Viviamo nell’epoca delle quarantene, dell’isolamento, dove il tempo sembra fermarsi e le finestre di casa sembra che sviluppino le grate in totale autonomia. Rischi di essere travolto da un senso immenso di noia o di essere assordato dal rumore dei tuoi pensieri, i tuoi veri pensieri, senza l’alibi dell’organizzazione dell’inutile e frenetica routine. Questa insolita esperienza prevede l’attraversamento di varie fasi, capitanate in maniera universalmente riconosciuta dalla fase rappresentata dall’autocommiserazione alienante sui social, seguita a ruota dall’accoppiata vincente netflix e schifezze (o comfort food se vi sentite raffinati) e che poi si dirama a seconda delle personalità e dello stile di vita. Io ho scelto il pacchetto lettura distratta, scrittura e tuffo rovesciato con doppio avvitamento nella nostalgia, che prevede il tentativo di riordinare le foto sull’hard disk. 689 miliardi di foto su 76 terabyte che ti danno quel vago senso di vertigine. Ti arrendi prima ancora di aver movimentato anche un solo file, ma non puoi resistere alla tentazione di buttarci un occhio. Ed eccole lì, le tue emozioni, tutte le persone che sei stata in questa folle vita, tutte le persone che hai incontrato e quei posti che “wow, ma ci sono stato davvero?”. Il fidanzatino del liceo, “oddio, ma come eravamo vestiti?!?”.
Le sbronze con le amiche, tuo marito (meno stempiato) che abbraccia una che ha approssimativamente la tua faccia, ma senza rughe, con qualche chilo in meno. La foto di te, che dormi abbracciata al cuscino di un hotel in Francia, con il sole del mattino che ti accarezza il viso. Il tuo cane, che era appena un cucciolo. Quei volti raggianti, immortalati prima di un bacio o prima di fare l’amore. La risata di un amico che non c’è più (pugnalata inaspettata in mezzo alle scapole). E poi ci sono le foto della tua infanzia, testimonianza ineluttabile che tutti ne abbiamo avuta una, e ti sembra ancora di sentire l’artificiale senso di protezione e sicurezza della tua famiglia, che pur non essendo quella della mulino bianco, sapeva sorreggerti in qualche modo, prima che tu ti armassi e preparassi le ali per spiccare il volo. Ci sono le foto del cibo, che hai scattato compulsivamente in ogni ristorante in cui sei stato, con la complicità dell’amica invasata con Instagram o lo scherno di chi questo sport non lo pratica. E poi tra queste immagini ci sono anche le foto delle foto dei nonni, rigorosamente in bianco e nero.
Tre o quattro foto, quante ne bastavano una volta a racchiudere tutta la storia di una vita.
Siamo intorno agli anni ’50, loro giovani, innamorati e incredibilmente rigidi, in una posa probabilmente infinita, due statue scolpite nella pietra, come se stessero facendo la cosa più solenne della vita, quello che noi facciamo più e più volte al giorno. Abbiamo un’evoluzione della fotografia, da evento grandioso, concesso ben poche volte nella vita, ed eseguito rigorosamente da un professionista, a istantanee pronte a cogliere qualsiasi frammento della quotidianità e renderlo instagrammabile. Spesso questi due estremi condividono il manierismo, che da eccesso di emozione si è trasformato in disperata ostentazione. Capita che ci sia un po’ di finzione dietro ad una foto. Ma non sempre. Le foto che preferisco infatti sono quelle che non pubblico, quelle che faccio quando mi perdo in qualche posto, quelle dove il soggetto è venuto male perché stava ridendo troppo, quelle dove l’emozione non è patinata, ma grottescamente reale. Dietro ad ogni foto, in ogni caso c’è una storia, un vissuto, un’eredità di emozioni, che riceviamo o tramandiamo. Questo ha la capacità di congelare la bellezza, metterla al riparo dal tempo e farcela ripescare all’occorrenza. Una buona fotografia è come una vita vissuta bene, la ricerca della luce perfetta e un sapiente utilizzo delle ombre. È basata sull’aprire la mente alla bellezza, in tutte le sue manifestazioni. Questo in qualche modo richiama l’arte, la sua capacità di colpire dritto all’anima e di ribellarsi al tempo, alla mutevolezza e all’entropia. È il nostro spicchietto di immortalità.
E se si parla di arte fotografica, non posso non pensare a Suzanne Stein, fotografa americana di professione e supereroina di vocazione. Il suo potere è mettere poesia nelle immagini più devastanti che una mente possa immaginare, il degrado della società americana, il lato oscuro del sogno americano. Suzanne trasforma in arte quello che gli umani abitualmente non accettano nemmeno nel loro campo visivo, i suoi soggetti sono quelli che non vuoi vedere, ma che esistono e che hanno bisogno che gli venga restituita una dignità. Uno dei suoi principali campi d’azione è Skid Row, quartiere losangelino, (da cui prende il nome di un noto gruppo musicale degli anni ’80), che segna in maniera prepotente il confine di Downtown, la zona centrale dedicata agli uffici.
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Tra questi due quartieri esiste una specie di varco spazio temporale, tra uomini e donne d’affari, nei loro completi fatti su misura e lo scenario post-apocalittico degli ultimi, degli abbandonati, degli emarginati, di chi è stato masticato con gusto e sputato a terra, come un pezzo di gomma insapore. Chi ha visitato bene Los Angeles sa di cosa sto parlando. Interi marciapiedi occupati da senza tetto, approssimativamente cinquemila anime, tra cui reduci di guerra, persone con handicap fisici, tossicodipendenti. Anime abbandonate da una società abilista e spietata, per la quale il valore di una persona è calcolato in base alla sua produttività. Addentrarsi in questo folle mondo non è facile ed è pericoloso, ma con grande determinazione e pazienza, ma soprattutto con grande umanità Suzanne ci è riuscita, riportando alla luce del mondo storie di vite importanti, né più né meno della nostra. Testimonianza di un’eredità sociale malsana, assordante grido di aiuto, non lanciato dalla fotografa, né dai suoi soggetti, ma dalle nostre coscienze di spettatori. La fotografia è un potente mezzo, le immagini sono come freccette conficcate nel cervello, questa è l’istantanea dell’eredità ricevuta, che non deve necessariamente essere l’ereditarietà che lasceremo noi.
La mia è una storia magica e ve la voglio raccontare. Durante una passeggiata nel centro di Roma, la mia mamma incinta e la sua amica umana, incontrarono Olympia Pratesi, figlia di Fulco (fondatore e Presidente Onorario del WWF Italia). Era talmente bella che lei se ne era innamorata al primo sguardo. In famiglia avevano sempre avuto barboncini e la mamma le ricordava tanto l’adorata Sheila, che purtroppo, dopo una lunga vita felice, era volata in cielo tra le altre stelle. Iniziarono a parlare e quando Olympia si presentò, dicendo il proprio cognome, l’altra signora trasalì perché era stata un’allieva di suo padre Fulco, durante il corso di restauro dei monumenti, alla Facoltà di Architettura. Si creò un legame tra di loro e al giorno dell’ottantesimo compleanno di Fulco, Olympia si presentò a casa con uno scatolone come regalo di compleanno. Fulco pensò che fosse il solito regalo tecnologico digitale, ma quando lo aprì, uscì il mio bel musetto color albicocca.
Lui e la moglie Fabrizia impazzirono dalla gioia e cominciarono a pensare come chiamarmi. Poiché in giardino c’era un loro nipotino che stava giocando con arco e frecce, chiesero a lui di scegliere un nome. E lui disse, con fare deciso: ‘Robin Hood!’ Oltretutto Robin in inglese significa pettirosso… non potevano trovare nome migliore per un rossiccio come me! Credo proprio di essere stato inviato dal Cielo per donare gioia a tutti loro.
Ho sentito Fulco che confessava alla nostra amica Donatella che da subito ero compenetrato nella sua vita ed ero persino in sintonia con il suo carattere, a volte impulsivo. Io sono sempre stato gentile, disponibile e, a sua detta, anche intelligente, ma soprattutto un cane ‘comodo’, perché sono piccolo e peso solo 4 kg. Insomma sono indispensabile, un amico prezioso. Così come lo sono state Suna e Sheila prima di me. Suna era un po’ più piccola e candida come la neve. Ecco perché l’avevano chiamata come il bianco uccello marino. Sheila invece aveva il mio stesso colore ed era adorabile!
Pensate che Fulco mi ha raccontato che la portava anche al cinema! Una volta andarono a vedere ‘Mia moglie è una strega’ e poiché si annoiava un po’ (le piacevano solo i film gialli), si mise a gironzolare per la sala, tra le poltrone, e a un certo punto, quando apparì sullo schermo un gatto, lei si mise ad abbaiare a più non posso tra lo stupore generale e le risate della gente! Che pazzerella che deve essere stata….ma sicuramente dolce e amorevole come me. Citando Fulco, i gatti sono atavicamente degli animali da inseguire abbaiando. Magari però ritenendo prudente desistere dal chiassoso inseguimento quando uno di essi si ferma e ci guarda in maniera interrogativa.
Fulco ha sempre avuto un collegamento speciale con tutti noi animali, un amore immenso, uno scambio di emozioni che sono davvero impagabili. Non potrei desiderare di meglio. Donatella dice sempre che lui è in simbiosi, in sintonia con il pianeta Terra, e che ne è Ambasciatore per eccellenza. Come non volergli bene?
Lui si arrabbia sempre molto quando noi barboncini siamo chiamati cani ‘radical chic’ e quindi, per la sua grande ironia, lui stesso si è definito tale. Ha persino scritto un articolo sul Corriere della Sera, dove spiega l’importanza e l’imbarazzante intelligenza di noi barboncini. Lui dice che siamo diversi dalle altre razze canine perché siamo simili al lupo. Noi abbiamo una conformazione cranica sferica e non piatta nella parte superiore….quindi mooooolto più cervello!
Al contrario dei lupi, io preferisco dormire in una meravigliosa cuccia imbottita che sta ai piedi del letto di Fulco e ogni mattina, verso le 7, mi avvicino e gli lecco la mano per svegliarlo. Lui si alza e, dopo i tipici riti degli umani, raccoglie il Corrieredella Sera e la Repubblica che gli sono stati consegnati e si avvia verso il soggiorno, dove si accomoda su una grande poltrona. Io lo seguo e mi piazzo lì davanti, guardandolo fisso negli occhi fino a quando mi fa cenno di salire accanto a lui. E così me ne sto al calduccio, mentre legge i quotidiani (credo proprio che il film ‘Una poltrona per due’, si sia ispirato a noi).
Robin by Donatella Lavizzari
Poi mi viene voglia di farmi un giretto per la casa, ma poco dopo ritorno e riconquisto la posizione per farmi un bel pisolino, fino a quando la mia amica Giusy mi porta a passeggio. Con lei mi diverto sempre e faccio delle pazze corse nel parco. Sono talmente veloce che sembro un missile! Anche con Fulco inscenavo sempre frenetici caroselli sul prato e lo sfidavo a un gioco di riporti con i rami secchi, interrompendolo solo per brucare fili d’erba a scopo digestivo o per stendermi pancia a terra con la lingua di fuori.
Al rientro, mi dirigo verso la cucina, dove mi attendono delle squisite ali di pollo lessate mischiate con il riso soffiato: una vera bontà! Prima di iniziare a papparmi questa delizia, vado in perlustrazione attorno al tavolo perché da lì scende sempre qualcosa di buono. Aspetto con pazienza che mi allunghino pezzettini di formaggio o bocconcini di carne. Ora sì che si ragiona! Si deve sempre iniziare il pranzo con un antipasto sfizioso… stimola l’appetito! E poi, vogliamo discuterne? Vi sembra che mangiare dentro una ciotola sia appropriato e dignitoso per un cane del mio stile? Insomma! Aggiungete un posto a tavola! Ehm… sì, lo confesso, sono un po’ snob.
Ma non sono certo l’unico eh! Pensate che una volta, durante un’escursione nel Parco del Circeo, abbiamo incontrato Gruyère, un cinghiale molto socievole e educato. Si è avvicinato per salutarci e Fulco gli ha offerto del formaggio. Lui si è ritratto inorridito! ‘Ma stiamo scherzando? Io mangio solo quello svizzero!’ E noi siamo scoppiati in una fragorosa risata!
courtesy@Fulco Pratesi
E’ proprio vero, Fulco parla con tutti gli animali. Ovunque vada, riesce sempre a incontrare pennuti, pelosi vari, tipetti di ogni razza e colore, che gli diventano subito amici. Girovagando nell’Oasi WWF del Lago di Burano, nella Maremma grossetana, avvistammo un gruccione, un bellissimo uccello dal becco lungo e nerastro, leggermente ricurvo verso il basso, e dalla livrea variopinta. Un’esplosione di colori che usciva a mo’ di pennellate dal ‘fondo’ castano del dorso e dall’azzurro del ventre, con sfumature di giallo, verde, nero e arancione. Vedendoci arrivare, iniziò a volare in tondo sulla testa di Fulco. Poco dopo si posò lì vicino e si fece accarezzare la testa come se fosse un cucciolo domestico. Un gesto davvero inusuale per uno che adora gli spazi aperti e vive in zone ricche di vegetazione spontanea e cespugliosa, presso i corsi fluviali, i litorali e i boschi con radure. Ma ho imparato che tutto diventa possibile con Fulco!
courtesy@Fulco Pratesi courtesy@Fulco Pratesi
Lui è come San Francesco, comunica con tutti noi. E’ il mio supereroe. Ogni giorno, sul terrazzo dove ci sono le mangiatoie, arrivano tantissimi uccellini che gli raccontano dei loro viaggi e delle loro avventure. E lui annota tutto e li ritrae con pennelli e acquarelli. Dovreste vedere quanto è bravo! Ha un talento incredibile! Li ama come se fossero suoi simili, come dei figli!
Il menu principale del ristorante ‘Terrazza Pratesi’ è costituito da semi di girasole, pezzi di grasso, mele spaccate in due e soprattutto briciole di torte e di biscotti che fanno la felicità di pettirossi e cinciallegre, passeri e cinciarelle, capinere e occhiocotti. In questo luogo c’è realmente quella biodiversità tanto amata e raccontata da Francesco Petretti nei suoi libri e nei suoi documentari naturalistici. A proposito! Anche lui è stato allievo di Fulco!
Una volta atterrò persino un uccellino che gli portò una foglia di salvia molto profumata. Credo avesse voluto fargli un omaggio per la sua bontà e gentilezza. Anche le farfalle lo amano! Si posano sulle sue dita, come se fossero incantate da un richiamo irresistibile.
D’estate, nella casa di campagna, venivano a trovarlo persino alcuni ratti. Uno, in particolare, lo faceva abitualmente e ogni volta si mangiava tutte le pesche che riusciva ad acchiappare, guardando con quegli occhietti furbi sia lui sia Fabrizia.
courtesy@Fulco Pratesi
Amo stare in sua compagnia! A volte schiaccio un pisolino accanto a lui e sogno. Sogno di guidare un’auto sportiva rossa fiammeggiante e di attraversare campi e prati, villaggi e fattorie sperdute. ‘Ehi! Attente!’, dico rivolgendomi ad alcune signore mucche che stavano per attraversare la strada. E loro prendono a scappare di qua e di là, mentre oche e anatre starnazzano indignate sbattendo le ali e una gallinella, per lo spavento, deposita un uovo, fuggendo di corsa!
A gran velocità raggiungo le montagne. La strada sale ripida con molte curve, fino a raggiungere un ponticello di legno che sta sopra un tortuoso ruscelletto. Mi arrampico fino alla cima e volo giù dall’altra parte, raggiungendo la pianura che si estende fino all’orizzonte. Ed ecco, che all’improvviso, qualcosa si muove laggiù! Vedo una linea scura… sono cavalli selvaggi con le loro ondeggianti criniere al vento. Sento già lo scalpitio dei loro zoccoli sul terreno e i loro nitriti. Vorrei tanto cavalcarne uno, come nel far west!
Uno di loro si avvicina, si chiama Morello. I suoi occhi e il suo pelo corvino risplendono alla luce del sole. Io gli offro una zolletta di zucchero (per favore non chiedetemi che cosa ci fa una zolletta di zucchero su un’auto sportiva guidata da un barboncino!), ma lui preferisce di gran lunga la gomma da masticare che ha adocchiato sul cruscotto e, in un baleno, la prende e la mette in bocca, roteando sorpreso gli occhi perché non aveva mai mangiato qualcosa di simile e così strano!
Mentre è tutto preso a capire come mai i suoi denti non s’incrociano più nel modo giusto, gli metto il lazo al collo e con un salto mi lancio coraggiosamente sul suo dorso. Lui si solleva scalpitando, affonda la testa tra le zampe anteriori, rinculando di scatto e facendo di tutto per disarcionarmi! Sebbene mi stia aggrappando a lui con tutta la mia forza, scivolo goffamente sotto la sua pancia, riuscendo a malapena a risalire in groppa, attaccandomi alla criniera. Con un forte schiocco si rompe la bolla fatta con il chewing gum e puffete mi risveglio un po’ stralunato. E Fulco è lì che mi accarezza sorridendo e mi dice: ‘Robin che avventura hai sognato? Hai surfato sull’oceano insieme ai delfini come la volta scorsa o sei andato con un razzo sulla luna?!’.
