrivare a possedere una conoscenza. È rapido, lucido, preciso.
Il pensiero femminile è aggregativo, parte dalla contemplazione dell’insieme, non è orientato a penetrare, ma ad assorbire l’oggetto della conoscenza, senza isolare i diversi aspetti di un contesto, ma esaminandoli nelle loro reciproche relazioni (deduzione, non intuizione). Non cataloga, ma crea analogie, non è veloce né sempre preciso, ma è attento alle variabili. Può sembrare disordinato e distratto ma arriva a grandi livelli di profondità proprio perché è paziente.
Ecco, ora facciamo un altro salto in avanti e pensiamo a quelli che abbiamo definito come pensiero maschile e femminile come a processi mentali che appartengono a entrambi i generi, solo con padronanza e intensità differenti.
È sbagliato dunque parlare di uguaglianza tra uomo e donna, il punto di forza infatti è proprio la diversità. Il pensiero ricettivo e il pensiero penetrativo sono complementari, e insieme partecipano ad una funzione mentale completa e armoniosa. Nella storia questa disparità ha portato ad una sorta di delirio di onnipotenza del processo mentale maschile e alla debolezza e alla tendenza caotica del pensiero femminile, il quale respinto nell’inconscio ha assunto spesso forme irrazionali, superstiziose e paralizzanti. Lasciandolo capeggiare però, il processo mentale maschile è diventato un tiranno convinto che l’universo conoscibile sia modellato sulla sua forma. È stato avvelenato dai suoi stessi eccessi, diventando ossessivo, dispotico e paranoico. Ma sì sa che gli ossessivi finiscono per essere giocati dal loro stesso sintomo.
Marina Valcarenghi afferma infatti con una certa sicurezza che “questo sistema maschile ormai da troppo tempo inflazionato, in grado di distruggere il pianeta ma non di sfamarlo, creerà un sacco di guai in un imminente futuro se non sarà affiancato, con pari dignità, dal pensiero femminile.”
Anche nella sfera sessuale esistono due forme opposte di espressione: accogliere e penetrare. Non sono diversi il desiderio è l’appagamento, ma il modo in cui vengono vissuti. Nel corso dei secoli la repressione femminile ha vincolato l’istinto sessuale al senso di colpa, radicato nell’inconscio collettivo tanto da farne perdere le tracce alla coscienza individuale. Il conflitto fra istinto e senso di colpa provoca sintomi, come blocco del desiderio e frigidità. L’incapacità di sopportare la tensione sessuale interrompe il circuito libidico. Naturalmente questo senso di colpa è inconscio e può agire anche in contrasto con le convinzioni personali del soggetto, che può avere opinioni perfino trasgressive da questo punto di vista e nello stesso tempo essere drammaticamente incapace di provare un orgasmo. La perversione che ne deriva sposta la libido dalla sua direzione naturale verso comportamenti compensatori, come un’iperattività coatta, ansia per traguardi sociali o economici, l’identificazione insidiosa della sessualità con l’amore e l’eccesso di senso materno. La perversione più sottile però è quella che associa la sessualità in maniera univoca all’amore, come se quel sentimento elevato dovesse giustificare e liberare dal senso di colpa una naturale pulsione fisiologica, un naturale desiderio. Questa artificiale purificazione dell’istinto ha costretto tante donne a convincersi di essere innamorate anche quando avevano solo voglia di fare l’amore.
Perché la repressione della sessualità femminile, pur avendo origini così lontane, ha ancora delle ripercussioni in un’epoca di ostentata libertà e permissivismo edonistico come la nostra? Vivere liberamente la propria sessualità restituisce alle donne la dignità del soggetto, mentre vivere la sessualità in dipendenza dal desiderio altrui costringe nella posizione di oggetto, senza identità, desiderio o aggressività. Le donne hanno imparato a vivere in funzione degli uomini, ed ora, correggere un’abitudine radicata nell’inconscio collettivo genera angoscia. Questo rende più facile ad una donna spogliarsi in pubblico e prendere l’iniziativa sessuale, che non abbandonarsi al piacere, perché nel primo caso rimane nella condizione di oggetto e nella seconda no. Al contrario, l’istinto sessuale maschile ha visto uno sviluppo ipertrofico, ma contemporaneamente si è visto privato del suo valore, nel momento in cui la religione cattolica ha generato anche qui i sensi di colpa, mentre i movimenti per la liberazione sessuale di fine anni ’60 hanno riportato alla luce il corpo sia maschile che femminile, però più come oggetto di consumo. Infine la cultura edonistica e permissiva, sovrapponendosi alla tradizione sessuofobica, ha collocato il corpo tra oggetto di culto e fonte di vergogna e disagio.
“Voglio fare il musicista”: il mondo di Rosario Jermano in un libro autobiografico. Quando accade che la realtà racconti un sogno ancora più in grande.
Un musicista con l’intuizione di un percussionista che ha fame di suoni, strumenti, passione e animo. Leale, amico vero, sincero, generoso ed altruista, precursore ed anticipatore, un uomo d’altri tempi con valori grandi quanto i suoi sogni, giganti, incorruttibili e fermi come roccia col cuore. Ha rinunciato a Gato Barbieri per seguire gli impegni presi con Luca Barbarossa e molti ancora sono gli aneddoti raccontati nel suo libro autobiografico “Voglio fare il musicista” (Apeiron edizioni). E’ stato sempre nel posto giusto al momento giusto, quando tutto sembrava oro e si poteva parlare veramente di musica e di passione da seguire ad ogni costo e ad ogni prezzo, con rinunce pesanti e grandi come macigni. Franco Miseria lo ha voluto nei suoi spettacoli così come tutti i grandi autori del calibro di Pino Daniele, Renato Zero, Fabrizio De Andrè, Loredana Bertè, Mia Martini, Gino Paoli, Eros Ramazzotti, Zucchero e tutti gli altri nomi del panorama musicale dagli anni ’70 in poi. Tutti, ma veramente tutti hanno nel loro percorso artistico una o molte collaborazioni con Rosario Jermano. Uomo ed artista instancabile, coraggioso e vero come raramente capita, in un mondo difficile e faticosissimo. Ha costruito un mondo di rapporti umani attraverso la musica, fortemente voluto dai più grandi che ha saputo seguire raccogliendone la profondità, l’essenza, la natura più intima e complessa.
“Un arco di tempo così lungo non può rimanere senza ricordi”, scrive “Avevo bisogno di psicanalizzarmi da solo, di non mentire più al mio cervello, di cercare ragioni e motivazioni, chiamare per nome tutte le cose che avevo visto. Per questo ho scritto, altrimenti avrei suonato la batteria”. Un fiume in piena di ricordi il libro “Voglio fare il musicista”, che travolge il lettore e presenta i grandissimi della musica italiana nella loro verità assoluta, come fossero tutti messi a nudo per farli sentire ancora più vicini a chi legge, a chi li ha amati ed a chi li ha ascoltati con il cuore gonfio per tutta la vita.
