Archive for the
‘Archivio’ Category

“Il
leone sulla giraffa”: Madre, giornalista, scrittrice, imprenditrice, Giovanna
La Vecchia e le sue figlie inventano favole per costruire un piccolo angolo di
paradiso

Come
nasce una favola?

In
molti modi ed ognuno di essi assume un significato straordinario quando il
risultato è un dono prezioso per il lettore curioso in attesa del miracolo
della narrazione.

“Dunque, una madre e due figlie, che invece di fare quello che fanno tutte le persone comuni, ossia andare in libreria, comprarsi un libro di storie, leggerselo in santa pace, lo inventano e se lo scrivono in proprio. E l’idea non è affatto male, è quasi come farsi il pane in casa, che non è buono solo perché lo mangi, ma soprattutto perché lo lavori, e intanto che lo lavori chiacchieri, ridi, inventi forme fantasiose, intriganti, qualche volta spettegoli. Ecco, farsi il pane in casa dà soddisfazione perché fa l’effetto di una storia, e una storia, proprio come il pane fatto in casa, deve tenere vicini, insieme, chi la racconta e chi l’ascolta. Deve aiutare a ‘stare’, voce del verbo stare, il verbo migliore del mondo.

(Scatto dell’Ospite)

Le
storie esistono proprio per questo, conta più lo stare della trama, e anche se
non tutti sono d’accordo lo dico lo stesso, anzi lo ripeto con maggiore forza,
un genitore che ‘sta’ conferisce energia e credibilità a qualsiasi racconto,
trasformandolo in un atto educativo compiuto.

Se
non c’è nessuno che ‘sta’, tutte le storie sono inutili. Come accade oggi nella
comunicazione virtuale, dove nessuno ‘sta’ ma tutti credono il contrario.”

Domenico Barrilà.

Il leone sulla giraffa (Antonio Stango Editore, pag. 100, euro 15) è la recente pubblicazione di Giovanna La Vecchia in collaborazione con le tre figlie Chiara, Maria ed Iris. La prefazione è di Domenico Barrilà, noto psicoterapeuta e analista adleriano, scrittore, da oltre trent’anni impegnato nell’attività clinica. Il libro è corredato da bellissime illustrazioni di Francesco Barbetti. Si tratta della prima pubblicazione di favole per bambini della scrittrice e giornalista Giovanna La Vecchia.

Oltre
vent’anni di giornalismo, diverse pubblicazioni di narrativa, poesia,
saggistica, ha ricoperto il ruolo di capo ufficio stampa per importanti
aziende, organismi, enti pubblici e privati in ambito nazionale. Come nasce “Il
leone sulla giraffa”?

“Nasce da una felice intuizione di una madre e le sue tre figlie, Chiara, Maria ed Iris. Per alcuni anni ho ideato ed organizzato presso le scuole elementari svizzere, dove vivo dal 2014, corsi di “inventastorie”, scrittura creativa, giornalismo, teatro e poesia. Mi sono accorta di come i bambini, soprattutto quelli più problematici, con vissuti anche molto difficili e complessi, riuscissero ad esprimere sentimenti positivi attraverso le parole e l’immaginazione. Erano percorsi attraverso i quali raggiungevano un equilibrio interiore molto profondo e duraturo. Accadevano dei piccoli miracoli e le espressioni di negatività, attraverso l’immaginazione, si trasformavano in personaggi o eventi grazie ai quali si poteva facilmente anche ipotizzare il loro disagio.

(Copertina de “Il Leone sulla Giraffa”)

Ma
il libro nasce anche e soprattutto da una urgenza ed emergenza personale,
quella di trasformare il dolore in guerrieri di pietra, clown, contadini,
scolari, maggiordomi, giraffe e leoni, baroni, principesse, galline, topi e
ghepardi. Personaggi strampalati, divertenti, buffi, che rappresentavano tutte
le difficoltà, di volta in volta magicamente superate, che stava vivendo la mia
famiglia. I momenti in cui io e le mie figlie eravamo insieme sdraiate sul
prato a guardare il cielo o sul letto ad immaginare le stelle e la luna al
posto di un soffitto, si trasformavano in viaggi straordinari, avevamo la
libertà, che in realtà non ci era temporaneamente concessa, di essere dovunque
volevamo e per tutto il tempo che desideravamo. La separazione dei genitori,
vissuta con problematicità e drammaticità, per due bambine è qualcosa di terribile,
a volte bisogna inventarsi un mostro, magari con sette teste che sputa fuoco e
calpesta i fiori ad ogni suo passo, e magari un principe bellissimo su un
cavallo alato che ferma il mostro e salva il castello, il re, la regina, la
principessa e tutto il mondo. I figli impareranno che non ci sono sfide
impossibili e che affrontare le difficoltà non sempre vuol dire soffrire, può
significare crescere con la consapevolezza di come è realmente la vita, né
bella, né brutta, semplicemente vita”.

Sulla
copertina, sotto al titolo, scrive “fiabe favolose per creature avventurose –
otto storie consigliate dagli 8 ai 100 anni”, quindi in pratica è un libro per
tutti?

“I
nostri personaggi raccontano vissuti di ogni tipo ed in ogni luogo, reale,
immaginario, sogno. Ciò che accade alla gallina Teresina, al vecchio contadino,
al principe Magrino, al leone, alla giraffa, al barone di Santandrè, al bambino
dispettoso o alla principessa insonne in realtà è ciò che potrebbe accadere ad
ognuno di noi a qualsiasi età. L’amore, la libertà, la malattia, i vizi ed i
capricci, la solitudine, la prepotenza, l’arroganza e l’inganno fanno parte di
tutti noi nei diversi momenti della nostra vita. Anche i luoghi rappresentati,
la selva oscura, Benzo Benzo, la savana, Pirulì, Tvlandia, rappresentano a
volte un punto di partenza altre un traguardo, un approdo, una salvezza. Ed
ancora tutti i sentimenti che coinvolgono i personaggi, il coraggio, l’onestà,
la fiducia, l’amore rassicurano il bambino sulla circostanza che, a volte gli
adulti possono sbagliare ed anche tanto, possono perdersi, smarrirsi, anche
sparire, ma nulla di tutto ciò è necessariamente “per sempre”. La parola
“definitivamente”, mi disse un mio caro amico settantenne, non esiste, questo
ai bambini può far paura, ma i miei personaggi interagiscono con ogni forma di
sentimento ed emozione, e ne escono fuori sempre vincenti e forti”.

Quindi
con queste favole ha voluto in qualche modo affrontare il tema della
separazione, della perdita, del cambiamento?

“Una
vicenda molto complessa ha visto me e le mie due figlie coinvolte in un
distacco temporaneo ma molto doloroso. Brevi ma intensi gli incontri quotidiani
durante i quali il tempo doveva essere necessariamente ‘impreziosito’ per
lasciare impresse nel cuore e nella mente delle mie bambine la voce ed il
calore di una madre piena d’amore. E cosa può esserci di più prezioso al mondo
che il dono di una favola? Chiedevo alle mie figlie di ‘darmi i personaggi’,
così le piccole coautrici iniziavano a scavare sempre più a fondo della loro
curiosità, fantasia, immaginazione e magia. Mi chiedevano di ‘inventare una
nuova storia con i loro protagonisti’ e così accadde il primo miracolo, senza
affannosa ricerca o disperata volontà di stupire, abbiamo dato vita a qualcosa
che ci terrà legate per sempre, e che le piccole ricorderanno anche da adulte,
quando il peggio sarà passato ed il male, forse, speriamo, le avrà abbandonate
lasciando spazio e rendendo eterno un sentimento forte e tenace. Non a caso il
primo personaggio del libro è un guerriero con il cuore di pietra alla ricerca
di un vero cuore pulsante che possa fargli provare il sentimento più bello del
mondo, l’amore. Il nostro viaggio avventuroso è durato otto storie e, sempre
non a caso, si è concluso con il felice coronamento di una bellissima e dolorosa
storia d’amore. Nulla è un caso in questo libro, neppure le illustrazioni di
Francesco Barbetti, che ha saputo cogliere il significato di questo lavoro con
estrema sensibilità ed intensità, entrando a far parte anche lui, con grande
garbo, di questa vicenda di cui, inconsapevolmente, ha rappresentato tutto il
senso.  Lui non conosceva cosa stava
accadendo nella vita reale”.

Le
favole sono state scritte tra il 2016 ed il 2017, ma sono state pubblicate solo
a dicembre dello scorso anno. Ha volutamente atteso che Maria ed Iris fossero
più grandi affinchè potessero vedere quelle storie come “favole per tutti i
bambini” prendendo un po’ le distanze da quanto accaduto.

“Esatto.
Avevamo tutti bisogno di far trascorrere un tempo sufficiente per
familiarizzare maggiormente con tutti i personaggi. Rileggerlo adesso è stata
un’esperienza incredibile, tante cose sono cambiate, non mi riferisco agli
eventi esterni. Siamo cresciute e abbiamo lasciato che anche Maria, Iris e
Giovanna abitassero tra quelle pagine. C’è stato un distacco tra il prima ed il
dopo e forse anche i personaggi delle otto storie sono cambiati nel frattempo.
Lo sapremo nel seguito de “Il leone sulla giraffa” perché quello che abbiamo
intenzione di fare è continuare a raccontare, nella prossima pubblicazione,
cosa è accaduto agli stessi personaggi della prima edizione e credo che in
quella occasione si aggiungeranno anche una mamma e due bambine che ne combineranno
delle belle. Tutto è cambiato in questi anni, dalla scrittura alla
pubblicazione del libro.

Mentre inventavo queste favole con e per le mie
figlie avevo i minuti contati, il tempo da trascorrere con loro era limitato e
appena finita la storia se ne sarebbero andate via mano nella mano con il padre
senza neppure rendersi conto di ciò che stava accadendo. Ed io raccontavo di
principesse, leoni, baroni, bambini capricciosi e dispettosi, circensi.
Ridevamo sdraiate nell’erba a guardare il cielo. Dentro di me ipotizzavo che
una semplice folata di vento ci avrebbe potuto sollevare da terra per farci
scomparire. Volevo andare lontano. Non mi accorgevo che in realtà eravamo già
lontanissime, catapultate in quelle storie che ci hanno guarito e ci hanno
salvate. “Il leone sulla giraffa” è la dimostrazione di come si possa
descrivere il paradiso pur vivendo l’inferno, di come l’immaginazione, la
creatività e la poesia siano i veri miracoli del nostro tempo, di ogni tempo.
Le bombe esistono e distruggono ogni cosa, ma noi continuiamo a vivere il
nostro sogno e ad urlare libertà”.

Ci racconti delle sue tre figlie Chiara, Maria
ed Iris, protagoniste fondamentali in questo volume. Tre personalità molto
diverse eppure legate da un sentimento forte e profondo. Come le presenterebbe
ai lettori le coautrici de “Il leone sulla giraffa”?

“Posso descriverle con
un breve racconto scritto poco prima della pubblicazione del libro, mentre
riflettevo sulla ovvia frase “i figli sono tutti uguali”. Mi piace riproporlo
in questa intervista.

“Sono madre di tre figlie uniche.

I figli sono tutti uguali. Non è vero, non è assolutamente vero. Lo diciamo noi genitori pensando di non deludere nessuno e convincendoci che sia la cosa giusta, eticamente corretta da dire. Mai bugia più grande ed inutile. I figli sono TUTTI figli unici e li amiamo in un modo completamente diverso, “problema” sconosciuto a chi ha un solo figlio. “Problema”…mi vien da ridere. Ricchezza, risorsa, bellezza, straordinaria sensazione di avere davanti tanti altri sé completamente diversi, unici, “pezzi” unici, con crepe, difetti e particolarità che ci rendono “miliardari” anche senza un soldo e senza un bel niente di niente. Le guardo tutte e tre, ogni volta che posso, me le guardo sempre più in profondità, arrivo fin dove posso e fin dove credo di poter arrivare, consapevole del fatto che c’è un universo infinito a me ancora sconosciuto, e grazie a Dio, mi ripeto incessantemente. Non voglio conoscere tutto, non voglio sapere tutto, non voglio vedere tutto. Mi piace da impazzire quando d’improvviso arriva qualcosa di completamente inaspettato e sorridendo mi dico “questo me lo sarei aspettato da Maria, non da te” oppure “somigli sempre di più a Chiara”, “non parlarmi come farebbe tuo padre!”. Sempre più spesso dico idiozie del genere, il più delle volte quando la rabbia si impossessa di me e mi trascina in vocabolari fin troppo ovvi e scontati ed allora sono loro che mi guardano come se non fossi io, ma mia madre o mia sorella, mai mio padre, purtroppo, la persona più equilibrata e pacata che io abbia mai conosciuto nell’universo.

(Scatto di Iris)

Ebbene sì, la figlia preferita è Iris. Lo ammetto, voglio essere onesta. La sua dolcezza è disarmante. Sconvolge il tempo e lo spazio, irrompe, travolge. Morbida e liscia come seta, calda come lana, rotonda come una perla, straordinaria nelle sue esternazioni. E’ la parte di me che non sono mai riuscita a far crescere, è quello che mi è sempre mancato per essere “perfetta”. Penso “E’ arrivata per farmi capire che con la calma e con il sorriso si può arrivare dovunque, anche lontanissimo, andata e ritorno”. Non esplode mai, rimane ferma, ferita, offesa e piena di dolore, si nasconde il viso tra le mani, per qualche istante, poi sposta le mani e sorride illuminando il pianeta di stelle. S’accende tutto ed un calore potente si diffonde tra le carni ed il sangue. Mi sento sciogliere, mi dissolvo, evaporo, svanisco da quel mio essere irruenta e prepotente e divento un angelo, mi spuntano due enormi ali e mi sollevo da terra. Lei lo sa l’effetto che produce e se la ride tra sé e sé, come se nulla fosse ed invece è tutto. Ha occhi immensi, di un colore imprecisato, indefinibile, che cambia con il tempo, con le svariate passioni che vive, con lo stato d’animo, con le parole, con i gesti, con i sapori del cibo e con gli orari del giorno e della notte. Comunica con le minuscole venature delle pupille, paralizza quando li sgrana, quegli occhi da aliena e li punta verso una qualsiasi direzione, si riconoscerebbe in mezzo a milioni di esseri pensanti, vien voglia di rapirla e di portarla su un altro pianeta per vedere l’effetto che potrebbe causare il suo esserci. Ha un pugno forte e grande, ma è quando arriva con la mano aperta che riesce ad essere sè stessa, con una sola carezza fa crescere prati di girasoli in mezzo al deserto.

(Scatto dell’Ospite)

Ebbene sì, la figlia preferita è Maria. Lo ammetto,
voglio essere onesta. La sua creatività è disarmante. Sconvolge il tempo e lo
spazio, irrompe, travolge. Quando la cerco per tutta casa per punirla o
sgridarla o rimproverarla, lei appare “travestita”, una nuvola leggera, una
piuma, un soffio di vento leggero e fresco, mille colori addosso come fosse il
più perfetto tra tutti gli arcobaleni. Gesticola, si agita, balla, canta,
scompigliata, scapigliata, scalmanata, scomposta. Mi punta gli occhioni giganti
addosso e improvvisa uno show davanti al mio dito puntato. La sua camera è un
accampamento, a volte ospita gli indiani d’America, altre indigeni africani,
poi arrivano eserciti dalla Mongolia o geishe ammalianti bianche come
porcellane. Lei arriva da Palenga, ne parla perfettamente la lingua
incomprensibile, la notte viaggia, il giorno è assonnata e stanca, si nutre
appena giusto per sopravvivere, tutto l’annoia, è al di sotto delle sue
aspettative. Legge al mattino alle sei e mezza prima di andare a scuola, fa
lunghe passeggiate da sola nei boschi, raccoglie sassi e legni e foglie. Ha un
innato talento in tutto ciò che fa. E’ sorprendente. E’ bellissima quando in
silenzio adagia il suo viso sulla mia spalla e si lascia baciare. E’ preziosa.
Creatura misteriosa. Incomprensibile. Passa dal sorriso al pianto in un
istante. Non se ne conosce il motivo e non è poi così importante conoscerlo. Si
autoguarisce da ogni tipo di ferita. Si lascia amare ma ama con enorme
difficoltà, perché amare è darsi completamente e per lei questo è difficile.

Ebbene sì, la figlia preferita è Chiara. Lo ammetto,
voglio essere onesta. La sua forza è disarmante. Sconvolge il tempo e lo
spazio, irrompe, travolge. Impossibile starle dietro, impossibile anche
camminarle di fianco, di lato, a destra, a sinistra, sotto, sopra. Guerriera
disarmata, in giro per il mondo con valigia e computer. Se lo mangia questo
stupido mondo insignificante. Se lo ingoia e lo risputa fuori migliorato.
Coraggiosa come una tempesta. Furiosa e furibonda. Un fiume in piena senza
rive, argini, approdi. Non si attracca al suo porto anche perché porto non ne
ha e non ne vuole. Impaziente, insaziabile, incontentabile. Sufficiente a sè
stessa. Si basta da sola. Si autogestisce. Si autodistrugge. Ma poi si rialza, si
ricompone e ricomincia. Tutto da sola come fosse l’unica abitante di un pianeta
abbandonato dagli esseri umani, un’apocalisse. Babilonia. “Mamma so io cosa
devo fare”, la frase che ripete incessantemente come un mantra, se ne vuole
convincere, in realtà sa bene che ha bisogno di me ed io di lei, gemelle
diverse, ma incredibilmente uguali. Potente. Attila. Fa paura. Purtroppo anche
a sè stessa. Si contorce frequentemente dal dolore per tutto quello che non
riesce a sputare fuori perché teme di ferire, di far male, di sbagliare.

Ho tre figlie uniche, sono madre di tre figlie uniche,
raro caso al mondo. Mi sento la donna più ricca del pianeta e la più fortunata
e la più completa. Anche loro dicono di avere una mamma unica, una sola. Raro
caso al mondo. Siamo pezzi unici in attesa di un sogno gigante, di quelli che
non durano una sola notte, ma una vita intera. Nel frattempo inventiamo fiabe:
“Sai nascono cosi fiabe che vorrei dentro tutti i sogni miei e le racconterò
per volare in paradisi che non ho. E non è facile restare senza più fate da
rapire, e non è facile giocare se tu manchi”. Abbiamo imparato a giocare tutte
insieme, sempre, per non farci più del male e per non farci fare più male da
nessuno. Non è difficile il gioco che facciamo, semplicemente non ha regole,
così, incredibilmente nessuno vince mai e nessuno perde mai”.

Madre a 15 anni, in un sud di quasi quarant’anni fa,
uno scandalo che la portò ad abbandonare la sua terra per trasferirsi a Roma
dove ha vissuto per quasi trent’anni. E’ stato forse questo avvenimento a
lasciare intatto ed immutato quel suo sguardo da bambina sul mondo?

“Sicuramente quella esperienza ha fatto sì che sentissi dentro di me l’esigenza di recuperare quegli anni persi, quell’adolescenza bloccata, quello smarrimento e quella paura che andava prima o poi necessariamente guardata in faccia senza filtri.

(Illustrazione da “Il Leone sulla Giraffa”)

Ho affrontato la belva scrivendo il mio primo romanzo autobiografico “Le apparenze”, ho cercato di perdonare tutti, principalmente me stessa ed è nato in quel momento il bisogno di fare qualcosa per aiutare tutti i bambini ad affrontare i loro dolori più grandi. Perché a 15 anni ero una bambina, che vestiva con i maglioni di lana giganti ed i calzettoni al ginocchio. Quella subita fu una vera e propria violenza da parte di tutti, la società condannava una bambina e le dava anche un nome ben preciso e non proprio piacevole. Ma io non mi identificavo in quella etichetta piena di cattiveria e pregiudizio. Io mi sentivo come la gallina Teresina, la principessa insonne, il leone in fin di vita salvato dalla giraffa, il bambino dispettoso e capriccioso al primo giorno di scuola che cerca in tutti i modi di attirare l’attenzione, la gazzella spaventata, tutti i personaggi de “Il leone sulla giraffa” hanno qualcosa di quella ragazzina costretta a lasciare la sua città per evitare le maldicenze e per salvare la buona reputazione della famiglia. Ma non è stato certo solo quell’episodio a formare la donna che sono diventa

(Illustrazione da “Il Leone sulla Giraffa”)

ta. Quasi trent’anni fa ho perso mia sorella e l’anno dopo mio padre, i miei punti di riferimento più importanti. Poi un matrimonio approdato ad un divorzio disumano e disonesto. Il 10 febbraio di quest’anno, l’anniversario della morte di mia sorella Mariella, ho ripensato un po’ alla mia vita. Quasi trent’anni senza di lei.