Io spalanco gli occhi e ricambio il sorriso, strofinandomi addosso a lui, e poi li richiudo e volo sui mari con il mio rapido vascello pirata. Ad un tratto, una voce dolce rompe il silenzio: ‘Fulco! Robin!’. E’ Fabrizia che ci chiama. E’ ora di scendere in cambusa a preparare la cena.
Di Sandro Pertini restano alcune immagini indimenticabili, consegnate alla memoria da spezzoni televisivi. Sono immagini che hanno scandito alcuni degli avvenimenti della storia italiana, come, per esempio, la strage alla stazione di Bologna o la vittoria dei Mondiali di calcio nel 1982. In tutti quegli avvenimenti Pertini era presente sia nel suo ruolo istituzionale sia con la sua carica di grande umanità, con la sua storia che veniva da lontano, dalla guerra partigiana e dalla prigionia sotto il fascismo. Era una figura che gli italiani sentivano vicina. Divenne una sorta di nonno per i bambini e una vera e propria icona Pop.
PAZ, il geniale e visionario artista Andrea Pazienza vedeva in Pertini “l’ultimo esemplare di una razza di uomini duri ma puri come bambini“, una luce nella notte di una prima Repubblica compromessa dalla corruzione e dal malaffare. Con profonda ammirazione e complicità affettuosa lo trasformò in fumetto, dedicandogli storie, sketch umoristici, tavole e tantissimi disegni. Un campionario vastissimo e prezioso, che si estende dal 1978 al 1987, e che vede persino il luogosergente Paz fare da spalla al temibilissimo Pert in imprese in nome della libertà e della giustizia. Testimonianza di come Pertini fosse uno dei personaggi principali nell’immaginario dell’artista. Pertini ebbe sempre un rapporto divertito con la satira che lo prendeva di mira, tanto da avere una collezione di tutte le sue caricature e invitare al Quirinale i vari autori, da Tullio Pericoli alla redazione del “Canard enchainé”.
Dalla mostra «Paz e Pert» a Roma al Palazzo Incontro (2010 Fandango Libri S.r.l. Copyright Mariella e Michele Pazienza)
Nella sua figura, come mai prima di allora e come mai sarebbe accaduto dopo, un’intera nazione si riconosceva e riconosceva i valori ‘puliti’ della politica e ciò che la politica dovrebbe rappresentare nella sua accezione più alta: solidarietà, vicinanza e attenzione alle persone.
Ricordare Pertini, raccontarne la storia, ha senso non solo perchè ci consente di ripercorrere la storia di un italiano che attraversa il Novecento con piglio energico e picaresco, ma perchè ci permette anche di fare un punto su noi stessi, su come eravamo e su ciò che siamo diventati. Ci restituisce l’idea che possa esistere una politica in grado di tracciare la linea di un’etica civile e solidale, capace di guidare una società dialogante, aperta e più conciliante.
Realizzare uno spettacolo biografico non è mai facile perchè si rischia di cadere nel didascalismo o, ancor peggio, nell’agiografia. Soprattutto quando si vuole affrontare una figura come quella di Sandro Pertini, che si staglia come un gigante nella memoria e nell’immaginario collettivo, capace di rassicurare un’intera nazione durante gli anni difficili, a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta.
Andrea Santonastaso foto @ https://teatrodellargine.org
Nicola Bonazzi, Andrea Santonastaso e Christian Poli hanno accolto questa grande sfida. SANDRO è senza dubbio alcuno, un’opera teatrale che dipinge al meglio la figura del ‘primo impiegato italiano’, ‘del politico mai Ministro‘, come lui stesso amava definirsi. Nelle parole di Poli e Bonazzi (SANDRO è scritto da Christian Poli, con inserti drammaturgici e regia di Nicola Bonazzi) e attraverso la voce e la forte presenza scenica di Andrea Santonastaso, prende vita quel piccolo grande uomo che mai si è piegato.
Andrea Santonastaso foto @ https://teatrodellargine.orgAndrea Santonastaso foto @ https://teatrodellargine.org
Con un monologo, viene raccontato il carismatico Presidente e, al tempo stesso, l’uomo perseguitato, il partigiano, il combattente per la libertà e l’uguaglianza. Una voce politica in grado di dire cose spesso scomode (come per es. i rischi di un fascismo sempre incombente), dette in virtù di una vita passata per 13 anni in reclusione e in confino, a causa della lotta serrata contro la dittatura. SANDRO è uno spettacolo a ‘tesi’ perchè prova a ricordarci che sono esistite persone che hanno combattuto per i propri ideali, fino a pagarne conseguenze molto gravi.
Ph. Donatella Lavizzari
Pertini Alessandro, del fu Alberto e di Muzio Maria, avvocato, socialista, fu confinato politico nell’isola di Ventotene. Qui di seguito, voglio riportare uno stralcio di un suo racconto, pubblicato in Italia, il terzo volume della Geografia di Enzo Biagi.
“Domenica 25 luglio: una serata come tutte le altre. Quando la radio diede il comunicato ci avevano già rinchiusi nel camerone. Eravamo più di settecento, nella stragrande maggioranza comunisti: Longo, Terracini, Scoccimarro, Camilla Ravera, Secchia. Poi c’erano Ernesto Rossi e Riccardo Bauer, del partito d’azione, e anche degli anarchici, gente che veniva dalle prigioni, naturalmente, che aveva fatto la guerra in Spagna, che era stata nei campi di concentramento francesi.
…. Noi laggiù vivevamo secondo regole immutate, che dovevano essere rispettate con rigore: si poteva uscire dagli stanzoni, dove alloggiavano dalle tre alle cinquanta persone, verso le otto del mattino, bisognava rientrare per le otto di sera. Non si doveva superre un certo limite, appunto, il confino. Camilla Ravera racconta nelle sue memorie le strade sassose, le siepi gialle dei fichi d’India, il mare grande e azzurro che ci circondava: paesaggi che erano vietati.
….Un giorno il direttore mi mandò a chiamare: ‘Ho una bella notizia per voi. E’ arrivato un telegramma che dispone per la vostra liberazione’. ‘ Grazie’ dissi. ‘Però io non me ne vado finchè qui resta uno solo di noi.’ Ma Camilla Ravera, che diede sempre prova di una straordinaria forza morale, Terracini e altri, mi convinsero che dovevo partire, per andare a perorare la causa dei detenuti, e così non diedi pace a Senise, Capo della Polizia, e a Ricci, che era agli Interni; li andavo a trovare ogni giorno con Bruno Buozzi. Erano restii, avevano nei confronti dei comunisti paura e odio. Minacciammo uno sciopero generale e l’argomento li convinse. Quando arrivò l’ultimo di Ventotene, potei andare a trovare mia madre. Era molto vecchia e mi attendeva. Stava sempre seduta su un muretto che circondava la nostra casa. ‘Che cosa fa signora?’ le domandavano. ‘Aspetto Sandro‘ rispondeva.”
Ph. Donatella Lavizzari
Pertini ha combattuto per i propri ideali, mai asseriti in maniera semplicistica o ingenua, ma sempre dentro l’agone delle idee, con la forza combattiva di chi si oppone ad una visione sopraffattoria della politica. Per questo motivo, nello spettacolo, la vicenda biografica di Pertini viene contrappuntata da una voce ‘corale’, l’Odiatore, che prova a rappresentare grottescamente questi impulsi violenti, prevaricatori, di cui spesso siamo tutti preda: perchè SANDRO non vuole essere solo il racconto della vita di un uomo, ma prova a rappresentare la possibilità, l’utopia, il desiderio di un’umanità più cordiale e disponibile. Come cornice, una scenografia essenziale, minimalista, ma caratterizzata da una forte potenza suggestiva e animata dall’alternarsi di buio e luce, e dai bellissimi disegni dello stesso Santonastaso, che vengono, di volta in volta, proiettati sulla quinta scenica.
SANDROè uno spettacolo che ti entra dentro, ti avvolge in un abbraccio fatto di emozioni, pensieri, sentimenti, riflessioni, … e tu stai lì, immobile. Ascolti, respiri, chiudi gli occhi… e ti lasci andare in quell’incanto chiamato Teatro.
GRAZIE ad Andrea Santonastaso, Artista Necessario.
Dietro di me li sento allineati i miei antenati. Non visibili, li sento mentre spronano l’anima ad agire, a schivare un effetto domino, a spezzare la catena di cadute secolari. Li sento allineati i miei antenati. Sono dietro e dentro me nelle cellule e nel dolore in una memoria che sfugge alla memoria e che solo il corpo ricorda e trattiene. Sia pace, nei secoli dei secoli. (Isabella Lipperi)
Ero piccola, più bassa dei mobili del salotto, e mi piaceva aprire
le ante e guardare, guadare tutto, io quell’odore di legno lo sento ancora come
sento ancora il cigolio delle ante.
Dentro a quelle credenze c’era di tutto, c’era la ricchezza, perché sì eravamo una famiglia borghese e benestante. C’erano servizi di porcellana, bicchieri raffinati, tovaglie decorate, sopramobili eleganti e ancora svariate varietà di frutta secca (passione di mio padre e mia – eredità) e ancora bottiglie di svariati tipi di amari, digestivi, distillati.
(@martmosc)
In un mobile a parte c’era il giradischi, bellissimo e delicato quel giradischi, io e mio fratello avevamo sempre l’occhio vigile di mia mamma “mi raccomando, non toccate, la puntina è delicata!” e poi c’erano gli LP, i 33 e 45 giri, che meraviglia! Erano tantissimi, quelli di musica classica e lirica, il pop di quel periodo, anni 70, e degli anni precedenti, gli anni della loro giovinezza. Avevo una passione particolare per Gianni Morandi, ero una bambina “danzerina” e il Gianni nazionale mi faceva scatenare.
Poi c’erano loro, i dischi con contenuti impegnati, erano tanti, autori che leggevano testi di narrativa, poesie, classici ma nella mia memoria sono rimasti, tra tutti, i dischi di Milva che cantava pezzi sulla Resistenza e sui Partigiani, “Canti per la Libertà” (memoria – eredità).
Nella libreria, nei comodini dei miei, e in giro per la casa, c’erano tantissimi libri, di tutti i generi, e se ripenso ora a quelli che ricordo con particolare affetto mi vengono in mente i libri della collana Premio Strega, i libri della Fallacci e della Morante, il libro “Porci con le Ali” di Radice e Ravera ma soprattutto i libri sulle Guerre Mondiali e la Resistenza.
Antifascismo era l’aria che si respirava in casa, Resistenza era una parola e un concetto di cui si parlava, era un messaggio e un insegnamento che ci veniva dato in maniera diretta e indiretta, ricordo anche tanti film sul tema, ricordo di aver visto in tenera età film che non ho mai dimenticato, film crudeli ma educativi, “La notte di San Lorenzo”, “Kapò”, “Jovanka e le altre” solo per citarne alcuni dei meno famosi.
Da adolescente mia madre mi portava a teatro, ricordo delle meravigliose stagioni di prosa e di lirica, a volte mi annoiavo, magari non mi andava, però le vivevo e negli anni mi sono resa conto di quanto mi è rimasto di quei momenti.
In casa respiravo aria di cultura, storia, arte ma anche di leggerezza, mia madre mi diceva “ogni tanto fa bene staccare il cervello leggendo Gente o Oggi” e io questa filosofia di vita poi negli anni l’ho fatta mia, la “leggerezza” è indispensabile, e nei momenti bui ci ripenso spesso a quelle parole. La leggerezza di cui parlava mi madre mi ha fatto riflettere spesso, mi ha aiutato nella vita a confrontarmi con umiltà anche con persone che non avevano cultura, cercando di non avere quella pomposità che spesso vedo in certe persone che si si sentono pregne del loro sapere, spesso in maniera smisurata.
E poi
c’erano i racconti, i miei ci raccontavano il passato, gli anni bui del dopo
guerra, come viveva la gente, la povertà, l’adattamento, gli anni duri
dell’alluvione (alluvione del 1951 in Polesine) e della conseguente emigrazione
di migliaia di persone in cerca di un futuro nelle grandi città del Nord, ci
raccontavano la storia e chi eravamo, chi erano i veneti e della miseria che
c’era fino agli anni del boom economico. Memoria storica.
In casa si parlava di attualità, io ricordo benissimo alcuni fatti storici successi negli anni 70 e 80, seppur bambina o adolescente mi si sono impressi nella mente, non solo per il clamore mediatico ma soprattutto perché se ne parlava.
L’educazione
era un chiodo fisso di mio padre, fissato su come si doveva stare a tavola, sul
fatto che ci dovevamo rivolgere alle persone più grandi dando del Lei,
amici di famiglia compresi, ma attento anche ad insegnarci ad essere onesti,
corretti, leali, puntuali, di parola. Mio padre era maniacale, mia madre
decisamente più moderata.
Non ricordo
mai nessun atteggiamento o discorso razzista, omofobo, discriminatorio,
classista.
Da bambini, io e mio fratello abbiamo avuto gli stessi identici input, per fare una metafora dico che siamo stati come due piccoli guerrieri addestrati ad affrontare la vita che ci aspettava e muniti delle migliori armi e armature.
Da
quell’infanzia dorata sono passati decenni; gli anni, gli eventi e le
responsabilità hanno dato un colpo di spugna a tutto, la serenità che vedevo
con gli occhi di bambina è stata sostituita da sofferenza, dolore e difficoltà
di ogni tipo. I meccanismi famigliari sono cambiati.
Adesso i due piccoli guerrieri sono grandi, decisamente grandi, e nel corso degli anni hanno scelto cosa tenere e cosa lasciare andare.
L’Eredità
Nel corso della mia vita ho spesso ripensato a quello che mi è stato insegnato, i sentimenti contrastanti che ho provato mi hanno fatto barcollare e la tentazione di andare contro a tutto quello che prima vedevo speciale l’ho avuta in diversi momenti, potrei dire spesso.
(@martmosc)
Se oggi sono quella che sono non è grazie o per colpa dei miei ma per le scelte che ho fatto, io e solo io ho deciso cosa farmene dei loro insegnamenti, delle loro passioni, del loro modo di essere e di vivere.
Ho scelto io
quali armi tenere per difendermi e quali armature per proteggermi, ho scelto io
l’eredità che mi volevo portare dietro per affrontare la vita, le
difficoltà, gli altri, le relazioni, il lavoro.
Ora loro non
ci sono più, ormai da anni, e io provo una profonda gratitudine per alcuni
insegnamenti e valori che ho deciso di fare miei e la scelta è stata in fondo
piuttosto semplice, mi è bastato fidarmi dei ricordi, i ricordi migliori che
avevo, i ricordi che ho raccontato…
“Ogni volta può emergere qualcosa di diverso, purché lei tenga gli occhi chiusi: questo apre un varco attraverso il terzo occhio e tutto è sublimato. Riapre gli occhi e quasi si sorprende che sia proprio lui, il Dio che le scuote i sensi in quel modo soprannaturale; sempre lui che, nel formare una coppia fatta di due punte di energia atavica, rappresenta l’archetipo del maschio che, unendosi a lei, punta di tutta l’umanità femminile, crea il miracolo di unificare due ceppi di avi attraverso il loro amore”.
Gli avi. A livello cosciente li ho sempre trascurati, ma quello che scrivevo nel mio libro” Erosnauti”, l’estratto che ho riportato, è la prova che invece, dimorano e aleggiano nel mio inconscio; prova ne è che il mio romanzo tantrico è frutto di episodi che, sebbene siano di natura onirica, sfuggente, leggermente psichedelica, ho davvero vissuto e condiviso col mio compagno del tempo. Ma quella sensazione, l’immagine dilatata e amplificata dai sensi, quella di rappresentare la punta dell’umanità femminile, frutto ed espressione di tutti i miei antenati, era concreta. Nella dimensione quotidiana, d’altra parte, la mia concezione che la chiave di tutto sia nel qui ed ora, ha sempre generato in me, un bisogno di tagliare col passato e quindi, la tendenza a non dare un gran peso a chi fosse venuto prima di me. E questo nonostante il mio albero genealogico sia decisamente interessante: da parte paterna risaliamo addirittura al Gattamelata da Narni, condottiero nato il 1370, di cui ricordo la storica statua equestre posta nel salotto di casa in posizione privilegiata: Erasmo Stefano da Narni, detto il Gattamelata per la sua furbizia, capitano al servizio della Repubblica di Firenze, dello Stato Pontificio ed infine della Repubblica di Venezia.