“Mio padre è quell’uomo che mi ha insegnato ad essere libera, a credere nelle passioni e nei sogni più alti. Ha creduto nel mio talento alimentando una sensibilità a volte pericolosa per un mondo di marmo come quello in cui viviamo. Mi ha insegnato che la vita è una sola e che la tomba non ha le tasche. Ho compreso le sue debolezze anche in età adulta e accarezzato i suoi errori, perché con lui ho conosciuto un amore senza eguali. Mi ha cresciuto accudendomi come una balia, non dimenticando mai un saggio di fine anno o una recita scolastica. Un uomo che mi ha insegnato la matematica e a fischiare. A cucinare e ad ascoltare i Beatles. Ero grande e lui così piccolo, quando la coperta gliela rimboccavo io, standogli vicino nei suoi momenti difficili e leccando le sue ferite, come lui aveva fatto con me. Ad oggi, grandi entrambi, guardiamo al domani con la solita poesia” – prefazione di Heather Francis Iermano (figlia di Rosario).
Nella prima copia del libro ha voluto scrivere una dedica a sè stesso “Alla fine ci sono riuscito a scrivere un libro, sembrava un’impresa impossibile come la “missione”. Il libro non si autodistruggerà tra trenta secondi, ma sopravviverà a me, molti lo potranno leggere dopo che io non ci sarò più. La pandemia ha fatto anche delle cose belle, spronarmi a fare cose che non avrei mai fatto. Ho fatto anche un disco nuovo dopo la mia malattia e anche questo resterà. Come queste pagine. Si gruoss” Rosario Jermano. Lo abbiamo incontrato per i lettori di Condivisione Democratica.
All’inizio del suo libro scrive “scappavo dalla vita” e si avverte come un rimpianto per non essersi dedicato molto agli affetti familiari. Perché sentiva di dover fuggire?
“Non è un rimpianto, ma trasferitomi a Roma nel 1984, mi trovavo lontano dalla mia famiglia di origine e preso da tutti i miei impegni, avevo la musica che mi assorbiva completamente, i miei sogni da realizzare, la mia persona da coltivare, da far crescere e maturare artisticamente e non solo. Ci sono scelte nella vita che non lasciano“scelta”. Poi sono rientrato a Napoli, mia madre e i miei fratelli c’erano ancora e sentivo il bisogno, dopo anni di lontananza, di stare più a contatto con loro, ricevere il loro affetto vero e sincero, anche se Roma significava avere mia figlia spesso con me essendo separato dal 1990. Ho vissuto molto l’essere padre e ne sono felice. Mia madre è mancata nel 2004 e i miei due fratelli maggiori sono scomparsi dopo. Ho avuto modo di trascorrere molto tempo con loro e viverne anche le loro sofferenze e paure, questo mi ha fatto sentire un vero fratello ed un vero figlio, amavo moltissimo mia madre. Non si vive solamente di musica, ma di vita, di persone, di sentimenti, di paure, di felicità e di amore. Siamo sempre a cercare un motivo, una ragione per vivere, ma l’unica ragione si chiama vita, ogni giorno dobbiamo pensarci cercando di non commettere errori, perché Dio ci dà due strade, sta a noi scegliere quale percorrere”.
“Mio padre ha perso e ha vinto proprio come me”, in fondo è quello che accade ad ognuno di noi, è proprio la vita che porta in sé questa alternanza ed è forse ciò che ci fa crescere e maturare. Cosa ha perso maggiormente nella sua vita?
“Credo niente, rifarei tutto allo stesso modo, forse se non avessi vissuto cosi non sarei quello che sono oggi: un musicista. Nella vita ci vuole coraggio, bisogna rischiare, essere unici ed inconfondibili. Essere sè stessi ti dà un senso di libertà e di realizzazione che non ha paragoni e fare il lavoro che ci piace per noi esseri umani è fondamentale. Le scelte sbagliate rattristano, deprimono, fanno male e coinvolgono anche le persone che ci sono vicine e che amiamo. Essere insoddisfatti, frustrati e repressi è la stessa morte in vita, ci svuota lentamente giorno per giorno e ci costringe finanche ad accettare l’abitudine come qualcosa di sano. E’ importante, quando ci accorgiamo di ciò, fare il possibile per modificare qualcosa o tutto pur di ritrovare il nostro centro ed il nostro posto nella nostra vita”.
Nascere a Napoli è come nascere sulla luna, inizi a vivere con uno scafandro ed un casco ma con occhi che vedono cose che nessuno vedrà mai. Si nasce da privilegiati contrariamente a ciò che pensano in molti. Qual è il suo pensiero a riguardo?
“Penso che noi napoletani non ce ne rendiamo conto, viviamo una realtà che è ricca di tradizioni e di musica, fanno parte del quotidiano non è un fatto eccezionale. Napoli per me è il mare, gli odori delle strade, i panni stesi, la grande arte in varie discipline come il teatro di Eduardo, tutte cose che ci sono e ci appartengono naturalmente insieme al Vesuvio, la pizza, la musica classica Napoletana di Bovio e De Curtis, siamo avvolti da tutto questo e noi stessi diventiamo simili, cercando sempre la migliore soluzione ai problemi per poter “Tirare a campare”, ma con orgoglio e dignità. Napoli è una città creativa, piena di passione, di magia, di entusiasmo, co a capa tosta, a noi ci piace fare le cose fatte bene e non come si dice in giro per il mondo. “Ccà nisciuno è fesso”, anzi….Napoli ti parla ogni minuto ed in ogni angolo e ti racconta tante storie belle di umanità e di passato glorioso. E’ una terra spettacolare con tutti i suoi problemi e le sue criticità, ma da qui a dire che siamo furbi, senza voglia di lavorare ed indolenti ce ne passa. Napoli va vissuta, il turista vede quello che vuole vedere, ma chi ci vive si prende tutto ed alla fine, le assicuro, il bilancio è in positivo”
Licenziarsi dal “posto fisso” nel 1978 credo sia roba da eroi o da folli. Lei come si sente?
“Mi sento un incosciente ed in parte un pazzo, ma non mi pento, vedo i miei amici di scuola e di adolescenza molto più vecchi di me anche se hanno la stessa età, io ho messo un anticalcare alla mia anima e loro no rimanendo ricoperti di una patina grigia che li rende infelici. Lavoravo all’Aeritalia, ufficio progetti, un’importante fabbrica di aeroplani, era anche un gran bel lavoro, mi insegnarono l’uso del computer, all’epoca grande come un camion, partecipai alla progettazione di un bimotore turboelica, usato tuttora dall’aeronautica militare. Fu in una delle pause pranzo dal lavoro che mi trovai in una delle tante botteghe della zona Via Marina vicino al porto, vendeva materiale di vario genere per animali. Comprai campanacci per le mucche, campane piccole, campanelli, sonagli e sonaglini, tutto ciò che produceva un suono e rimasi molto perplesso e sorpreso quando il negoziante mi disse che anni prima anche Gegè Di Giacomo, il batterista di Renato Carosone, ne aveva comprati molti. Era un segno del destino, un messaggio magico e divino, qualcuno stava cercando di farmi capire che dovevo fare il musicista. Nel febbraio del 1978 mi licenziai”, il resto è storia nota”
Cosa significa iniziare a fare musica con un’artista come Pino Daniele?