Stavo per addormentarmi, Maria, mia figlia,
chiacchierava senza smettere un attimo. Ho guardato l’orologio. È apparso quel
numero 10 che mi ha riportato alla memoria quella sera. Roma. Policlinico
Umberto I. “Mi dispiace. Non ce l’ha fatta”. Fine della storia. Le solite
spalle di un camice bianco che se ne va e ci lascia a digerire quel dolore
inconcepibile, inaccettabile, ingiusto. E poi subito dopo aver visto il numero
10 sul mio orologio ho guardato Maria che si era addormentata. Iris era nella
sua stanza, dormiva anche lei. Chiara mi aveva scritto poco prima o poco dopo
la mezzanotte subito prima di addormentarsi, per darmi la buonanotte. Continuavo
a pensare a come risolvere ciò che sta accadendo. Il mio problema di sempre.
Lui. Il padre delle mie figlie. E allora ho ripercorso in pochi secondi
un’altra storia. Agosto 1984, avevo 15 anni e mezzo. Avevo partorito a Roma da
un mese più precisamente il 3 giugno. Avevo lasciato mia figlia in ospedale,
sulla sua cartella clinica la scritta
ADOTTABILE. Ero tornata a casa mia a Crotone. Lo scandalo
era stato evitato, ingenuamente pensavamo. Non era trascorso un solo istante in
cui non avessi pensato a mia figlia Chiara Ileana Francesca, chiamata con i
nomi delle tre infermiere presenti al parto. Il 14 agosto prendo la decisione
di tornare a Roma per riprendere mia figlia. Mia madre decide di accompagnarmi.
Partiamo troviamo una stanza vicino la stazione termini. Andiamo al tribunale
per i minorenni ci dicono che occorre fare una causa e bisogna trovare un
avvocato. Apriamo l’elenco telefonico a caso, il primo nome che appare, una
cabina telefonica, l’appuntamento. Dopo pochi giorni l’udienza. C’è stato un
errore. Prima del compimento dei 16 anni non si può scegliere se riconoscere o
non riconoscere un figlio. Un errore commesso in ospedale. Mia figlia deve
tornare da me. Dopo qualche ora rivedo Chiara e fino al 15 novembre rimango con
lei a vivere in un istituto per ragazze madri a Monteverde. Avevo 15 anni e
mezzo, mia figlia 2 mesi. Quando le luci dell’istituto si spegnevano la sera
iniziavo a piangere e smettevo solo quando arrivavano le prime luci dell’alba.
Ho vissuto così per tre mesi ma a me sembrarono 30 anni. C’erano le sbarre alle
finestre. Una guardia al cancello per impedirci di scappare. Ragazze
abbandonate dalla famiglia, con realtà di droga, prostituzione, violenza. Avevo
15 anni e mezzo, mia figlia due mesi. E quella sera, il 10 febbraio di
quest’anno, in quel  preciso istante in
cui una figlia mi dormiva vicina, un’altra nella stanza di fianco ed un’altra
ancora, quella del miracolo, mi aveva dedicato il suo ultimo pensiero prima di
addormentarsi, dicevo a me stessa “Se ho superato tutto questo puoi tu uomo mettermi
in difficoltà fino al punto di farmi crollare, soccombere, spezzarmi? E no,
caro mio, hai fatto male i conti ed hai scelto la donna sbagliata per
esercitare tutto il tuo potere distruttivo. Una madre che si è vista strappare
sua figlia una volta ed è sopravvissuta, stai pur certo e sicuro, caro uomo,
che sarà in grado di sopravvivere anche a te. Rincara pure la dose ed io di
quella scena ne farò un tempio in cui pregare non un dio qualunque, ma il dio
delle madri e dei figli, e non lo pregherò per me, ma per te, affinché abbia
pietà e non ti faccia pagare un prezzo troppo alto per tutto il male che hai
fatto, prezzo che tu di certo non saresti in grado di sopportare. Amen e così
sia”. Da quel 3 giugno 1984 non ho mai smesso neppure per un giorno di pensare
a come fare del bene a bambine e ragazze a cui è stato impedito finanche di
sognare, non solo di sperare. Mi sono impegnata in battaglie gigantesche
affinchè nessuno si arrogasse il diritto di mettere un’etichetta ad un essere
umano, soprattutto se piccolo, indifeso e spaventato dagli eventi. Anche “Il
leone sulla giraffa” è un piccolo contributo in tal senso. Se sono capace io,
ancora oggi a 53 anni di inventare e raccontare favole, chiunque può farlo in
qualunque condizione si trovi, anche sotto le bombe, sotto le dittature e sotto
tiranni che non hanno nulla di essere umano ma somigliano sempre di più al
mostro dalle sette teste di cui mi raccontava mio padre quando avevo appena
pochi anni”.

Il male che si riceve ed il dolore che si subisce possono trasformarci in
qualcosa che non vorremo mai essere?

“No, assolutamente no. Noi a casa abbiamo un nostro particolare modo di affrontare le “botte” che la vita ci ha dato, ci dà e ci continuerà a dare.

(Illustrazione da “Il Leone sulla Giraffa”)

Una botta? due chili di farina lievito olio e
sale. Due botte? Raddoppiamo le quantità e di pane ne vengono fuori due. Tre
botte? Triplichiamo tutto e la casa profuma di famiglia, figli, pasta, pane e
torta di mele. E no, potremmo essere bestie, animali feroci, orchi, draghi
maledetti, streghe e malvagi guerrieri avidi di conquiste, e invece sforniamo
fiabe e pane e ne facciamo dono anche ai nemici, perché lo dobbiamo a noi
stesse, non diventare mai come loro. Che poi chi lo sa, qualcuno trasformó i
pani ed i pesci moltiplicandoli, può darsi che quel pane pieno d’amore in bocca
ai peggiori demoni si trasformi in veleno e allora sarà ciò che deve essere, ma
per noi rimarrà sempre il più grande gesto d’amore. Siamo fatte così e si illuda
pure chi pensa di averla fatta franca. Non cerchiamo vendetta, noi gridiamo
giustizia in questo ed in tutti i mondi possibili. Nulla può renderti ciò che
tu non sei, nulla può tirar fuori da te ciò che tu non hai”.

Domenico
Barrilà è l’autore della prefazione de “Il leone sulla giraffa”, molto
intuitivo il suo paragone tra le favole ‘fatte in casa’ dalle autrici ed
il pane caldo e fragrante, accogliente e nutriente che ‘fa famiglia’
sempre e comunque, ovunque in ogni casa ed in ogni angolo dell’universo.

“L’incontro con Domenico Barrilà è stato
illuminante, un uomo che da sempre si occupa del disagio giovanile, che ha
scritto tantissimo dimostrando di conoscere molto bene i giovani, il contesto
sociale con tutte le sue trasformazioni ed i suoi velocissimi cambiamenti. Uno
psicoterapeuta attento e scrupoloso cui ho affidato le mie favole nella speranza
che avesse tempo e voglia di leggerle e di commentarle insieme per lasciare un
messaggio ai lettori. E’ stata una gioia grande quando mi ha inviato il suo
scritto cogliendo straordinariamente ed esattamente la natura profonda di
questo lavoro per me così importante. Non potrò mai smettere di ringraziarlo e
di essergli riconoscente. Ogni sua espressione è pregna di significato. “Le
storie che fabbricano, che si leggono tra di loro e poi ci raccontano, sono
piene zeppe di “vecchia” umanità, quella che se muore siamo morti tutti. Non
c’è una sola delle otto fiabe che non contenga un monito intelligente, privo di
moralismo”, scrive Barrilà. E conclude “Ce n’è per tutti i gusti, ma solo per
chi è disposto a credere che il futuro esiste solo se ci portiamo appresso il
meglio del passato, compresa quell’innocenza che per tanti è diventata una
zavorra invece è una solidissima zattera”. Straordinario”.

Il libro è corredato da numerose colorate
illustrazioni di Francesco Barbetti. Com’è nata questa solida collaborazione?

“Conoscere Francesco è stato un altro miracolo
di questo lavoro,
io li chiamo così i
momenti importanti, non un caso, perché il caso non esiste, esistono equilibri
fatti di istanti irripetibili, di unioni di cuori e neppure è un caso che un
padre abbia compreso così bene il messaggio d’amore di una madre, pur essendo
all’epoca del nostro incontro, due perfetti sconosciuti, legati solo dalle
fiabe scritte e da pubblicare.
È esattamente
ciò che avrei voluto. Grazie davvero ad un grande artista, oggi amico sincero e
lavoratore instancabile. Le modifiche al lavoro originario di Francesco sono
state minime, quasi inesistenti. Ha colto sin da subito esattamente ciò che
avevo in mente, senza nessun tipo di difficoltà. Una intuizione ed una
sensibilità incredibili accompagnate da una mano delicata e leggera. Le
illustrazioni sono poesia pura. Il libro non sarebbe stato quello che è e non
avrebbe rappresentato il messaggio che avevo deciso di trasmettere senza i suoi
disegni bellissimi”.

Alcune
delle favole contenute nel libro sono state messe in scena con la
partecipazione di sua figlia Chiara Stirpe, che ha collaborato anche nella
stesura del volume. Sua figlia è un ingegnere presso una multinazionale, come è
riuscita a coinvolgerla in questo progetto?

 “Chiara è un essere speciale, un elfo, una
fata, uno gnomo, un folletto che mi ha sempre sostenuta in ogni folle idea ed
iniziativa, spesso partecipandovi in prima persona, interprete dei miei
racconti in veste di attrice drammatica o comica. Un piccolo gioiello nella mia
vita, senza il quale non sempre avrei avuto modo di ‘brillare’ pur con spunti e
pensieri ‘luccicanti’. Indimenticabile la sua interpretazione della gallina
Teresina, vestita di piume, tacchi altissimi e spacco vertiginoso, una tra le
più belle rappresentazioni teatrali dei miei scritti. Improvvisava davanti ad
un pubblico,  bambini ed adulti,
entusiasta e partecipe che non riusciva a trattenere le risate. E’ un po’ tutto
fatto in casa questo lavoro, ma una casa davvero particolare, nessuno si è mai
sottratto alle mie direttive, sono un capo esigente ed intransigente, mi viene
concesso tutto perché agli artisti, si sa, non si può mai dire di no e non si
possono porre limiti,  come ad un
sonnambulo, se lo svegli mentre vaga per tutta la casa in preda al suo
disturbo, le conseguenze sono imprevedibili, o come un funambulo, se lo distrai
mentre esegue il suo esercizio con le sue regole ed il suo equilibrio, può
accadere il peggio. Io sono una mamma a metà tra l’uno e l’altro. Ad ogni modo
mi temono e questo serve a me ed a loro”.

Incredibilmente queste favole sembrano
cresciute irrigate da fiumi di lacrime e di risate. Sembra un miracolo in
equilibrio perfetto.

“Di risate ne abbiamo fatte tante, fino a
sentirci male, fino quasi a non respirare. Ma io credo fermamente che ciò che
ha contato di più sono state le lacrime.

Potrei versare tutte le lacrime del mondo ma
non basterebbe a raccontare questo bellissimo dolore che vivo per voler amare così
tanto e a tutti i costi la vita, di cui, sono sincera nel dirlo, non cambierei
neppure un giorno. Ci vuole poco per essere felici, ma occorre un grande cuore
ed una coraggiosa fantasia per rimanere per sempre bambini”.

Abbandono, morte e rinascita

Ancora devo capire bene questa faccenda delle mie visioni, moltissime hanno riscontro, altre no. Ora, ultimamente succede che crollino, che il loro fallire mi ponga ancora più nuda, spogliata del mio orgoglio (se le azzeccassi tutte non potrebbe non gonfiarsi un po’!), pronta a vincere sull’ultima tentazione-trabocchetto della mente, quella che maschera l’ultimo tentativo d’agganciamento da parte dell’ego proprio sul ciglio del baratro, con il manto della saggezza e della sapienza.

NO, LA MENTE DEVE MORIRE SENZA PIETA’.

(Scatto di Marco Tanfi)

Perlomeno temporaneamente. Ma lei, che non vuole perdere il potere, il controllo sul nostro io che la mantiene in vita, eviterà fino all’ultimo momento che il piede, prima uno poi l’altro, irrecuperabilmente, vada nel vuoto, lasciando l’apparente sicurezza della roccia.

Quello è il momento in cui l’arrendevolezza si deve accompagnare al coraggio. Questo è l’appuntamento che tutti noi abbiamo e che tutti noi temiamo al punto da non riuscire a veramente vivere, per paura di morire. Dobbiamo invece sperimentare senza paura la morte che è un semplice fulcro di nero-nulla, in realtà accogliente, in realtà un niente che dopo la prima fase di neutralità totale ed esasperante, non può non trasformarsi, riempiendosi di Tutto; il niente e il tutto sono in affrancabili.

Mai come quest’ultima volta ho voluto buttarmi in questo mare nero, mai come questa volta nessun velo di paura mi tratteneva al di qua, sulla terraferma. No, volevo perdermi per sempre nel vuoto, ero pronta a morire definitivamente. L’ho fatto, ci sono stata, annegata, molti, molti minuti. Era un fatto, ero inattaccabile da qualunque moto della mente, pensiero di Loretta, fremito di desiderio o propensione, non c’era neanche l’amore.

Questo per un attimo mi ha congelato: nella dimensione nulla-morte non c’è amore. E’ vero, nello stadio della morte più assoluta non c’è nulla in modo “totalmente totale” da non lasciare spazio nemmeno all’amore. Nella mia resa totale, nella completa morte di Loretta, ho accettato perfino questo. Infatti poco prima del salto nel buio mi era stato richiesto di recidere tutti gli attaccamenti affettivi, da quelli con i miei amori uomini, a quelli in teoria impossibili da spezzare, con i miei figli. Ho fatto perfino questo. Ero lì, anzi, non ero lì, sdraiata in un bagno di nero e silenzio. Sapete però che la morte è costretta ad un certo punto ad accogliere la vita? Quando ha avuto la sua soddisfazione, quella di essere padrona e possederti fino all’ultima cellula, si intenerisce e come una madre, non può non lasciar filtrare semi di luce, che man mano si impossessano del mare nero e di ciò che ci galleggia dentro. E il mio corpo, il mio essere senza forma, comincia a recepire una carezza di dolcezza e luce che alla fine pervade con potere crescente il niente. E il niente diventa il TUTTO.

Il tutto con la sua luce irrorata con la forza di mille soli e il piacere divino che scorre nelle vene di un nuovo essere. NUOVO. La morte ripulisce e tu sei nuovo. La vita mi ha voluto richiamare dal mio nulla, sebbene il mio desiderio fosse di rimanere là; la mano della vita mi attirava, ed era quella di un uomo.

(estratto del mio prossimo libro “Essere nulla”)

In questo numero, in questo ultimo numero, di Condivisione Democratica parliamo di “Luoghi abbandonati” e di “Luoghi dell’abbandono”.
Poco prima della pubblicazione, rileggendo gli articoli che avevo scritto mi sono accorto che in tutti c’era un filo – a volte molto più di un filo o di un velo, un vero e proprio diluvio! – di nostalgia. Un pò quel senso di nostalgia dei tempi che furono, dei bei tempi andati, che poi può sfociare nel “si stava meglio, quando si stava peggio”.

Questa sensazione, anzi questo sentimento, la nostalgia è sempre stato con l’uomo: Ulisse che navigava nei mari tra mille peripezie in un viaggio lungo 10 anni, aveva nostalgia della sua Itaca.
“nóstos” e “álgios”, il “dolore per il viaggio”, “il desiderio, quasi doloroso, di ritornare”. Conosciuta dall’antichità, quindi, ma definita in tempi – tutto sommato – recenti. Era alla corte del Re Sole il medico che coniò il termine scrivendo il suo “Dissertatio medica de nostalgia” per raccontare il senso di depressione dei mercenari svizzeri che non tornavano nelle valli da tanto tempo.
Un pò la storia di Heidi e della sua malinconia per le Montagne e del Nonno, la storia dei giocatori di calcio brasiliani che hanno la Saudade mentre giocano in Europa, e se vogliamo il sentimento che animava Cicerone mentre scriveva rimpianti strazianti per la Roma di Catone, così come Tacito per quella di Cicerone.
E’ un sentimento, la Nostalgia, che nasce da una inquietudine per il presente, che ci fa sentire, insieme al rimpianto malinconico per il passato, la gioia per quel passato che invece è sfuggito, come se in quel passato le cose fossero più giuste, più belle, quasi perfette. Come un Paradiso Perduto, come un’età dell’oro ormai lontana.
Tra l’altro Eric Hobsbawm dà un significato, un ruolo, a questo sentimento per spiegare il processo di consolidamento della cultura (e del potere) nel suo “Invenzione della Tradizione”, perché è un “ingranaggio” di un meccanismo ben definito, ben avviato, ben oliato.
Ma la Storia non è scritta solo guardando indietro, anzi. Gli storici scrivono cercando i segni nel passato, mentre “chi fa la Storia” per lo più guarda in avanti, poi cercando riferimenti a ritroso, prova a consolidarla. Penso a coloro hanno segnato la storia moderna, come Napoleone Bonaparte o Otto Von Bismarck tanto per fare due nomi, che hanno sempre guardato al presente “spingendo” la Storia a prendere la direzione che volevano, come questa fosse un nuovo letto per un fiume. Concetti come la “Tradizione” o la “Consuetudine”, così come la “Nostalgia” erano utilizzati per ammantare il proprio operato senza strappi, mentre ce n’erano e tanti. Forse il campione in questo è stato Augusto che della “Tradizione” fu fermo sostenitore e paladino, sconvolgendola, di fatto, completamente.
Quando penso alla Nostalgia mi viene sempre in mente un personaggio in particolare. Non un personaggio così famoso, così conosciuto, ma nella sua storia c’è quella apertura al mondo, al futuro che è proprio l’opposto della Nostalgia. Penso a Luis de Torres.
Era imbarcato sulla Santa Maria con Cristoforo Colombo, che lo volle con sè come interprete.
Colombo, lo sappiamo, aveva convinto (ma forse non fino in fondo) i regnanti di Castiglia a finanziare una spedizione che potesse affrontare l’Oceano Atlantico per raggiungere l’Asia, le Indie, il Catai e il Cipango. Da uomo del medioevo, qual era, riteneva di poter raggiungere i territori del “Khaghan”, descritti da Marco Polo 200 anni prima. Il Catai dovrebbe essere la Cina sud-orientale, mentre il Cipango, quello che è l’attuale Giappone. Di sicuro – come sostenevano i suoi detrattori – aveva sbagliato le misure (Colombo stimava 4.400Km, mentre nella realtà sono oltre 20.000 i km che dividono la Spagna dal Giappone) e per puro caso trovò un Continuente completamente sconosciuto nel mezzo.
Ma Luis de Torres in questa avventura era l’interprete.
L’interprete in una terra che nessuno conosceva, se non attraverso quel racconto quasi “cavalleresco” che è Il Milione, con popoli che nessuno conosceva, e che praticavano usanze sconosciute.
Alla nascita (probabilmente) si chiamava Yosef ben HaLevi HaIvri ed era un ebreo convertito al cattolicesimo, conosceva Ebraico, Aramaico, Arabo e Portoghese, oltre ovviamente allo Spagnolo. Non era solo la conoscenza dell’Aramaico a far ritenere a Colombo che fosse la persona giusta per questo compito. Il Genovese pensava ci potessero essere, in quei territori lontanissimi, le 10 tribù semite disperse e l’Aramaico antico poteva sicuramente far comodo. No, quello che fece di Luis de Torres un interprete per un mondo sconosciuto era il suo sguardo nel futuro. E a ragione: è stato capace di comunicare con gli indios senza conoscere assolutamente nulla di loro. Fu il primo uomo a fare una “ambasciata” presso quei regnanti: al primo contatto tornò dopo 4 giorni trascorsi nel villaggio dove scoprì ad esempio l’uso del tabacco.
Questo spirito di avventura, l’idea non solo di trovare nuove terre da conquistare – come avrebbe potuto avere qualsiasi marinaio e mozzo sulle tre caravelle – ma di trovare un modo per comunicare, per entrare in contatto con nuove realtà, di proiettarsi nel futuro, questo mi sembra l’opposto della Nostalgia che si può provare a guardare il passato e i luoghi abbandonati.
L’idea che davanti a noi ci siano nuove possibilità e nuove realtà, ci siano nuove forme e nuove esigenze, nuovi continenti con i quali venire in contatto, in un modo ancora incognito.