(Monumento di Donatello a Gattamelata da Narni – Padova)
Da parte materna arriviamo oltre oceano, nell’ esotica isola di Java, dove i nonni olandesi di mia mamma si stabilirono, dopo la realizzazione della prima, strategica, rete ferroviaria che dai Paesi Bassi si sarebbe diramata verso Oriente. Bene, non mi ha mai appassionata più di tanto la storia dei miei progenitori. Ultimamente, invece, succede che, fermo restando l’importanza e la preziosa necessità di saper vivere il presente, ho compreso che, se attuato nel modo giusto, accogliere e sublimare quel potente flusso di energia, umanità, esperienze, dolori e conquiste, può dare ancora più forza al mio essere fluttuante tra passato e futuro, a patto che il focus mi tenga sempre ben salda nel presente. Al proposito riporto una testimonianza di una sciamana di casa nostra che persegue la via taoista, cammino spirituale in cui mi trovo spontaneamente avvolta e trasportata, Selene Calloni Williams.
Dal libro “Wabi sabi”:
È possibile che alcuni dei tuoi avi a cui sei molto legato non abbiano potuto realizzare in vita i propri sogni a causa di svariati fattori, come la povertà, una guerra, un evento imprevisto. In questo caso è possibile che, a un livello profondo, inconscio, tu abbia ereditato il compito di rendere giustizia a chi non ha potuto completare il proprio obiettivo di vita. Considera l’impronta dei tuoi avi nel tuo destino non come un peso, ma come uno stimolo molto più vasto e potente alla tua missione di vita. D’altra parte, chi saresti senza i tuoi avi? Perché mai l’anima avrebbe scelto proprio quegli antenati se non per mostrarti, attraverso i loro volti, i loro successi e le loro sconfitte, il tuo cammino e il tuo traguardo? A volte mi capita di incontrare individui spaventati dal fatto che gli antenati possano esercitare un peso, un condizionamento sulle loro vite al punto da impedirne la realizzazione. Ma il “daimon”, la missione dell’anima, in verità viene prima di ogni altra cosa.
Il Professor Zamboni ha appena dato alle stampe il suo ultimo libro “Nascoste nella Tela” (Mondadori Editori) nel quale unisce la sua passione per l’arte e il suo proverbiale occhio clinico, sempre mitizzato dai suoi numerosi pazienti. Il suo piacere per la scoperta, per l’indagine scientifica viene versato in questa novità in libreria svelando ai lettori i misteri nascosti nei dipinti di famosi pittori. Ne risulta un testo avvincente rivolto a qualunque fascia di lettori per la immediatezza del linguaggio usato.
Per me re-incontrare Zamboni è, prima di tutto, un piacere per la sua simpatica schiettezza, tipicamente ferrarese, che rivedo identica. Una immediatezza che è anche in questa opera, non rivolta ai medici ma a tutte le persone attratte dall’arte, e ne diventa un valore aggiunto.
Il nostro primo incontro risale a diversi anni fa. Fu dopo una presentazione di un suo studio, davvero stupefacente, condotto nello spazio.
Ora mi fa davvero piacere condividere con i lettori la sua visione della ricerca medica e della comunità scientifica.
Immagine dall’Ospite
Paolo Zamboni è un chirurgo e ricercatore italiano laureatosi presso l’Università degli Studi di Ferrara dove oggi è professore ordinario di Chirurgia Vascolare. È stato cofondatore e presidente della International Society for Neurovascular Diseases (ISNVD), società scientifica internazionale volta allo studio delle malattie neurovascolari.
Professore, lei è stato insignito anche del titolo di Commendatore al Merito della Repubblica Italiana in riconoscimento del suo operato in campo medico-scientifico per i suoi studi sull’emodinamica venosa e in particolare per quella cerebrale. Uno studio complesso il suo che ha portato alla definizione della insufficienza venosa cronica cerebrospinale (CCSVI) che continua a essere sotto l’attenzione della comunità scientifica.
La definizione del difettoso funzionamento delle vene giugulari, inizialmente da noi descritto nei malati di sclerosi multipla, è stata molto contestata dalla comunità neurologica. In realtà la controversia scientifica non era tanto sulla scoperta vascolare in sé, ma era dovuta alla applicazione di terapie chirurgiche endovascolari su questi pazienti. Nel tempo molti altri ricercatori si sono occupati di CCSVI, trovando impensate correlazioni delle giugulari difettose con cefalea, sindrome di Meniere, Alzheimer, Parkinson ed altre malattie neurologiche, di fatto aprendo una porta fino a quel momento mai varcata dalla comunità scientifica. Una nuova possibilità per contribuire alla conoscenza migliore di malattie in parte ancora misteriose.
Nell’evento del quale parlavo nell’introduzione, presentò uno studio per degli esperimenti che furono eseguiti da Samantha Cristoforetti sulla base internazionale orbitante. Fu un’avventura davvero incredibile, può raccontarla ai nostri lettori?
Il progetto Drain Brain fu una fantastica esplorazione scientifica che ci permise di comprendere il contributo della forza di gravità in particolare sulla circolazione cerebrale. La fortuna di poter disporre della collaborazione in orbita di uno scienziato aggiunto come la nostra Samantha Cristoforetti è stato determinante per il successo della missione. Gli esperimenti erano molto complessi dovendo io coordinare da Terra, in una base predisposta dall’Agenzia Spaziale Italiana, tre laboratori dislocati fra Danimarca e Stati Uniti oltre al modulo orbitante nel quale Samantha doveva eseguire gli esperimenti di fisiologia umana su se stessa. Indimenticabile, credetemi.
Quell’esperienza divenne poi la base di una pubblicazione scientifica, ma del resto di studi scientifici ne ha pubblicati diversi: la ricerca è quella strada che può trasformare una ipotesi e far nascere una terapia. Quante pubblicazioni ha effettuato finora?
Moltissime. Ma vede le pubblicazioni sono, nella mia testa, un modo di consegnare ad altri scienziati, specialmente ai giovani ricercatori, dati e documenti validati che divengono un patrimonio scientifico per procedere in avanti e migliorare le condizioni di vita dell’Umanità. I nuovi strumenti diagnostici che abbiamo usato nello spazio ad esempio li abbiamo ora adattati e li stiamo usando sulle persone malate.
Copertina del libro (Mondadori)
Il nuovo libro nasce quando si è reso conto che la sua passione per l’arte non le impediva di avere comunque l’occhio clinico: riconosceva nelle opere pittoriche, malattie e morbi che ora sono conosciuti. Come le è nata l’idea di farlo diventare un libro?
Il libro di fatto raccoglie tanti anni di osservazioni. Opere pittoriche viste da milioni di occhi in cui si celano segni di malattie dei soggetti ritratti, malattie dello stesso pittore, o addirittura cervelli nascosti in affreschi delle chiese. Non avevo mai avuto il tempo di scriverlo. E’ nato perché gli ho dedicato i lunghi week-end del lock-down.
L’ osservazione medica ai nostri giorni è sostituita dall’indagini strumentali. Quanto è utile nella diagnosi precoce per le malattie anche una lettura attenta dei segni?
Come nel mio libro la diagnosi medica è un processo indiziario, dove fondamentale è l’osservazione medica ed il colloquio medico. Pensate che molto spesso la risposta di una diagnosi precoce è nel racconto del paziente, nelle sue parole e nelle sue abitudini. Un qualcosa che oggi si tende a trascurare trincerandosi dietro alle tecnologie. Un grandissimo errore e regresso.
Abbiamo parlato di occhio clinico, anche nella lettura delle opere d’arte. Il ricorso al Dottor Google può ritardare la possibilità di una diagnosi corretta?
Caro Gabrielli io credo che l’occhio clinico sia una fusione e di esperienza e di talento del medico. Così come un calciatore puó essere più bravo di un altro a tirare una punizione o a colpire con il tacco o con la testa, così ci sono medici più inclini all’osservazione e a cogliere l’aspetto decisivo. Le tecnologie possono solo servire a confermare il loro sospetto ed il loro ragionamento. Google non puó lontanamente avvicinarsi. Come capirete leggendo Nascoste nella Tela gli occhi vedono solo quello che conoscono.
Questo libro poi – tra le righe – ci racconta quanto le malattie facciano parte della vita, quanto l’emergenza sanitaria per la presenza di una nuova malattia non sia un evento poi così raro, anche se certo una pandemia è un evento meno frequente. Lei ha studiato anche la situazione generata dal Covid 19, giusto?
Ho fatto orgogliosamente parte del gruppo dei 13 ricercatori italiani che per la prima volta in studi autoptici ho dimostrato il meccanismo delle rarissime complicanze da vaccinazione anti Covid. Quel contributo ha trasformato una drammatica reazione sconosciuta in una condizione ora riconoscibile e trattabile.
A tutti questi studi, lei affianca anche l’attività accademica di preparazione delle nuove leve in medicina. La Pandemia ci ha mostrato in modo chiaro anche quanto sia fragile la salute e precario il nostro sistema immunitario davanti ad un agente sconosciuto. Cosa si può fare per aiutare il Sistema Sanitario Nazionale a suo avviso?
Dobbiamo ritornare a pensare che Sanità ed Educazione devono essere le due pietre angolari che lo Stato deve assicurare ai cittadini. Il numero chiuso imposto sulle Lauree in medicina e sulle specializzazioni, ha fatto si che in questo momento di emergenza non abbiamo abbastanza medici sul campo. Non dobbiamo più erodere il miglior servizio sanitario nazionale del mondo.
Il tema del riconoscimento è sicuramente uno dei più pregnanti dell’attualità sociale e politica, portato alla ribalta da tutte le contraddizioni emerse con la pandemia che continua ad imperversare con le sue varianti.
In realtà lo è sempre stato, anche se la “lotta per il riconoscimento” era prima irreggimentata in categorie più leggibili come quelle, ormai superate, delle classi sociali. Axel Honneth, teorico del riconoscimento, (concetto già trattato da Hegel), riflette su come “i conflitti del nostro tempo possono essere interpretati come uno scontro tra diverse idee di libertà” e su come la pandemia, invece di aumentare la consapevolezza della libertà “positiva”, ossia dell’autolimitazione intesa come un potenziamento della propria libertà personale (come evidenziato già da Hegel, avviene nell’amore e nell’amicizia), ha acuito quello di libertà “negativa” ossia l’esasperazione delle libertà individuali, tendenza già in atto da molto tempo nelle nostre società.
Oggi assistiamo al bellum omnia contra omnes: terrapiattisti contro la scienza, complottisti contro “integrati”, no-vax contro pro-vax, scienziati contro sé stessi, politici in lotta tra di loro (anche se questo lo è sempre stato, adesso è una lotta pericolosa che coinvolge le Istituzioni).
Emblematico è in questo senso l’ultimo rapporto 2021 del Censis sullo stato sociale del Paese, dove il dato significativo che emerge è l’irrazionalità che ha infiltrato il tessuto sociale: per il 5,9% degli italiani (circa 3 milioni) il Covid non esiste, per il 10,9% il vaccino è inutile. Il 5,8% è convinto che la terra è piatta, per il 10% l’uomo non è mai sbarcato sulla luna, per il 19,9% il 5G è uno strumento sofisticato per controllare le persone.
C’è da chiedersi perché tutto questo. Il Censis parla di aspettative soggettive tradite, che inducono le persone a rifugiarsi nel pensiero magico e sciamanico.
La situazione è però più complessa e chiama in causa le radici stesse della democrazia. Come affermava John Dewey, la democrazia deve poter trarre l’autorità dal suo interno, dalle fondamenta, ossia dal “popolo”, ecco perché è così importante l’Educazione, cosa di cui la nostra società è manchevole anche a causa del decadimento del sistema scolastico e universitario. Ma senza voler colpevolizzare sempre qualcun altro, manca anche la volontà delle singole persone di andare oltre gli echi e le false sirene, di approfondire e ricercare, superando l’infodemia al netto delle responsabilità dei sistemi dell’informazione.
Si scambia infatti sempre di più la disponibilità di informazioni in una presunzione di conoscenza in ogni campo del sapere, in un “fai da te” dello scibile, ad uso e consumo del tutto individuale.
Si pensi, anche in funzione dei bias e delle dissonanze cognitive o, più banalmente della credulità in persone non accorte o sufficientemente consapevoli, agli effetti nefasti o, semplicemente al disorientamento indotto da questo bombardamento incontrollato di informazioni.
Ormai, attraverso i social, si formano degli universi paralleli, dei convincimenti personali, dei pregiudizi, che sono spesso contro il senso scientifico e le regole stesse della vita comune.
Questo è un altro dei problemi della nostra società che vede sempre di più la riduzione della dimensione pubblica e sociale a scapito di quella individuale e virtuale, dominata dagli algoritmi e caratterizzata dalle cosiddette “casse di risonanza” (le eco chambers, dove risuonano gli echi di tutti quelli che la pensano nello stesso modo).
Ormai è preponderante il regno del privato e dell’individuale, dove c‘è sempre meno spazio per il riconoscimento dell’altro. Sempre Dewey affermava che la bassa interazione sociale, la scarsità di relazioni nello spazio pubblico, diminuisce l’intelligenza collettiva. Ed è proprio quello che sta avvenendo, una società oscurantista che fa sempre meno uso della ragione, preda delle paure e delle fobie e dunque facile preda delle false credenze e delle manipolazioni.
In tutto questo dobbiamo mettere il decadimento dell’Etica pubblica ed il conseguente scadimento della politica, ormai priva di visione ed appiattita sul contingente, sempre più ridotta a rappresentazione invece che a rappresentanza e, quando va bene, a pura governance amministrativa ma senza progettualità, anzi costretta ad ingaggiare competenze e prestigio dall’esterno, incapace di farsi classe dirigente. Mai così attuale la frase di De Gasperi: ” il politico pensa alle prossime elezioni, lo statista alle prossime generazioni”. Ma dove sono gli statisti in Italia? Tutto è teso al presente, all’immediato, come dice la filosofa Donatella Di Cesare, siamo in un’ “immanenza satura” dove non c’è più visione del futuro.
Tra l’altro, da questo fiume di denaro che è il PNRR ci si aspetterebbe insieme ad una vera progettualità, più coraggio e generosità.
In tal senso possono essere interessanti alcune delle proposte avanzate dal Forum delle Disuguaglianze Diversità.
Ecco perché è così importante il tema del riconoscimento, non solo da parte della Politica ma anche da parte delle singole persone, perché l’Altro siamo noi, non solo per la nostra stessa identità ma come esseri appartenenti ad un unico genere umano.
“Non debemus, non possumus, non volumus” è la risposta che Pio VII diede all’ufficiale napoleonico che entrato al Quirinale, richiese la cessione dei territori dello Stato Pontificio all’Impero Francese. Non dobbiamo, non possiamo, non vogliamo. Era l’anno domini 1809.
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Mi sono chiesto, personalmente, quanto questa sensazione sia entrata dentro di me. E devo riconoscere che le gambe effettivamente sono molli, ma la curiosità di andare avanti, la sensazione che “il meglio deve ancora venire” c’è sempre. Questa esperienza in questa nostra testata giornalistica non ne è solamente un sintomo, ma ne è la misura. Durante tutto il periodo pandemico, durante il Lockdown più duro – quello ci ha visto cantare dai balconi per intenderci – e durante la lunga fase di avvicinamento ad una nuova “normalità”, Condivisione Democratica è stata sempre attiva, anzi si è arricchita di nuove curiosità, di nuove firme, ed è diventata come un prolungamento di quei balconi che abbiamo usato per sentirci più vicini, anche se chiusi ognuno nella propria casa. Mi è venuto naturale seguire curiosità, vecchie e nuove, e andare in profondità su argomenti che “prima” probabilmente avrei lasciato correre via. Ho reincontrato visi amici, anche se coperti dalle mascherine, e scoperto nuove amicizie, nuove energie. Certo non è un posto “tranquillo“. Come in ogni redazione ci sono confronti, la documentazione di quello che si vuole portare al lettore, le corse per la pubblicazione, i miglioramenti dell’ultimo minuto sui singoli articoli.
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Anche questo articolo, del resto, nasce da questo processo di approfondimento. Partendo dall’articolo che ho citato prima, sono andato a leggermi altri articoli, studi psicanalitici che hanno cercato di dare una spiegazione a quel senso di abbandono. Sostanzialmente – davvero semplifico brutalmente – questo fenomeno può essere o “il rimbalzo” o un modo diverso di affrontare quello che negli USA hanno chiamato “the Great Resignation“, la “Grande Rinuncia”, un fenomeno che si è visto nei primi periodi del 2020: una impennata nelle cessazioni volontarie dal lavoro ed un aumento repentino delle separazioni e delle cause di divorzio.
Lo shock per il crollo del “tran tran” quotidiano ha dato a tutti noi il tempo di analizzare due false percezioni della realtà, quelle che gli psicologi chiamano Bias Cognitivi:
Il “Sunk Cost Bias” – il Bias dei Costi Irrecuperabili – secondo il quale poiché si è già sostenuto un “costo” (economico, di tempo, di emozioni) per ottenere qualcosa, quel qualcosa vada preservato anche se non più adatto, perché quanto profuso non può essere recuperato.
L'”Opportunity Cost Bias“, che da una scarsa percezione del fatto che qualsiasi scelta attuata implica sempre e in ogni caso un costo che si affianca al valore o al beneficio che si può avere.