“Per me fu normale, due ragazzi che avevano voglia di fare musica, in quegli anni meravigliosi, gli anni ’70, in cui tutto era possibile e tutto era permesso. Dovevo solo volerlo, insistere e crederci fino a vederlo completamente realizzato, il mio sogno, qualsiasi sogno fosse e non importava quanto grande, gigante, immenso. Io ci ho sempre creduto. Pino è stato un musicista straordinario perché era un uomo straordinario, un amico vero, semplice, con un cuore grandissimo”.
I suoi inizi e la sua formazione la vedono al centro di un momento storico d’oro, dove la musica era il senso del vivere quotidiano. Cosa pensa dell’attuale situazione musicale italiana?
“La situazione della musica in Italia è veramente drammatica, quando i miei allievi mi fanno delle domande a volte non so rispondere, ad esempio come fare per entrare nei giri giusti per poter fare tours e dischi. I dischi non si fanno più, i tours si servono sempre di specialisti quotati ed infallibili che danno fiducia e sicurezza, ma chi ci arriva? I ragazzi sono scoraggiati, oggi è molto più difficile diventare un session man cioè un turnista, anche se questo termine a me non è mai piaciuto. Io ci sono dentro perché all’epoca tutto quello che facevo passava attraverso i canali giusti che erano attivi e floridi, mi notavano e mi facevo notare per la mia creatività, oggi anche se cisono dei talenti non si riesce a mettersi in evidenza, devi essere raccomandato o presentato da un altro musicista conosciuto altrimenti stai a casa. Ci sono ragazzi bravissimi in giro per la strada che probabilmente non emergeranno mai perché hanno solo musica e bravura. Che tempo triste”.
Crescere ascoltando Pino Daniele, Battiato, De Andrè, Renato Zero, Gino Paoli, ha tutt’altra sostanza rispetto all’ascolto musicale attuale. Forse manca tutto questo oggi ai giovani.
“I miei ascolti erano diversi, R&B di Otis Redding, Il rock dei Led Zeppelin, la chitarra di Hendrix e I Cream. Questo mi ha portato a mescolare tutto ed usare la somma nei dischi e nei live di artisti come Daniele, De Andrè e tutti gli altri. E’stata la mia forza. Non mi fermavo mai, ascoltavo, provavo, imparavo, sperimentavo ed ero incuriosito da tutto ciò che fosse capace di emettere un suono, un qualsiasi suono che potevo poi modulare e modellare. Oggi i ragazzi cos’hanno? I talent Show, il rap, la trap e cos’ altro? Di profondamente valido e costruttivo c’è ben poco, bisogna basarsi sul passato e sulle tradizioni se vuoi creare qualcosa di nuovo”.
La musica anni 70/80 era anche uno stimolo ad affermarsi con forza e coraggio, anche a costo di grandi ribellioni. Ai giovani manca tutto quello che la sorte ha dato a noi. Si è perso il senso profondo di fare musica.
“Non si è perso il senso, si sono chiuse troppe porte ed è difficile entrare nel “vortice” giusto, perché di vortice si tratta, di giostra, di nastro trasportatore, di catena di montaggio. Anni fa preparavi un provino e potevi farlo ascoltare a qualche direttore artistico, oggi i giovani non sanno neppure dove andare. Le case discografiche producono solo persone che escono dai talent o da milioni di visualizzazioni su youtube o altro. Diventa inutile mettersi a comporre e pensare di far conoscere la tua musica. Per me è molto difficile oggi, con la mia carriera, figuriamoci per i giovani talenti”.
Carosone, Pino Daniele, Ornella Vanoni, Mia Martini, Luca De Filippo, Renato Zero e tantissimi tra i più grandi di sempre, l’hanno voluta a suonare le percussioni. Si rendeva conto che sarebbe entrato nella storia della musica?
“Io ho fatto il mio lavoro, il lavoro che amavo, non mi sono mai reso conto che sarebbe accaduto quello che poi è stato, ma in realtà non ero neppure attento a cercare qualcosa che andasse oltre la mia musica, fare musica, pensare musica. Certo sentivo la magia, i brividi, le paure di un debutto, a volte piangevo sentendo cantare parole commoventi come quelle scritte da Paoli o da Zero, ma mai avrei immaginato di poter fare ciò che ho fatto suonando uno strumento che non fa neppure parte della tradizione musicale italiana. Ed invece è accaduto l’impossibile, sono entrato a far parte in prima persona della musica italiana, quella più vera e profonda. Erano davvero altri tempi, quando si cercava qualcosa di più, eravamo esigenti, precisi, pignoli, grandissimi lavoratori prima ancora che artisti o musicisti, puntuali e testardi, ci piaceva e sapevamo quanto fosse importante essere “ricercatori”, volevamo costruire qualcosa di grande che potesse piacere a chi ci ascoltava, che potesse farli esaltare ed esultare. Abbiamo vissuto momenti di vera gloria, la gente ci apprezzava e sapeva riconoscere il valore di una bella canzone”.
I suoi anni a Roma ed il ritorno a Napoli. “Quello che se ne è andato” viene ancora oggi considerato, come un affronto, un errore imperdonabile, un’offesa. Ma Roma rappresentò per lei un passaggio fondamentale.
“Certo, a quei tempi bisognava andare ed essere a Roma, era il centro della vita e della produzione musicale. Sono stati anni importanti per la mia formazione e per la mia professione. E’ stato un passaggio fondamentale della mia vita al quale non avrei potuto e voluto rinunciare per niente al mondo. Non è stato tutto facile, anzi, ma tutto si compensava in un’ottica di visione futura, bisognava poterguardare al di là del proprio orticello, mettersi alla prova e sottoporsi anche a difficoltà di ogni genere e natura. Per come sono andate poile cose e per tutto ciò che è accaduto penso solo che i napoletani sono stati un pò invidiosi di quello che ho fatto, non c’è altra spiegazione per l’atteggiamento che hanno dimostrato nei miei confronti. Io non partecipo alla vita musicale Partenopea, eccetto che per poche cose nelle quali mi fa piacere essere coinvolto come ad esempio “Napoli Opera” con la voce di Michele Simonelli ed un’orchestra da camera diretta da Paolo Raffone, antico collaboratore di Pino Daniele e pianista del nostro primo gruppo insieme, la “Batracomiomachia”. Altra collaborazione da me gradita è quella con Antonio Onorato, un grande chitarrista le cui doti furono riconosciute anche da Pino Daniele”.