(L’approdo di Colombo. Cristoforo Colombo e altri mentre mostrano oggetti ad uomini e donne native americane sulla spiaggia. Wikiquote.)

“Ciò
di cui sono convinto è che i parlamenti debbano riprendere in mano le redini
del mondo e costringere la finanza a fare un bel passo indietro”.
Ivan Grossi, una vita dedicata alla
scienza, alla tecnologia ed al progresso, ci racconta cinquant’anni di storia
italiana.

Era il 2004, il mio giornale mi aveva
inviata a Cortino, un comune abruzzese in provincia di Teramo di 609 abitanti,
per seguire il progetto “Ecotourism: places ad traditions”, che aveva
come obiettivo la diffusione e la valorizzazione del turismo ecologico e vedeva
coinvolti 12 partners provenienti da Italia, Spagna, Germania, Croazia, Grecia,
Cipro, Portogallo e Lituania. Un progetto molto interessante. Io seguivo
solamente la parte italiana. In quella occasione il gruppo formato da diversi
professionisti, giornalisti, ambientalisti, scienziati, letterati, artisti e
agricoltori condivise tre giornate memorabili all’insegna delle tradizioni e
del buon cibo, ma soprattutto di lunghe passeggiate “raccontate” da
gente del luogo in cui tutto veniva vissuto con semplicità e profondo
interesse. Mi ritrovai quasi tutto il tempo a dialogare con un uomo
incredibilmente gentile, sensibile, carismatico ed affascinante di cui
inizialmente ignoravo completamente il ruolo: era il direttore del progetto,
Ivan Grossi.

Laureato in fisica, consulente senior
nel settore dell’innovazione tecnologica per diverse importanti società a
livello internazionale, docente di comunicazione pubblica ed istituzionale,
consulente del ministero degli affari esteri ambasciate d’Italia a Beirut e a Tirana, formatore di personale, coach,
direttore generale presso la pubblica amministrazione, programmatore-analista e
coordinatore, studioso presso l’università di Glasgow, Delaware (Usa), Belfast,
autore di numerose pubblicazioni in diverse lingue e paesi, dal 2011 presidente
dell’Associazione Amici dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana di
Assisi.

Amante del jazz e della poesia del Novecento
italiano, della poesia arabo-musulmana, interessato alla saggistica, alla
fantascienza, alla letteratura di viaggio, ai film d’autore, all’arte
contemporanea e d’avanguardia.

Le sue parole, nel corso degli anni,
hanno sempre avuto un valore alto, durante conversazioni e scambi a distanza,
mentre uno camminava in montagna e l’altro in riva al mare.

In questo momento particolarmente
delicato abbiamo apprezzato molto i suoi interventi e lo ringraziamo per
l’intervista concessa che proponiamo, con grande piacere, ai nostri lettori.

Nella nostra introduzione abbiamo
tentato di sintetizzare un curriculum imponente. La sua esperienza in ambiti
così tanto diversificati la rende un referente importante per fare il punto
della situazione in questo momento storico arduo. Anni di difficoltà che ci
impongono riflessioni profonde. Qual è il suo pensiero in proposito?

“Concordo con il caratterizzare questi
anni come anni difficili, anni in cui – grazie anche allo sviluppo tecnologico
– i luoghi decisionali si sono lentamente ma inesorabilmente spostati da quelli
“democratici” – i parlamenti, i consigli regionali e comunali – ai consigli di
amministrazione di aziende private che ora non si riuniscono nemmeno più sul
territorio su cui ricadranno le loro decisioni. Non è inverosimile immaginarsi
un amministratore delegato a Chicago che decide delle sorti di centinaia o
addirittura migliaia di lavoratori di una fabbrica, in provincia di Modena, che
opera nel settore elettromedicale. Quanto appena citato mi fa ricordare che
nella seconda metà dell’Ottocento uno scrittore portoghese, Eça de Queiroz, in
una sua opera intitolata O Mandarim (Il Mandarino) si immaginava come avrebbe
potuto comportarsi un portoghese se avesse avuto la possibilità, schiacciando
un pulsante, di uccidere un mandarino cinese in cambio di un tangibile
vantaggio in Portogallo: quella finzione letteraria è diventata oggi realtà e
l’amministratore delegato di Chicago è il portoghese dell’opera di
Eça de Queiroz, i lavoratori della
fabbrica modenese sono i mandarini di oggi: sacrificabili per un vantaggio a
Chicago. Tutto questo credo stia a testimoniare che le difficoltà attuali
vengono da lontano e sono tutte figlie del modello economico di sviluppo che,
soprattutto in Occidente, è stato adottato, modello che è responsabile anche
dei cambiamenti climatici, come ha ricordato in una recentissima conferenza
Emilio Padoa-Schioppa, dell’Università di Milano-Bicocca.

Non ho ricette, soprattutto perché
sono fermamente convinto del primato della politica sulla finanza e la
tecnologia ed anche perché non sono un decisore politico. Ciò di cui sono
convinto però è che i parlamenti debbano riprendere in mano le redini del mondo
e costringere la finanza a fare un bel passo indietro. Per chiudere questa
breve riflessione, credo che se dovessi, fra i tantissimi problemi che abbiano
di fronte, individuarne uno ed uno solo non avrei dubbi: l’immigrazione, non
certo per alzare muri o affondare barconi bensì per cercare, a livello globale,
una soluzione che permetta ad ogni uomo e ad ogni donna di avere una vita
dignitosa per sé e per i propri figli. Leggiamo di sofferenze indicibili cui
sono sottoposti i migranti davanti alle quali l’unica cosa che mi viene in
mente è il grido di Primo Levi: Se questo è un uomo!”

Oltre cinquant’anni di attività
professionale in ambiti differenti con uno sguardo scientifico. Com’è cambiato
il mondo in questo lungo lasso di tempo?

“L’unica cosa certa è che il mondo è cambiato molto non solo nelle cose ma soprattutto sono cambiate le persone, le scale di valori riconosciute e utilizzate. Posso tentare di sintetizzare cosa è cambiato nel mio mondo, nella sfera delle mie relazioni sociali, nei luoghi di lavoro che mi hanno ospitato: è pertanto una visione molto parziale di un cambiamento più ampio e più profondo che ha coinvolto l’intero mondo. Non avendo paura di tradire il fatto che ho la barba bianca, sono passato dall’uso a scuola della “cannetta” con il pennino (e i diversi tipi di pennino per i diversi tipi di tratto), che si intingeva nel calamaio alloggiato nel banco (che il personale della scuola riempiva ogni mattina) all’uso della Apple Pencil sul mio iPad mentre sto condividendo ciò che scrivo con un collega in quel momento molto lontano da me. La tecnologia mi ha salvato – almeno per ora – la vita aiutandomi a curare una malattia per la quale trent’anni fa la prognosi sarebbe stata assolutamente infausta.

(Scatto dell’Ospite)

Questi pochi esempi spero diano la dimensione di quanto la tecnologia, che ha tradotto in beni e servizi le conquiste scientifiche, sia progredita in un lasso di tempo assolutamente breve, soprattutto se comparata con quanto avvenuto nei secoli passati. Come mi chiede la gentile intervistatrice, per questo benessere abbiamo dovuto pagare un prezzo: la qualità dei rapporti umani e la progressiva perdita delle “radici” culturali. Non sono un laudator temporis acti. il lavoro che ho svolto è sempre stato all’insegna dell’innovazione, tuttavia si è voluto a tutti i costi – nella maggior parte delle situazioni – tagliare i ponti con le tradizioni, con gli stili di vita che caratterizzavano territori, comunità, gruppi sociali per tendere ad una omologazione almeno su scala continentale se non addirittura su scala planetaria. È in atto, ma non da ora, un processo di omologazione che se da un lato mi fa sentire a casa in qualunque città perché ritrovo gli stessi negozi, gli stessi cibi, gli stessi spettacoli dall’altro sento tutto questo estraneo perché costruito negli uffici marketing e non grazie al lento evolversi di un processo locale. Forse è chiaro ormai ai più che, come dice Stigliz, la globalizzazione così come è stata realizzata abbia favorito solo un ristrettissimo gruppo sociale e finanziario ed abbia penalizzato tutto il resto del mondo. Come risultato tangibile della trasformazione (in senso negativo) dei rapporti umani abbiamo di fronte ai nostri occhi il modo in cui viene gestito il problema delle migrazioni di massa (come vede – gentile intervistatrice – è un tema che ricordo spesso): fin dal momento in cui queste persone disperate lasciano la loro terra per puntare verso l’opulento Occidente, reso opulento da secoli di prelievo di risorse da quelle terre da cui provengono i migranti, inizia per loro un viaggio che non ho riserve a definire simile ai viaggi in treno per Treblinka. Confido nelle giovani generazioni per marcare un significativo cambio di rotta nel segno della solidarietà: da questo punto di vista, la mia generazione, quella del Sessantotto, ha mancato clamorosamente l’obiettivo”.

Cos’è la paura?

“La paura è una compagna di viaggio necessaria. La paura di non essere all’altezza del compito assegnato è la molla che mi spinge ad impegnarmi, a non sopravvalutarmi. Ho pagato a caro prezzo il non aver avuto paura nell’affrontare certe situazioni. Anche mentre rispondo a queste domande, postemi da una gentilissima ed apprezzata giornalista, la paura è seduta qui vicino a me e mi ricorda che ciò che sto per dire non sia scontato ma interessante, che l’ovvio è sempre pronto ad entrare in scena. E certe indecisioni nell’eloquio (che purtroppo il testo non potrà riportare) sono il tangibile segno della sua presenza. A volte mi assalgono paure irrazionali che coinvolgono persone a me molto molto care: fortunatamente sono molto sporadiche ed ho imparato a gestirle. Non ho paura di morire e di questo devo ringraziare la mia professoressa di lettere del liceo Giacomo Leopardi: “è funesto a chi nasce il dì natale” possiamo leggere nella splendida poesia dedicata al pastore dell’Asia. È il prezzo che dobbiamo pagare per vivere e sarei disposto a pagarlo cento volte in cambio di cento altre vite!”

(Scatto dell’Ospite)

Il tema di questo numero di
Condivisione Democratica è l’apparenza. Quanto conta ciò che non si vede?

“L’apparire ha molte valenze, sia
positive che negative: anche il non apparire ha questa doppia valenza che
dipende da come e perché la si usa.

L’abito non fa il monaco, si è sempre
detto, ma in tanti contesti – più attenti alla forma che alla sostanza,
probabilmente perché non in grado di valutarne il merito – vestirsi in un certo
modo, utilizzare un certo tipo di linguaggio fa la differenza. Come ho
affermato in altre occasioni, se in forza di una crescita culturale a tutto
tondo, il tendere ad un certo modello, ad un certo stile di vita, anche se si
deve fare ancora della strada, ti suggerisce di cominciare a comportati “come
se fossi già al traguardo”, quell’apparenza rappresenta la palestra in cui
esercitarsi per impratichirsi di un ruolo cui si aspira. Se invece l’apparenza
è solo una maschera per coprire vizi e animo cattivo allora il
compito degli altri è togliere
quel mantello. Specularmente, a volte un aspetto “dimesso”, al limite da
sembrare ciò che non si è, può servire a mettere a suo agio l’interlocutore o
valutarne le capacità a rapportarsi con persone meno attrezzate. Ho utilizzato
quest’ultima tecnica più volte quando volevo capire quanto fosse preparato il
mio interlocutore su un determinato argomento (di cui ritenevo di avere buone
conoscenze). Mi fingevo un principiante, di poche letture su quel tema: dalla
chiarezza con cui mi illustrava un certo tema potevo comprendere quanto chiara
fosse per lui ciò che mi stava esponendo. E’ una tecnica che ritengo molto
utile per farsi un’idea – in un tempo ragionevolmente breve – del livello di
preparazione di una persona. Peraltro Churchill diceva che riesci a dire una
cosa in modo chiaro solo se la conosci molto bene”.

La scienza e la tecnologia hanno fatto
passi da gigante. Qual è il prezzo che abbiamo dovuto pagare?

“La mia è una risposta “di parte” avendo avuto una formazione molto legata alle discipline scientifiche per antonomasia: la fisica e la matematica sono per me le categorie con cui non solo comprendere la scienza ma il modo principale con cui leggere il mio quotidiano. Il Determinismo è un faro! È ciò che mi ha permesso di tenere ferma la barra nella bufera della pandemia dove si elevavano a leggi universali ciò che si era appreso su Facebook confondendo discipline deterministiche con quelle probabilistiche, facendo equivalere opinioni personali ad evidenze scientifiche.

(Truccato da Nonno Gatto dall’adorata nipotina Cecilia – 5 anni)

Una necessaria premessa, propedeutica
all’analisi del prezzo che il consorzio umano ha dovuto pagare. Il progresso
scientifico, da cui deriva quello tecnologico, ci ha permesso di mettere in
soffitta l’ “ipse dixit” (chiunque si voglia individuare con ipse), ovvero la
categoria che ha permesso di condannare Galileo Galilei; inoltre ci ha  costretto a non credere a ciò che ci viene
detto ma a rispettare solo “le evidenze scientifiche”, il metodo galileiano in
ultima analisi, consapevoli tuttavia che ogni passo in avanti nella conoscenza
non sarà mai un passo definitivo e che potrà essere smentito,
corretto o inglobato da un futuro
passo in avanti. Si pensi alla legge della gravitazione universale di Newton e
la relatività generale di Einstein, dove la seconda ha inglobato la prima.
Sgombrato la strada dal macigno dell’ipse dixit e con in mano la bussola del
metodo galileiano, si è potuto riprendere un cammino per tanti secoli ridotto
ad una strettoia. Abbiamo dovuto accantonare tante illusioni, tante superstizioni,
tante false verità che l’umanità si era costruita nel tempo: ora la Terra non è
più al centro dell’universo, il grembo di una Donna non è più un semplice
contenitore ma un co-attore nella creazione di una nuova vita, l’Uomo non è
stato creato in un paradiso terrestre ma è il frutto di un’evoluzione che
peraltro non lo aveva previsto, per citare il noto saggio di Telmo Pievani.
Certo abbiamo dovuto ammettere che il miraggio fosse solo un fenomeno ottico
che la fisica spiega perfettamente; abbiamo dovuto accettare che i vaccini
abbiano più efficacia del decotto della nonna, anche se non sempre sortiscono
l’effetto desiderato (la medicina è una disciplina probabilistica non
deterministica!)  e consolarci con il
fatto che quelli salvati sono molti, molti di più di quelli cui il vaccino ha
nuociuto. Per farmi capire: se lascio cadere un sasso, qualunque sia la sua
forma o il
suo peso, esso cadrà sempre a terra e con la stessa
accelerazione grazie alla forza di gravità, quando invece somministro un
farmaco, anche se è passato al vaglio di tutti i protocolli di sperimentazione
fin qui noti, avrò un’alta probabilità che sortisca l’effetto desiderato (la
guarigione di una certa patologia) non la certezza.

In ultima analisi, il prezzo che
abbiamo dovuto pagare alla scienza è la perdita di una lettura semplificata (a
volte addirittura semplicistica) del mondo che tuttavia ci viene restituito
sotto la forma di una aumentata capacità di saper leggere la Natura.

Diverso discorso è per le tecnologie.
Il benessere di cui soprattutto il mondo occidentale gode è merito delle
innovazioni tecnologiche: la plastica ad esempio ha permesso di realizzare
oggetti utili a costi molto bassi: dalla semplice terrina per l’insalata al
bypass cardiaco, passando per i paraurti di un’auto, per la tastiera del
computer. Tutto molto bello, comodo, a basso costo se …. in mezzo all’oceano
Pacifico (Great Pacific Garbage Patch) non si fosse formata un’isola di rifiuti
di plastica ampia come la Spagna (alcuni dicono come gli Stati Uniti). Ci si
chiede: la compromissione della vita degli oceani vale la comodità di una
terrina per l’insalata? Credo che i lettori di questa interessante rivista
digitale (Condivisione Democratica) siano anche frequentatori dei social media:
io li uso molto sia per informarmi sia per tenere i contatti sia ancora per
divertimento. È davvero bello poter interagire con immediatezza anche con chi
sta dall’altra parte del mondo, è molto utile avere informazioni di prima mano,
è molto comodo potersi fare aiutare nella ricerca di un ristorante o di un
prodotto ed un istante dopo prenotare (avendo anche uno sconto) o ordinarlo ed
il giorno dopo averlo a casa. Come avrà facilmente compreso vivo appieno il mio
tempo (in altri contesti si sarebbe usata la locuzione “è uomo del suo tempo”).
Tutte queste comodità hanno però un costo molto alto per ciascuno di noi che
navighiamo grazie ad un browser (uso prevalentemente Safari), utilizziamo un
motore di ricerca (uso Google, peraltro ho tenuto tanti seminari sui motori di
ricerca), teniamo i contatti con i social (uso molto Facebook e Instagram,
abbastanza Twitter e Telegram e ormai l’indispensabile WhatsApp) però pagando
il prezzo che tutto ciò che caratterizza la mia presenza sulla rete è diventato
di proprietà dei grandi player della rete (Google, Facebook, ecc.) che
utilizzano i miei dati per fare business. I miei interessi, i mei gusti
interessano chi produce beni o servizi in grado di incontrali o soddisfarli; le
mie convinzioni politiche interessano le organizzazioni politiche ma anche la
polizia (per non parlare dei servizi di intelligence); i miei orientamenti
sessuali o religiosi possono interessare un datore di lavoro o un gruppo
sociale. La mia immagine può essere utilizzata, insieme a migliaia e migliaia
di altre, per costruire un archivio con cui istruire un algoritmo di
riconoscimento facciale; oppure la mia immagine essere scelta da un altro
algoritmo fra i probabili responsabili di un certo fatto criminoso perché l’identikit
fornito all’algoritmo lo rimanda alla mia immagine; oppure le ormai ubique
telecamere davanti cui transito spostandomi semplicemente da un punto all’altro
della città permettono ai gestori di quelle telecamere di ricostruire i miei
spostamenti, in modo analogo a ciò che può fare il gestore della SIM del nostro
smartphone che sa in ogni istante dove siamo ed a che velocità ci spostiamo. In
sintesi, paghiamo tutto ciò in termini di compressione delle
libertà individuali. Il mio
maestro mi ammoniva sempre: comincia a
preoccuparti seriamente quando ti
renderai conto che non potrai più metterti le dita nel naso senza che nessuna
ti veda. Siamo giunti purtroppo a questo punto.

D’altra parte chi sarebbe disposto a
ritornare al solo telefono a gettoni, allo scambio epistolare per dare ed avere
notizia? L’importante è non lasciare tutte queste informazioni nelle mani dei
consigli di amministrazione di imprese private senza aver varato norme
stringenti che ne regolino l’acquisizione e la conservazione. Ritorno al
problema del ruolo centrale dei parlamenti che dovrebbero urgentemente normare
questo settore, con norme sia a livello nazionale sia sovranazionale. Come ben
sappiamo in Internet non esiste la dimensione spaziale – ogni web è lì a
portata di un click – e questo costringe ad avere una normativa sovranazionale
oltre ad una nazionale. Come si può ben comprendere stiamo pagando un prezzo
molto salato per potere fruire dei servizi di una società digitale.

Se il mondo digitale è così “costoso”,
altri settori tecnologici sono meno voraci. Penso ad esempio all’aumentata
sicurezza nei trasporti (le auto sono sempre più sicure), alle macchine
salvavita (come quelle per la dialisi o i pacemaker) che sono sempre più
affidabili ed efficienti, alle protesi sono sempre più sofisticate per citar
solo alcune applicazioni della tecnologia delle quali non potremmo fare a meno.
Credo che si possa convenire che se arriveremo in breve tempo ad una normativa
sulla gestione delle informazioni personali il bilancio dell’uso delle
tecnologie possa essere certamente positivo senza alcuna riserva. D’altra parte
chi sarebbe disposto a tornare al calesse, alla candela, al decotto di lino?”.