Questi due Bias sono quelli che ci fanno continuare a far fare sempre le stesse cose, sono quelli che ci fanno rimanere nella nostra “Comfort Zone” anche se ci sta un pò stretta. L’insegnamento della Pandemia è che se tutto questo cambia, se la sciagura si abbatte sopra di noi (come in un film sui “disastri”, tanto in voga alla fine degli anni ’70), rimaniamo solo con le nostre forze e dobbiamo ripensare tutto. E proprio in quel momento può scattare in noi, la risposta che citavo all’inizio: “Non debemus, non possumus, non volumus”.
Questo numero è dedicato al riconoscimento dell’altro, all’apertura verso le altre persone senza nessuna forma di pregiudizio, per questo mi fa particolarmente piacere ospitare il Dott. Sergio Valeri che proprio in questo periodo alla sua professione chirurgica ha affiancato un percorso di sensibilizzazione verso la cura e verso i pazienti, fondando una associazione che verrà presentata a breve e che ha come motto, bellissimo: “Rari, ma non soli”. Lo incontro nel suo studio ed è sempre un piacere parlare con lui , perché lui, lo scopriremo nell’intervista, è davvero sempre in movimento, con la sua professionalità e il suo travolgente senso dell’ironia. Ma prima di raccontare quello che ci siamo detti nel pomeriggio passato assieme, un passo indietro per raccontare chi è il nostro ospite: il Dott. Sergio Valeri si occupa principalmente di Chirurgia Oncologica ed in particolare di Chirurgia dei Sarcomi.
Si laurea nel 1995 e si specializza in Chirurgia Pediatrica (2002) e in Chirurgia Generale (2015) e nel frattempo ottiene un Master di II livello in Chirurgia Pancreatica Avanzata (2014) ed uno in Chirurgia dei Sarcomi dei Tessuti Molli (2017), lavorando comunque come Dirigente Medico presso il Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma (dal 2008). Dal 2019 è Referente della Chirurgia dei Sarcomi presso il Policlinico Universitario Campus Bio-Medico.
Dottore, un Curriculum davvero di tutto rispetto il suo. Immagino che nel frattempo, mentre conseguiva le varie specializzazioni, lei operasse, continuasse la sua instancabile attività in sala operatoria. Quante operazioni esegue?
Caro Ing. Gabrielli grazie per l’opportunità offerta.
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Lei ha detto il vero; durante il conseguimento delle varie specializzazioni e master, la mia attività operatorio continuava. La mia settimana lavorativa è composta di tre sedute di sala operatoria (8-20) in cui mediamente eseguo 5-6 interventi a seduta. Parliamo quindi di circa 18 interventi a settimana. “Fortunatamente” non si tratta sempre di patologia chirurgica complessa. A questo tipo di intervento infatti, vengono intervallati interventi di piccola e media chirurgia, durante i quali ho la possibilità di insegnare e far crescere i giovani chirurghi che lavorano con me. Non ci dobbiamo infatti dimenticare che lavoro in una struttura universitaria, la fucina quindi dei medici di domani.
A questo unisce le sue attività di divulgazione dentro e fuori le aule universitarie per la preparazione delle “prossime leve”. E’ così importante avere una equipe specializzata nella cura?
Come in parte anticipato nella domanda precedente, ho la fortuna e la responsabilità di un gruppo di lavoro, costituito da giovani medici in formazione a da neo-specialisti. Il gruppo e la realizzazione dello stesso, sono fondamentali. Da soli non si va molto lontano. Ed è per questo che dedico diverso del mio tempo lavorativo alla sua formazione.
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Solo in questo modo posso avere la certezza che il modus operandi sia sempre lo stesso.
Ricordo nell’equipe, coordinata dalla Prof.ssa Rossana Alloni, il Dott. Luca Improta, la Dott.ssa Chiara Pagnoni, la Dott.ssa Michela Angelucci, la Dott.ssa Claudia Tempesta e la Dott.ssa Sonia Sabbatini.
Ma il mio obiettivo però non è solo “formare” o far crescere.
Come dico sempre ai colleghi che lavorano con me, loro devono superare il “maestro”.
Quindi in sintesi direi che per affrontare i Sarcomi sia necessaria la preparazione di una equipe specialistica, ma anche la conoscenza da parte dei medici di base, per avere una tempestiva diagnosi di primo livello.
La ringrazio di questa domanda, che va a centrare due degli aspetti salienti della patologia di cui mi occupo.
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Il primo è la conoscenza, da parte dei Medici di Base, dell’esistenza dei Sarcomi. Solo in questo modo possono indirizzare il paziente in un centro di riferimento e quindi iniziare il corretto iter terapeutico. Da qui l’esigenza di un evento “formativo”, che ho organizzato ad Ottobre, e rivolto ai Medici di Medicina Generale. L’obiettivo era appunto renderli edotti sulla patologia e sui primi passi da compiere nei confronti di un paziente affetto da sarcoma.
Il secondo è l’importanza del centro sanitario di riferimento volto ad una patologia neoplastica, quale appunto i sarcomi, rara.
I sarcomi degli adulti rappresentano circa l’1% di tutte le malattie neoplastiche. Per raro però non si fa riferimento alla scarsità di mezzi terapeutici, ma appunto ad un semplice dato epidemiologico. Si apprende quindi come sia indispensabile l’esistenza di un centro sanitario di riferimento, che contempli la presenza di tutte le figure sanitarie coinvolte nella cura dei sarcomi (oncologo, chirurgo, radioterapista, radiologo, anatomo-patologo, psicologo) e che sia collegato a tutti gli altri centri distribuiti sul territorio nazionale. Infatti solo dal confronto clinico tra i vari centri è possibile condividere esperienze, tecnica e evidenze scientifiche, principio cardine alla base della cura di qualsiasi patologia.
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Con questa doppia visione, il Campus Bio-medico è diventato un Centro di riferimento a livello Europeo sul trattamento dei Sarcomi
E’ stato quello, mi riferisco all’inserimento del Campus Bio-Medico nella rete sanitaria internazionale Euracan sul trattamento dei sarcomi, un risultato ottenuto dopo 18 mesi di duro lavoro volti al miglioramento del servizio sanitario erogato ai pazienti con sarcoma, al perfezionamento del PDTA sui sarcomi (percorso diagnostico-terapeutico assistenziale) e successivamente al superamento di tutti i parametri clinici e scientifici posti quale conditio sine qua non per far parte della rete Euracan.
Quanto ha influito la pandemia su questo processo di identificazione tempestiva? L’emergenza Covid ha un po’ monopolizzato gli ospedali: pensa che ne risentiremo a livello di prevenzione?
L’emergenza Covid ha indubbiamente messo a dura prova il Sistema Sanitario Nazionale. Uno dei tanti aspetti emersi durante la pandemia è stato quello, purtroppo, di rallentare un percorso schedulato di follow up di un paziente con patologia neoplastica. A mio avviso però l’esistenza dei centri di riferimento, quale in nostro, ha permesso, con enormi sacrifici, di poter “onorare” la campagna di follow up dei pazienti oncologici.
Questo momento storico ci ha mostrato cosa significa “la salute pubblica”: il Lockdown è stato un modo per proteggerci anche a discapito dell’economia. Ma proteggere la salute è anche un modo per rendere solida la nostra struttura sociale. La tempestiva permette di avere un alto livello di qualità della vita?
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Domanda questa complessa, che non può certo essere evasa con una breve risposta.
La protezione e la salvaguardia della salute pubblica sono elementi imprescindibili alla base di un alto livello di qualità della vita. Ma la protezione della salute pubblica passa per diversi aspetti che vanno sempre garantiti. Mi riferisco alla possibilità di accedere alla cure per tutte le classi sociali, a prescindere dalla “posizione” economica o alla regione di appartenenza. E nello stesso tempo le cure sanitarie DEVONO essere all’altezza dei più alti standard professionali e scientifici. Come ottenere tutto questo? Con investimenti mirati, con una pianificazione “sanitaria” del territorio e con il RISPETTO della meritocrazia
Parliamo di malattie molto impattanti a livello sanitario, per costi elevati, ma anche personale, psichico, familiare.
La diagnosi di malattia oncologica spariglia tutti gli equilibri.
E mi riferisco non solo a quelli economico-sanitari, ma soprattutto a quelli personali del paziente. Di salute non solo fisica, ma anche psicologica. E al peso che si riversa sulla famiglia. Peso che molto spesso non è possibile “condividere” con la società, in quanto mancante della giusta organizzazione.
Il fenomeno della cosiddetta “emigrazione sanitaria” ne è un esempio.
Cosa può fare a mio avviso un medico?
Essere un professionista serio, preparato e coscienzioso.
Immagine dell’Ospite
Da qui nasce l’idea dell’Associazione dei Pazienti e dei familiari dei pazienti affetti da Sarcoma.
L’idea dell’Associazione Pazienti sarcomi dei Tessuti Molli nasce dallo stimolo di “dare” qualcosa in più ai pazienti affetti da questa patologia, e ai loro familiari.
E’ infatti una Associazione di pazienti, rivolta ai pazienti. Il presidente sarà una paziente da me curata.
L’Associazione si chiamerà SARKNOS. E all’interno del Consiglio Direttivo ci saranno altri pazienti.
Ho sempre pensato che il sentirsi parte di un gruppo, in cui il denominatore comune è la malattia, possa essere di aiuto per tutti i singoli componenti.
Il mio sogno è che si possa raggiungere una tale alchimia all’interno dell’associazione tale che un singolo paziente che sta attraversando una fase negativa del suo percorso sanitario, possa trovare giovamento e aiuto anche soltanto confrontandosi con un altro paziente, che magari quella fase l’ha già vissuta.
Ci tengo a precisare inoltre che l’aiuto dell’Associazione non sarà “solo” per i pazienti.
Penso infatti che anche i medici avranno la fortuna di migliorarsi grazie al confronto diretto con i pazienti.
L’associazione verrà presentata a breve con un evento.
L’evento a cui lei fa riferimento e che si terrà con l’inizio dell’anno nuovo, ha diverse finalità. La prima è quella di far incontrare e riunire tutti i pazienti affetti da sarcoma e da me operati presso il Campus Bio-Medico. L’evento infatti è “ritagliato” solo per loro. Al suo interno ci saranno momenti divulgativi, non scientifici, sulla malattia intervallati da momenti di assoluto svago grazie alla presenza di attori comici e cantanti.
Altro motivo è, come detto, la presentazione dell’Associazione con le sue finalità. Mi auguro quindi che ci possa essere la più ampia accoglienza da parte dei pazienti.
Ultima finalità, ma per me molto importante, è il desiderio di poter rivedere tutti i pazienti da me curati. Le confesso che sono un sentimentale e con tutti i miei pazienti sono riuscito ad instaurare un rapporto particolare, intenso, diretto. Il poterli rincontrare sarà per me motivo di gioia.
So che lei ha avuto un tentennamento nella scelta di medicina all’inizio del suo percorso universitario. Ora, da Ingegnere a Medico, ma perché ha scelto la Medicina?
Le confesso che non era un sogno che nutrivo da bambino.
La scelta di fare Medicina la si deve a mia madre.
All’età di 18 anni, finito il Liceo, dovevo scegliere in quale facoltà iscrivermi. La mia scelta cadde su Veterinaria (ho sempre amato gli animali). A quel tempo la facoltà “migliore” era a Perugia, a circa 180 Km da Roma. Mia madre, donna apprensiva, si oppose alla scelta e opto per Medicina e Chirurgia.
Ora, a distanza di più di 30 anni, ringrazio quel suo materno ”ostruzionismo”.
Per maggiori informazioni si possono consultare i siti internet dedicati al Dott. Sergio Valeri e ai Sarcomi.
Sono le 22 di un lunedì sera, anzi del lunedì sera prima di Natale, attendo Marta mentre preparo due calici di Valpolicella, dopo queste giornate intense in profumeria, è più che meritato. Marta, con il suo ciuffo colorato e lo sguardo vivace, sembra che non conosca il significato della parola “stanchezza”, entra in casa con il suo solito entusiasmo. Il cane le abbaia, il freddo pungente le è rimasto incollato addosso. Prendo il quaderno e la biro e ci accomodiamo. Iniziamo con un brindisi a noi. La ringrazio per avermi concesso questa serata, quest’intervista a cui tengo particolarmente. Marta, che passa le giornate insieme a me tra profumi, creme e prodotti di bellezza, in realtà inizia il suo lungo percorso come criminologa e contemporaneamente, sostenuta da una continua instancabile formazione, si occupa anche di uno sportello antiviolenza. Stasera, insieme, proviamo a scoperchiare questo “vaso di Pandora” come ama definirlo lei.
Logo AIED (dal sito Web)
L’associazione per cui lavora è la AIED (Associazione Italiana Educazione Demografica), che ha sede a Roma, e nasce nel lontano 10 ottobre 1953 ad opera di un gruppo di giornalisti, scienziati e uomini di cultura, di diversa estrazione politica, ma con una comune ispirazione laica e democratica.
Sul sito ufficiale dell’AIED (www.aied-roma.it) tra gli obiettivi posti troviamo:
• diffondere il concetto ed il costume della procreazione libera e responsabile;
• promuovere e sostenere iniziative rivolte a migliorare la qualità della vita ed a tutelare la salute della persona umana, a livello sia individuale che collettivo;
• combattere ogni discriminazione tra uomo e donna nel lavoro, nella famiglia, nella società, ed ogni forma di violenza sessuale e di violenza sui minori, fornendo assistenza e tutela -anche legale- alle persone che ne siano vittime;
• promuovere e realizzare attività di formazione e di aggiornamento professionale sulle tematiche dell’educazione sessuale del personale docente delle Scuole e degli Istituti di istruzione di ogni ordine e grado, promuovendo altresì corsi di educazione sessuale per alunni e genitori.
La AIED si occupa inoltre di vari progetti nelle scuole primarie, come il riconoscimento delle emozioni, l’educazione affettiva, il riconoscimento dell’altro (empatia). Progetti che secondo Marta andrebbero fatti ovunque.
Immagine dal Web
Marta, tu fai un secondo “lavoro” bellissimo, e sono davvero contenta di poterne finalmente parlare con te. Lavori già da parecchi anni presso lo sportello antiviolenza dell’AIED, a Novara, l’unico centro antiviolenza dell’associazione. Raccontami come funziona.
È principalmente uno sportello d’ascolto, che lavora in sinergia con il CAV (Centro Anti Violenza) gestito dal comune, a cui compete poi l’effettiva messa in protezione delle donne, perché banalmente è l’unico che ha i fondi per farlo. All’AIED arriva solo una piccolissima parte dei soldi stanziati dalla regione e naturalmente non sono mai sufficienti. Noi siamo 5 operatrici di sportello, di cui una assistente sociale (l’unica retribuita) e due psicologhe. Abbiamo un telefono, al quale siamo reperibili tutto il giorno, che teniamo a turno, mentre siamo raggiungibili fisicamente il lunedì dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 18 e giovedì dalle 9 alle 12, solitamente su appuntamento.
C’è inoltre un numero nazionale, il 1522, che dà alle donne i riferimenti della zona, che può attivare comunità o gli alloggi del comune. Per quanto riguarda noi, la donna ci contatta e noi ci occupiamo di ascoltare le sue necessità per fare poi una valutazione sulla gravità della situazione e stabilire un piano per andare in contro alle sue esigenze e problematiche. Chiediamo alle nostre assistite quali siano le loro aspettative in merito a questi incontri, se vogliono mettere sé stesse e i figli al sicuro, se vogliono separarsi, o solo essere ascoltate. Si può poi continuare ad offrire uno spazio di ascolto, un aiuto psicologico o un aiuto legale, naturalmente gratuiti. In alcune occasioni riusciamo a creare un gruppo di auto mutuo aiuto, in cui le donne si confrontano e si supportano vicendevolmente, mediate dalla psicologa. In casi gravi, ci si rivolge alle forze dell’ordine, agli assistenti sociali o al CAV, che si attiva per la messa in protezione, attraverso alberghi momentanei, comunità o alloggi.
Spesso vengono familiari o amiche a richiedere il nostro aiuto, ma abbiamo bisogno che sia la vittima a contattarci, altrimenti abbiamo le mani legate. Solo in caso di minori possiamo pensare di fare una segnalazione immediata agli assistenti sociali, che hanno poi la facoltà di intervenire.
L’associazione è di per sé un consultorio, questo ci permette di auto-sovvenzionarci, in parte, ma anche di mantenere un profilo basso (non c’è scritto da nessuna parte che lì si trovi uno sportello antiviolenza). Questo consente alla donna di recarsi da noi in tutta tranquillità, anche nel caso venisse “controllata” dal marito/compagno.
L’obiettivo principale per tutto il tempo in cui abbiamo in carico una donna vittima di violenza è, una volta garantita la messa in sicurezza, il suo EMPOWERMENT, ovvero la conquista della consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni, sia nell’ambito delle relazioni personali sia in quello della vita politica e sociale.
(Immagine dal Web)
Cos’è davvero la violenza sulle donne? Quando si pensa a questo si pensano a clamorosi fatti di cronaca, a donne picchiate, a ossa rotte e occhi neri.