Che lavoro fa? – Il musicista – Si capisco, ma che lavoro fa?, così le disse il proprietario di casa. E’ quasi impossibile pensare che allora, quando si faceva veramente musica, questo mestiere non veniva considerato come tale.
“Anche oggi è così, nulla è cambiato, vogliono credenziali diverse o ti devono vedere in televisione allora accettano che il tuo sia considerato un lavoro “ben pagato” altrimenti ti mandano sotto i ponti. Ma credo che ugual sorte tocchi a tutti gli artisti in ogni ambito, devi essere riconosciuto per strada o avere poltrone nei talk show o contratti strapagati, e spesso, me lo lasci dire, tutto ciò non corrisponde necessariamente a bravura o professionalità. Ma questo i proprietari di casa o altri riferimenti della vita quotidiana non lo tengono in nessuna considerazione”.
E’ riuscito a collaborare con i più grandi artisti, ognuno nel suo momento di massimo successo. Non credo sia stato un caso. La sua professionalità era fondamentale per ognuno di loro proprio quando il livello si alzava e l’esigenza di perfezione cresceva. Non capita a molti una esperienza del genere.
“Sono casualità il fatto di trovarsi al posto giusto nel momento storico musicale giusto, certo il talento ha fatto in modo che ciò avvenisse, ma ci sono altri aspetti come l’allegria, la simpatia e l’entusiasmo che danno tanto valore ai rapporti sia musicali che non. Forse era più facile l’approccio ma più difficile poi il consolidamento, se non valevi non duravi da nessuna parte, se non avevi una serie di caratteristiche forti, oltre alla buona preparazione musicale, non avevi una certa continuità. Bisognava avere una personalità, un carisma, una credibilità. Tutto questo ha reso lunghi e duraturi molti sodalizi”.
“Ho superato i sessant’anni e le difficoltà si rinnovano senza pietà. Ci vorrebbe una pensione della sofferenza, una pensione delle difficoltà, una pensione per il coraggio che abbiamo avuto”. Scrive nel suo libro. Tutto questo purtroppo non esiste. Si combatte per pagare affitto e bollette. Professionisti come lei in difficoltà mentre dilaga il buio artistico e culturale. Quanto fa male tutto ciò a lei ed a noi?
“Ci sono abituato. Dal 1978 sbarco il lunario e vado avanti, con momenti eccezionali e momenti bui, ci sono dentro e ci vivo con le mie sofferenze, ma anche con le mie gioie. Ma se ci pensa non è in fondo così la vita di tutti noi?”
Trecento LP registrati con quasi tutti gli artisti italiani, 4 album da solista, tournée, come riesce ad accettare, affrontare e superare questa situazione di crisi così grave e pesante?
“Fortunatamente sono un pensionato, nei momenti difficili, come questi anni del covid, sono andato avanti con la mia pensione ed i vari ristori concessi, me la sono cavata fino ad ora. La fine di questo delirio è ormai vicina e godrò dei benefici, età e forze permettendo. Molto presto sarò in tour con Renato Zero, anche se lui ha 70 anni, non resterà di certo inoperoso dopo la pandemia”.
Il covid ha fatto cambiare lavoro a molti artisti completamente rovinati. Il tempo passa e la situazione peggiora e per molti non ci sarà più una soluzione. Cosa avrebbe dovuto fare lo stato per evitare tutto questo?
“Avrebbe dovuto dare più ristori a noi musicisti ed artisti, non certo i mille o duemila euro che non significano assolutamente nulla, cifre importanti che ci avrebbero aiutato a non finire sul lastrico. E forse anche qualche decisione meno vessatoria e prolungata nei confronti del mondo artistico e culturale”.
Nel 2016 la malattia e tutto per un po’ si ferma. Come ha trascorso quel periodo?
“Con una caparbietà infinita, una voglia di ritornare a suonare sul palco, con coraggio e determinazione. Mi ha aiutato molto l’amore di mia figlia e la presenza di dottori eccezionali. Poi gli amici intorno e la stima di tanti che non mi hanno mai fatto sentire solo o perso o definitamente abbattuto da una malattia molto dura e tenace. Tanta sofferenza poi nella mia vita l’avevo già provata e penso che questo ti aiuta quando un altro ed un altro ed un altro uragano si abbatte su di te. Semplicemente ti trova più forte e non certo rassegnato. Dici a te stesso “ne ho passate tante, supererò anche questa”. Nella vita e nella malattia soprattutto non è tanto quello che ti accade e di quale portata, ma il tuo modo di reagire e la tua voglia di vivere. Avevo sempre la musica in testa, ma quella ce l’avevo sempre anche ed indipendentemente dalla malattia. Il ritmo, quello giusto, fa tanto la differenza in ogni circostanza, finanche nella malattia, pensi un po’”.
Nel suo libro un capitolo lo intitola “Io e Pino Daniele” un rapporto unico, saldo ed incorruttibile. Cosa c’è ancora di Pino che non sappiamo o non conosciamo?
“Tante cose che terrò nel mio cuore, tanti momenti belli che abbiamo vissuto insieme e che resteranno nella memoria tra i miei ricordi più belli, insieme a quelli di mia madre e di mia figlia. Penso che Pino si sia dato completamente attraverso la sua musica, a parte qualcosa della sua vita privata che è tale e rimane tale, non credo ci sia qualcosa che Pino ha tenuto per sé, proprio perché anche per lui la musica era tutto ed attraverso la musica portava tutto quello che aveva dentro al pubblico, a chi lo amava e lo ascoltava e lo ascolta ancora oggi. Ci siamo conosciuti negli anni Settanta, avevo capito subito che era un grande talento, è stato il mio migliore amico, la sua morte mi ha reso vulnerabile, poi forte. Sono stato un uomo fortunato”.
Nel 2019, dopo ventitrè anni di pausa, il suo quarto disco “Nouvelle Cuisine”, un disco non commerciale lo definisce, un disco fatto con più di quaranta musicisti tra i migliori della scena musicale, è stata la sua terapia più efficace?
“Certamente, una cura infallibile, ancora con le stampelle ho cominciato a lavorarci e sono felice di averlo fatto. Tutti mi hanno aiutato, tutti i miei amici musicisti che hanno partecipato senza alcun compenso, hanno suonato tutti gratis per me, in nome della nostra amicizia. Se non avessi fatto quel disco non sarei uscito così velocemente dal tunnel dell’apatia”.
Nel 1996 la fatidica frase “Sai suonare il berimban?”, inizia così il suo rapporto con Fabrizio De Andrè. Passano gli anni ed aumenta la desolazione della sua assenza. Le sue parole non passano mai di moda, anzi diventano sempre più attuali. Come è stato il vostro rapporto?
“Con Faber è stato un rapporto di profonda stima, lui un tipo difficile e speciale, io un pignolo ed anche io persona difficile, lui cambiato negli anni in una persona docile e dolce, io musicista che non lascio dubbi irrisolti. In definitiva due perfezionisti che la musica ha fatto incontrare, il nostro incontro ha dato risultati veramente notevoli, risultati che oggi io valorizzo nel pieno del loro significato”.