Nel 1970 si laureava in fisica presso
l’Università di Bologna con una tesi sperimentale svolta presso l’Istituto
Nazionale di fisica nucleare
.
Cosa significava essere uno scienziato allora quando tutto sembrava ancora
da scoprire ed il futuro appariva come qualcosa da costruire per un mondo
migliore e possibile?

“Sono approdato all’università solo pochi anni prima che scoppiasse il Sessantotto e la facoltà che frequentavo fu uno dei centri di quel movimento mosso dall’utopia di rivoluzionare il mondo. Allora ci si credeva, si leggeva la scienza prevalentemente in chiave sociale e di classe. Come lei certamente saprà il filosofo di riferimento era Herbert Marcuse e L’uomo ad una dimensione il verbo a cui attingere, la scienza doveva essere strappata dalle mani “del capitale e dei padroni” ed essere messa a disposizione delle masse proletarie e degli operai.

(Bologna – Scatto dell’Ospite)

Parole d’ordine che allora avvolgevano e convincevano ma che oggi, a più di 50 anni di distanza, stento francamente a comprenderne la reale valenza e soprattutto il vero obiettivo. Di allora ricordo la passione per i passi da gigante compiuti dalla fisica nei 50 anni precedenti: dalla relatività alla meccanica quantistica, dalla fisica nucleare all’uomo sulla Luna. Erano la conferma che la fisica ed anche la matematica permettevano di leggere correttamente il mondo e che tutto ciò avrebbe reso il mondo migliore. Non avevo fatto i conti, non avevamo fatto i conti, allora con gli altri attori sociali, oltre gli scienziati. Infatti ero ancora all’università quando scoppiò la bomba alla filiale della banca nazionale dell’agricoltura in piazza fontana a Milano; già lavoravo al Centro interuniversitario CINECA quando cominciarono ad apparire le prime stelle a cinque punte inscritte in un cerchio (il simbolo delle Brigate Rosse), quando fu rapito Aldo Moro e quando scoppiò la bomba alla stazione di Bologna. In un simile contesto sociale le utopie o anche semplicemente le aspirazioni personali e collettive passano in secondo piano perché è in pericolo il bene primo: la democrazia. Ho dovuto attendere gli anni Ottanta per riprendere a “sognare” un mondo migliore grazie alla scienza e alla tecnologia e ciò è successo quando fui chiamato ad unirmi al gruppo di lavoro che avrebbe dovuto assistere il ministro (meglio la ministra) della pubblica istruzione di allora a redigere e tradurre in pratica le linee guida del Piano nazionale informatica per le scuole medie superiori. Gli anni del progetto furono l’occasione per adottare soluzioni innovative, per formare una classe di docenti più preparata (ebbi la responsabilità di organizzare la formazione complessivamente circa 6.000 docenti). Furono anni in cui sperammo che una scuola più in linea con i tempi potesse garantire agli studenti di allora un futuro meno difficile: non potevamo immaginare che dieci anni dopo sarebbero arrivati ministri della pubblica istruzione che invece di aiutare la scuola pubblica a migliorarsi ancora avrebbero adottato provvedimenti che la avrebbero fortemente penalizzata a vantaggio della scuola privata. Per fortuna quegli anni Novanta videro l’uscita di Internet dai laboratori di ricerca (al Centro presso cui ero cominciammo ad utilizzare Internet nel 1986) e raggiungere il grande pubblico. Fu quella l’occasione per far conoscere questa tecnologia ai decisori nazionali e locali e dar vita alle prime reti civiche. Fui coinvolto fin dal suo concepimento alla progettazione e alla realizzazione della rete civica Iperbole (vinse il premio europeo della Bangemann Challenge) e l’utopia (in parte realizzata) di portare il Cittadino all’interno delle istituzioni e in grado di interagire con esse in tempo reale. Erano le basi per quella democrazia diretta che tanto mi interessa e che sarebbe stata di stimolo per quella rappresentativa. Il modello Iperbole (acronimo di Internet per Bologna e l’Emilia-Romagna) lo esportai in tante altre città dell’Emilia-Romagna e in altre regioni italiane. La tecnologia più recente veniva portata nelle case dei Cittadini e avrebbe dato loro la possibilità di far sentire la propria voce. Forse una delle utopie sessantottine concretizzata?”.

I temi legati all’ecologia sono stati
sempre a lei molto cari. Gli esiti però non sembrano essere stati quelli che
tutti si auguravano, cosa è andato storto? C’è ancora la speranza di poter fare
qualcosa di buono, giusto, sano e corretto?

“Il tema mi è sinceramente caro anche
se, come lei ben sa, non sono un esperto. Le opinioni che mi sono fatto sono il
frutto di letture (buone) e di ottime conferenze come quella di sabato scorso
di Bruno Carli, accademico dei Lincei, cui ho assistito. Lei mi chiede cosa sia
andato storto: la risposta non può che essere al plurale, vale a dire che il
comportamento di ognuno di noi ha contribuito a far ammalare il nostro pianeta.
Certo con responsabilità affatto diverse fra un presidente del Consiglio e chi
scrive, ad esempio, ma con la consapevolezza che è sul modello di sviluppo che
occorre intervenire in primis. Scrive infatti il prof. Carli in un articolo del
2020:

<<Come risultato della crescita della popolazione e dell’aumento dei
consumi, la domanda di energia e risorse è cresciuta talmente che tutte le
evidenze scientifiche mostrano che ci stiamo scontrando con i limiti
fondamentali del pianeta.
>>, ed ancora sempre Carli in un saggio del
2017 edito da il Mulino: <<La scienza ci dice che è in corso un
cambiamento climatico, che questo è causato dall’uomo, che in futuro alcune
risorse e alcune regioni del pianeta potrebbero non essere più utilizzabili nei
modi in cui siamo abituati e che per arrestare questo processo occorrono
interventi drastici […]. Se e come agire sulla base di queste conoscenze è ora
una scelta politica che riguarda la strategia con cui vogliamo gestire il
futuro nostro e del pianeta
>>. Da ciò che ho letto ed ascoltato
non esiste una soluzione: occorre trovare il concerto fra le diverse soluzioni
ognuna delle quali ne ottimizza l’applicazione, tenendo conto anche di fattori
specifici. L’unica cosa certa è che occorre fare presto, molto presto e bisogna
farlo tutti assieme: non è sufficiente – anche se utile – che solo una parte di
noi diventi virtuosa, occorre che lo si diventi tutti. L’anidride carbonica
emessa in aria in Italia contribuisce al problema del riscaldamento e non solo
dell’Italia ma dell’intero globo. Occorre puntare, sottolineava Bruno Carli,
sulle energie rinnovabili, sull’efficientamento energetico, sul passaggio
all’elettrico abbandonando l’uso dei combustibili fossili”.

Non sempre la scienza è stata legata a
progetti autonomi ed indipendenti, spesso si è arresa al servizio di interessi
economici molto importanti che in qualche modo l’hanno indirizzata verso
obiettivi pilotati e commissionati. Chi può e deve difendere la scienza da
percorsi fuorvianti e dannosi?

“Certamente l’episodio più importante
di indirizzamento della scienza verso obiettivi discutibili è individuabile nel
progetto Manhattan, vale a dire la realizzazione della prima bomba atomica e la
conseguente distruzione di Hiroshima e Nagasaki, che ha visto la partecipazione
dei più preparati fisici e matematici allora esistenti. Per inciso ricordo che
un ruolo fondamentale in quel progetto fu ricoperto da Enrico Fermi cui è
dedicato l’istituto di fisica dell’Università dell’Illinois e un grande
laboratorio di ricerca, il FermiLab, entrambi negli USA. Da quell’esperienza,
certamente fondamentale dal punto di vista scientifico, Fermi trasse un
insegnamento che fu poi recepito nello statuto del Centro Europeo di Ricerche
Nucleari (CERN) di Ginevra: un centro di ricerca accademico non può essere
utilizzato per ricerche coperte da segreto militare. Fu questo il testamento
che Fermi, morì infatti pochi mesi dopo, consegnò ad Edoardo Amaldi, incaricato
di redigere lo statuto del costituendo CERN. Alla sua domanda rispondo quindi:
gli scienziati e solo loro devono decidere verso dove orientare la loro
ricerca, almeno per quella parte della ricerca che viene detta di base, vale a
dire che studia le parti fondanti dell’universo in cui viviamo. Questa ricerca
deve essere finanziata senza condizionamenti se non quelli insiti nei metodi
stessi che la comunità scientifica si dà, vale a dire che i risultati devono
essere riconosciuti tali anche dagli altri scienziati. Se poi un governo o una
società privata vogliono che si esplorino ad esempio le potenzialità e i campi
di impiego di un nuovo materiale, che si cerchino farmaci per curare una certa
malattia ecco tutto questo attiene alla trasformazione dei risultati
scientifici in applicazioni tecniche ed industriali. Resta evidentemente il
grande problema degli aspetti etici: se lo studio dell’atomo non ne pone, ne
pone tantissimi lo studio e la manipolazione delle cellule. Non mi trova
d’accordo che in alcuni settori di ricerca un comitato (ad esempio quello
bioetico), formato anche da rappresentanti di confessioni religiose, o ad esse
riferentisi, possano mettere il veto su una proposta di ricerca. Come vede,
gentile sig.ra La Vecchia, pur essendo credente sono molto laico, una laicità
corroborata anche da importanti letture come il saggio di Peter Harrison
The Territories of science and
religion
”.

E’ giusto credere in una scienza ed in
un progresso tecnologico ad ogni costo?

“L’unica cosa che deve essere fatta ad ogni costo è ciò che può impedire qualcosa di irreparabile. La scienza e la tecnologia sono entità, mi passi questo termine, che per loro natura non possono essere cristallizzate. Si possono rallentare ma mai fermare o far regredire per la semplice ragione che la scienza nasce ed abita la mente dell’uomo. Pensi che Newton formulò la teoria corpuscolare della luce mentre era confinato in campagna a causa di una epidemia e aveva con sé solo carta e penna. Il raggio di luce che, entrando da un foro della finestra, disegna sulla parte opposta un “arcobaleno” lo spinge a indagare sulla natura della luce. Quali gli strumenti a disposizione? Una giornata di sole, un forellino in una finestra socchiusa, una stanza in penombra e la straordinaria mente di uno dei più grandi scienziati di sempre. Questo improbabile mix è il responsabile di uno dei più importanti risultati della fisica contemporanea; coinvolto nel calcolo delle traiettorie delle mitragliatrici della contraerea, a John von Neumann, forte anche di esempi precedenti (ad esempio Babbage, Zuse), fa sul foglio di un bloc-notes uno schizzo che alla stazione di Filadelfia (siamo all’indomani dello scoppio della seconda guerra mondiale) mostra al direttore dei laboratori di calcolo di Aberdeen dell’esercito americano. Quello schizzo è lo schema funzionale di tutti i computer che dal 1943 in poi sono stati utilizzati, anche quello che il lettore sta utilizzando nel momento in cui legge questo articolo. Come vede la scienza non è imbrigliatile. Ci possono essere momenti in cui ingenti fondi vuoi pubblici vuoi privati possono essere resi disponibili per un certo settore di ricerca. Di norma questi settori coincidono con la presa di coscienza dell’esistenza di un importante problema (la necessità di abbandonare i combustibili fossili, ad esempio): la spinta ad impegnarsi “ad ogni costo” su questi temi ha alle spalle una motivazione condivisibile e spesso urgente. Quello che occorre assolutamente evitare è che il dirottamento di cospicue risorse finanziarie su questi temi urgenti impediscano agli altri settori di continuare il loro lavoro. Purtroppo non sempre c’è la sensibilità, da parte dei decisori politici, ad operare per non penalizzare nessuno”.

Nel 1997 è ideatore del progetto TECA
della Pro Civitate Christiana di Assisi per l’informatizzazione del museo e la
digitalizzazione dei beni culturali ivi contenuti. Ci parli di questa
importante iniziativa. Come nasce l’idea?

“Nel lontano 1997, in aprile, alcuni professionisti di Faenza (che erano in contatto con la Pro Civitate Christiana, detta anche Cittadella di Assisi) vennero al Cineca per propormi di progettare la digitalizzazione del museo della Cittadella. Dagli inizi degli anni ’90 al Cineca mi occupavo anche di Digital Cultural Heritage e pertanto l’invito fu prontamente accettato. In quel periodo, ero impegnato in un importante progetto (detto NUME), in collaborazione con l’Università di Bologna, che aveva l’obiettivo di ricreare in 3D la Bologna medievale con la possibilità di vederne le trasformazioni nel tempo. Quel progetto mi permise di familiarizzare con le tecnologie più all’avanguardia (il progetto fu presentato ad un convegno negli USA) rivolte all’acquisizione e all’elaborazione di immagini in ambito culturale.

(Una sala del Museo – Scatto dell’Ospite)

Dopo una serie di sopralluoghi in
Assisi, scrissi un progetto, dedicato all’informatizzazione del museo (che
battezzai TECA – Testimonianze Ecumeniche alla Cittadella di Assisi) che
presentai al MiBAC e che fu finanziato per intero: 1500 milioni di lire. Il
progetto TECA fu realizzato fra il 2001 e il 2003 ed io ne fui il project
manager. Il progetto TECA ebbe un’immediata ricaduta anche sulla biblioteca del
Sacro Convento di Assisi, in cui sono conservati tra l’altro i manoscritti di
san Francesco, perché appena si seppe che stavo lavorando per la Cittadella fui
contattato per scrivere un progetto per digitalizzare gli antichi manoscritti
conservati in quella biblioteca. Fu una vera emozione poter prendere in mano
(dopo aver indossato un paio di guanti) i manoscritti del Poverello di Assisi.

Tornando
al progetto TECA, i suoi frutti possono essere così sintetizzarli:

  1. Digitalizzazione di 2681 opere della
    Galleria, pari al 65,9% delle opere conservate, e rendere accessibili i
    corrispondenti oggetti digitali via Internet;
  2. Protezione gli oggetti digitali con la
    tecnologia del watermarking (filigrana digitale);
  3. Creazione del catalogo on-line (OPAC)
    di 1535 opere, pari al 37,7% dell’intera collezione della Galleria, e renderlo
    accessibile via internet;
  4. Creazione del catalogo on-line (OPAC)
    di 35.002 volumi (pari al 50% del patrimonio conservato) e renderlo accessibile
    via internet;
  5. Digitalizzazione dell’intero fondo
    antico delle Cinquecentine, 17 volumi per complessive 8098 pagine, proteggerle
    con la tecnica del watermarking e renderle accessibili integralmente via internet;
    due di esse sono state trasposte anche in formato full-text;
  6. Creazione del catalogo on-line (OPAC)
    delle opere della Fonoteca registrate su supporto vinilico e renderlo
    accessibile via Internet. Sono state catalogate 6207 opere per complessivi 8150
    supporti;
  7. Conversione analogico-digitale dei
    dischi di maggior interesse e/o in precario stato di conservazione pari a circa
    140 ore di ascolto;
  8. Restauro digitale dei brani musicali
    compromessi da supporti in precario stato di conservazione;
  9. Creazione del portale attraverso cui
    accedere agli archivi, effettuare delle visite virtuali, avere informazioni
    sulle mostre, i seminari e le altre iniziative culturali, acquistare poster,
    riproduzioni, aderire all’Associazione “Amici dell’Osservatorio – ONLUS” [ora
    “Amici dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana Organizzazione di
    Volontariato (ODV)”]

Tutto questo 20 anni fa”.

Perché l’interesse per Assisi?

“Ero stato in Cittadella per un
convegno nel dicembre del 1971 ma lo consideravo un episodio che non avrebbe
avuto un seguito. Furono le tante visite propedeutiche alla scrittura del
progetto TECA a farmi prima conoscere quella realtà e poi legarmi con un affetto
straordinario ai volontari laici che la gestiscono. Furono le persone con cui
interagii, purtroppo molte di loro non ci sono più, che con la loro cultura,
umanità e gentilezza mi accolsero subito come uno di loro. La “magia” che
ancora pervade la Cittadella è quella di far sentire a proprio agio chiunque:
dal credente all’ateo, dal conservatore al progressista, dall’uomo della strada
al docente universitario. Nel corso degli anni (fu fondata nel 1939) tutti i
grandi della cultura, delle arti figurative, del cinema e del teatro, della
musica e della politica italiana si sono fermati in Cittadella lasciando
preziose testimonianze in convegni e congressi, oltre a scritti e interviste.
Si sono fermati in Cittadella ad esempio Rossellini, Vlad, Pasolini, Luzi, De
Chirico, Moro ed anche papa Giovanni XXIII, amico fraterno del fondatore della
Pro Civitate don Giovanni Rossi. Ho quindi iniziato ad affezionarmi a questa
abbazia laica attraverso le opere d’arte conservate nella Galleria d’arte
contemporanea (curata con abnegazione da Anna Nabot), che ospita capolavori del
secondo Novecento italiano, con qualche eccezione come l’americano William
Congdon, che per tanti anni frequentò la Cittadella, dopo essersi trasferito da
Venezia ad Assisi. Un museo che sorprenderà per la ricchezza e singolarità
delle opere ospitate, un numero importante delle quali appartiene alla
collezione di Gesù lavoratore, opere in cui viene reso omaggio ai lavoratori,
dal muratore al carpentiere, al fabbro attraverso la figura del Cristo”.

Qual è attualmente la situazione
dell’associazione e quali sono i progetti e le iniziative future?

“Come tutte le associazioni di
volontariato che non hanno alle spalle uno o più sponsor, l’associazione Amici
dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana – Organizzazione di
Volontariato (ODV) che presiedo dal 2011, la cui missione è assistere e
promuovere il museo della Cittadella, ha sempre più idee di quante ne possa
realizzare. Se da un lato i soci sono distribuiti un po’ in tutta Italia –
negli scorsi anni ne abbiamo avuti anche dall’estero – permettendoci di avere
un qualche riscontro anche in luoghi lontani da Assisi, dall’altro l’attività
ricade prevalentemente sul presidente e sui consiglieri, non potendo contare su
adeguate forze ubicate in Assisi. Oltre alla carenza cronica di persone
fattivamente coinvolgibili, l’associazione vive una perenne situazione di
inadeguatezza del budget a disposizione. Nonostante queste condizioni, non
certamente ottimali, con tenacia e perseveranza cerchiamo di onorare gli
impegni che lo statuto ci impone e quindi, grazie anche alla “quiete” del
lockdown abbiamo messo a punto alcune idee progettuali per i prossimi anni.

Partendo dalla considerazione che
dalla realizzazione del progetto TECA ad oggi la tecnologia del web aveva fatto
passi enormi, soprattutto in termini di accesso alle informazioni, alla loro
condivisione e alla loro ricerca e che il look del sito web scaturito dal
progetto (
www.procivitate.assisi.museum) mostrava i segni del tempo, come una
rosa recisa, abbiamo deciso di metterci mano. Delle scelte tecnologiche di
allora tuttavia si sono rivelate time independent gli standard adottati per
digitalizzare le immagini, la fase del progetto più onerosa sia in termini di
tempo sia di risorse umane e finanziarie.

La fase uno del progetto JANUS

Con queste premesse, risulta
abbastanza naturale pensare di cambiare la “cornice” ad una “tela” di pregio e
con queste finalità è stato concepito il progetto JANUS. Il nome tradisce
apertamente gli obiettivi: ci saranno due interfacce web, una per accedere alle
informazioni del museo, l’altra per accedere al web dell’associazione: entrambe
accederanno, tramite una opportuna interfaccia, a tutte le informazioni digitali
esistenti (opere d’arte, stampe antiche, musica, libri, cinquecentine) come
fossero in un unico archivio che sarà trasportato sul Cloud in modo da
garantirne la funzionalità h24 ed avere una velocità di accesso molto maggiore
da qualunque parte del mondo l’utilizzatore si colleghi. L’interfaccia web sarà
multilingue: italiano e inglese per ora.

Questa riorganizzazione dell’accesso
alle informazioni digitali permetterà al visitatore virtuale di accedere a
tutte le informazioni disponibili su un certo autore o una certa opera nelle
diverse sezioni. Ad esempio, un visitatore interessato a Giorgio De Chirico (la
Galleria conserva una splendida opera del grande maestro metafisico dal titolo
Gesù Divino Lavoratore del 1951) digitando il suo nome otterrà l’immagine della
tela del 1951, le immagini dei 4 disegni conservati nel Gabinetto delle stampe,
l’elenco dei libri che sono dedicati a lui.