Per spiegarlo con “leggerezza” diciamo, consiglio sempre di vedere il film “TI DO I MIEI OCCHI” di Iciar Bollain perché te lo fa capire prima attraverso le emozioni e poi sul piano razionale. E credo sia importante. Eliminare i pregiudizi per capire a fondo.
La donna subisce violenza quando le viene esercitato potere, controllo, prevaricazione, quando viene agito l’annullamento della persona con superamento dei limiti e quando vi è squilibrio delle posizioni. La violenza domestica è ogni tipo di violenza fisica, psichica, economica e sessuale all’interno di una relazione affettiva attuale o passata. La violenza psicologica, il ricatto emotivo, le intimidazioni sono forme di violenza altrettanto pericolose della violenza fisica, perché minano l’autostima, l’identità, la personalità della vittima. È un’azione reiterata nel tempo che porta la vittima ad una condizione di instabilità emotiva e mentale. Si basa su tecniche, spesso inconsce ma ben precise, di oppressione, privazione di potere, isolamento del partner da altri legami significativi e supportivi, costante svalutazione, derisione, gelosia, minacce ripetute di abbandono e annullamento. Si arriva a creare un vero e proprio clima di terrore (correlato ad un’alta percentuale di suicidi). La vittima cade gradualmente in una spirale di violenza che parte dall’intimidazione e dal controllo, si evolve nella svalorizzazione e nella segregazione, fino all’aggressione fisica e sessuale, per poi avere la riappacificazione (chiamata anche luna di miele) spesso innescata dalla minaccia della vittima di andarsene, e che passa inevitabilmente attraverso il ricatto dei figli. Si chiama ciclo della violenza perché ha una natura ripetitiva, in cui la fase ‘luna di miele” dura sempre meno perché il maltrattante teme l’abbandono, ed in effetti, è il miglior momento per la vittima per chiedere aiuto .
Agita prevalentemente dagli uomini, è una delle più frequenti violazioni dei diritti umani presente in tutti i paesi, culture, etnie, classi sociali, livelli culturali e di reddito e fasce di età. Dal 20% al 50% delle donne ha subìto una qualche forma di violenza da parte di qualcuno dei componenti della cerchia familiare. Troppo spesso la violenza domestica non viene denunciata né documentata per diversi motivi, tra cui le convinzioni culturali, la paura delle ritorsioni, ma anche a causa di operatori non adeguatamente formati per registrare i dati in maniera conforme.
Chi si rivolge al vostro sportello? Qual è il profilo della donna vittima di violenza? E quale è il profilo del maltrattante? Quanta consapevolezza c’è dietro a ciascun ruolo?
Allo sportello si rivolge una media annuale di 60 donne, quasi tutte del novarese. Hanno un’età media compresa tra i 45 e i 50 anni, di etnie diverse e che arrivano da contesti culturali ed economici molto diversi. Ci arrivano donne italiane come donne straniere, in egual misura e quasi tutte hanno figli. In comune hanno tanti anni di isolamento, denigrazione e sensi di colpa. La vittima vive in uno stato di tensione costante perché quello che all’inizio poteva sembrare l’uomo perfetto si trasforma in un trappola fatta di violenza inaspettata, perpetrata da colui che ha scelto la vittima come compagna di vita e sostiene di amarla.
La vittima sperimenta negli anni un crescente senso di inadeguatezza e di disorientamento, che non le permette di fronteggiare in maniera congrua i maltrattamenti, né di sottrarsi alla minaccia di violenza perpetrata costantemente dal partner. La teoria dell’attaccamento di Bowlby e gli approfondimenti sulle funzioni metacognitive contribuiscono a chiarire come la spirale, di cui abbiamo parlato prima, diventi stabile nel tempo e come le emozioni disfunzionali non regolate, tipo la rabbia e la paura, costituiscano i denominatori comuni nei legami di coppia violenti, a prescindere dalla storia di vita e dalle caratteristiche dei partner. La spirale della violenza è dominata dal senso di impotenza della vittima rispetto alla possibilità di modificare la situazione e di uscirne. La teoria dell’attaccamento evidenzia quanto la relazione violenta sia caratterizzata dal fatto che le vittime si sentano spesso legate ai loro partner abusanti. Sono le stesse situazioni di pericolo e paura ad attivare paradossalmente il sistema di attaccamento creando legami forti, anche quando la figura dell’attaccamento è la fonte stessa di minaccia. La vittima sente di non poter ricevere un trattamento migliore in altre relazioni e finisce per incolparsi dell’abuso subìto. Si crea una dipendenza che genera ansia nei confronti della separazione. C’è una grande difficoltà che non viene mai percepita dall’esterno. Molto spesso neanche i genitori o gli amici sono consapevoli di ciò che accade nell’ambito familiare della vittima. E quando c’è un tentativo di richiesta di aiuto spesso viene preso sottogamba, sminuito o addirittura la vittima rischia di essere accusata di essere “eccessiva”. Purtroppo le evidenze italiane parlano di una quota significativa di violenza familiare che resta in ombra, che non viene denunciata alle autorità e non conduce ad una richiesta di aiuto. Un fattore importante da considerare è la prevenzione : la possibilità di individuare il rischio di violenza nelle relazioni di coppia è nevralgica in quanto il fenomeno sta rappresentando una vera e propria emergenza sociale.
Lo scopo principale dei maltrattanti è il totale controllo della donna. La violenza nasce da emozioni disregolate , carenza nella capacità di mentalizzazione e sintonizzazione. Le radici della distruttività vanno cercate nel fallimento della funzione difensiva dell’aggressività e nella fragilità del sé, che può dar luogo a comportamenti violenti verso le parti vissute come minacciose. Ne deriva una perdita della capacità riflessiva, ovvero che considera l’altro come persona in grado di provare effettivo dolore o sofferenza psichica e/o fisica. In questa condizione il controllo degli impulsi aggressivi, che deriva in buona parte dallo sviluppo di capacità empatiche e di identificazione, viene annullato.
Da questo puoi facilmente dedurre quanto in realtà manchi la consapevolezza in entrambi i casi.
Esiste un centro a Torino, che si chiama “Il Cerchio Degli Uomini” che offre una sorta di prevenzione della violenza domestica, ma come puoi immaginare l’affluenza è nettamente inferiore rispetto al corrispettivo femminile. E la partecipazione è assolutamente volontaria. Quando invece bisognerebbe fare molta più prevenzione, partendo soprattutto da alcune categorie sociali, prettamente maschili e che sono in possesso di potere e armi. La sensibilizzazione e l’educazione alle emozioni fin dall’infanzia sono strumenti fondamentali in questa battaglia.
Prima hai detto che quasi tutte le donne che si rivolgono allo sportello hanno figli. So bene che questo è l’argomento che più ci sta a cuore. Nell’immaginario collettivo i figli sono quella cosa che va accudita e protetta dai mali del Mondo. Come crescono questi bambini?
Nel caso dei bambini si parla di violenza assistita intra-familiare, che è l’esperienza di qualunque forma di maltrattamento (fisico, verbale, economico, sessuale) subita da una figura affettivamente significativa (genitori, fratelli, nonni…). Può essere diretta, e vedere il bambino presente agli episodi di violenza, o indiretta, in cui il bambino ne percepisce gli effetti attraverso i segni fisici o comportamentali (paura, ansia, panico). I bambini, nel vedere i genitori, o le figure di riferimento, da cui dipendono, provano disorientamento e paura. Perché hanno, da una parte, una figura minacciosa e violenta e dall’altra disperata, impotente e spaventata. Questi bambini non impareranno a gestire le loro emozioni in maniera corretta, penseranno che sia normale subire minacce, violenza e disprezzo e dunque diventare a loro volta adulti violenti o al contrario sottomessi. Impareranno a minimizzare la propria sofferenza perché sentono di non poter chiedere aiuto ai genitori.
Per analizzare questo dobbiamo pensare prima a tutte le conseguenze negative che la donna deve affrontare: traumatizzazione cronica, sindrome da stress post traumatico e la compromissione delle capacità di accudimento della prole e di attenzione ai loro bisogni.
E, sebbene le madri si preoccupino sempre che i figli non si accorgano delle violenze, vengono giocate da numerose emozioni negative, come sensi di colpa, vergogna, rabbia, paura, umore depresso, innescando in un secondo momento meccanismi di distacco dal proprio sentire, e diventando, anche con i figli insensibili, estraniate dagli altri e disinteressate. Vivono però in uno stato fisiologico di costante vigilanza e allerta e sono ipersensibili ai segnali di pericolo, rischiando di sviluppare reazioni di rabbia a fronte di stimoli lievi.
Un attaccamento sano con il caregiver è importante per lo sviluppo delle capacità fisiche e mentali dei figli. Determina la fiducia negli altri, regola le proprie emozioni, permette di interagire in maniera adeguata con il mondo e permette di prendere consapevolezza del proprio valore come individui. In situazioni di violenza domestica, le figure di attaccamento sono instabili, imprevedibili o addirittura minacciose. Il bambino sente che non può fare affidamento su di esse, che dipende, per la sopravvivenza, da figure che sono una minaccia per la sua salute mentale e fisica e non ha modo di sottrarsene. Sviluppano strategie mentali intense per superare il paradosso e la paura costante.
Durante la crescita si può sviluppare una sintomatologia più o meno grave, che comprende disregolazione delle emozioni (incapacità di tollerare, modulare o superare emozioni negative come paura, rabbia e vergogna), problemi nella regolazione delle funzioni corporee (disturbi del sonno e dell’alimentazione, iperreattività o bassa reattività agli stimoli circostanti e difficoltà di adattamento ai cambiamenti, sintomi dissociativi e bassa consapevolezza del proprio corpo, problemi somatici (mal di testa), difficoltà nel riconoscere e descrivere le emozioni (soprattutto in età adolescenziale), ridotto controllo degli impulsi, mancanza di attenzione, condotte aggressive, costante stato di allerta (ma ridotta capacità di identificare correttamente ed evitare il pericolo), comportamenti di autoconsolazione o autolesionismo, disturbi nella percezione del sé e nelle relazioni ( sentimenti di vergogna cronici, odio verso se stessi, sfiducia, diffidenza e timore verso gli altri e tendenza all’isolamento sociale). Sì possono addirittura avere regressioni a precedenti stati di sviluppo.
Non fatico ad immaginare le difficoltà a cui andate in contro in questa vostra missione, dalla mancanza di risorse, alla burocrazia, all’aspetto umano ed emotivo, con chi si presenta allo sportello e con chi non dà il giusto valore al vostro lavoro. Ci va sicuramente una grande motivazione per andare avanti, considerando anche che il ritorno economico è inesistente nella maggior parte dei casi, dato che parliamo di volontariato, e assolutamente inadeguato come lavoro remunerato.
È un lavoro frustrante in effetti, con rare, ma importanti soddisfazioni. Ti ritrovi a fare i salti mortali tra raccolte fondi e burocrazia, e dopo tanta fatica, noi e queste donne ci vediamo sbattere pure delle porte in faccia. Affrontare processi infiniti. Aspettare l’intervento degli assistenti sociali che sono oberati di lavoro e ai quali manca la specificità necessaria. Non dico niente di nuovo quando sottolineo l’importanza di snellire alcune procedure. Alle volte è di vitale importanza. Pensa ad una donna, che dipende economicamente dal marito, come la maggior parte delle donne vittime di violenza, che ha bisogno di una consulenza legale per sporgere denuncia contro il marito e deve prima andare a fare l’ISEE. Laddove è possibile infatti cerchiamo di indirizzarle verso la separazioni civile, sempre sostenute da una consulenza legale gratuita, perché attraverso la denuncia e i processi si inizia un percorso troppo lungo e complicato, soprattutto per un soggetto fragile. Non molto tempo fa si è rivolta a noi una giovane donna del Congo, che doveva divorziare dal marito e che aveva ancora le carte del matrimonio nel suo villaggio, custodite dal “santone”. Nel mentre lei era in Italia, a vivere in una casa con i bambini e il marito chiuso a chiave in una camera, che le lasciava il frigo vuoto, non le dava soldi per comprare cibo o pannolini per i bambini. Per risolvere situazioni così, devi poterti affidare a tutta una serie di servizi che devono funzionare.
25 novembre, La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ne vogliamo parlare?
Sarebbe un evento meraviglioso, se si facesse meno politica e si pensasse in modo più pratico e propositivo. Per esperienza personale ti posso dire che è davvero inconcludente. Che poi parlarne possa essere una campagna di sensibilizzazione va bene, ma le organizzazioni che si occupano davvero di difendere e sostenere le donne, con migliaia di volontarie, hanno bisogno di fondi, di aiuti concreti, di una gestione più oculata del soldi , che spesso vengono fatti figurare in cose inesistenti. C’è bisogno di formazione, sia sul campo, sia per essere più efficienti nel presentare richiesta per i fondi Europei (conoscere i bandi, poter presentare dei progetti ben strutturati, utilizzare poi i fondi in maniera ottimale).
Questo è il numero di Condivisione Democratica con il quale si chiude l’anno e, come ogni anno, questo è il momento di bilanci e di buoni propositi e – per alcuni soprattutto – quello degli Oroscopi.
Questo numero è dedicato alla mancanza di pregiudizio, lo so benissimo, ma in effetti quale modo migliore di raccontare il pregiudizio se non immergendosene dentro? E gli oroscopi sono la summa del pregiudizio!
Tutto, per gli oroscopi, è in qualche modo premeditato, ognuno di noi, in qualche modo, è predestinato a comportarsi in un certo modo, seguendo le indicazioni del proprio segno zodiacale: per chi ci crede, è sufficiente conoscere il giorno di nascita – e per i più fini anche l’ora di nascita – per avere una valutazione dell’animo umano di chi è di fronte, conoscerne le propensioni e le peculiarità personali.
Per preparare questo oroscopo mi sono documentato, ho studiato il piano astrale e cercato di comprendere bene gli influssi dei vari astri sulla psiche e sul destino umano.
Questa, in sintesi, la mia previsione astrologica per i vari segni zodiacali per il 2022. Un Oroscopo scritto da chi non crede negli oroscopi.
Vogliamo provare a capire se funziona? Proviamo a vedere se ho indovinato il vostro futuro fra sei mesi o un anno!
ARIETE
Ariete è il segno che più di altri è governato da Marte, dall’influsso combattivo e ostinato del Pianeta Rosso, ma anche dal Dio della Guerra. Dio della Guerra, ma capace di dare passioni travolgenti.
Il 2022 sarà un anno importante, di passaggio, di lavoro preparatorio ma con tante soddisfazioni sul lavoro. La pazienza sarà la dote richiesta principalmente. Tra Gennaio e la prima metà di Febbraio si vedranno i risultati del lavoro fatto nel frattempo che poi ripartiranno verso Dicembre in ottica del nuovo anno. Nel mezzo, un’estate coperta da Giove che darà un pò di soddisfazioni per lo studio e la programmazione della professione, con una strizzatina d’occhio ai sogni, ai progetti e alla fortuna, che può arrivare ad Agosto.
Tanta pazienza e si vedranno i frutti.
TORO
Nel 2022 un occhio particolare alle cose pratiche, alla concretezza, al lavoro e agli affetti consolidati. Non ci saranno passioni travolgenti, ma la scoperta – o la riscoperta – di affetti genuini e profondi. Ma a guardare le influenze di Venere e Marte che danzano sui vari quadranti, ci saranno situazioni particolari diverse volte (Febbraio, Aprile, Giugno e ad Agosto) e occasioni da prendere al volo. Da Agosto in poi, tanta attenzione alle cose pratiche sul lavoro, per il forte influsso di Giove.
Un buon lavoro, a testa bassa.
GEMELLI
Non sarà semplice aspettare, ma da Agosto in poi, Giove cambierà l’impressione data fino a quel momento e le cose inizieranno a girare per il verso giusto: Saturno farà cadere qualche regola (qualche senso di colpa?), Marte metterà nuova forza e nuova energia (Inizia a programmare le vacanze, perché saranno molto rigeneranti!) tanto sulle cose pratiche del lavoro, quanto nelle passioni che saranno solide e brucianti. La Luna, l’astro che più di tutti porta all’introspezione, ai racconti notturni, farà visita a Marzo e Settembre, per giudizi importanti.
Una liberazione e nuove opportunità.
CANCRO
Anno di lavoro duro, il 2022 per il Cancro, con Giove che in trigono da una forte influenza da Gennaio a Maggio e poi da Ottobre fino a fine anno, quindi un bel pò di tempo a disposizione per progetti e per raccogliere i frutti di quello che si fa. Estate fiacca sul lavoro ma interessante per i progetti in due da Giugno fino a fine Luglio, dopo un inizio di anno non proprio esaltante. Un Compleanno non scoppiettante, insomma, ma con belle soddisfazioni.
Tempo per nuovi progetti.
LEONE
Con il 2021 si chiude un capitolo faticoso, con poche emozioni. Giove smette di essere in opposizione mentre Saturno rimane ostinatamente contrario, complicando e rallentando i rapporti importanti, lasciando spazio a piccole distrazioni negli affari di cuore. Forse da Agosto in poi, Marte potrà dare nuova energia, capace di far superare le difficoltà.