Non ebbe il coraggio di andare in America nonostante l’invito di Corrado Rustici. Mi viene in mente Pino Daniele, Massimo Troisi, i napoletani sono pigri? Oppure non ha creduto abbastanza in sè stesso o ancora la certezza non si baratta con l’incertezza? Ci pensa mai che quel coraggio di allora forse le avrebbe regalato un presente più solido e sicuro?
“Ero già conosciuto in Italia, in America avrei dovuto cominciare tutto dall’inizio, lì non scherzano, non è l’Italia delle raccomandazioni. In America se sbagli sei fuori. Non ho visto un futuro sicuro nel mio trasferimento in America, infatti oggi Rustici si è trasferito in Germania perché lì la musica non va più come una volta. Ed a molti è toccata la stessa sorte. Rientrare dopo tanti anni dall’America poi sarebbe stato ancora più complesso, non è rientrare da Roma a Napoli, non è proprio la stessa cosa, si perdono tutti i contatti, gli amici, si torna probabilmente molto diversi e lo stesso rientro diventa più pesante e faticoso anche da un punto di vista psicologico. Non me la sono sentita. Poi chi lo sa come sarebbe andata. Va bene così”.
Una lista infinita di artisti straordinari, sembra quasi impossibile pensare di averli incontrati tutti insieme in una sola vita. Adattarsi poi ad esigenze sempre diverse, sempre nuove, sempre più complesse. E’ stato bello, ma mi viene da pensare anche tanto faticoso.
“Per me no, non me ne rendevo conto, mi divertivo a suonare con loro, mi davano fiducia e stima illimitate ed anche la libertà di potermi esprimere a modo mio, era un valore aggiunto. I grandi artisti grazie a Dio ragionano così, ragionano bene e mi davano anche la forza di spingermi. E’ stato uno stimolo continuo. La stessa cosa la prova un cuoco quando gli dicono “Sai, cucini bene”, lui crea sapendo che i commensali mangeranno tutto”.
Morale della favola? Perché realmente di favola ha il sapore ed il colore la sua vita. Ed ora? Cosa accadrà?
“Non lo so, spero di suonare fino a che le forze me lo permetteranno, spero di vedere le mie due nipotine crescere, mia figlia è incinta di due gemelle, spero che mia figlia viva bene e che non abbia mai problemi. Il resto non mi interessa, il mio cuore è gonfio di soddisfazioni e di cose tristi, ma vivo e questo è ciò che conta veramente per me. Ho avuto una vita così piena e ricca di ogni cosa che ora voglio solo godermi tutto quello che ho costruito. Non ho più bisogno di chissà quali grandi sussulti o sobbalzi, sono diventato un po’ più tranquillo, non per l’età e neppure per la malattia, non vivo di paure per nessuna delle due, non vivo di ricordi ma ricordo per vivere meglio e più intensamente possibile la mia vita.
La Roma del Popolo è l’eredità mazziniana che ci piace ricordare nel 150° anniversario della morte di Giuseppe Mazzini (Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10 marzo 1872) che ricorre in quest’anno purtroppo ancora dominato dalla pandemia e dai tanti fatti, a partire da quelli sanitari per arrivare a quelli politici, che ci richiamano tutti alla responsabilità e ai doveri.
Ultimo battagliero giornale politico fondato dal Genovese, uscì regolarmente dal 1º marzo 1871 al 21 marzo 1872, ( anticipato da un fascicolo compilato integralmente da Mazzini, pubblicato il 9 febbraio dello stesso anno), richiamandosi ai ben noti valori del mazzinianesimo e della Terza Roma che, dopo quella dei Cesari e dei Papi, avrebbe dovuto vedere uno Stato repubblicano unitario come luogo dove la libertà e la giustizia si sarebbero realizzate per tutto il popolo.
Per chi li volesse sfogliare, sono tutti disponibili nell’emeroteca digitale del sito web della biblioteca Gino Bianco.
Con un gruppo di amici, con cui ci riconosciamo negli stessi valori, ci siamo ispirati a quest’eredità, dando vita all’Associazione “La Roma del Popolo”, condividendo il richiamo alla mobilitazione ed alla partecipazione delle Associazioni quale motivo dominante dell’opera mazziniana, non solo per la necessità di cooperazione e di solidarietà ma, soprattutto per il valore dell’uguaglianza, senza la quale non ci può essere libertà né di pensiero né di azione.
In ultima analisi, afferma Mazzini, non può esserci associazione se non tra persone libere ed uguali.
L’Associazione nasce con la coscienza dell’importanza della memoria storica, non solo come valore di testimonianza ma, di azione concreta, con l’intento di promuovere e sviluppare attraverso seminari, convegni, eventi commemorativi e attività di studio e diffusione culturale, un’adeguata coscienza civica e sociale dei cittadini.
A riguardo, “debutteremo” con un primo incontro a ridosso proprio di quel 9 Febbraio, anniversario della gloriosa Repubblica Romana del 1849, con una visita guidata nei luoghi storici di quelle memorie Risorgimentali che si snoderà per alcune tappe dal centro fino al Gianicolo, epicentro di quei fatti.
Per il 150° anniversario, ci siamo fatti inoltre promotori della richiesta del conio di una moneta da 1 Euro con l’effige di Mazzini.
Sicuramente questa ricorrenza non è seguita con la dovuta attenzione e le celebrazioni che meriterebbe uno dei padri ispiratori dell’Italia e di un’Europa unita e solidale.
Parlando di attualità e sempre con riferimento a Roma, richiamiamo con sgomento l’attenzione su quello che potrebbe sembrare un “piccolo” fatto rispetto alla gravità dei problemi ma che ci sta a cuore ed è in tema: un altro pezzo di memoria storica ed eredità culturale, quella del Teatro Eliseo con l’attiguo Piccolo Eliseo, in via Nazionale, è in vendita. Un prestigioso palcoscenico che fu di Totò, Eduardo, Visconti, Gassman, Anna Magnani e Vitti che, come recita l’annuncio, “lo rendono un interessante investimento per investitori nazionali ed internazionali”.
Dopo le vicende del Teatro Valle, oltre che una grave perdita storica e culturale, anche una restrizione degli spazi sociali, già fortemente minati dal virus. Segno dei tempi. “È tempo d’uscire dalla politica d’espedienti, d’opportunità, di viluppi e raggiri, d’ipocrisie e transazioni”. Giuseppe Mazzini, Agl’Italiani “La Roma del Popolo”, 9 febbraio 1871.