Le interfacce web permetteranno di
soddisfare le esigenze di visitatori affatto diversi: dal semplice “curioso”,
all’appassionato di arte, allo studioso e al ricercatore.

Il progetto JANUS esplorerà anche la possibilità
di creare delle immagini NFT (Non-Fungible Token), immagini digitali uniche e
non replicabili, per dare la possibilità al museo di crearsi una fonte di
finanziamento vendendo gli NFT delle sue opere, avendo già la base digitale per
realizzarle.

Inoltre le opere della Galleria d’arte
contemporanea, una sezione del museo, verranno corredate di un codice QR per
permettere al visitatore di avere sul proprio smartphone le informazioni utili
per comprendere l’opera di fronte alla quale si trova.

Il progetto JANUS è stato finanziato
al 60% dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Perugia: il restante 40% è
in parte coperto con i fondi dell’associazione che presiedo e per la parte
rimanente contiamo su donazioni e sponsorizzazioni che sto cercando. Iniziato
nel dicembre del 2021 avrà una durata di 12 mesi.

Abbiamo già pensato ad una fase due e
tre del progetto: il problema, come si può facilmente intuire, è rappresentato
dalle risorse finanziarie.

La fase due di JANUS prevede la digitalizzazione dell’epistolario
degli autori le cui opere sono conservate nel museo. Si tratta di circa 10.000
lettere che i diversi artisti, da De Chirico a Prosperi, da Carrà a Pirandello
e Rosai, hanno scritto a don Giovanni Rossi per spiegare, commentare le loro
opere. Molte lettere, tuttavia, vanno oltre il mero dato “contingente” e sono
vere e proprie confidenze ad un sacerdote. Si ha un quadro molto umano di
questi artisti, molti di loro pilastri dell’arte italiana del secondo
Novecento. Crediamo sia importante mettere a disposizione questo materiale
autografo a studiosi e ricercatori, senza compromettere l’integrità
dell’archivio. Il progetto potrebbe essere completato nell’arco di 18 mesi e
l’archivio generato integrato con quello creato dalla fase 1 di JANUS. Stiamo
cercando i fondi e sarò felice di illustrare i dettagli ad un eventuale
sponsor.

La fase tre di JANUS è un progetto molto ambizioso. La Pro
Civitate Christiana fondata nel 1939, come già ricordato, ha svolto un ruolo
molto importante nella cultura e nella società italiana. Si sono fermati lì
tantissimi protagonisti della cultura e della politica italiana: da Moro a
Rossellini, da papa Giovanni XXIII a Roman Vlad, da Pasolini a Luzi per citarne
solo alcuni.

E queste persone hanno lasciato
testimonianze scritte, sonore e di immagini ora conservate (su supporti
analogici) nell’archivio generale della Pro Civitate Christiana. Inoltre i
volontari ancora in vita e che hanno vissuto quelle passate stagioni e quelle
più recenti sono “memorie” viventi cui vorremmo “far raccontare la loro vita” e
rendere disponibili anche queste testimonianze ai posteri.

Purtroppo l’archivio non è mai stato
digitalizzato. Vorremmo intraprendere questa iniziativa per consegnare alla
storia tutte queste informazioni. Il progetto è ambizioso ed anche molto
costoso: ad una prima stima occorrerebbero non meno di 5 anni ad un team di
almeno 4-5 persone in modo da mettere a disposizione del progetto competenze
archivistiche, informatiche, biblioteconomiche avvalendosi anche di strutture esterne
per realizzare le (lunghissime) interviste. Sarebbe molto bello che un
importante mecenate, o un gruppo di mecenati, volesse associare il proprio nome
a questa iniziativa che verrà consegnata alla storia. Anche in questo caso sarò
lieto di poter esporre il progetto a chi potrebbe esserne interessato.

Infine alcune informazioni sull’associazione che presiedo.: Associazione Amici dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana ODV (organizzazione di volontariato) ha sede in Assisi presso la Pro Civitate Christiana (nota anche come Cittadella di Assisi) in via degli Ancajani 3 – 06081 Assisi è stata fondata nel 2000 per aiutare il museo della Pro Civitate dopo il terremoto del 1997. Ha soci sparsi in tutta Italia e si finanzia con le quote sociali, le donazioni e il 5 x mille e con questi fondi assiste il museo, purtroppo non per tutte le necessità per l’esiguità delle risorse disponibili. L’indirizzo di posta elettronica è amiciosservatorio@gmail.com e il sito web è www.amiciosservatorio.org”.

(Scatto dell’Ospite)

Una breve visita virtuale del museo
può essere effettuata raggiungendo questo link

L’idea di essere un uomo di scienza è
sempre stata presente nella sua vita?

“Mi è sempre sembrato naturale
occuparmi di scienza fin dai tempi del liceo quando mi resi conto che il
professore di matematica e fisica (ho frequentato il liceo scientifico Serpieri
di Rimini) era l’unico in grado di catturare il cento per cento della mia
attenzione. L’iscrizione a fisica fu una cosa quasi naturale (oggi sceglierei
matematica, ma questo è un altro discorso), così come fu casuale il mio
diventare un informatico. Lo stesso giorno in cui mi laureai andai nella sede
del Cineca a Casalecchio di Reno, alle porte di Bologna, per salutare alcuni
compagni di corso che già lavoravano là ed anche un professore di fisica, con
cui ero in contatto, che aveva iniziato a collaborare con quel centro. Entrai
come visitatore e ne uscii come dipendente. Non sono rimasto disoccupato
nemmeno dodici ore! La matematica, l’informatica e le loro applicazioni nelle
diverse discipline scientifiche prima e poi in quelle statistiche ed
umanistiche divennero il mio “pane” quotidiano. Non ho mai preso in considerazione
il cambio di campo.

Tuttavia qualcosa cominciava a
bruciare sotto la cenere: una costante necessità di leggere “cose” non
tecniche: mi appassionai alla letteratura ispano-americana e
portoghese-brasiliana di cui ho letto tantissimo, mia appassionai alla musica
sinfonica e da camera (che nel 2005 abbandonai per abbracciare il Jazz),
all’arte senza aggettivi.

Quando agli inizi degli anni ’90 mi fu
proposto di occuparmi di tecnologie digitali per i beni culturali queste due
passioni, quella professionale e quella privata, avevano trovato una casa
comune.

La scienza e soprattutto il metodo
scientifico fanno così parte del mio modo di pensare che ho elaborato – per
alleggerire quest’intervista, della quale la ringrazio infinitamente – una
teoria matematica dei vizi.

Questa teoria afferma che il numero di
vizi di ognuno di noi è una costante (detta K) e che i vizi si dividano in
confessabili (Vc) e inconfessabili (Vi). In formula:

Vc + Vi = K

Vale a dire che più si sembra
perfetti, più vizi inconfessabili si hanno.

È la santificazione dei mascalzoni!”

Eppure il suo animo è fortemente
“inquinato” da note artistiche, creative, poetiche e letterate, questo ha
rappresentato un “disturbo” o una distrazione nella sua vita professionale?

“Lo dicevo anche poco fa: l’amore per
l’arte nelle sue moltiplici forme è stato prima un fiume carsico che ha trovato
nel settore del digital cultural heritage il suo punto di emersione. Devo anche
ammettere che l’informatica e solo lei (e non le altre discipline) mi ha come
prosciugato perché è un campo in cui solo molto poco di quello che si è fatto
ed imparato permane nel tempo. Mi spiego meglio: ciò che ho studiato di
matematica all’università è ancora tutto completamente attuale e utilizzabile,
ciò che ho imparato di fisica è al 99% utilizzabile. Ciò che ho imparato (e
conoscevo molto bene) di informatica negli anni Settanta e Ottanta è
utilizzabile solo al 20%, nella migliore delle ipotesi. Quindi le scorribande
nel settore umanistico sono state una necessità che fortunatamente sono
riuscito a rendere compatibile con l’attività professionale”.

Che cosa vuole fare il dott. Grossi da
grande?

“Vorrei scrivere un libro. Ho provato
alcune volte ad iniziare un’impresa di questo genere ma “il da fare quotidiano”
ha sempre avuto la meglio”.

La prima cosa che le viene in mente da
dire ad un giovane oggi.

“Leggi molto, leggi tutto ciò che ti
passa sottomano. Studia, studia, studia e se hai la fortuna di amare il
pensiero astratto studia matematica: è la più straordinaria costruzione
astratta mai creata dalla mente umana”.

I suoi impegni professionali l’hanno
vista da sempre impegnato in giro per il mondo. Come si concilia questo con una
famiglia?

“È stato un problema che non sono
stato capace di risolvere. Gli impegni professionali mi costringevano molto
spesso a spostarmi in Italia e all’estero e devo confessare che amavo quei
viaggi perché mi permettevano di incontrare persone, imparare cose nuove,
visitare luoghi mai visti e non facilmente accessibili come quando, ad esempio,
sedevo nel comitato creato dalla Commissione Europea per l’introduzione
dell’Information Technology o in quello per la collaborazione fra università e
imprese che si riuniva di volta in volta in un paese diverso. Essendo un
comitato europeo riconosciuto venivamo ospitati nei palazzi delle istituzioni
del paese ospitante: edifici per lo più storici che non avrei mai avuto la
possibilità di visitare.

Ho soggiornato per periodi abbastanza
lunghi negli USA (in quelle occasioni portai con me la famiglia), la norma però
era viaggiare solo o con colleghi. Fu durante questi lunghi viaggi che, per
ottimizzare il contenuto della valigia, iniziai a portarmi dietro dei libri di
poesie: un solo libro di poesie può farti compagnia per settimane perché le
poesie si leggono e rileggono più volte anche durante la stessa giornata. Non
lo si fa – almeno a breve – con un libro di narrativa. L’ottimizzazione del
peso della valigia mi ha permesso di addentrarmi nello splendido universo della
poesia.

Non ricordo se nel 1986 o 1987
trascorsi in trasferta più della metà delle giornate lavorative di quell’anno.
Rientrando a casa una sera mia moglie mi chiese di mostrale i documenti prima
di togliere il chiavistello. Come vede il problema c’è stato.

Ora che non sono più in attività ho
una regola aurea: prima gli affetti e poi il resto e finora sono riuscito a
mantenere, nella stragrande maggioranza delle volte, questo impegno”.

Il covid ci ha tolto momenti
importanti e ci ha costretti ad un blocco forzato, ad una paralisi fisica ed
emotiva. In molti parlano di perdita importante, ma ci sono state anche
ricchezze altrettanto importanti. Fermarsi non sempre è un male. Qual è il suo
bilancio?

“Confesso che ho vissuto con una certa leggerezza i mesi del lockdown stretto del 2020. Lo stare in casa mi ha permesso di leggere ed ascoltare tanto Jazz. Con le video conferenze ho recuperato incontri sempre invocati al telefono ma mai realizzati. Avevamo (ed abbiamo) il vantaggio di abitare nello stesso edificio di un grande supermercato per cui non ci è mancato mai nulla né siamo stati costretti a lunghe file potendo decidere quando scendere. Avendo fatto la scelta di essere molto prudenti,  vuoi per le norme imposte, vuoi per i consigli di amici medici, abbiamo ridotto al minimo i contatti: la famiglia di mio figlio maggiore (il minore vive all’estero). Solo sporadicamente la famiglia di mio fratello e quella degli amici più cari: peraltro abitando tutti questi fuori provincia abbiamo dovuto attendere le necessarie autorizzazioni.

(Manifesto di una delle Conferenze)

Mi è mancato l’andare al cinema almeno
due volte la settimana: dal marzo 2020 ad oggi sono stato al cinema una sola
volta nel novembre scorso; mi sono mancati i viaggi; mi è mancata Assisi.

Ho cercato di supplire a questa sosta
forzata organizzando delle conferenze in modalità streaming, di fare riunioni
in videoconferenza.

Ho sempre indossato la mascherina
anche se ora mi accorgo di essere un po’ insofferente.
La sosta forzata cui siamo stati costretti, più che i regimi di
semilibertà che mi hanno creato più problemi che vantaggi, mi ha permesso di
essere padrone assoluto del mio tempo. La giornata era scandita dalle cose che
volevo e mi piaceva fare. Avevo tirato fuori dal fondo di un cassetto un
comodissimo abito da casa con cui sono entrato rapidamente in simbiosi. Un
periodo che mi ha regalato tranquillità e tanto tempo per me. Un paio di mesi
l’anno di lockdown li accetterei molto volentieri”.

Città fondate e cresciute, raffazzonatamente, durante la “febbre dell’oro” in Klondike o in California, le cui case ora sono riempite dalla sabbia del deserto e contengono un’aria polverosa che vortica, riempendo solo di rumori quello spazio altrimenti silenzioso e vuoto.
Antiche costruzioni erette dalla sapiente opera dei Popoli Antichi. Mura, a frammenti, che hanno respinto barbari per secoli e ora nulla possono contro l’edera e la natura che le vince con nuove foglie e nuovi fiori.
Questo, forse, abbiamo in mente quando pensiamo ai “luoghi abbandonati”.
Forse.

(Immagine dal Web)

Pensando ai Luoghi Abbandonati, mi vengono anche in mente diversi luoghi che ho attraversato – rigorosamente a piedi – avendo dentro quella strana sensazione di vivere in un mondo post-olocausto atomico, con tutta la popolazione svanita nel nulla, cose se fossi un sopravvissuto. Attorno a me un silenzio assordante.
Non c’è bisogno di arrivare in Klondike o di visitare Pompei. E’ stato così entrare in un ospedale durante il periodo di “Lockdown stretto”, a Marzo 2020, ed è stato così tornare all’Università nel periodo estivo di quell’anno terribile, è stato così prendere il treno al mattino presto, in una Stazione Termini popolata solo di qualche “invisibile” e di qualche “vigilantes” schivo.
Una sensazione stranissima.
Del resto – pensai proprio su quel treno preso prestissimo – quei luoghi sono stati proprio creati per ospitare persone, e tante, hanno significato intrinsecamente “Antropico” e senza di loro, senza gli essere umani, ne sono snaturati. Sono luoghi che mantengono “tracce di vita” anche se lì di vita non ce n’è più. Se ne può sentire l’impronta, il segno del passaggio dell’essere umano, degli esseri umani. Forse è questo che mi colpisce molto: vedere il segno di quello che l’uomo riesce a fare per adattare lo spazio a sè stesso, a proprio uso e consumo. Mentre lo viviamo ci sembra “naturale”, funzionale per noi, e quindi non ne percepiamo gli effetti, così come quando camminiamo sulla spiaggia pensiamo a mettere un passo avanti all’altro e non pensiamo alle orme che lasciamo dietro di noi. Ma questi luoghi abbandonati sono delle enormi impronte che pian piano la natura ricopre, così come il mare fa sparire le orme sulla sabbia.

Confesso che ho sempre provato un grande fascino per questi luoghi abbandonati.

(Immagine dal Web)

Quando ci penso mi vengono in mente gli attraversamenti dei loro “confini”. Penso alle Reti o ai Muri da superare, passandoci sotto – sfruttando qualche buco nella recinzione – oppure sopra – stando attenti a non graffiarsi con il filo spinato o con i luccicanti cocci di bottiglia rotti impastati nel cemento – oppure attraverso. Sento ancora la sensazione dei mattoni, spaccati e sbrecciati, o di un pezzo di rete ricurvo, che mi graffiano il petto, la schiena, i fianchi, che lacerano la maglietta o i pantaloni. “Se ci passa la testa, poi ci passa tutto il corpo” mi dicevano i miei cugini che mandavano avanti me, il più piccolo, per incitarmi. Sento ancora la fatica e l’impegno di voler raggiungere quei luoghi, per poterli visitare, per poterci passeggiare dentro, per guardare attraverso i vetri delle finestre ormai opacizzati dal tempo. Per cercare di capire a cosa servissero i macchinari ormai decisamente obsoleti.

Oltre a questi luoghi fisici, a pensarci, ci sono poi anche luoghi dell’anima, luoghi che sono dentro la nostra anima e che – per qualche motivo – non frequentiamo più, non visitiamo più, eppure hanno lasciato una impronta dentro di noi.
Forse non li frequentiamo più per paura, forse perché presi dal tran-tran quotidiano, forse perché non più coerenti con quello che siamo diventati nel frattemppo. Anche questi luoghi – penso – a visitarli, daranno la stessa strana sensazione: costruiti nell’arco degli anni per ospitare persone, per ospitare voci, luci, per ospitare risate fragorose o lacrime silenziose. Luoghi con la propria “impronta antropica” dentro.

Così come per i luoghi fisici – con le loro stanze polverose, i loro saloni dai vetri rotti, le fessure delle mura dalle quali sparare con gli archibugi, i loro macchinari bloccati, le bobine antiche, i ganci sul soffitto – cerchiamo di capirne il significato, la funzionalità, cerchiamo di capire come camminassero gli uomini, come corressero i legionari sui camminamenti, come vivessero quegli spazi.

Ecco, dopo tanti anni ho capito che quella esortazione forse fisicamente non era proprio vera ma, “Se ci passa la testa, poi ci passa tutto il corpo” è proprio vero.

Se anche tu sei sensibile al fascino dei luoghi
abbandonati e nello stesso tempo sei cresciuto con i film western devi
assolutamente attrezzarti per questa esplorazione. Si parte per la California, sulla
Sierra Nevada, tra lo Yosemite National Park e il lago Tahoe. Siamo a Bodie,
per la precisione Bodie State Historic Park, quella che era una comunità
mineraria ai tempi della corsa all’oro. Dobbiamo percorrere una strada
polverosa, accidentata, lenta, lunga 20 chilometri fuori dalla State Highway
395, ma finalmente all’ingresso, dopo essersi imbattuti nel relitto di qualche  automobile d’epoca, troviamo una targa che
dice:

 “è
stato designato un landmark storico nazionale registrato secondo le
disposizioni dell’historic sites act del 21 agosto 1935. Questo sito possiede
un valore eccezionale nella commemorazione e nell’illustrazione della storia
degli Stati Uniti. Servizio dei parchi nazionali, dipartimento interno degli
Stati Uniti. 1963

Bodie

L’oro qui fu scoperto nel 1859 da W.S. Bodey,
da cui la città prende il nome. Una volta la metropoli più fiorente della
contea di Mono. Le miniere di Bodie produsse oro per il valore di più di 100
milioni di dollari. Duro come unghie. L’uomo cattivo di Bodie porta ancora
le sue pistole e il coltello Bowie nelle pagine della storia occidentale…
12settembre1964”.

Nel 1861 a Bodie fu fondato un mulino, nel 1876
si trasformò in un centro isolato di pochi ricercatori, per poi arrivare
nell’arco di pochi anni fino a quasi 10.000 abitanti e 2 mila fabbricati.
C’erano: la miniera sopra alla collina, due banche, diversi giornali, la
ferrovia, una prigione, una chiesa, un cimitero, le scuole, la palestra e
perfino un quartiere a luci rosse e contava ben 65 saloon. Nel 1880 la città
brulicava di famiglie, rapinatori, minatori, proprietari di negozi, pistoleri,
prostitute e persone di ogni parte del Mondo.

Le presse della città sformavano i lingotti che venivano trasportati alla zecca a Carson City o a San Francisco.

Ben presto però l’oro cominciò a scarseggiare, però, e la cittadina divenne sempre più pericolosa, con risse e omicidi a causa dei numerosi giocatori d’azzardo, ladri e gangster. Nacquero tra i saloon e i bordelli anche le case di malaffare, le sale da gioco e le fumerie d’oppio. Ogni sorta di intrattenimento per i minatori che cercassero dello svago dopo le dure ore in miniera o come consolazione per il lavoro che scarseggiava.  I giornali hanno riferito, come se fosse una sorta di leggenda, che i cittadini al mattino chiedessero “abbiamo un uomo per colazione?!” per sapere se quella notte ci fossero dei morti in città. La criminalità aumentava e a partire dai primi anni del ‘900 Bodie iniziò a spopolarsi.

Nel 1913 compare ancora sulle guide turistiche
come città mineraria, nel 1917 la ferrovia fu abbandonata, ma mantenne ancora
una modesta ma permanente popolazione fino al 1942.