Sul lavoro però finalmente qualcuno prenderà l’iniziativa, mettendo a frutto promesse fatte da tempo, ma attenzione: Mercurio sarà capace di giocare brutti scherzi e bisogna mettere a freno le parole tra maggio e giugno.
Energie per una costruzione elaborata.
VERGINE
Un anno segnato da Giove: lui porterà buone notizie per iniziative sul lavoro (tra maggio e luglio) alle quali darete un apporto controllando o supervisionando, sempre lui porterà occasioni per il cuore nei primi 5 e negli ultimi 3 mesi dell’anno. Ma a complicare le cose ci sarà Marte che da agosto metterà alla prova la vostra pazienza. Cercate di sfruttare il brevissimo tempo che Venere e Mercurio daranno nei primi tre mesi per sedurre: Mercurio è il messaggero degli Dei, con le ali ai piedi.
Cogliete il momento propizio senza esitazioni e poi costruite per bene.
BILANCIA
Il 2022 non sarà un anno eccezionale per gli amici della bilancia ma i primi mesi saranno davvero molto interessanti, perché permetteranno di disinnescare potenziali problemi: un dettaglio o una piccolezza tra Gennaio e Marzo potrebbe non sfuggire all’occhio attento di Giove in trigono.
Attenzione alle tensioni del cuore a Giugno, perché se superate bene, da Agosto ne vedrete i benefici, con Mercurio che a fine Settembre potrebbe accorciare distanze esistenti.
Occhio ai dettagli.
SCORPIONE
Marte, vostro astro ispiratore, vi dona combattività e sensualità e quest’anno non sarà da meno. Nei primi 3 mesi Venere vi darà fascino per nuove conquiste o nuova linfa nei rapporti consolidati. Nel lavoro un po’ di sana conflittualità dialettica che vi darà modo di mettere in evidenza il vostro impegno, ma attenzione a non cadere nella polemica. La luna di febbraio suggerisce di verificare dei bilanci, o lo stato di avanzamento di lavori, mentre quella di fine luglio di tirar fuori le energie per cambiare qualcosa.
La consapevolezza di cambiare qualcosa e di valutare le proprie forze.
SAGITTARIO
Un anno intenso, faticoso, burrascoso, di cambiamento per gli amici del Sagittario. Fino a Maggio grande confusione tra cambi di rotta repentini dovuti al veloce Mercurio che farà andare sull’ottovolante l’umore, il lavoro e il cuore. Da metà Maggio a metà Ottobre grandi passioni e grande fantasia, grande creatività ma attenzione a Marte che da Ferragosto renderà tese tutte le intese a due e toglierà molte energie ma non la voglia fare bene.Attenzione ai noviluni di fine Maggio e di fine Novembre, ci sono novità.
Imparate a riconoscere i momenti propizi per sfruttarli nei momenti dissonanti.
CAPRICORNO
Il 2022 inizia decisamente con il piede giusto regalando agli amici del capricorno un tempo importante per i sentimenti e anche per il lavoro, peccato poi si perda da marzo fino a fine ottobre. Fate subito incetta per consolidare il vostro rapporto. Tra Giugno e Settembre alcune sfide sul lavoro da cogliere rapidamente, senza tirarvi indietro.
Attenzione a gestire le vostre energie dopo le vacanze perché sarà più difficile recuperare gli sforzi fisici.
Attenzione alle parole, ché non volano e possono essere pesanti.
ACQUARIO
possiamo dirlo sicuramente il 2022 non sarà affatto un anno brutto per il Capricorno, anzi. Capirá come amarsi, fin dei primi mesi del nuovo anno, solo così si potranno avere rapporti schietti e solidi sia in amore che sul lavoro. Mercurio darà una mano a risolvere dei piccoli problemi a febbraio giugno e settembre. Dal 21 agosto Marte darà una mano per valutare le azioni migliori e darvi coraggio e determinazione.
Libertà di fare, e anche di sbagliare.
PESCI
Sembra proprio che il 2022 sarà un anno particolarmente fortunato per gli amici dei pesci. Mercurio Semplificherà lo stare insieme nei primi di marzo nella seconda metà di aprile e poi luglio, ma attenzione da Agosto, dal 21, perché Giove sarà in opposizione tanto da rendere difficili anche situazioni apparentemente semplici nelle mura di casa. Cercate quindi di dare il vostro meglio entro la metà di maggio in modo da sfruttare questo cielo particolarmente fortunato senza tralasciare occasioni.
Tanta fortuna, ma in breve tempo: la capacità di cogliere le occasioni, e di crearle.
Le statistiche ufficiali dipingono una realtà assai preoccupante. D’altronde, è in atto un cambiamento culturale lento ma, a quanto pare, inesorabile. Prova di ciò sono le diverse iniziative intraprese negli ultimi anni per contrastare il fenomeno: dalla scuola al quadro normativo di riferimento e perfino alla raccolta unificata dei dati mirata all’attuazione di politiche informate. Ne abbiamo parlato con la dott.ssa María Soledad Balsas, ricercatrice al Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas (CONICET).
La violenza sulle donne è purtroppo un fenomeno molto diffuso a livello mondiale che però può assumere diverse caratteristiche a seconda dei contesti socioculturali. Qual è la situazione in Argentina?
Il tema della violenza sulle donne in Argentina ha acquisito molta visibilità sociale, soprattutto negli ultimi anni. Le donne possono essere vittime di diversi tipi di violenze: sia fisica che psicologica, a scopo sessuale oppure economica e patrimoniale e addirittura quella simbolica.Nel 2020, l’ammontare delle vittime dirette di femminicidi, l’espressione più estrema di ogni forma di violenza contro le donne, sono state complessivamente 250, ovvero 1,09 persone ogni 100.000 femmine. Nelle statistiche vengono considerate donne, travestite e transessuali. Si tratta per lo più di persone tra i 35 e i 44 anni d’età che sono state uccise spesso dai propri partner oppure dagli ex partner. Nel 86,05 per cento dei casi erano persone che avevano bambini e/o adolescenti a carico.
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Tra il 2013 e il 2018, sono state identificate 242.872 donne sopra i 14 anni che si sono rivolte ai servizi sociali, alla polizia, alla giustizia, e al pronto soccorso in qualità di vittime di violenza di genere. Nel 86 per cento dei casi vengono identificate appunto come vittime di violenza psicologica, intesa come il danno emotivo oppure il venir meno dell’autostima per via di minacce, umiliazioni di ogni tipo e perfino l’isolamento. Particolarmente rilevante risulta la situazione delle donne al di sopra dei 50 anni, che nel 48,2 per cento dichiarano subire violenza da parte dei propri figli. Nel 97,6 per cento dei casi segnalati la violenza contro le donne accade in ambito domestico.
Cosa è stato fatto per ribaltare queste cifre drammatiche?
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Per contrastare questi dati, sono state intraprese diverse iniziative che puntano a garantire la parità di genere in diversi ambiti. A livello istituzionale, negli ultimi 15 anni sono state approvate diverse leggi con evidente prospettiva di genere, l’ultima di cui è stata quella sull’aborto, passata a dicembre scorso. Un’altra legge (27.452/2018), d’importanza strategica secondo me visto l’ammontare di vittime a carico di minorenni, stabilisce un compenso economico pari a una pensione minima per i figli e le figlie delle vittime di femminicidio. Si conosce come “legge Brisa”. Brisa Barrionuevo aveva 3 anni quando sua madre, Daiana Barrionuevo, è stata ammazzata da suo padre e buttata al fiume, delitto per cui è stato condannato all’ergastolo. Sua zia si è fatta carico di Brisa e di altri due suoi fratelli. Ma avendo già tre figli non era facile per lei provvedere economicamente. Da questo caso è nata l’iniziativa legislativa.
Poi, la cosiddetta “legge Micaela” (27.499/2019), una giovane di 21 anni, attivista del movimento femminista “Ni una menos”, che è stata uccisa da un uomo condannato in precedenza per due violenze sessuali e reso libero, scatenò un intenso dibattito sociale sulle responsabilità dello stato in merito. Da questo dibattito è sorta questa iniziativa legislativa che prevede corsi di formazione obbligatori per i dipendenti pubblici appartenenti ai tre poteri dello Stato, sia per conoscere il quadro normativo di riferimento che per diffondere buone pratiche amministrative che riguardano la violenza di genere e il ruolo della donna nella società in generale.
Un altro punto di svolta a livello istituzionale è stata l’approvazione nel 2006 della legge 26.150 che prevede nei diversi livelli del sistema educativo, dalla scuola dell’infanzia in poi, degli spazi formativi che promuovano la cura del proprio corpo, la consapevolezza sulla natura dei rapporti interpersonali, i diritti sessuali e riproduttivi, gli stereotipi di genere, ecc. Questa iniziativa rientra nell’ambito dei diritti dei bambini, le bambine e degli adolescenti. Così si punta su un cambiamento culturale a lungo termine i cui primi risultati incominciano a intravedersi tra le nuove generazioni.
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A Suo avviso, il disagio socioeconomico può essere una chiave per interpretare questo fenomeno?
Infatti, si tratta di una realtà che tende a colpire le aree più povere ma, va anche detto, non in maniera esclusiva. L’anno scorso, ad esempio, l’opinione pubblica è rimasta sconvolta dall’uccisione di Silvia Saravia (69) in Neuss, una donna di alta società che è stata ammazzata dal marito Jorge Neuss (72), un noto imprenditore che si è suicidato poco dopo. E’ significativo notare il trattamento che questo caso ha avuto nei media argentini con relazione ad altre vittime di violenza di genere. A differenza dei connotati sessuali che presentano le uccisioni di donne di classe media e bassa, in questo caso la vittima è stata resa piuttosto invisibile, mettendo in evidenza un certo “patto di silenzio di classe”.
Come ha inciso la pandemia nella situazione che Lei descrive?
Il tasso di vittime dirette durante il confinamento è rimasto alquanto inalterato con relazione agli anni precedenti. Non vi sono ancora a disposizione dei dati per tracciare un quadro articolato. Ma possiamo avanzare qualche ipotesi. Il lockdown ha significato per molte donne, sia in Argentina che altrove, dei passi indietro nelle proprie autonomie. Rinchiuse in casa e oberate di lavoro, molte donne ci siamo ritrovate di fronte a situazioni che possono aver restituito certo senso patriarcale di controllo ai maschi che, non vedendo la loro posizione domestica di potere minacciata, avrebbero fatto meno ricorso alla violenza per assoggettare le donne. E’ ben noto, almeno in Argentina, che sono state soprattutto le donne ad assumere i compiti domestici e la cura della famiglia, ad agevolare la frequentazione scolastica dei figli in modalità DAD, oltre che compiere coi propri obblighi lavorativi. Questa situazione avrebbe indebolito la posizione oggettiva di molte donne, sia all’interno della propria famiglia che in ambito sociale.
Il movimento Non una di meno è arrivato perfino in Italia. Di cosa si tratta?
Il movimento femminista “Ni una menos” è nato in Argentina nel 2015 per contrastare appunto i femminicidi, fa parte di una rete internazionale che lotta e manifesta contro le disuguaglianze di genere a 360 gradi. Viene definito come un movimento storico che si inserisce nella tradizione degli Encuentros Nacionales de Mujeres (dal 1986), la Campaña Nacional por el Derecho al Aborto legal, seguro y gratuito e la lotta che tengono da più di 40 anni le Madres e Abuelas de Plaza de Mayo.
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Infine, cosa rappresenta il fazzoletto verde?
Il fazzoletto verde è nato per identificare la lotta per l’aborto in Argentina e in America latina, ed è riconosciuto ormai in diversi Paesi. La scelta del fazzoletto come accessorio di moda per rendere visibile questa richiesta non è casuale: può essere ricollegata al fazzoletto bianco che dal 1977 ha contraddistinto la richiesta di memoria, di verità e di giustizia portata avanti coraggiosamente da un gruppo di donne che, in piena dettatura militare, si riuniva di fronte alla casa di governo per scambiare notizie sui propri figli-e desaparecidos.
Può una semplice passeggiata per il centro di Bologna, trasformarsi in un complesso dialogo interiore, un po’ conflittuale un po’ metaforico, che possa essere traslato in un articolo per Condivisione Democratica? Sì, il momento che il filo conduttore di questo numero è: pregiudizio, incapacità di riconoscere l’altro, sostegno agli emarginati. Intanto, cosa ci faccio a Bologna? Una partecipazione in qualità di attrice, ad una serie tv. E il dilemma da cosa nasce? Per quanto sia precario ed incerto, quello dell’attore, rimane uno di quei mestieri in cui, per dire delle battute in modo credibile e muoverti con disinvoltura davanti ad una macchina da presa, sei omaggiata, coccolata e riverita. In un giorno guadagni quasi una mensilità di un lavoro normale e in più fai il lavoro più bello del mondo, almeno secondo me. Il primo senso di disagio lo provo già semplicemente nell’affacciarmi alla finestra del mio hotel, con vista sulla piazza della stazione. Fa un freddo cane, ma io sono a maniche corte, che spreco, 22 gradi davvero non sarebbero necessari. Guardo i passanti tutti incappucciati, penso alle persone che non hanno un riparo.
Immagine dell’Autrice
Prima di andare sul set ho qualche ora libera, decido di fare una passeggiata verso il centro. Cammino sotto gli innumerevoli colonnati, affascinanti quanto luogo prezioso e rifugio dalla pioggia per i senzatetto. Vedo un primo povero, sistemato tra i suoi stracci a terra, con il suo piattino per le elemosina. Senza pensarci, raggiungo in fondo alla borsa gli spicci che ho e glieli porgo. Un uomo abbastanza giovane e molto grasso. Procedo poche decine di metri e vedo una donna, non vecchia e non grassa, che chiede anche lei le elemosina. Mi pento di aver dato gli spicci che avevo al signore precedente, solo perché grasso. Che stupido pregiudizio… poi arriva un signore di colore, riesco a trovare ancora qualche moneta, a lui non posso resistere. Sono vittima di un “razzismo al contrario”, ho quindi una tendenza innata a prendere le parti degli Africani. Anche questo un pregiudizio, no? Procedo verso la piazza principale e noto una situazione che mi porta all’argomento “incapacità di riconoscere l’altro”: una ragazza Europea, forse Italiana ma comunque bianca, è accovacciata intenta ad eseguire un’opera pittorica sul pavimento. Ha accanto un piattino per le offerte. Nel mentre mi rammarico di non poter darle un sostegno, noto un giovane credo del Bangladesh che, con un grande sorriso, ripone dei soldi nel piattino. Lo osservo mentre si allontana, magari verso la sua attività, il suo negozio o il suo ufficio, quello che sia.
Immagine dell’Autrice
Normalmente ben vestito, ha un passo deciso e soddisfatto: chissà quante ne ha passate, chissà se anche lui ha dovuto chiedere l’elemosina prima di poter trarre gioia nel farla a chi ora ne ha bisogno. Ecco, mi sono domandata, nel dialogo interiore che ha accompagnato i miei passi tra i vicoli, come questa stessa scena potrebbe essere interpretata in diverso modo a seconda dei nostri pregiudizi, di come riconosciamo l’altro, di come lo vediamo, di come siamo disposti a sostenerlo o ad emarginarlo. Io ho trovato questa scena semplicemente bellissima. Lascio a voi immaginare invece, come gran parte della gente avrebbe commentato, con le solite stupidaggini – gli stranieri ci rubano il lavoro – e simili. Sono giunta proprio in vista del palazzo su cui sono affissi da tanto, troppo tempo, i manifesti di denuncia sul caso Regeni e per la libertà di Zaki. Ora che, la meravigliosa notizia che Patrick è stato scarcerato, che la nostra preghiera collettiva si è trasformata in realtà, ecco che penso agli emarginati criminalizzati, i detenuti senza titolo, i perseguitati per un ideale. Il nostro Patrick Zaki, forse e mi auguro, avrà la forza in futuro, quando sarà davvero emerso dall’inferno in cui lo hanno gettato, di dar voce alle troppe persone che sono ancora private della libertà e combattere contro le ingiustizie di cui lui è stato vittima. Sarebbe una sorta di consacrazione della sua dura esperienza. Scommettiamo che lo farà?
Lo scorso 12 Ottobre si è commemorata la “scoperta dell’America”.
Pensiamoci un po’, che c’è di più emblematico di questo evento per dimostrare che la vita è piena di opportunità, che ci possono essere dei colpi di fortuna incredibili e, al tempo stesso, un’incredibile sequenza di imprevisti, di errori e di conseguenze drammatiche?
(Immagine dal Web)
Colombo era un grande navigatore, lo abbiamo studiato a scuola, conosceva benissimo i mari, benissimo le navi, i marinai, le carte geografiche, conosceva benissimo i venti. Aveva studiato, e tanto, così come aveva tanto osservato.
Sapeva benissimo che sulle Canarie soffiavano venti che a 15-30km/h spingono le imbarcazioni verso sud-ovest. I portoghesi quei venti, gli Alisei, li conoscevano bene e, per questo, nel cercare la via verso il sud dell’Africa (e il suo oro, i suoi schiavi) e verso le Indie (e le sue spezie) utilizzavano delle navi piccole, maneggevoli, con tre alberi: due a vele quadre per il vento in poppa e uno a vela triangolare per quando i venti sarebbero stati contro, per il ritorno. Venivano chiamate caravelle.