“Il mio fisico non è fantasia, è fatica”. Karla Kol ci racconta il mondo del fitness, ce lo fa vedere e lo rende accessibile a chiunque. Parola d’ordine: MISSION POSSIBLE
Le sue storie su Instagram (@Karlakol_fit) sono ormai diventate famose ed apprezzate ed hanno scatenato un enorme interesse in un pubblico sempre più alla ricerca di approfondimenti e nuovi argomenti sulla cura del proprio corpo, sulla salute e sul buon vivere, con senso pratico ed ironico. L’obiettivo è ciò che conta. Prendersi cura di sè stessi quotidianamente con costanza e volontà. Nulla è impossibile per Karla Kol, fitness model e fashion addicted, professionista, imprenditrice, donna bellissima, ironica, determinata, attiva, senza filtri, una forza della natura, un portento, un uragano che ha deciso di mettere a disposizione di chiunque sia realmente interessato, la sua pratica sportiva e la sua filosofia di vita. Per lei non esiste nulla che non possa essere fatto e detto perché il tempo è prezioso e bisogna saperlo utilizzare per qualcosa di sensato, valido e costruttivo. I suoi post con video e foto sono sempre accompagnati da frasi diventate ormai un vero e proprio punto di riferimento per chi vuole imparare a vivere bene, perché il suo allenamento non si ferma solamente al fisico ma interessa anche la mente, che esattamente come il corpo ha bisogno di un vero e proprio allenamento quotidiano per giungere ad uno stato di benessere totale, assoluto ed appagante. Sicura di sé come poche, in un momento in cui tutto è in bilico, incerto ed insicuro, rappresenta un vero e proprio toccasana, un balsamo, un emolliente che riesce a sciogliere qualsiasi tipo di contrattura. Per lei la vita è un’avventura straordinaria e ciò che accade va digerito, assimilato per trattenere solo le cose buone e belle, il resto via nel più breve tempo possibile. Perché di tempo non ce n’è molto, la sua giornata da donna bionica sembra paragonabile ed equiparabile a 4 o 5 di quelle dei “comuni mortali”, degli “esseri normali”, perché lei è veramente ma veramente straordinaria in tutto ciò che fa e noi abbiamo avuto la fortuna di conoscerla e di intervistarla per Condivisione Democratica, costringendola per un attimo a “fermarsi”.
Fitness model e fashion addicted, professioni in questo momento che vedono una grande competizione anche con protagonisti molto noti nel mondo dello spettacolo. Come si arriva ad essere unici, originali, a distinguersi ed a garantire un buon livello?
“Quando la richiesta è tanta aumenta l’offerta, ecco perché il settore del fitness ha sempre rappresentanti. Questo trend era già iniziato prima della pandemia, durante il Covid con la chiusura dei centri sportivi moltissimi si sono organizzati per proporre esercizi da fare a casa oppure all’aperto. Anche personaggi famosi, più o meno competenti e preparati hanno cavalcato l’onda del business reinventandosi P.T. e proponendo tramite canali a pagamento routine di allenamento.
Sono tantissime le nuove “mode” del mondo fitness, crossfit, pilates, zumba, io penso di distinguermi perché non ho mai abbandonato il body building old style, a parere mio l’unico allenamento veramente in grado di modificare le proporzioni del corpo.
Io eseguo e propongo gli esercizi fondamentali del culturismo variando a volte le tecniche di esecuzione.
A livello di risultati un’ora di palestra equivale a 5 di nuoto, 10 ore di crossfit, a 20 ore di esercizi a corpo libero.
Io che non amo raccontare favole o prendere in giro la gente, dico che è molto difficile ottenere un fisico come il mio senza l’utilizzo di pesi anche molto elevati”.
Karla Kol Fit è ora diventato un brand conosciuto ed apprezzato, con una importante novità in arrivo di cui però al momento non vogliamo svelare nulla per lasciare nei lettori la curiosità e l’interesse. Proprio durante il periodo di chiusura dovuto al covid, non si è isolata e non si è fermata alimentando ancora di più il suo atteggiamento costruttivo e produttivo. Ci racconti meglio il suo percorso professionale.
“Io ho un carattere molto forte reagisco sempre alle difficoltà, non mi piace subirle. Quando hanno chiuso le palestre ho avuto qualche giorno di rabbia, ho comunque continuato i miei allenamenti a casa e mi sono subito mossa per trovare una soluzione. Ho trovato delle palestre che davano la possibilità agli agonisti di potersi allenare, quindi io che sono un’ atleta, mi sono iscritta ad una federazione pesistica ed ho ripreso i miei workout. La prima palestra che ha dato questa possibilità era a Bergamo. Partivo da Milano per andarci 4 volte alla settimana. Niente può fermarti se tu non vuoi stare fermo…. poi con locali, ristoranti, negozi chiusi e avendo quindi più tempo a disposizione ho cercato di sfruttarlo al meglio e con l’aiuto di un art Director bravissimo ho creato il mio logo. È stata una grandissima soddisfazione. I primi prodotti di merchandising sono già usciti ma la grande sorpresa è in arrivo… quindi quello che per molti è stato un periodo di pausa per me è stato invece di grande impegno”.
Il suo profilo Instagram è seguito per lo più da uomini, cosa non ha funzionato con le donne?
“Ho un modo di propormi troppo strong, ho cercato di ammorbidire la mia immagine ma sarebbe stato uno snaturare la mia personalità, quindi ho scelto di continuare ad essere semplicemente me stessa e ….. chi mi ama mi segua. Il modello che propongo può sembrare irraggiungibile, irrealizzabile, troppo lontano da una “normalità” cui molte donne, per una serie di esigenze, impegni ed impedimenti, vorrebbero indirizzarsi. Ma credo fortemente che solo puntando al massimo si possano raggiungere livelli ed obiettivi che conducano a risultati soddisfacenti. E poi credo che se si punta in alto scendere un po’ non rappresenti una grande frustrazione e delusione, semplicemente un piccolo ridimensionamento che può essere accettato senza troppi compromessi. Ma se si parte già da un livello troppo basso ben presto si finisce sul divano con pigiama pantofole e vaschetta di gelato al cioccolato”.
Della sua vita privata non si sa nulla, lei protegge molto la sua immagine nel mondo virtuale. A noi però può svelare qualcosa.
“Ho una sorella e due nipotini fantastici. Credo sia più che sufficiente. A chi importerebbe della mia vita privata in fondo? Il messaggio che voglio comunicare attraverso i miei video e le mie foto è un messaggio di creazione del proprio universo fatto di corpo mente anima e cuore. Anche i commenti che aggiungo sono tutti orientati nella stessa direzione, vivere bene. Quindi raccontare la mia vita privata non aggiungerebbe molto al mio lavoro. Ad ogni modo molto di me si può comprendere, a chi interessa, proprio dai miei post che raccontano e presentano me mentre faccio sport, viaggio, sono in casa, presento luoghi e persone e molto altro ancora. Ma sono certa che i miei followers sono seriamente interessati ai miei allenamenti che condivido con tutti perché in fondo sono la parte più importante e significativa della mia vita, ciò in cui credo molto ed in cui investo la maggior parte della mia giornata”.
Bellissima, impegnatissima, attiva su diversi fronti, ironica, creativa, propositiva, solare e coraggiosa. Karla Kol avrà pure qualche difetto.