Bodie, diventata sito storico nel 1963, si
trova ora in una condizione di Arrested Decay, ovvero decadenza
arrestata, nel senso che la piccola parte  (circa un centinaio di fabbricati)
sopravvissuta all’incuria e all’incendio del 1932, è stata conservata intatta,
congelata, con gli edifici e i loro rispettivi contenuti, come nel momento in
cui è stata definitivamente abbandonata, senza alcuna opera di restauro, ma
preservandola nel tempo.

Questa cittadina permette di fare esperienza
in maniera autentica ed evocativa delle atmosfere western e di immergersi nella
vita,  congelata dei suoi abitanti, a
cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Affacciandosi alle finestre delle
abitazioni sì può scorgere , oltre al mobilio, agli utensili e agli effetti
personali, anche le conserve abbandonate nelle credenze, i vetri rotti, i
detriti e tutto ciò che non ha rappresentato una priorità nel momento della fuga,
e tutto rigorosamente conservato sotto ad un importante strato di polvere. Un
luogo fantasma, abbandonato, ma non dimenticato perché in qualche modo riprende
un po’ vita negli occhi curiosi dei visitatori e negli scatti “rubati”
all’interno delle abitazioni. Sì ha quasi l’impressione che gli abitanti si
siano smaterializzati contemporaneamente, lasciando tutto lì, sotto il sole
cocente e sotto quel cielo esageratamente blu per condividere con noi il loro
affascinante e colorato mondo.

PEPPINO DI CAPRI
CARISCH
N° Di Catalogo: VCA 26125
Stampato in: ITALIA
Data: 24 Novembre 1960
Rarita’: COMUNE
Quotazione: euro 4,00 / 7,00
Qualità Grafica Della Copertina: 7

NOTE
EVENTUALI
:
La incredibile popolarità, lo stratosferico successo di un personaggio come
Peppino Di Capri. Questo suo singolo, così come tanti altri, uscì con varie
copertine diverse ed in tempi differenti, pur restando nell’ambito del periodo.
Solo di questa copertina ne esistono almeno quattro varianti! Comprese
riedizioni con copertina fotografica differente. Ma era inevitabile. Chi non ha
amato all’epoca questo straordinario mescolatore di sonorità americane ben
infarcite di atmosfere fortemente italiane e speziate con sapiente gusto dello
splendido mare campano? Meriterebbe un monumento un personaggio di tal fatta, e
non è detto che, a mia insaputa, mentre scrivo esista già un qualcosa di
simile. Totalmente meritato; sottoscriviamo in
toto
.

LATO
A:

Che Vita (Cenci – Lepore)

ACCOMPAGNAMENTO: I Rockers

QUALITÁ
ARTISTICO MUSICALE
: Discreta

Che vita è una delle canzoni che
fu utilizzata come colonna sonora del simpaticissimo film Mariti in pericolo (ancora non abusato dalle TV che trasmettono 500
volte lo stesso vecchio film), pellicola interessante e gioiosa di Mauro
Morassi, con un cast di sicuro interesse: Sylva Koscina, Franca Valeri, Mario e
Memmo Carotenuto, Pupella Maggio, Dolores Palumbo e altri vari. La canzone
diciamo pure che non è tra quelle che fanno saltare dalla sedia con entusiasmo.
Però è appunto adatta e concepita per la pellicola che la contiene; un cha-cha-cha che non pretende di
entusiasmare ma promette comunque momenti assolutamente spensierati;
immancabile l’apprezzato assolo del sax di Gabriele Varano (‘the best saxman in the world’ sentenziò
Peppino!) e impeccabile, come d’uopo, la lettura vocale del Faiella-Di Capri. Rivedetevi
il film, riascoltatevi la canzone e vi troverete immediatamente catapultati in
quel mondo, purtroppo ormai di fiaba, che tanto abbiamo amato in gioventù…   

LATO
B:

Tu sei l’orizzonte (Lojacono – Testa)

ACCOMPAGNAMENTO: I Rockers

QUALITÁ
ARTISTICO MUSICALE
: Ottima-

Capita, lo
sappiamo bene, che a volte la pietra più radiosa sia relegata sul lato B di un
singolo anziché sul suo lato più nobile. Se si cercassero conferme di questa affermazione,
eccovi subito un esempio indiscutibile. Tu
sei l’orizzonte
è davvero una bella canzone, concepita in slow terzinato di una semplicità estrema
e che, proprio per questo, sorprende in maggior misura. Una melodia dolce e
lasciva che si insinua tra le note di un giro armonico semplicissimo e quindi
ancor più difficile da offrire spunti vistosi di grandezza. Anche qui Varano ci
infila il suo irresistibile sax, restando nel motivo conduttore ma, chissà
perché, sempre bello, simpatico e innovativo. La voce di Peppino fila via via
che è una bellezza, fino all’acuto finale che ti mette addosso una maledetta
voglia di riascoltare per la millesima volta la canzone. Un pregio che solo le
belle melodie sanno trasferire nell’animo di chi sa ascoltare; un Peppino Di
Capri che offre una precisa e solida concezione del suo genere più abituale.  

Cosa determina un abbandono?
Io personalmente non so come descriverlo, ma ho trovato nella mia memoria un monologo scritto da Alessandro Baricco che lo racconta attraverso le parole del suo personaggio Novecento.

(copertina del libro “Novecento” – Feltrinelli)

Non voglio “spoilerare” nulla del libro, ma vorrei farvi conoscere solo un minimo chi stia “parlando”: Novecento è un pianista. Un pianista che accompagna le traversate lunghissime dei passeggeri di una nave che attraversa l’oceano. Un personaggio che vive tra le persone seppur rimanendo in completo isolamento.

Vale la pena leggere questa opera di Baricco, piena di poesia, piena di riflessioni sulle cose che cambiano e una lettura intima di come si vive la vita. Questo tempo che scorre e che viviamo.

Ma lascio lo spazio a Novecento:

“A me m’ha sempre colpito questa faccenda dei quadri.

Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran.

Non c’è una ragione.

Perché proprio in quell’istante? Non si sa. Fran.

Cos’è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C’ha un’anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un’ora, un minuto, un istante, è quello, fran.

O lo sapevano già dall’inizio, i due, era già tutto combinato, guarda io mollo tutto tra sette anni, per me va bene, okay allora intesi per il 13 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d’accordo, allora buonanotte, ‘notte.

Sette anni dopo, 13 maggio, sei meno un quarto, fran.
Non si capisce.

È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto.

Quando cade un quadro. Quando ti svegli un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi che è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio.

Quando, in mezzo all’Oceano, Novecento alzò lo sguardo dal piatto e mi disse: “A New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave”. Ci rimasi secco. Fran.”

@Lavizzari Donatella

Mi piace immaginare un mondo senza guerre, violenze ed ingiustizie.
Utopia? Il mio è un sentimento istintivo, un sentimento che mi abita.

Penso che l’ARTE, in tutte le sue forme, sia ancora in grado, anche in modo indiretto, di cambiare il mondo.
La CULTURA unisce il mondo.
Smettiamola di essere indignati e cominciamo a “disturbare”.
Come ha scritto Gian Paolo Serino, le bombe di carta e le molotov d’inchiostro sono le armi migliori per tentare di sconfiggere non solo dittature ma anche regimi democratici dove informazione e comunicazione sono ridotte a favole.
Il vero senso di una favola non é quello di creare dei lettori volta pagina ma dei lettori consapevoli.
Perché il vero senso di una favola non é farci vedere che esistono i draghi ma farci comprendere che i draghi si possono combattere.

E a quelli che mi chiedono come, rispondo con le parole pronunciate nel 1975 da Giorgio Strehler, durante la manifestazione celebrativa del trentennale della Resistenza, al Piccolo di Milano: “Come si può sconvolgere un costume, un modo di essere, mutare il grande gioco della politica, diciamolo pure, la grande miserabilità umana […]?
Ebbene, poco si può fare da soli ma molto insieme alle altre forze che esistono, che ci sono e che sono accanto a noi.
Le forze di quelli che lavorano e lottano per un mondo migliore.
E noi accanto a loro. Non siamo pochi né soli.
Soltanto restando legati come tentiamo, come tenacemente vogliamo agli altri uomini che non vogliono continuare a esistere in questa “pregevole” marea, in questa nebbia di memoria turpe che troppo ci circonda, in questo costume antico di compromesso, viltà, egoismo e tanto altro, anche noi piccola comunità teatrante possiamo aiutare il movimento della storia.

INSIEME RESISTIAMO AL ‘BUIO’, ALLA NON DIALETTICA VISIONE DEL MONDO.

@Lavizzari Donatella

Voglio ringraziare tutti gli ARTISTI e gli AMICI che hanno aderito con le loro meravigliose opere a IMAGINE PEACE e a MASTERS OF WAR.

In primis, grazie a Fulco Pratesi e a Bruno Bozzetto, Ambasciatori del Pianeta Terra, che dimostrano sempre una grande disponibilità e generosità nei miei confronti.

Un grazie speciale

a Marco De Angelis, attento scrutatore del mondo, per il suo sguardo ironico, schietto, a volte poetico, a volte tagliente;

a Alberto Fortis, Poeta visionario e Ambasciatore Unicef, per il suo costante impegno a livello sociale e umanitario;

A Riccardo Azzurri, Poeta e Spirito libero, per la sua grande sensibilità e l’intensa attività nel sociale, a tutela delle fasce più fragili;

a Gianfranco D’Amato, per la preziosa testimonianza resa con la partecipazione all’Odissea della Pace, una carovana guidata dal Vescovo ortodosso Avondios Bica, per portare aiuti in Ucraina e per il recente viaggio intrapreso, insieme ad altri volontari, per portare in Italia alcuni profughi.

Dedico a tutti quanti voi la Poesia “Il Silenzio“, che ritengo sia una delle più belle scritte da Pablo Neruda.

https://youtu.be/B62MqNGIaiU

ELENCO INTERVENTI E CONTRIBUTI

Fulco Pratesi Homo Sapiens

Bruno Bozzetto Il seme della guerra

Marco De Angelis Wartime

Alberto Fortis Siamo tutti piccoli istanti di UN enorme Firmamento

Riccardo Azzurri Ferma la guerra!

Giuseppe Afeltra alias Peppafè Stop War!

Candido Baldacchino Guerra e Pace

Monica Bic Cara amica

Maurizio Biosa L’assedio

Maurizio Boscarol Il benpensante

Franco Buffarello Homo Sapiens? Homo Sapiens con Capinera

Francesco Cabras United Photographers for Ukraine

Virginia Cabras alias Alagon@alagooon Mettete dei fiori nei vostri cannoni

Marina Caccia In apnea. Manca il respiro

Virginio Carrobbio Dedicato a tutti i bambini

Carlo Casaburi alias Charlie Comics Pace – Black List – Anatomia

Piero Corva Stop the War

Gianfranco D’Amato L’Odissea della Pace
Il ponte di aiuti tra Italia e Ucraina
 
Alessandro Da Soller People Have the Power

Sergio De Agostini Vite rubate – S.O.S. al mondo

Alex Di Viesti e Marco Marsano Music for Peace

Cinzia Epis Anime in fuga

Cesare Gallarini 256 secondi, piovono bombe!

Carmine Cassese alias Gattonero Intelligenti

Nini Maria Giacomelli Homo Homini Lupus

Angelo Jelmini Forza Europa – Le bandiere di questa guerra

Kutoshi Kimimo L’atomica – Sangue freddo -L’aviazione russa

Francois Lapierre The Flag

Fabio Magnasciutti Evocando la pace

Pier Giuseppe Moroni War & Peace

Renato Orsingher Il fiore del silenzio

Giorgio Palombino & Barbara Cossu Society

Paolo Patruno Da qualche parte c’é luce

Pierpaolo Perazzolli Stop the War – No bombs on civilians – Save the Children

Ester Perin Sognavo per te una vita diversa

Ilaria Pregnolato e Igor Mazzone Imagine

Luca Ricciarelli Sanzioni – Neanderthal

Andrea Santanastaso Prime Pagine

Davide Scagno Accordi di Pace

Corrado Dado Tedeschi Dado e la Guerra

Alberto Fortis è un artista sensibile che nella sua densa carriera si è misurato con le molteplici forme della Poesia ed ha prodotto capolavori quali Il Duomo di Notte, La sedia di Lillà, Settembre, Milano e Vincenzo, La neña del Salvador, Sindone, Venezia, Do l’Anima,…
Con sedici album realizzati tra Italia, Stati Uniti e Inghilterra, un disco di platino, due d’oro e oltre un milione e mezzo di dischi venduti, annovera tra le sue collaborazioni artisti illustri come George Martin (produttore dei Beatles), la London Philarmonic Orchestra, PFM (Premiata Forneria Marconi), Claudio Fabi, Lucio Fabbri, Gerry Beckley (degli America), Carlos Alomar (produttore di David Bowie), Bill Conti, Guido Elmi e l’Orchestra Sinfonica Arturo Toscanini,…

Autore di libri di poesia (“Tributo giapponese”, “Dentro il giardino”, “A meno che…”) e del fumetto “Berty”, con la sua biografia “AL. Che fine ha fatto Jude?”, Fortis ha voluto raccontare il suo cammino non solo dal punto di vista artistico ma mostrando anche l’uomo impegnato nel sociale, Ambasciatore UNICEF, innamorato di cause umanitarie e sempre dedito alla ricerca spirituale.
Il suo è un universo fatto di Amore, Emozioni, Angeli, Arcobaleni e di “
Fragole infinite” che testimoniano una geografia dell’anima, un paesaggio interiore fatto di rara sensibilità.

Ciao Al, stiamo vivendo un momento storico molto buio dove le parole valore ed economia sono diventate sinonimi e questo in un certo senso riassume gran parte della violenza del mondo contemporaneo: un mondo dove, come afferma Alessandro Guerriero, le immagini fondative sono tutte di guerra.

Stiamo vivendo in un mondo che corre sempre più velocemente, dove la massimizzazione del profitto detta legge. Inoltre in un’economia basata sulla guerra, le entrate fiscali vengono spesso ridistribuite per sostenere lo sforzo bellico a spese di altri progetti di cui  una Nazione potrebbe avere bisogno.
Vedo uno scellerato match muscolare tra folli leader, che dovrebbero sfidarsi a duello anziché straziare la Vita dei propri simili, che, evidentemente, simili non considerano.

Dovremmo poter arginare questa
attitudine appartenente a molti leader, trovare una sorta di equilibrio.

Sicuramente, rispetto al
passato, alcuni aspetti sono migliorati ma ciò che sta accadendo in questi
giorni mi porta a pensare all’esistenza di un lato oscuro della forza che
sta alterando l’equilibrio e l’armonia cui dovrebbe tendere l’Universo. Non trovo
altre spiegazioni possibili.

Non riesco a comprendere perché
ci sia così tanto odio nei confronti dei propri simili.

Putin / Lord Voldemort a Poznan, in Polonia

Il desiderio estremo di potere porta a diventare esseri del cosiddetto lato oscuro, tema comune in letteratura, con le tentazioni incarnate in diavoli, streghe, serpenti, …, purtroppo lo vediamo troppo spesso rappresentato nella realtà, con quel restringimento di coscienza che porta a vedere le proprie azioni esenti da conseguenze su un sistema interconnesso.

L’ego può fare anche questo,
farci credere che siamo arrivati chissà dove e a chissà quali vette di potere. Quello
che viene fatto da una parte del pianeta si ripercuote anche sull’altra parte,
perché ogni cosa è connessa alle altre.

A quanto pare Putin vuole lasciare il segno come fece Pietro il Grande, riunendo i territori dell’antica Russia.
Ma nel frattempo le cose sono cambiate. E’ cambiato il mondo.

L’Ucraina si è europeizzata. La
comunicazione attraverso i vari media, l’uso dei cellulari hanno consentito in
parte al libero arbitrio di oggi. Medaglia che ha sempre due facce ma che comunque,
nel suo lato positivo, ha creato collanti nel tessuto sociale e ha determinato forti
prese di coscienza collettiva su molte tematiche.

Il grande dispiacere è che non
si sia realizzata la visione di un uomo illuminato come quella di Michail Gorbaciov,
visione di un rapporto Russia Europa ben diverso, con valori condivisi e ideali
di armonia. 

Putin, come Hitler, gioca con il DNA ucraino e russo.
Il murale si trova sotto la stazione di
Dnipro, in Ucraina

Gorbaciov richiamò per prima
cosa l’attenzione sui valori umani, universali in quanto tali, che avrebbero
dovuto divenire la nuova stella polare della politica dell’URSS, come di
qualunque altra potenza. Altro punto fondamentale, il riconoscere ed il
tollerare le diversità tra i vari nazionalismi.

Gorbaciov è stato un Uomo di PACE. Ha sempre ripudiato l’uso della forza come strumento di politica. E’ stato davvero un Uomo straordinario, anello tra tanti di un’unica catena che lega tra di loro tutte quelle Esistenze spese per la Pace ed il bene dell’umanità.
Cito per primo Gesù per proseguire con Mahatma Gandhi, Martin Luther King, i fratelli Kennedy, i Primi Ministri Istzak Rabin e Benazir Bhutto, i Giudici Falcone e Borsellino, John Lennon, Pier Paolo Pasolini e tanti altri.

Ritengo che tutte queste Persone siano state bandiere di Pace, che hanno condiviso una fine cruenta voluta da un vertice che non aveva capito che questo mondo potrebbe essere migliore e che così tutti potremmo celebrare il vero senso della Vita.
Siamo qui per questo, per celebrare la nostra esistenza.
Attraverso la testimonianza della loro Vita e del loro credo, continuano a trasmetterci quanto sia importante credere ai nostri piccoli-grandi sogni.

Eleonor Roosvelt diceva infatti
che il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni.

Sì, ognuno di noi ha il potere di trasformare piccole cose che poi possono portare ad un risultato inaspettato.
In un momento storico di profonda crisi come il nostro, la trasformazione diventa fondamentale.
Urge al più presto un cambiamento, un ripensamento, un colpo di coda che porti ad una riconfigurazione del sistema internazionale, con valori che diventino collante, i mattoni per costruire un new world order.

Io vivo con questa speranza. Molti sono stati gli sforzi in questa direzione ma il cammino è ancora lungo. Con questa ennesima guerra, ci svegliamo con le immagini di esplosioni, bombardamenti, morte e disperazione. Milioni di profughi, per la maggior parte donne e bambini. Nei loro volti dolore e speranza.
Una tragedia umana che colpisce profondamente i nostri cuori.

In questo agghiacciante scenario di sofferenza, una nota positiva sta nella risposta da parte dell’Occidente. E’ davvero encomiabile quello che sta accadendo: la catena di solidarietà, sia dall’Italia che dagli altri Paesi, è la risposta all’orrore di questa guerra.
Sono molte le Associazioni e le famiglie che offrono accoglienza e ospitalità ai profughi e che inviano aiuti in Ucraina. Un esempio è l’Odissea della Pace, ammirevole iniziativa capitanata dall’Arcivescovo Avondios Bica, a cui ha partecipato anche l’amico Gianfranco D’Amato.
Il suo convoglio é rientrato con 8 Profughi tra cui quattro bambini.
Avevamo tentato in poche ore di recuperare un Van o Camper per potermi unire alla Spedizione che prevedeva anche gli Amici Mario Furlan, Presidente City Angels e Rolando Giambelli, Presidente Beatlesiani D’Italia. Questo, purtroppo, non è stato possibile, ma ci sarà modo, oltre alle donazioni già effettuate, di contribuire alla Causa Umanitaria della Pace.
La guerra è l’antivita e chi la causa renderà conto alla VITA stessa.

https://youtu.be/5r-67-caEpE

Papa Francesco continua a lanciare appelli affinché si ponga fine a una guerra che definisce “un massacro insensato” per il quale non c’è alcuna giustificazione. Il 25 marzo  ha voluto consacrare l’Ucraina e la Russia al Cuore Immacolato di Maria. Evento spirituale a cui si sono uniti tutti i Vescovi del mondo.

Papa Francesco ha sottolineato che abbiamo dimenticato la lezione delle tragedie del secolo scorso, il sacrificio di milioni di caduti nelle guerre mondiali e, soprattutto, stiamo tradendo i sogni di pace dei popoli e le speranze dei giovani.
Le piazze europee chiedono, con grande forza, la pace, ma la ferocia degli scontri in Ucraina non sembra diminuire. Putin ha ancora un seguito molto accorato e convinto. Basti pensare alla dichiarazione del Patriarca Kirill, Capo della Chiesa Ortodossa, che giustifica e sostiene la guerra in quanto crociata contro “la lobby gay” occidentale!