Cristoforo Colombo lo sapeva e sapeva anche che al Capo di Buona Speranza – il confine tra Oceano Atlantico e Oceano Indiano- i portoghesi ci erano arrivati poco tempo prima ma solo grazie ad una tempesta, per puro caso.
Lui aveva un’idea diversa in mente: raggiungere le indie navigando verso ovest. Semplicemente dalla parte opposta rispetto a quella seguita dai portoghesi.
Le chiamava indie, come si diceva in quell’epoca, ma intendeva le province della Cina: una fonte immensa di tesori, di tessuti preziosi, di ceramiche. Molto di più dell’Africa e dell’India.
Aveva letto, molto attentamente, Il Milione di Marco Polo e aveva studiato gli scritti di Aristotele e di Tolomeo dai quali recuperò le misure della Terra, per preparare “Il Viaggio”.
Conosceva benissimo l’animo umano: quello dei dotti e dei marinai. Così parlando con i primi all’Università di Salamanca si dice che chiese loro di tenere in equilibrio un uovo sul tavolo e dopo i loro tentativi, per mostrare che a volte ci vogliono idee diverse, sbatté leggermente l’uovo sul tavolo, “piantandolo” lì. Parlando con i marinai invece promise una moneta d’oro a chiunque avesse avvistato terra, così da sopire i primi segnali di impazienza e paura quando il viaggio si stava facendo troppo lungo.
“Il Viaggio” infatti avrebbe dovuto portare a terra in 3 settimane partendo da Palos, sulla costa atlantica della Spagna, per dirigersi verso le Canarie per imbrigliare quegli Alisei – che erano l’asso nella manica di Colombo – per raggiungere quindi le indie.
Un piano semplice e astuto, proprio come la storia dell’uovo.
Peccato che Tolomeo avesse sbagliato i calcoli e che la Terra fosse ben più grande di quanto pensasse, tanto da aver nascosto per così tanti anni agli Europei un così grande continente, che poi prese il proprio nome da Amerigo Vespucci.
Le opportunità, dicevamo, sono in effetti situazioni che si possono cogliere avendo la capacità e la volontà di superare i propri confini per vedere nuovi spazi, nuove realtà, ed il coraggio di considerare il fatto che si possa manifestare l’imprevisto o che ci si possa imbattere nel fallimento.
Viene in mente un altro navigatore che, prima di Colombo, superò le “Colonne d’Ercole” per spirito di avventura, per seguire la propria curiosità: l’Ulisse. Quest’ultimo solo nella letteratura, tra le rime della Divina Commedia di Dante, mentre Colombo lo fece davvero, rimanendo poi nella Storia.
Ma non è tutto qui.
Quell’opportunità in una terra nuova, frutto di errori di calcolo, portò anche violenze che si abbatterono sui popoli indigeni per la fame di ricchezza dei conquistatori. Un errore di valutazione sull’animo umano. Perché gli uomini che si imbarcarono dopo quel primo viaggio non si accontentarono della moneta d’oro e si trasformarono in predoni che saccheggiavano e uccidevano in nome di un Eldorado su cui favoleggiavano, quando non della religione.
Così il 12 Ottobre non è solamente il “Giorno di Colombo”, il “Columbus’ day” come in America del Nord, o il “Dia de la Raza” e “Día de la Hispanidad” come in Spagna, cioè un giorno per festeggiare l’incontro di culture. In America Latina, si commemorano il “Discovery Day”, il “Pan-American Day” e poi i “Día de la Descolonización”, “Día de la Liberación, de la Identidad y de la Interculturalidad”, “Día del Encuentro de Dos Mundos”, “ Dìa de la resistencia indígena”, “Día del Respeto a la Diversidad Cultural”.
Perché non si può riscrivere la Storia, sarebbe un altro grave errore, ma è giusto conoscerla completamente: quella grande opportunità che fu la scoperta dell’America portò anche disuguaglianze e violenze a chi, per più di 600 anni, fu semplicemente “un vinto”.
Una lunga coda d’estate e la voglia di piccole avventure nel nostro bel territorio laziale: non occorre andare lontano per provare l’eccitazione della scoperta. Mi imbatto per caso in una testa di tufo, isolata nel bosco, posizionata ai piedi di una pianta dai tanti tronchi. Mi domando quale persona particolare, quale creatura di questi luoghi, possa essersi dedicata ad adornare così, una già bellissima e ricca zona fluviale. Già, perché mi trovo a passeggiare in una landa nuova, lungo il ben conosciuto fiume Treja, visitato e goduto da molti romani e non; mi riferisco in questo caso, al tratto in direzione delle sue fonti, ovvero le Cascate di Montegelato, meta di turisti come di fotografi e produzioni cinematografiche varie. L’esplorazione di questo preciso punto, proprio sotto un enorme costone tufaceo, è invece per me, un’avventura tutta nuova. Siamo nella valle sottostante Civita Castellana: possiamo vedere i resti di un ponte crollato nel 1920 a causa di una devastante piena, nei pressi di un bacino artificiale che forniva l’acqua necessaria per azionare la mola di un mulino. Tre secoli fa proprio qui esisteva una diga, ora soprannominata “Legata”. Ormai il fiume si è riappropriato del suo territorio che ora mostra barlumi del passato mescolati ad elementi artistici del presente. Sì, perché dagli anni ‘80 in poi, lo scultore locale Gildo Cecchini, ha reso questo luogo un suggestivo quanto originale museo all’aperto. Incontro per caso quest’artista, selvatico quanto me, proprio sulle sponde del fiume che ospita le sue opere.
Mi racconta che sia d’inverno che d’estate, si reca sul luogo per sistemare gli argini, tenere pulito dalle erbacce, fare la manutenzione dei vari percorsi, piccoli ponti di legno compresi, che collegano e creano un itinerario da cui poter ammirare le sue creazioni. Gildo, oltre che offrirmi di posare per una sua scultura, mi racconta che questo è un luogo da tanti anni diventato punto di ritrovo e di refrigerio per le persone di Civita Castellana e non solo. Mi racconta che da bambini tanti anni fa, sotto una specifica parete tufacea poco lontana, il fondale argilloso era una grande attrattiva e tutti si ritrovavano a spalmarsi il corpo con la creta. Gildo è cresciuto: in pensione dopo una vita trascorsa nel suo negozio di parrucchiere, rende speciale un luogo ameno e fantastico, prestando la sua arte anche per opere su commissione. Questa la sua pagina Facebook. Quanto a me, prima o poi, mi ritroverò certamente a fare da modella per Gildo Cecchini, le cui mani trasformano il tufo in magia!
“La libertà non è star sopra un albero, Non è neanche il volo di un moscone”, cantava Gaber anni fa e proprio come concludeva lui nel ritornello, “Libertà è partecipazione”. Dal canto mio, aggiungerei condivisione, com’è nello stile della nostra testata.
Condividere uno spazio e partecipare alla sua costruzione, contribuendo, con un proprio elemento che si incastra con gli altri come una tessera del puzzle, ad una elaborazione di un pensiero o di una azione più grande, più complesso. Questo numero lo abbiamo dedicato alla Libertà, in tutte le sue forme, in tutte le sue espressioni. Abbiamo dato -ovviamente- libertà a tutti i nostri redattori di interpretare il tema a proprio piacimento e sono emersi interessanti spunti di riflessione. Abbiamo dato ampio spazio alle interviste alla politica che è vicina a momenti di confronto elettorale per suppletive parlamentari e per le amministrative, in particolare nella Capitale. La Politica – quella con la “P” – del resto è proprio una delle massime espressioni della libertà e della partecipazione. O almeno dovrebbe esserlo. Libertà di Movimento (come racconta Loretta) o Libertà di Espressione (come descrive Martina) o Libertà Personale (come puntualizza Elena) o Libertà dalle credenze (come suggerisce Giorgia) o Libertà di Raccontare e Immaginare (come riporta Walter) o Libertà di Vivere la propria vita (come scrive Giorgio). Tante libertà, tante forme di inclusione e di cooperazione, di convivenza civile.
Rientriamo dal periodo estivo, nel quale mi auguro tutti noi siamo riusciti ad avere un momento per “ricaricare le batterie” dallo stress quotidiano, e possiamo leggere i nostri pensieri, con questo numero intenso.
“Bisognerebbe fare teatro nelle scuole, perché l’esercizio di mettersi nei panni degli altri ci può far diventare una società migliore” Elio Germano.
Settembre, Teatro Aurelio, stesso giorno e stesso orario, si riparte con le attività del laboratorio teatrale. Il gruppo non è esattamente lo stesso, qualcuno ha scelto un percorso diverso, un paio non riescono a venire, ci sono dei nuovi ingressi, fatto sta che partiamo tutti entusiasti, felici di ritrovarci qui e speranzosi che questo anno sia meno complicato del precedente.
L’anno scorso, causa pandemia, gli appuntamenti settimanali sono stati problematici, mascherina tutto il tempo, distanziamento, sanificazione, coprifuoco, ma, malgrado le difficoltà, Manuele è riuscito a non farci saltare una sola lezione, ricorrendo anche alle lezioni su piattaforma web durante i brevi periodi “arancioni”. E’ stato un grande aiuto in un momento così particolare e vuoto.
Già il Gruppo, “fare gruppo” è una delle cose più importanti di questa attività e soprattutto è uno degli scopi, fare teatro fa bene all’anima anche per questo, aiuta ed insegna a relazionarsi. Per me è una terapia, un banco di prova che mi ha confermato che è tutto bello fin che le cose vanno bene ma è nelle difficoltà che si vede davvero se un gruppo è affiatato e per far questo dobbiamo fare i conti anche con quelle parti di noi stessi che non ci piacciono affatto e che tutti abbiamo, come ad esempio la competizione, l’invidia e la frustrazione, che di fatto sono sentimenti come altri e che, una volta riconosciuti, si possono gestire.
(Immagine dell’Autrice)
Con il gruppo dell’anno scorso abbiamo portato in scena uno spettacolo che, per come si è svolto, ci ha fatto capire che eravamo un “bel gruppo”, unito e in sintonia, ognuno di noi con particolarità differenti che, “amalgamate” come si deve da uno “Chef” di tutto rispetto, ci hanno permesso di essere soddisfatti del risultato ottenuto. Perché, diciamolo, la sintonia è fondamentale quando si sale sul palco, le battute escono fluide, basta uno sguardo per capirsi e soprattutto si riesce ad affrontare un errore, una battuta sbagliata, un vuoto di memoria, un contrattempo, in un modo talmente naturale da non farlo percepire al pubblico.
E’ il quarto anno che faccio laboratorio
teatrale, una passione che nutrivo da anni ma che non avevo mai avuto il
coraggio di affrontare, poi finalmente mi sono decisa a mettermi in gioco.
Manuele ci conduce al saggio di fine anno
attraverso degli esercizi preparatori davvero interessanti, ci fa lavorare con
il corpo e la mimica, con la memoria e le emozioni, con la voce e la dizione,
ci prepara a “buttarci”, vincendo timidezza e imbarazzo, ci fa leggere testi
teatrali classici e contemporanei, ci fa cultura.
L’improvvisazione è l’attività che preferisco in assoluto, stimola la fantasia e la creatività, insegna ad immedesimarsi negli altri attraverso ruoli che abitualmente non ci appartengono, mette in relazione e a volte lo fa in maniera così forte da arrivare anche a commuoversi, stimola la sensibilità e l’empatia. E’ bello, è bello sì quando saliamo sul palco, “bene, ora salite, spalle alla platea e iniziate” ci dice Manuele, dandoci qualche indicazione tecnica o un obiettivo da raggiungere. E’ quello per me il momento magico: il primo che ha l’ispirazione si gira e da l’attacco agli altri, e gli altri lo seguono, integrano la scena, a volte la ribaltano. In quei momenti io mi sento libera, libera di muovermi, di esprimermi, di fantasticare. Libertà di Espressione.
Manuele ci dà benvenuto, ci fa sedere in semicerchio e iniziamo presentandoci ai nuovi arrivati. Già i nuovi arrivati, sempre bello iniziare ad interagire con gente nuova ma la sicurezza che mi dà vedere Valeria, Germana, Diana, Sergio, Claudia e Linda non ha eguali.
Oggi sono esattamente tre mesi da quando
abbiamo messo in scena Surrealiti e
io, guardando il palco, ripenso con nostalgia a quei momenti.
LO SPETTACOLO “Sono sicuro che a Martina piaceranno i testi” disse Manuele a febbraio quando ci presentò la sua idea per il saggio di fine anno, in effetti proporre degli sketch tratti da Monty Python’s Flying Circus è stato davvero divertente, e per me un onore, visto che ho sempre trovato questo gruppo comico inglese unico nel suo genere, apripista di una comicità singolare e geniale.
IL BACKSTAGE Ricordo l’emozione, il 13 giugno era una giornata calda, ci ritrovammo fuori dal teatro già a metà pomeriggio, tutti tamponati per poter finalmente salire sul palco senza mascherina, cosa non da poco visto che sarebbe stata la prima volta in un anno di lavoro. Entrammo, appoggiammo le nostre cose e Manuele ci fece prima di tutto ripetere qualche scena, poi ci parlò, motivandoci e tranquillizzandoci, e infine ci fece fare un’oretta di esercizi di rilassamento, un vero toccasana per il corpo e la mente. La preparazione e l’attesa furono momenti davvero singolari, con agitazione, giocosità, nervosismo, ansia da prestazione e paura, sì, io sentivo molto forte la paura, paura di sbagliare, paura di dimenticare le battute, paura degli imprevisti.
IL SIPARIO Agitazione, cuore a mille, emozione forte, mi muovo non riesco a stare ferma, sento il brusio dalla sala, siamo pronti, il sipario ci divide dagli “spettatori mascherati” ma siamo pronti, consapevoli che l’apertura dello spettacolo ha sempre qualcosa in più, è il biglietto di presentazione dello spettacolo, Manuele ci disse “dovete partire subito a mille, dovete essere “esagerati” in tutto, osate, osate e osate!” e questa cosa mi agitava molto, esagerare partendo “freddi” non è cosa da poco. Guardo Beatrice, che attende come me, così come Diana, Sergio e Linda, e le dico “sto male, ho lo stomaco chiuso”, lei con un sorriso, che io ritengo assolutamente inadeguato per questo dramma di situazione, mi dice “calma, respira, andrà tutto bene”. Si apre il palco, ci siamo, non c’è più tempo, vai con la prima battuta di tutto lo spettacolo. Responsabilità. Colloquio di lavoro è il primo sketch, ironia e sarcasmo con un pizzico di cinismo e abbondante no-sense. Il primo sketch è andato, uscendo dal palco ho pensato alle persone che avevo invitato, amici, colleghe, vicine di casa, e…oddio ci sono anche Giorgio e Gerry di Condivisione Democratica, oddio che figura, Giorgio è un amico ma Gerry non l’ho mai conosciuto di persona, che dirà, che penserà quando mi vedrà con tutti i fiocchetti in testa, perché sì nello sketch successivo è così che mi presento. E infatti, non ho neanche il tempo di rilassarmi che già mi devo preparare, appunto con i fiocchetti in testa, per entrare nello sketch successivo Clinica della Discussione con Valeria, Beatrice, Diana, Linda e Claudia. Sentiamo gli applausi ma siamo tutti talmente presi dai cambi scena e dai preparativi che non abbiamo tempo di realizzare bene quello che sta succedendo. Seguiranno quindi Alpinista, Dejavu, La Donna che finisce le frasi degli altri (con Matilda), Cucciolotto, L’Inquisizione Spagnola (con Matilda, Claudia, Germana e Sergio), Dejavu 2, Negozio di Animali, L’Audizione e Ristorante (con Germana, Valeria, Beatrice, Sergio e Diana).
(Immagine dell’Autrice)
Abbiamo portato in scena un’ora di evasione per un pubblico che, come tutti noi, arrivava da un anno di patimento, ci siamo divertiti noi e loro, e la scelta del soggetto Manuele l’ha calibrata proprio per questo “purtroppo avremo un pubblico dimezzato e provato, quindi proponiamo qualcosa che diverta, che faccia sorridere ma che sia di qualità e soprattutto ragazzi divertitevi!”, e così è stato.
Il teatro è libertà, è cultura, è
autoanalisi, è crescita, è creatività.
Un percorso teatrale dovrebbe essere inserito, a parer mio, come materia di studio fin dalle scuole materne proprio per insegnare, come dice Elio Germano, ai bambini a mettersi nei panni degli altri e diventare degli adulti migliori di quello che siamo noi.
Un grazie speciale a Manuele Guarnacci e ai miei compagni di
avventura, Beatrice, Claudia, Diana, Germana, Linda, Matilda, Sergio e Valeria
Mi è capitato di piangere sentendo un testo reggae il cui titolo era “Freedom”.