“Ovviamente …. come tutte le dive sono nervosa, capricciosa, impaziente e vanitosa”.
Il mondo del fitness e dell’immagine è cambiato moltissimo in questi ultimi anni con l’arrivo della tecnologia più avanzata, dei social, della figura di influencer. Molti i benefici ma anche molti danni, lei che bilancio ne ha fatto?
“Le figure che i social propongono sono modelli esteticamente perfetti e difficilmente raggiungibili, questo potrebbe creare nelle persone, soprattutto più insicure, uno stato di inadeguatezza e sconforto.
Mai scoraggiarsi davanti a qualcuno che ci sembra migliore di noi, iniziare invece un percorso ed un lavoro su noi stessi per cercare di raggiungerlo ed anche se questo non sarà possibile comunque avremo apportato dei miglioramenti in noi stessi. Non odiamo chi ci sta davanti ma cerchiamo di raggiungerlo. Se riuscissimo a trasformare l’invidia e l’insicurezza in energia produttiva, invece che in delusione rabbia e sconforto, avremmo molta più gente in salute, allegra e felice”.
Quanto conta nella vita un po’ di sano egoismo ed un pizzico di cinismo?
“Io amo molto i felini e ho imparato a vivere come fanno loro, i gatti sono i miei maestri di vita, per questo ho una vita stupenda…Loro hanno un rapporto bellissimo con sé stessi, con chi li ama, con la casa e con la natura. Sono creature meravigliose. Non fanno nulla per bisogno, sono liberi, per questo tutto ciò che donano è puro e sincero. Vivere pensando di più a sé stessi cercando di razionalizzare non è un male, ma un dovere che abbiamo verso noi stessi. Io parlo di rispetto che ognuno di noi dovrebbe avvertire come esigenza irrinunciabile, rispetto per ciò che siamo e che vogliamo trasmettere”.
Quali sono le sue passioni oltre lo sport?
“Tantissime: la danza che ho iniziato a praticare all’età di 5 anni, la musica, la lettura, il teatro, la guida sportiva e di conseguenza i motori, la moda, l’arte nello specifico la pittura.
Da buona esteta ho un’attrazione verso il bello in ogni sua forma ed espressione.
Avere tanti interessi ci tiene attivi e giovani e rende la vita molto più dinamica e divertente”.
Quando ha inizio la sua attenzione per il corpo, per la salute, per una vita sana ed equilibrata?
“Quando il primario mi ha preso per i piedi mettendomi a testa in giù per farmi piangere ho pensato: questo fa bene alla circolazione ma se mi sculaccia troppo forte mi spacca i capillari!”
Spesso si associa la bellezza ad una vita di enormi sacrifici e rinunce, ciò che lei comunica però è tutt’altro. Il messaggio è che si può realmente avere ciò che si sogna attraverso un percorso di grande felicità e serenità.
“E’ semplicemente perché faccio quello che mi piace. Mi spiego: se una donna è paffutella ma è felice e si mette a dieta soltanto perché glielo chiede il fidanzato o perché vede che le sue amiche sono più magre di lei vivrà rinunce e stress. Se lei è felice della sua condizione non deve fare assolutamente nulla.
Non esistono canoni estetici di riferimento, ciò che è fondamentale è saper e voler vivere in un corpo che ci faccia stare bene, che ci faccia sentire a posto con noi stessi”.
“Quando tutte le giornate sono uguali, sei tu che devi trovare il modo di farle diventare differenti e speciali”. Certamente un motto straordinario, ma non crede che molto spesso il punto di partenza differente può influire su tale atteggiamento rendendo le cose a volte difficili per non dire impossibili?
“La mente di una persona vincente non prende neppure in considerazione la parola impossibile”.
Il vissuto di ognuno di noi determina il corso della nostra vita in una direzione piuttosto che in un’altra. Ma è l’atteggiamento nei confronti di questo vissuto che fa la differenza. Il suo messaggio, molto potente, è che non bisogna fermarsi mai, neppure davanti alle tragedie, a traumi profondi, a pericoli, ostacoli, complicazioni e impedimenti. E soprattutto che bisogna essere produttivi ed operativi al massimo. Perché è cosi difficile da far passare questo messaggio?
“Non è un messaggio difficile da far passare, semplicemente c’è chi ha voglia di recepirlo e chi no.
E’ molto più facile piangersi addosso piuttosto che rimboccarsi le maniche e darsi da fare. Chi non ha avuto difficoltà nella vita? Chi di noi non ha attraversato momenti più o meno complessi, dolorosi, pesanti? Eppure molto spesso le persone con identiche situazioni di partenza sono arrivate in punti lontani anni luce. Cosa ha fatto la differenza? Si tratta di percorsi che hanno visto qualcuno lasciarsi andare pensando che nulla sarebbe potuto mai cambiare e migliorare e qualcun altro ripetere a sé stesso ogni giorno “voglio una vita migliore, me la merito e me la prendo”. Il mondo è traboccante di opportunità e volerle cogliere è uno stimolo che ognuno di noi dovrebbe coltivare quotidianamente dedicando a questo aspetto magari lo stesso tempo che impiega per allenarsi in palestra, per vedere un film, una cena con gli amici, la lettura di un buon libro, un viaggio, una buona dormita. Troppo spesso dedichiamo tempo, troppo tempo, ad aspetti della nostra vita che non lo meritano, discussioni, litigi, guerre personali, prese di posizione, cause. Tutta energia che intanto ci avrebbe portato un passo avanti verso il nostro traguardo”.
Molto spesso si è sentito il binomio palestre-anabolizzanti, doping, farmaci. Qual è la realtà in questo ambiente che dovrebbe rappresentare un tempio per la salute del corpo e della mente?
“Non esiste nessuno sport senza contaminazioni dovute a sostanze dopanti, la gente purtroppo lo ricollega sempre e solo al body building”.
La sua ironia è sorprendente, nella sua pagina Instagram una serie di piccole gags che vanno a toccare argomenti di vita quotidiana. L’ironia è un’arma di difesa o è soltanto una sua spiccata caratteristica?
“Sono molto ironica, anche autoironica. Amo ridere e scherzare e non mi piace chi si prende sempre troppo sul serio. Diffidare sempre dei seriosi e dei noiosi, così come dei “perfetti”, la vita è un continuo di cambiamenti, adattamenti, ci si modella, il corpo come la mente, a seconda dell’età, delle circostanze, dei luoghi. E’ tutto uno spettacolo meraviglioso di colori, luci e suoni. Vedere e sentire sempre le stesse cose non serve a molto, spostare la visuale anche stando in casa è uno strumento infallibile di vivacità e dinamicità”.
Il secondo posto della sua classifica sull’ipocrisia lo assegna alla frase “i soldi non fanno la felicità”, cos’è che fa realmente la felicità?