Putin non prende in considerazione l’opinione pubblica, non crede che si possa ribaltare lo status quo.  Secondo alcune fonti, la sua cortina di protezione non lo informa sullo stato reale della situazione ma gli dicono unicamente quello che lui vuole sentirsi dire.
Da un’analisi di un inviato che vive a Kiev, Putin ha sempre considerato l’Europa come un territorio debole, che può essere ‘comprato’.
Fondamentale sarebbe capire quali siano le intenzioni del leader cinese
Xi Jinping, perché questo condizionerà l’ago della bilancia.
Se dovessimo sommare tutto quanto è capitato in questi ultimi tre anni di pandemia, la visione di questa ennesima guerra mi appare come un’orribile ciliegina su un’altrettanto orribile torta. 
La speranza è che si arrivi presto ad un accordo.
Non posso non pensare alle vittime di questa guerra. Continuo a vedere bambini uccisi e ospedali bombardati: tutto questo è inaccettabile.

Concordo con te in toto e voglio in questo contesto ricordare il discorso tenuto dal Dott. Gino Strada nel corso della cerimonia di consegna del “Right Livelihood Award 2015”, il “premio Nobel alternativo“.

https://youtu.be/lUot4EHauEk

“….. Mi è occorso del tempo per accettare l’idea che una “strategia di guerra” possa includere prassi come quella di inserire, tra gli obiettivi, i bambini e la mutilazione dei bambini del “Paese nemico”.
Armi progettate non per uccidere, ma per infliggere orribili sofferenze a bambini innocenti, ponendo a carico delle famiglie e della società un terribile peso. 
Ancora oggi quei bambini sono per me il simbolo vivente delle guerre contemporanee, una costante forma di terrorismo nei confronti dei civili.
Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di circa 1200 pazienti per scoprire che meno del 10% erano presumibilmente dei militari.

Il 90% delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. È quindi questo “il nemico”? Chi paga il prezzo della guerra?

….. Ogni volta, nei vari conflitti nell’ambito dei quali abbiamo lavorato, indipendentemente da chi combattesse contro chi e per quale ragione, il risultato era sempre lo stesso: la guerra non significava altro che l’uccisione di civili, morte, distruzione. 

La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra.

La maggiore sfida dei prossimi decenni consisterà nell’immaginare, progettare e implementare le condizioni che permettano di ridurre il ricorso alla forza e alla violenza di massa fino alla completa disapplicazione di questi metodi. La guerra, come le malattie letali, deve essere prevenuta e curata. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide il paziente.

Il rispetto per la Vita, la nostra e quella di tutto ciò che ci circonda, è segno di civiltà. Purtroppo, secondo Antonio Guterrez, segretario generale dell’ONU, in alcune situazioni ci stiamo avvicinando ai peggiori scenari ipotizzati dagli scienziati, con conseguenze per le persone e per tutti i sistemi naturali che ci sostengono.

C’è da preoccuparsi seriamente del rapporto che l’umanità ha con il Pianeta. E’ uno scenario a dir poco deplorevole quello della specie umana.
L’uomo può essere paragonato ad un animale che lotta e prevarica l’altro per la conquista di territori.
Non c’è granché ora che mi faccia ridere e forse un po’ tutti preferiamo scrivere al telefonino perché inconsciamente ci piace di più pensare che non conserveremo ricordi e testimonianze di un’epoca che tutto sommato avvertiamo disumana.
Come ha sempre sostenuto Gino Strada, ABOLIRE LA GUERRA E’ L’UNICA SPERANZA PER L’UMANITÀ.
Sono convinto che se l’Essenza del Femminino Sacro potesse avere più voce in questo mondo potrebbe quasi certamente decretare una società lontana dalle guerre, orrendo giochino voluto da tanti bimbi grandi, mai veramente cresciuti..
Continuo a essere fortemente convinto che se le guerre si facessero con duelli tra “capi di Stato” ce ne sarebbero molte meno, o nessuna.
Tutto è sempre risolvibile senza ricorrere ad una guerra, ma l’uomo idiota ha bisogno di quel malato e perverso meccanismo personal/sociale per soddisfare voglia atavica e disturbata di prevaricazione e di leadership.
Si creano fatturati nazionali giganteschi per comprare armi per poi espandersi: per andare dove? Stai a casa tua, uomo stupido e pensa a fare del bene e, se mai, a esportare del bene.
Così conquisterai il bene più alto: la Stima, il Rispetto e la Collaborazione altrui nel caso di bisogno.
Siamo tutti piccoli Istanti di UN enorme Firmanento.

Caro Al, purtroppo, ‘L’UOMO IDIOTA’ non è dotato del basik kit intelletto + cuore, né di coscienza, ‘muscolo’ che per funzionare bene andrebbe tenuto costantemente allenato.
‘L’UOMO IDIOTA’ soffre di una malattia peggiore dell’immoralità: l’amoralitá, la totale indifferenza, ed è per questo che molti hanno l’arroganza di mostrarsi tali, con protervia e veri e propri deliri di onnipotenza…

courtesy by Bruno Bozzetto

“Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta.
Alla sua gestione. All’umanità che ne scaturisce.
A costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati.
A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo.
In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del successo, dell’apparire, del diventare…
A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde. E’ un esercizio che mi riesce bene. E mi riconcilia con il mio sacro poco.”

Pier Paolo Pasolini

La crudeltà sugli animali è il tirocinio della crudeltà sugli uomini” (Ovidio)

“Sono animalista, buddista, non violento. Ritengo che ciascuno di noi debba impegnarsi nel proprio piccolo per lasciare il mondo un po’ meglio di come lo ha trovato perché “chi salva una vita, salva il mondo intero”.
Walter Caporale, fondatore, presidente e legale rappresentante dell’associazione Animalisti Italiani (anno di nascita 1998), da oltre quarant’anni è impegnato a diffondere nel nostro paese una cultura basata sul rispetto del diritto alla vita di tutti gli esseri viventi, uomini e animali, contro ogni forma di violenza, sfruttamento e prevaricazione. Un impegno partito da adolescente e che inizia a concretizzarsi nel lontano 1987 quando presenta ed ottiene l’approvazione della legge 281/91 sul randagismo, che ha abolito l’uccisione dei cani randagi nei canili dopo tre giorni dalla cattura.

(Foto dell’Ospite)

Consigliere direttivo nazionale della LAV dal 1989 al 1994, direttore italiano dell’IFAW (Fondo Internazionale per la Protezione degli Animali) fino al 1998, rappresentante italiano della PETA (People for the Ethical Treatment of Animals) la più grande associazione animalista al mondo. Ha fatto parte del comitato di redazione della rivista animalista “Impronte”, autore del libro “La crudeltà non è chic”, prima guida italiana per il movimento antipellicce, curatore di copertine ed interviste per il “Venerdì” di Repubblica, promotore, insieme ad altre associazioni e parlamentari di ogni orientamento politico, della nuova legge contro l’abbandono ed il maltrattamento degli animali, che li ha finalmente considerati soggetti di diritto: per la prima volta viene introdotta la reclusione per chi uccide o sevizia animali. Le più recenti iniziative vedono Animalisti Italiani impegnati per la l’aiuto ed il sostegno agli animali provenienti dall’Ucraina e nella raccolta firme, che scadrà il prossimo 31 agosto, per chiedere all’Unione Europea una conversione in favore dei metodi alternativi alla sperimentazione animale (Europa senza vivisezione – Save Cruelty Free Cosmetics). 

Abbiamo intervistato Walter Caporale per i lettori di Condivisione Democratica. 

(Foto dell’Ospite)

L’associazione animalisti italiani compie 24 anni, tante le battaglie affrontate e vinte, gli animali vengono finalmente considerati soggetti di diritto e per la prima volta viene introdotta la reclusione per chi uccide o sevizia animali. Perché è stato così difficile affermare ciò che dovrebbe essere riconosciuto universalmente e spontaneamente?
“La radice del problema sta nello specismo ossia in quella discriminazione – indifendibile ed antiscientifica – in base alla specie (quella umana superiore a quella animale) che è parente stretta della discriminazione in base alla razza e al genere. Nonostante anni di battaglie animaliste ancora oggi gli animali, malgrado l’evoluzione legislativa, continuano ad esseri mezzi a disposizione dell’uomo e non veri soggetti di diritto. Basti pensare alle attuali normative vigenti concernenti l’uccisione e maltrattamento degli animali (legge 189/2004, artt. 638 e 727 c.p.), compiuti con crudeltà e senza necessità che prevedono pene inferiori ai quattro anni  e la sospensione della pena o addirittura del processo, chiedendo in prima battuta l’istituto per la messa alla prova che dà luogo appunto, in caso di esito positivo della prova, all’estinzione del reato.
Le norme ci sono ma vanno indubbiamente riviste in termini di aumento della pena e in merito alla parte lesa: l’animale va considerato in quanto essere senziente di per sé. Per questo da tempo raccogliamo firme, durante i nostri stand informativi e tramite il nostro sito www.animalisti.it, per la petizione finalizzata a chiedere un inasprimento delle pene in proporzione ai reati commessi. Speriamo che qualcosa cambi realmente grazie al recente inserimento della tutela degli animali in Costituzione. Mettiamoci in testa che siamo tutti inquilini dello stesso palazzo: esseri umani, animali, piante”.

(Foto dell’Ospite)

Chi è violento con gli animali è predisposto ad essere violento anche con gli altri “deboli” della società, anziani, bambini o portatori di handicap, leggiamo tra le pagine dell’associazione. Cosa la porta ad affermare questo parallelismo?
“Quando è stata inaugurata la statua di Snoopy, il cane ucciso a Livorno da un colpo di fucile, alla sua base è stata impressa, appunto, la frase di Publio Ovidio Nasone, il poeta latino vissuto tra il 43 a. C.  e il  17 d. C.: “La crudeltà verso gli animali è tirocinio della crudeltà contro gli uomini”. È impressionante constatare, come già secoli fa, la correlazione tra violenza sugli animali e violenza sugli umani fosse una certezza. Riconoscere che la violenza sugli animali è sintomo di predisposizione alla violenza sui più deboli della società è per noi un’evidenza, dal momento che abbiamo constatato sul campo casi concreti in cui il colpevole aveva precedentemente commesso atti di violenza su esseri umani. La percentuale più alta di tali abusi l’abbiamo rilevata proprio tra le mura domestiche.  Gli studi che riguardano la cosiddetta zooantropologia della devianza sono vastissimi e partono da un assunto fondamentale: la violenza sugli animali è spia di pericolosità sociale. Riconoscere che essa rappresenti un preciso segnale di un possibile futuro comportamento antisociale, è il primo passo per poter cambiare la cultura nei confronti dei crimini sugli animali”.

L’associazione ha come mission quella di opporsi ad ogni tipo di violenza, sopruso ed abuso nei confronti degli animali: dalla caccia alla vivisezione, dai maltrattamenti di animali all’abbandono, dal randagismo agli allevamenti intensivi, dalle pellicce agli zoo, dai circhi e dai delfinari alle manipolazioni genetiche. In quali di questi argomenti avete trovato maggiore resistenza e perché?
“Indubbiamente vivisezione, allevamenti intensivi e caccia, perché attorno ad essi ruotano gli interessi economici, difficili da contrastare, delle lobbies più potenti”.

(Foto dell’Ospite)

Alla radice di molte tra queste situazioni da voi fortemente combattute ci sono enormi interessi economici e la battaglia si fa ancora più dura e complessa. Qual è stata la realtà più drammatica che siete riusciti a smascherare rendendola pubblica?
“Era il 22 maggio 2017, quando 22 macachi utilizzati dal CNR per la vivisezione, vennero salvati e trasferiti, dopo una battaglia durata ben 4 anni, dal Centro ENEA Casaccia (RM) al Centro di Recupero Natuurhulpcentrum Wildlife Rescue ad Oudsbergen in Belgio grazie all’operato degli Animalisti Italiani, all’impegno e alla strenua determinazione con cui si è portata avanti una lotta fatta di molteplici attività: manifestazioni, blitz, conferenze, azioni legali e politiche, campagne di sensibilizzazione.Il Centro ricerche Casaccia a Cesano, vicino Roma, dell’Imri (Istituto Nazionale di Metrologia delle radiazioni ionizzanti) – Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), come emerso dalle nostre investigazioni, deteneva circa 120 macachi allevati, sottoposti a esperimenti e smistati presso altre strutture. Di questi, 65 macachi dopo la sperimentazione erano rimasti chiusi, come vecchi oggetti inutilizzati, negli stabulari, anziché essere affidati a un’oasi o a un centro di recupero. Per questo presentammo subito esposto alla Procura della Repubblica di Civitavecchia. Passarono 4 lunghi anni, prima di riuscire a salvare quelle povere creature tenute in gabbia senza motivo. Riuscire a restituire loro la libertà, ha ripagato ogni nostro sforzo”. 

In questi ultimi anni pare ci sia una maggiore sensibilità verso argomenti animalisti, quali sono i dati e cosa emerge in modo più diretto?

“Le numerose campagne animaliste hanno sicuramente contribuito a sensibilizzare i cittadini, in particolare, sullo sfruttamento degli animali e sulla loro salvaguardia sotto diversi punti di vista. Nello specifico, il tema della produzione e dell’utilizzo delle pellicce, e quindi dell’allevamento di animali a questo scopo, ha trovato negli italiani, un’opposizione quasi plebiscitaria (l’83% dei cittadini secondo i dati Eurispes è contrario): tant’è che finalmente, complice anche la pandemia, gli allevamenti di visoni sono stati chiusi definitivamente. Sicuramente è aumentata anche la sensibilità verso il problema dei cambiamenti climatici i cui dati parlano da soli: secondo le previsioni scientifiche il riscaldamento globale di 1,5°C e 2°C sarà superato durante il corso del XXI° secolo a meno che non si verifichino nei prossimi decenni profonde riduzioni delle emissioni di CO2 che sono state le più alte degli ultimi 2 milioni di anni. Ormai nessuno ha più dubbi sul fatto che siano in atto importanti mutazioni nel clima del Pianeta di cui siamo tutti direttamente responsabili”.

Macchine, oggetti, mezzi a disposizione dell’uomo, incapaci di ragionare solo perché non hanno capacità di parola. Gli animali, ancora oggi sono così considerati. L’argomento è anche culturale. Come si fa a sconfiggere determinazioni così fortemente radicate nell’essere umano?
“La sensibilizzazione e la corretta informazione producono il cambiamento culturale che serve per formare, in primis, le nuove generazioni al rispetto degli animali e dei più deboli”. 

La logica è fondamentalmente quella dell’essere superiore ed inferiore. Quella umana su quella animale, quella bianca sulle altre, quella maschile su quella femminile. Si ha bisogno di trovare una giustificazione per lo schiavismo, lo sfruttamento del debole, lo sterminio. Nel corso degli anni avete ampliato molto le vostre battaglie diversificando anche gli argomenti. Non c’è il rischio di perdere l’identità?
“È un rischio che siamo pronti a correre ben volentieri. L’identità è una soltanto ed il messaggio è forte e chiaro. Dobbiamo superare il concetto di superiore ed inferiore in qualsiasi ambito ed attraverso argomentazioni semplici, lineari, sane e corrette. Uno studio inglese di qualche anno fa (università di Cambridge) ha dimostrato come i bambini che rispettano gli animali saranno adulti migliori. Un animale educa alla diversità ed alla differenza, dimostrando al bambino che esistono altri esseri viventi meritevoli ed in grado di offrire molto dal punto di vista affettivo. I bambini che imparano a rispettare gli animali sviluppano una capacità empatica che li porta a leggere e comprendere le emozioni ed i comportamenti altrui, proprio perché allenati fin dalla più tenera età all’osservazione di un essere vivente che è portatore di bisogni fisici ma anche psicologici da interpretare e da rispettare. L’attenzione, la comprensione e la compassione per tutti gli esseri viventi dovrebbero essere al primo posto negli intenti educativi dei genitori. Potrebbe sembrare assurdo che occorrano studi, progetti educativi, iniziative di sensibilizzazione a scuola, dialoghi nel nucleo familiare, parentale e amicale, per far arrivare un messaggio che appare quanto mai naturale, evidente ed intuitivo, eppure è esattamente così e per quanto possa anche stupire per certi versi, noi continuiamo a trattare l’argomento in ogni sua, anche evidente, fattispecie. Le modalità possono essere innumerevoli. Ciò che a noi interessa è il risultato e siamo disposti ad impiegare sempre più tempo, risorse ed energie per concretizzare la reale e concreta difesa e tutela del più debole”.

(Foto dell’Ospite)

Qual è stata la vostra più recente vittoria?
“La nostra più recente vittoria è il divieto, con la Legge di Bilancio 2022, degli anacronistici e pericolosi allevamenti da pelliccia, veri e propri lager per gli animali. L’Italia è così diventata un Paese più civile e cruelty-free, collocandosi come il ventesimo Paese europeo che ha introdotto tale divieto. Una scelta etica che non solo rispetta la vita degli animali, esseri senzienti proprio come noi, ma previene il diffondersi di spillover e zoonosi tutelando la stessa salute collettiva. Animalisti Italiani ha contribuito, nel corso degli anni della sua attività, sia attraverso la consegna di oltre 150.000 firme al Parlamento per la sospensione degli allevamenti di animali da pelliccia che mediante numerosissime battaglie sul campo: manifestazioni, presidi e blitz non sono mai mancati, ad esempio, durante la settimana della Moda a Milano. Mani insanguinate, fischietti e cartelli con volpi, visoni ed il volto di donne bellissime che seguono la moda senza indossare pellicce, come Pamela Anderson e l’indimenticabile Marina Ripa di Meana ci hanno aiutato a sensibilizzare sulla necessità di una moda cruelty-free.

Un’altra importante vittoria che ci sta particolarmente a cuore è quella relativa al salvataggio di 4 delfini del Delfinario di Rimini a cui è seguita la successiva condanna del suo Direttore per maltrattamento di animali e la chiusura definitiva del delfinario. Dal 2013 Animalisti Italiani è al centro di una lunga e importante battaglia legale che abbiamo sostenuto avvalendoci della rappresentanza legale dell’Avv. Michele Pezone per tutelare il diritto alla vita di Lapo, Alfa, Sole e Luna, i 4 delfini protagonisti di questo caso giudiziario che subivano forme di maltrattamento costante, soprattutto a causa di una sistematica ed inappropriata somministrazione di calmanti e di ormoni. Si tratta di un caso unico in Italia: per la prima volta nel nostro Paese è stata portata avanti un’inchiesta approfondita su una vicenda di maltrattamento di delfini. Di certo è una sentenza storica, come è avvenuto per Green Hill, utile affinché si comprenda la fondamentale importanza della tutela non soltanto fisica, ma soprattutto psicologica ed etologica degli animali”.

Ci spieghi come avviene il processo, in tutte le sue fasi, per portare avanti le vostre campagne di sensibilizzazione.
“Lavorare in gruppo ci aiuta a far fluire le idee che evolvono grazie al confronto, ma soprattutto partendo dalle criticità quotidiane segnalate dai volontari che operano sul territorio, a stretto contatto con gli animali, oltre che dall’analisi del contesto generale. Si prende spunto anche dalla rassegna stampa quotidiana e dai testi di legge per individuare i temi più caldi relativi alla tutela degli animali. Da qui, si fa uno screening degli obiettivi da raggiungere e si decide il focus della campagna da realizzare. In concomitanza all’utilizzo di tutti gli strumenti di comunicazione classica (volantini, eventi, spot, media) ci avvaliamo del supporto di vip e influencer per amplificare maggiormente il messaggio anche sui social, divenuti il luogo virtuale più frequentato dal popolo del web. È un lavoro accurato, di fino, molto coinvolgente per la squadra ed efficace per il risultato finale”.

I suoi riferimenti sono Martin Luther King, Nelson Mandela, San Francesco e Madre Teresa di Calcutta. Ai giovani mancano riferimenti importanti e decisivi per l’orientamento delle loro scelte e molti non hanno una conoscenza approfondita, a volte neppure superficiale, di nomi così fondamentali per il nostro progresso, la nostra libertà e la nostra cultura. Cosa ne pensa?