Ho pianto al pensiero della privazione della libertà e dei diritti, tutt’ora così presente e prepotente nel mondo. Ma poi la disperazione riguardo questa realtà, è stata soppiantata da una lucida considerazione, peraltro abbastanza ovvia, scaturita dal vedere mio figlio così prigioniero delle sue ombre mentali, sebbene io l’abbia cresciuto in totale libertà.
Sì, il fatto ovvio è che, anche se non ci fossero regimi e privazioni del movimento, rimarrebbe ugualmente la nostra mente in prigionia, anche se il corpo fosse lasciato totalmente libero. Per cui è dal liberare la nostra mente che dobbiamo cominciare e forse le prigioni esterne si sgretoleranno.
Allo stesso tempo è un dovere difendere con le unghie la libertà e i diritti acquisiti, così come è urgente impegnarsi nel trovare soluzioni affinché in altre parti del mondo, siano fermati coloro che calpestano la libertà e la dignità umana.
(Immagine dell’Autrice)
Mi è anche capitato di piangere di gioia nel sentirmi libera, danzando, camminando nel mare trasparente, muovendomi nel vento senza schemi né motivo.
La libertà si trova nel silenzio e nella spontaneità, nell’ascolto e nel suono del fluire delle cose nella loro semplicità. Questo ha poco a che fare con le limitazioni imposte dalla società e dalla legge, oppure con le formalità e le regole.
Un tempo mi sentivo libera nel non seguire le regole.
Oggi contemplo il mio stato interiore in ogni situazione e ne alimento
semplicemente e amorevolmente l’innata e antica libertà.
Soldato Giulio Moscardi – Adria 25.04.1897 / Adria 14.01.1923 Cappellano militare Don Giulio Facibeni – Galeata 29.07.1884 / Firenze 02.06.1958
E’ buio, fumo una sigaretta appoggiata alla staccionata, pancia piena di una squisita carne con patate cotta nella Peka e cervello inebriato da un ottimo prosecco, guardo il paesaggio attorno a me, illuminato dalla luna, e ascolto il silenzio assordante, rotto solo da qualche rumore della natura e dal brusio che arriva da dentro, risate, chiacchiere e racconti.
La temperatura è piacevole, un po’ di fresco ci voleva, e io sono persa nei miei pensieri, penso alla commemorazione di domani ma soprattutto mi sembra di sentire Loro, i lamenti di quei ragazzini, perché questo erano, caduti a migliaia proprio in queste zone, in queste montagne, lontani da casa e non per loro scelta; ho il magone in gola, il vino non aiuta in questi casi, mi fisso a pensare a quanti saranno morti proprio nel punto dove mi trovo io, e mi scende una lacrima al pensiero che magari qualcuno di Loro non è morto subito, magari è stato lì agonizzante per ore, o forse giorni, e penso alla “fortuna” che hanno avuto quelli che si sono spenti subito.
Mi trovo sul Monte Grappa, alle pendici del Monte Pertica, e il paesaggio è bellissimo, colline dolci e verdi, con quei curiosi avvallamenti che non sono altro che il segno di bombardamenti continui; sono ancora ferma al pensiero di Loro e questa sensazione molto forte di cosa i loro occhi avranno visto prima di chiudersi definitivamente, non certo quello che vedo io ora ma solo distruzione, fumo e corpi martoriati.
E’ un anno che Giulio aspetta questo momento, la commemorazione è stata rinviata causa pandemia, e ha organizzato tutto alla perfezione, collaborando con Davide Pegoraro, storico ed esperto della storia della Prima Guerra Mondiale sul fronte europeo, e Delfio Favrin, che gestisce con la compagna una struttura ricettiva sul Grappa.
(Immagine da Giulio Moscardi)
Ci alziamo presto, è il 26 giugno e il sole splende, facciamo colazione e io mi fumo la prima sigaretta appoggiata sempre nello stesso punto della sera prima, la vista adesso è diversa, c’è il sole, si sentono rumori e i profumi della natura sono vivi, eppure io sento ancora questo velo di angoscia, continuo a pensare a Loro, quella percezione di averli attorno e quella suggestione di sentirli grati per questa giornata di memoria.
Alle 9 iniziano ad arrivare gli invitati, amici, conoscenti, le Istituzioni, quindi il sindaco di Adria, Omar Barbierato, con una piccola rappresentanza al seguito, e il sindaco di Valbrenta Luca Ferrazzoli, poi vedo arrivare Patrizio Colombo, un giovane ragazzo partito prestissimo da Firenze in rappresentanza dei suoi genitori, Francesca Elia e Mauro Colombo, rispettivamente regista e produttore del film documentario sulla vita di Don Giulio Facibeni,
Inizio a salutare persone che vedo pochissimo, mi perdo in chiacchiere, quando ad un certo punto mi giro e sono colpita da un’immagine particolare: l’arrivo di quattro uomini – tre carabinieri e un ufficiale del Primo Nucleo Uniforme Storiche Arma dei Carabinieri – che vedo salire dal prato, sono in fila indiana e tengono la lucerna sottobraccio. Loro, il silenzio e il paesaggio. Sembra la scena di un film, sembra un istante di cento anni fa.
E’ tutto pronto, i fiori di campo vengono messi in un vaso e posizionati alla base delle due steli – pensate e disegnate da mia cognata Eva -, coperte con una bandiera italiana del 1918, un reperto storico di grande valore (la bandiera è rimasta a Trieste fino al 1954; dopo la fine della seconda Guerra Mondiale, quindi dopo la caduta del Re, dalla bandiera era stato tolto lo stemma sabaudo, stemma però riattaccato appunto nel ’54 dai triestini quando si voleva annettere Trieste alla Jugoslavia).
Inizia la cerimonia.
(Immagine @martmosc)
Il picchetto d’onore, composto dai militari in divisa d’epoca, si posiziona ai lati delle lapidi, e lì rimarrà fino alla fine della cerimonia. Si procede con la scopertura, viene deposta una corona di alloro in memoria del soldato Giulio Moscardi ed iniziano gli interventi.
Le parole che vengono spese sono tante, è tutto molto commovente e io, allergica ad ogni tipo di retorica, ascolto con attenzione e trovo che nessuna parola detta sia fuori luogo e fuori contesto.
Si ricordano date, luoghi, battaglie della Prima Guerra Mondiale ma lo scopo di tutto questo è onorare le migliaia di ragazzi che sono morti in questi luoghi, indipendentemente da quale provenienza avessero, che fossero italiani, piuttosto che austriaci, oggi il ricordo è per tutti, per Loro morti in questa terra e per tutti caduti nelle guerre.
Gli interventi sono
tanti, parlano i sindaci, parla Patrizio, il giovane fiorentino, è tutto molto
emozionante, siamo tutti attenti, adulti, giovani e bambini.
L’emozione forte, e incontrollabile, mi arriva però ascoltando due interventi in particolare.
“….queste sono due sono figure maestose – dice Davide Pegoraro, iniziando il suo intervento – e queste figure non sono figure sconosciute, sono i nostri bisnonni, i nostri nonni, e sono anche i nonni e bisnonni degli altri, quindi estenderei questa parola meravigliosa che avete usato “noi” a Loro, è più esteso no?! Loro, Loro è qualcosa che non tiene conto di me, tiene conto solo degli altri, e forse quando si fa Memoria Storica è opportuno che non ci sia neanche il “noi” ma che ci sia il Loro, primo perché io non c’ero durante la guerra, posso solo riportarvi quello che ho letto e studiato, ma soprattutto perché la guerra è forse in assoluto l’elemento dove c’è solamente l’Io. Le guerre non finiranno mai, mi tocca dirlo, ma piccoli episodi, come quello di oggi, aiuteranno quanto meno ad avere comprensione e con la consapevolezza si vince, anche se si perde; qui abbiamo due Soldati che l’hanno vinta la guerra, uno come cappellano militare e l’altro come combattente effettivo, ma sono convinto che se chiedessimo a Loro non ci direbbero questo, ci direbbero che la guerra l’hanno persa tutti, indistintamente. E’ giusto che vi faccia una descrizione di cosa qui è accaduto, voi vi trovate sul Col della Martina….”.
(Immagine @martmosc)
Queste parole mi hanno davvero colpita, le ho trovate appropriate, profonde, mai fuori luogo e fuori tempo, lontane da ogni orientamento politico e anche religioso, severe ma umane. Con queste parole il silenzio si fa totale, mi guardo attorno, le tante persone presenti sono concentrate e io ho la sensazione che trattengano il respiro, o forse sono solo io a trattenerlo, i bambini guardano e ascoltano, gli adolescenti sono concentrati, i soldati immobili e imperturbabili. Sento il bisogno di respirare davvero, mi allontano un secondo e mi guardo attorno, tutto questo verde e questa aria pulita in effetti aiuta.
E’ il momento dell’intervento di Giulio, è il suo momento, il momento del suo lavoro, dopo tanta attesa, inizia a leggere “Ero bambino quando, nella grande casa dei miei nonni, spesso mi piaceva entrare in una piccola saletta. Ricordo la poca luce, l’odore di naftalina e il profondo silenzio. Lì mi fermavo a guardare una gigantesca fotografia in bianco e nero, alta come un uomo, incorniciata e appesa al muro; e vecchia, tanto vecchia, quasi antica. Era di un ragazzo, in una posa elegante, leggermente girato di fianco, lo sguardo serio. Aveva una mano all’interno di una tasca dei larghi pantaloni e l’altra dietro la schiena. Indossava un maglione con il collo alto, una giacca militare con due decorazioni nere sui baveri…”.
(Immagine da Giulio Moscardi)
Continua a leggere, lo osservo, mi viene in mente quando eravamo piccoli, la sua passione per i soldatini e i film di guerra, e di quando giocavamo insieme nel giardino della casa dove siamo cresciuti.
Lo vedo sicuro nella lettura, nessun imbarazzo, in fondo sta raccontando una storia, i fatti, i luoghi, le date, sta andando davvero molto bene, in fondo è un professionista, sa gestire le situazioni. Il racconto adesso si fa più intimo, si inizia a parlare delle ferite di guerra, del calvario e del dolore fisico e psicologico, delle accuse di ammutinamento prima e di insubordinazione dopo, dei periodi trascorsi in prigione e di una Patria che prima l’ha “spremuto” e poi abbandonato.
Si immedesima, si immedesima così tanto che l’emozione prende il sopravvento, la sua commozione parla di tutto, di empatia, di fatica per il lavoro fatto, di attesa per questo momento, e poi chissà di quanto altro… Tutti ci rendiamo conto in quel momento preciso che ha bisogno di essere accompagnato nel suo viaggio, almeno per un pezzetto. Qualcuno prova a farsi avanti ma io mi faccio largo tra tutti, mi avvicino a lui che mi consegna il foglio e continuo a leggere.
Il testo è molto doloroso e io faccio spazio alla rabbia per evitare che la commozione si riproponga, come ha già fatto più volte nelle ultime ore. Giulio, con rispetto, mi si avvicina silenziosamente e capisco che è il momento di lasciargli continuare la lettura.
Per me è stato un momento importante, improvvisamente è sparito il contesto in cui eravamo e per qualche minuto sono rimasta ferma all’affetto che provo per lui, noi così diversi ma uniti in quella che è stata la nostra storia e, purtroppo, anche la nostra guerra. E un pensiero l’ho rivolto anche ai nostri genitori che, seppur avendoci tenuti in una guerra (e non per Nostra scelta), ci hanno trasmesso dei valori importanti e soprattutto ci hanno fatto il (sano) lavaggio del cervello con frasi del tipo “aiutatevi sempre e state uniti”.
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“Signore, Tu che stronchi le guerre, accogli la nostra preghiera per la pace. Accogli il nostro pianto mai spento, per tutte le vittime che ogni guerra e violenza miete….”., recita Don Giuseppe, parroco di Seren del Grappa, leggendo la Preghiera al Col della Martina, siamo tutti raccolti, che si ascolti o meno le parole, il momento è davvero toccante per tutti, credenti e non.
La cerimonia si chiude con la consegna da parte di Davide Pegoraro della “Croce dei Popoli” alle persone che si sono spese per questa ricerca storica, accompagnata da una pergamena che spiega le motivazioni di tale onorificenza.
La fine della Commemorazione mi sembra un risveglio, come mi fossi ridestata da un momento mistico, bella e dolorosa sensazione.
Per quanto mistico sia il momento poi sappiamo come va a finire, per fortuna, al termine di ogni tipo di cerimonia, ebbene sì: “Magna e bevi”. Tutti in compagnia abbiamo terminato la mattinata con un rinfresco a base di prodotti tipici in un posto davvero suggestivo e, non contenti, non sazi e “non sufficientemente idratati” (come solo noi veneti sappiamo essere) abbiamo infine pranzato al rifugio “Valtosella”, gestito da Davide e la moglie Elena, ottima cuoca.
(Immagine @martmosc)
La giornata si è chiusa, per noi pochi rimasti, con una visita in una delle grotte, poste sotto Col Della Martina, dove erano situati i ricoveri e i posti di comando dei reparti austro ungarici. La grotta si pensa sia quella a cui si fa riferimento nella motivazione della medaglia d’argento del soldato Giulio “scorta per primo l’esistenza di una grotta…”. Delfio è stata la prima persona che Giulio ha incontrato due anni fa ed è lui che l’ha condotto in quella grotta, grotta che poi loro due, insieme a Davide, hanno ripulito con un lavoro attento e preciso. Arriviamo e la Madonnina, posta nell’apposito incavo, viene illuminata da un raggio di sole che si fa spazio tra i rami e le foglie, l’immagine parla da sola….Loro….
“eh, siamo tutti e due emotivi, io poi senza ritegno” dico a Davide che mi si avvicina appena terminata la cerimonia e mi trova con gli occhiali da sole appannati, “non ti preoccupare, dì a tutti che hai una pesante allergia”, lo guardo e rispondo “no! dico che ho pianto, perché nascondere?” e il suo sorriso complice mi rasserena.
Oggi vi parlo di un incontro avvenuto sul lambire di un bosco, ai piedi del monte Soratte. Questo monte che si erge come un’isola non lontano dalla capitale, è carico di storie e leggende, citate da Dante, Orazio, Plinio e molti altri. Virgilio nell’Eneide riferisce un’invocazione di Arunte al dio Apollo “custode del santo Soratte” e parla della pratica cultuale del camminare sui carboni ardenti durante i riti a lui dedicati (sacrifici animali ed umani compresi). Secondo altre antiche leggende gli “Hirpi Sorani”, i sacerdoti che in un tempio sul Soratte veneravano Apollo in forma di lupo, potevano trasformarsi essi stessi in lupi. Durante le cerimonie in suo onore, lo stesso Apollo prendeva le sembianze di grande lupo bianco. E ora vengo al presente, argomento “lupi” compreso.
(Foto dell’autrice)
Posso testimoniare per esperienza diretta che la magia avvolge davvero la verde e sacra montagna, motivo per cui spesso mi sono aggirata tra i sentieri che conducono ai vari eremi, mi sono persa nel bosco dopo essermi affacciata sulle pericolose bocche dei famosi “meri” (considerati in antichità le porte per gli inferi); non ho resistito al fascino della grotta di Santa Romana, scelta come location per un progetto fotografico di cui offro con piacere un anteprima a Condivisione Democratica
(Foto di Claudio Donati)
Proprio alla fine di una di queste mie avventure ecco che mi capita di scambiare due parole con una persona che, nonostante un look che avrebbe sviato chiunque (senza nulla togliere a quello tipico dei pastori), risulta essere per l’appunto, a guardia di un gregge poco distante. Il bel giovane si premura di avvertirmi che, nel caso io mi aggiri spesso nei boschi da sola, dovrei come minimo portarmi dietro un bastone. Lo avevo già sentito dire, ma Mario, oltre confermarmi la presenza di lupi, mi specifica che: sono tre esemplari, è raro attacchino l’uomo, è frequente che si divorino le pecore; in più mi spiega che, nello sfortunato caso venissi attaccata, la manovra da compiere è quella di avvolgere e proteggere la propria gola con il braccio. Non volevo scrivere cose tragiche, d’altronde questa è la natura e va amata così. Insomma, nel procedere di questa conoscenza, mi colpisce l’appagamento e la fierezza con cui Mario mi parla del suo lavoro: “Faccio il pastore da sempre e non mi sono mai stufato, né di svegliarmi all’alba per la mungitura, né di stare le ore qui, nella solitudine, in mezzo ad un prato, a seguire il gregge. Avrei potuto fare altro; mio padre, sebbene l’azienda agricola sia di famiglia e ci lavori da sempre, è archeologo, si interessa di tante cose a livello storico e culturale. Mia sorella è nel teatro. Mia madre maestra. Io sono un pastore e non vorrei fare null’altro. Mario, col suo viso da attore e la sua cultura, ha scelto a 28 anni, il contatto con la natura, il silenzio, la contemplazione. E comunque, nel 2021, sembra sia di tendenza: recentemente ho letto di alcune ragazze-pastore e, lo confesso, quando avevo 15 anni, in una mia fase di ritiro spirituale, avevo pensato anche io che quello fosse il lavoro per me. Poi sopraggiunsero altri stimoli ma, posso davvero capire Mario, il bel pastore del Soratte