“Proprio perché trattasi di frase ipocrita la risposta è contenuta nell’affermazione stessa: la felicità si ottiene facendo quello che ci piace e per farlo servono i soldi. Spesso anche avere idee geniali, creatività, intuizione, non porta alla realizzazione per mancanza di mezzi. Questo non significa mollare il proprio sogno, arrendersi, sentirsi sconfitti e non realizzati, più semplicemente significa che se non hai i soldi devi farli, devi trovare il modo per accumulare denaro da utilizzare per ciò che vuoi. Si deve pur partire da qualche parte, chi parte già avvantaggiato e chi invece il vantaggio deve costruirselo per poi trarne ogni tipo di beneficio possibile. Non mi stancherò mai di ripeterlo, la parola impossibile non esiste”.
Ormai tutti scrivono libri su ogni argomento. Le è mai venuto in mente di cimentarsi in tale ambito magari con un manuale ironico e irriverente del sano vivere in pace con sè stessi e con gli altri?
“No, ma ho pensato ad una mia biografia che sarebbe molto più interessante. Mi piacerebbe raccogliere tutte le mie esperienze, il mio vissuto, il passato ed il presente, il futuro che sto costruendo e che vedo realizzarsi giorno per giorno. Ci sono moltissime storie in un’unica storia che è la mia vita e tanti momenti, incontri e situazioni che sarebbe bello condividere con altre persone. Sono certa che dopo la lettura di questo possibile libro autobiografico le donne, anche le donne oltre agli uomini, sarebbero dalla mia parte e riuscirebbero a vedere tutto ciò che da un profilo Instagram (@Karlakol_fit) non è possibile cogliere completamente. Ripercorrere tutto ciò che ho fatto e tutto ciò che sono stata nei vari periodi della mia vita sarebbe un bel viaggio e di compagni di avventura ne troverei molti altri, in fondo la mia è una bella storia con momenti anche di grande difficoltà, forse quelli più importanti per rafforzare il mio coraggio e la mia volontà”.
Ha mai dovuto affrontare l’invidia, la cattiveria, l’ostilità?
“Certo, come tutte le persone su questa terra, ma dormo comunque sonni tranquilli. Chi non combatte quotidianamente con questi grandi sentimenti? Io però non combatto mi limito ad osservarli e possibilmente ad evitarli, non amo confrontarmi con qualcosa che potrebbe distrarmi e togliermi energie, per quello che faccio e per quello che sono di energie ne ho tanto bisogno e non posso permettermi il lusso di disperderle”.
Come dicevamo il mondo femminile non è molto a suo favore, ha molte amiche?
“Poche ma sicuramente di qualità, anche in questo sono molto esigente e selettiva. Non è certo la quantità che può avere significato nella vita, e mi riferisco soprattutto alla sfera emotiva e degli affetti. Sarebbe dispersivo anche quello, avere troppe persone con cui condividere ore e giornate, e poi mi domando quanto sarebbe realistico poter affermare di avere molte amicizie profonde, persone a noi così vicine da rappresentare un valido punto di riferimento. La realtà è che dobbiamo ritenerci fortunati se nella vita abbiamo qualche incontro profondo e vero, dove la sincerità e la libertà di essere sé stessi si possa manifestare al cento per cento”.
L’ignoranza ed il pregiudizio spesso associano una bella donna alla ricerca di una vita facile e comoda. Il suo modello di donna invece mette in evidenza un lavoro costante e continuo per arrivare ad ottenere risultati non da ostentare ma da proporre. Cosa danneggia ancora il mondo delle donne?
“Io credo che indifferentemente sia nel mondo femminile che nel mondo maschile, in generale nel mondo degli esseri umani ci si danneggi da soli, non si può sempre ricercare il danno in qualcun altro per cercare di sopportare meglio le conseguenze. Dobbiamo avere il coraggio di fare le scelte giuste, di sopportare gli errori, di ripartire, di cadere e farsi male, di non giudicarsi sempre e troppo severamente, di essere autoironici quando è necessario, di alleggerire invece di andare sempre in giro con una zavorra di cui non riusciamo a liberarci per mentalità, pregiudizi, limiti, paure. Bisogna lavorare su noi stessi anche con estrema onestà che non vuol dire giudizio ma analisi e comprensione. Dobbiamo imparare a volerci bene ed a proteggerci da tanta confusione e superficialità. Oggi tutti parlano, tutti hanno una soluzione, una risposta, un argomento. Ma è vero? C’è la sostanza in tutta questa concentrazione di tutti sappiamo tutto? Io credo che quando si parli di danno la prima persona a cui bisognerebbe rivolgere l’attenzione siamo noi stessi. Dobbiamo saperci ascoltare senza nessuna ipocrisia”.
Adora i complimenti, le lusinghe e gli apprezzamenti. Lo dice schiettamente e con grande onestà. Quanto è dannosa l’ipocrisia nella vita di noi donne?
“Esattamente come per tutti, maschietti compresi. Sentirsi apprezzata è una bella gratificazione e ti da anche la misura del lavoro che stai facendo su te stessa, significa che stai facendo bene, che stai indirizzando bene tempo ed energie, che ciò che vuoi comunicare con l’esterno viene compreso e recepito molto bene. Non amo la volgarità, ovviamente, ma uno sguardo compiaciuto, una frase di apprezzamento, un complimento, un gesto di attenzione manifestato con cura, rispetto e garbo di sicuro mi fa molto piacere. Tutto ciò lo trovo sano”.
La libertà di una donna di essere bellissima e non in pericolo credo sia un traguardo ancora lontano, lontanissimo dall’essere raggiunto. Spesso la bellezza viene vista quasi come un invito, un proporsi, una disponibilità. La legge non aiuta. Come ci si difende da questa concezione “malata” della società?
“Io non mi ritengo brutta eppure non mi sono mai sentita in pericolo. E’ ovvio che la bellezza non è tutto, deve essere accompagnata dall’intelligenza nel sapersi districare nella giungla della quotidianita’. Ad ogni modo non penso si debba parlare di difesa quanto piuttosto di un giusto equilibrio. Noi donne abbiamo tutte le risorse necessarie per gestirci nel migliore dei modi, senza né prevaricare l’uomo e nemmeno sottometterci. Credo che nel corso degli anni ci siano stati molti fraintendimenti tra uomo e donna e questo ha finito con indebolire entrambe le parti, quando al contrario la differenza avrebbe dovuto rappresentare una risorsa preziosa, perché che siamo differenti bisogna riconoscerlo ed accettarlo, senza per questo dare giudizi di valore che a nulla servono e che soprattutto non esistono. Il valore di una persona appartiene a qualcosa di molto più profondo ed intimo che non sia semplicemente la differenza di sesso. Su questo dobbiamo soffermarci e non parlare di difesa, attacco, sono termini in qualche modo aggressivi che non fanno che alterare ancora di più un equilibrio che dovrebbe esserci e che è andato perso con il tempo. E nemmeno parlare di ruoli secondo me ha una qualche utilità”.