“Ormai è luogo comune dire che i giovani siano spenti e privi di riferimenti culturali importanti. Spesso commentando il comportamento di molti di essi (forse in modo anche un po’ troppo semplicistico), si afferma che i ragazzi di oggi non hanno più valori, non hanno nulla in cui credere, non hanno nessun interesse vero all’infuori del divertimento. No, non è così: cerchiamo di vedere il bicchiere mezzo pieno. I giovani traboccano di buoni valori, di energie, di voglia di fare e di desiderio di affermazione, diversi fra loro ma simili per tenacia e grinta e capaci di trasmettere tanti messaggi positivi. Si pensi a Greta Thunberg e al movimento Fridays For Future”.

La vita non si compra, si adotta. Combattere il commercio degli animali a favore della loro adozione consapevole. Perché l’essere umano ha “necessità” di acquistare animali di razza, belli, costosi e a volte addirittura anche rari?

“Alcuni esseri umani cercano di appagare il proprio ego distorto attraverso finte necessità che gli producano una soddisfazione apparente, ma che in realtà non fanno altro che evidenziare un enorme vuoto esistenziale. “La vita non si compra, si adotta” è lo slogan del nostro ultimo spot televisivo, andato in onda sulle reti Mediaset dal 20 al 26 febbraio, realizzato insieme a Cuori in Corsa, il primo Moto Club animalista d’Italia rappresentato da Giacomo Lucchetti, motociclista battagliero in pista quanto nella lotta per difendere gli animali. Abbiamo unito le forze per trasmettere un messaggio importantissimo: combattere il commercio degli animali, a favore della loro adozione consapevole. Gli animali non sono merce da acquistare in negozio, ma vite preziose da accogliere e amare per sempre. Per questo è fondamentale adottare nei canili e nei rifugi e non comprare. Solo così facendo li rispetteremo e non ruberemo una possibilità di adozione ai cani, chiusi in un canile, che tutti i giorni sognano una vita migliore”.

Con il progetto “Animal care” avete avviato una campagna di sterilizzazioni gratuite interamente finanziata dagli Animalisti Italiani. Quanto è grave ancora oggi il problema del randagismo e dove è maggiormente diffuso?
“Il randagismo è una piaga endemica: ancora molto diffuso nel nostro Paese, soprattutto nel Mezzogiorno dove, sebbene si percepiscano segnali di miglioramento, il fenomeno resta grave. Sono stimati in 600 mila i cani randagi in Italia e più di 2 milioni e mezzo i gatti. Vagano per le strade in cerca di cibo, riparo, una carezza. Nella sola città di Roma, dove è partito il nostro progetto pilota “Animal care”, sono oltre 13.000 i cani randagi. Secondo i dati pubblicati sul sito del Ministero della Salute, aggiornati al 31 dicembre 2020, gli ingressi dei cani nei canili della Capitale sono stati 8.240, 5.085 nei rifugi, 6.050 i cani dati in adozione e 7.323 i gatti sterilizzati. Tali numeri si “arricchiscono” continuamente di nuovi abbandoni, delle cucciolate dei privati, in molti casi lasciate negli scatoloni vicino ai cassonetti e della prole frutto degli accoppiamenti dei randagi che, per ogni femmina non sterilizzata, danno luogo fino a 300 nuovi cani in 2 anni. Così è un fenomeno tutt’altro che raro quello di residenti dei quartieri che spargono veleno nei parchi e nelle zone di riparo di tali animali per risolvere in modo delinquenziale una piaga che nasce per un comportamento a sua volta irresponsabile di alcuni cittadini e per l’inerzia delle amministrazioni deputate al controllo del fenomeno. “Animal Care” è una risposta concreta a tutto questo: contrastare il randagismo attraverso le sterilizzazioni”.

Animalisti Italiani ha aderito all’iniziativa Save Cruelty Free Cosmetics, per chiedere all’Unione Europea una conversione in favore dei metodi alternativi alla sperimentazione animale. Entro il 31 agosto 2022 bisogna raccogliere un milione di firme. Ci spieghi meglio gli obiettivi e ci dia qualche dato concreto sugli esperimenti condotti sugli animali. 

“Molte persone non sanno che i test cosmetici sugli animali sono ancora consentiti nell’UE ai sensi della legislazione sulle sostanze chimiche industriali. Nei test richiesti dall’Agenzia Europea per le sostanze chimiche, migliaia di ratti, conigli e altri animali sono costretti a ingerire o inalare ingredienti cosmetici, causando loro immense sofferenze prima di essere uccisi. In alcuni test, centinaia di conigli femmina vengono alimentati forzatamente durante la gravidanza prima di essere uccisi e sezionati insieme ai loro cuccioli non ancora nati. I marchi di cosmetici corrono il rischio di essere costretti a partecipare a test sugli animali con la conseguenza che non sarebbero più esenti da crudeltà o in grado di commercializzarsi come tali. È essenziale proteggere il divieto di sperimentazione animale sui cosmetici e il diritto dei consumatori ad acquistare prodotti cruelty-free. Pertanto, attraverso l’iniziativa Save Cruelty Free Cosmetics, una volta raggiunto l’obiettivo della raccolta di 1 milione di firme, potremo chiedere alla Commissione europea di consolidare tale divieto e la transizione verso metodi di valutazione della sicurezza senza l’impiego di animali.
Nello specifico proporremo di adottare i seguenti provvedimenti: precedenza allo sviluppo e alla convalida di metodi non basati sulla sperimentazione animale nel bilancio dell’UE e nelle nuove politiche generali, quali il Green Deal europeo, la strategia in materia di sostanze chimiche sostenibili e i piani per la ripresa post-COVID, riorientando i finanziamenti dagli studi sugli animali ad alternative altrettanto valide. Vogliamo modificare la legislazione per proteggere gli animali, i consumatori, i lavoratori e l’ambiente affinché in nessun caso e per nessun motivo gli ingredienti cosmetici siano sperimentati sugli animali. L’obiettivo è trasformare il regolamento UE sulle sostanze chimiche e impegnarsi per una proposta legislativa, pur riconoscendo la direttiva 2010/63/UE, che metta a punto una tabella di marcia per la progressiva eliminazione della sperimentazione animale nell’UE prima della conclusione dell’attuale legislatura”.

Molti ed importanti i ruoli da lei rivestiti in oltre quarant’anni di attività. Una dedizione assoluta e totale che non l’ha mai distratta dall’obiettivo principale della sua vita: il rispetto, il riconoscimento e la nonviolenza. Come si forma in modo così radicato e profondo un essere umano?
“Con l’empatia, la solidarietà, la compassione. Ma soprattutto mettendosi sempre nei panni dell’altro, prima di giudicare e/o condannare. Avevo 14 anni quando ho iniziato a lavorare per i diritti degli animali, dopo aver visto come venivano uccisi i cani nei canili pubblici. Bisogna informarsi, comprendere, vedere, vivere alcune situazioni, osservare non solo con gli occhi, e già quello basterebbe, interrogarsi su cosa ci sia veramente dietro facciate di comodo e di business. Il diritto alla vita e l’assenza di sofferenza inutile, ingiustificata, illegittima sono “emozioni” che ognuno di noi dovrebbe riservare all’altro, oltre a noi ci sono le vite degli altri ed ogni loro respiro dovrebbe essere importante per noi quanto il nostro”.

Il problema è sociale, politico, economico e culturale. Coinvolge molte fasce argomentative differenti ed ognuna di queste con un potere diverso. Non ha mai pensato fosse una impresa titanica? Ha mai avuto momenti di sconforto che potessero portarla a rinunciare?
“Cui prodest? Le sconfitte aiutano a crescere e a vincere nel lungo termine le battaglie più dure, anche quelle che sembrano impossibili. Davide ha sconfitto Golia. A chi giova farsi sopraffare da sentimenti ed emozioni negative? Sapevamo dall’inizio che nulla sarebbe stato facile o comodo o immediato, d’altronde quella che ci accingevamo a fare non era una battaglia semplice ed anche gli interlocutori non erano sempre così ben predisposti all’ascolto. Nulla o quasi ci ha mai colto di sorpresa e di conseguenza il probabile eventuale sentimento di delusione ed amarezza era qualcosa che conoscevamo bene prima ancora di cominciare ma questo non ci ha impedito di procedere a passo veloce e sicuro. Quando si è certi di fare del bene non ci si può permettere fasi di inattività dovuti a risultati che tardano ad arrivare, così come critiche, delegittimazioni. Ciò che facciamo è ciò di cui questa società ha bisogno e noi dobbiamo esserci con tutte le nostre forze”

Ci parli dei volontari, una forza lavoro fondamentale in questa attività.
“Ad oggi abbiamo 15 sedi locali sparse in tutta Italia che sono in continua crescita. I volontari rappresentano l’anima dell’Associazione Animalisti Italiani: la loro dedizione e passione è linfa vitale per gli animali. Senza il loro prezioso supporto giornaliero per la realizzazione dei progetti volti alla salvaguardia di ogni specie e di tutela diretta dei quattrozampe abbandonati, abusati, randagi, presenti sul territorio nazionale, non potremmo andare avanti”. 

Sostenere una buona causa si può. I buoni propositi si possono trasformare in azione concreta con un piccolo gesto di generosità. Attraverso t-shirt, tazze, felpe dell’associazione si possono fare donazioni per sostenere questa battaglia. Le iniziative si diversificano costantemente ma l’obiettivo rimane fermare la sofferenza di tutti gli animali. C’è un riscontro concreto a queste iniziative ed in che misura?
“Si assolutamente, il riscontro è positivo. Ovviamente si tratta di modi diversi per avvicinare e incuriosire le persone al fine di coinvolgerle nella causa animalista. Cerchiamo di sostenere autonomamente le spese per mantenere a vita gli animali che abbiamo salvato: non solo cani e gatti, ma anche pecore, caprette, agnellini, cavalli, asini e maialini di cui ci prendiamo cura e a cui vogliamo garantire un futuro sereno. Attraverso questi piccoli gesti di generosità riusciamo a portare avanti le nostre attività. Le donazioni sono fondamentali per ogni associazione di volontariato”.

Abbiamo avuto modo di leggere della vostra presenza anche nell’ambito della salvaguardia degli animali coinvolti nell’attuale conflitto tra la Russia e l’Ucraina. Un impegno molto importante. Come vi siete organizzati?
“Ci siamo attivati per donare alimenti per gli animali provenienti dall’Ucraina rendendo la nostra sede centrale un punto di raccolta cibo e organizzando una serie di stand, i cosiddetti “Gazebo per la pace”, a Piazza del Popolo a Roma, al fine di incrementare la raccolta cibo. Il 2 aprile, in occasione dell’Assemblea Nazionale degli Animalisti Italiani, provvederemo a consegnare non solo il cibo raccolto, ma anche quello acquistato direttamente da noi. Un piccolo modo per dare il nostro aiuto in questa situazione drammatica”.

Quali sono i prossimi obiettivi di Animalisti Italiani?

“Lasciare il mondo un po’ migliore di come l’abbiamo trovato”.

Animalisti Italiani

Via Tommaso Inghirami 82, 00179 Roma – tel. 06/7804171 – email news@animalisti.it 

Sito internet www.animalisti.it 

pagina Animalisti Italiani su Facebook, Instagram e TwitterLink pagina web – raccolta firme “Europa senza vivisezione” scadenza 31 agosto 2022 – https://eci.ec.europa.eu/019/public/#/screen/home

Mai come oggi nella società della comunicazione, viviamo immersi nei simboli o, meglio nei simulacri, come ben teorizzò nel suo trattato Jean Baudrillard (Simulacri e Simulazione del 1981), che costruiscono una realtà attraverso la quale “leggiamo” la nostra esistenza. I simulacri sono le gabbie semiotiche della società dei consumi che abitiamo e che costituiscono i nostri orizzonti di senso. Nello stadio della post-modernità in cui viviamo, il simulacro precede la realtà, redendo insignificante qualsiasi concetto di “originale” o di idea, annullando la distinzione tra realtà e rappresentazione, sostituendola con la simulazione

Siamo oltre l’opposizione di idea e realtà sensibile, di originale e copia, siamo ormai nella copia della copia, anzi nel regno delle copie e delle rappresentazioni fini a sé stesse.

Possiamo disquisire sulle molteplici cause, sicuramente sempre più legate alle dinamiche del dell’espansione dei media, della globalizzazione, della fine delle ideologie e del capitalismo multinazionale, di società sempre più individualistiche e atomizzate ma, sicuramente, il tema dell’ apparenza è sempre più centrale nel nostro tempo, dominato dall’incertezza, dall’insicurezza e dall’angoscia esistenziali. Condizioni dell’umano che ci sono da sempre, esplorate fin dall’antichità dal pensiero filosofico, a partire dalla divaricazione tra essere e divenire, oggi, più che mai, amplificate dal flusso assoluto che ci risucchia e rende tutto di difficile lettura e comprensione.

Conférence : quel avenir pour le cinéma en relief ? (Binocle 3D) - 3DVF
(Immagine dal Web)

Da un lato c’è infatti il moltiplicarsi dei simulacri che vedono sempre di più i media coinvolti nella costruzione di senso, dall’altro la perdita di ancoraggio dell’Io a punti di riferimento valoriali.

Prima con i reality show poi in modo estensivo con i social, si è messa in campo in modo estensivo  la messa in scena di sé. Possiamo definirci attraverso i profili con identità multiple, in grado di rappresentarci secondo quello che desidereremmo essere o, come vorremo essere visti dagli altri, il che acuisce quel processo di diffrazione dell’Io e di dissociazione esistenziale quali fenomeni già in atto da tempo con l’avvento della post-modernità, che ha ridefinito nuove forme della soggettività.

Emblematico in tal senso il Pirandello di Uno, nessuno e centomila con la cessazione da parte del personaggio principale dei contrasti tra l’Io ed il mondo e la “rinuncia” a quest’ultimo. 

Venezia Maschera Mascherare - Foto gratis su Pixabay
(Immagine dal Web)

Interessante l’interpretazione della filosofa Barbara Carnevali sulla “libertà della maschera” che può essere vista da un lato come gioco di “sperimentarsi”, in tema tra l’altro con il periodo di carnevale inteso come parantesi e sospensione dei ruoli sociali, con una fondazione estetica che si ricollega alle esperienze rinascimentali e barocche; dall’altro come possibile esigenza di anonimato per ripararsi dal lato “pubblico” a cui si è esposti nelle società attuali o all’occhio del “potere” (si pensi ad esempio alla dissimulazione di libertina memoria o alle esperienze di “identità condivisa” del movimento anonymous).

Alla liberazione dell’Io moderno e a queste sue forme, riconducibili anche alla condizione umana, resta in tutta la sua problematicità la ricerca dell’autenticità e di un rinnovato rapporto con il mondo che non può non passare per la veridicità delle relazioni con l’Altro e la ricerca di una propria originarietà e di una soggettività profonda che si rapporta anche con la trascendenza. 

Chiarificazione esistenziale, educazione, riconoscimento dell’altro, dovrebbero essere le dimensioni culturali per la crescita personale e collettiva, per contribuire anche a quel passaggio, attraverso la partecipazione ed recupero degli spazi sociali e di vita associata, dalla rappresentazione ad una vera rappresentanza anche nella dimensione politica.

Gianfranco D’Amato (penultimo a da destra) con gli amici volontari che hanno partecipato a questa seconda Odissea della Pace.

Sono più di 70.000 i profughi ucraini arrivati in Italia dall’inizio della guerra, per la maggior parte donne e bambini. Non trovo le parole per poter descrivere le storie di chi ha perso tutto, dalla casa, alla famiglia, al lavoro, ed è fuggito dalle zone di guerra, scampando alla morte.
Sui loro volti si leggono paura, dolore e profondo smarrimento.
Non sanno come andrà a finire questa triste vicenda, non sanno quando e se rivedranno i propri cari, la propria patria.
Molti di loro hanno varcato il confine, ma sono rimasti sulla linea di frontiera, con la speranza di potere tornare nelle loro città. Ma la guerra sta dettando legge e allontana un popolo dalla sua Terra.
Tutto questo è inaccettabile.
Sono molte le missioni umanitarie in atto che stanno consegnando in Ucraina i beni di prima necessità, i medicinali, e che stanno portando in salvo migliaia di persone, senza poter contare sulla solidità dei corridoi umanitari.
Prezioso è l’impegno dei volontari che partecipano con grande volontà e tenacia a queste spedizioni.
Impegno che continua anche al rientro in Italia con la messa in campo di progetti di prima accoglienza, assistenza, inserimento e integrazione, grazie ad una fitta rete di contatti e alla disponibilità di molte famiglie italiane.
Queste imprese, queste storie di solidarietà e speranza, meritano di essere raccontate.
Ne parlo ancora una volta con Gianfranco D’Amato, reduce da pochi giorni dalla sua seconda “
Odissea della Pace” in Ucraina.

Ciao Donatella, abbiamo deciso di fare questo secondo viaggio quando, la volta scorsa, arrivati con i 16 convogli di aiuti al confine tra la Romania e l’Ucraina, abbiamo deciso di portare con noi in Italia alcuni profughi.
Laggiù abbiamo visto tantissime mamme con i loro bambini e siamo riusciti a portare in salvo una ventina di persone.
Non eravamo andati laggiù con quell’intento, ma visto che nel frattempo alcune famiglie si erano rese disponibili all’ospitalità, lo abbiamo fatto.

Rientrati
in Italia abbiamo ben ragionato sulla questione, avendo più chiara la
situazione che avremmo trovato in quei luoghi, e ci siamo organizzati per
tornare laggiù, con criteri totalmente differenti.

Siamo ripartiti venerdì 25 con 4 van. Eravamo in nove, per darci il cambio alla guida, e abbiamo caricato questi mezzi all’inverosimile, con scatoloni di viveri, medicine e altri beni di prima necessità.
A differenza dell’altra volta avevamo già una rete di contatti tramite l’Associazione di ex universitari di Villa San Giuseppe, a cui appartengo, e inoltre avevamo i nominativi delle famiglie disposte ad ospitare i vari profughi. Voglio sottolineare che le famiglie coinvolte sono tutte di persone amiche o appartenenti a questa Associazione, in modo da garantire maggior sicurezza e controllo.
La destinazione finale è stata il Piemonte, perché il nostro Collegio di studi è collocato a Torino.
Una signora ucraina che vive a Milano, Mariya Tatarenko, che già ci aveva aiutato con la prima spedizione, è stata il fulcro di questa missione.
Senza di lei non saremmo potuti partire. Ci ha dato molti suggerimenti e i numeri di telefono per individuare chi potesse avere bisogno del nostro aiuto e, cosa più importante, ci ha messo in contatto con Anna, la responsabile del centro di accoglienza di Zamosc, sul confine tra Polonia e Ucraina, meta del nostro viaggio.

https://youtu.be/Kro_Is7zFE0

Quello di Anna è stato l’aiuto determinante. Sono stato in contatto con lei per giorni interi, per individuare le persone da portare in Italia, già attese dalle famiglie dei nostri amici.
Arrivati al centro profughi, Anna ci ha accolti come se ci conoscessimo da una vita. Grazie a lei e al suo instancabile lavoro siamo riusciti a portare in Italia 19 profughi ripartiti con noi a bordo dei van. Con loro anche due cani e un gattino.

Quando eravamo a Zamość ci siamo impegnati al massimo per riportare più gente possibile, anche se il tempo a nostra disposizione era poco.
Eravamo riusciti a recuperare 16 persone e grazie all’intervento di Maryia, a Cracovia, si sono aggregate al gruppo altre tre, tra cui due anziani di Mariupol che avevano perso la loro casa ed erano stati tratti in salvo dalle macerie. Erano terrorizzati! E’ stato molto difficile convincere questi ultimi, perché erano talmente disorientati che facevano fatica a fidarsi e ad affidarsi. Ma alla fine, siamo riusciti a convincerli, assicurando loro che li avremmo accompagnati personalmente dalla famiglia che li avrebbe accolti.

Gianfranco D’Amato con i due coniugi di Mariupol

Abbiamo accompagnato la piccola Evelina dal centro profughi di Zamość a Rivoli, da Mario e la sua meravigliosa famiglia. Con lei, la mamma, la nonna e l’inseparabile cagnolino.
A destinazione ha trovato un altro amico a quattro zampe e ha subito festeggiato il suo compleanno con una meravigliosa torta decorata con la bandiera ucraina.

Mille auguri Evelina!

Gianfranco D’Amato

Il gruppo di volontari del Comune di Segrate

“La generosità è un’onda che trasforma un piccolo gesto in un grande progetto: voglio ringraziare tutti coloro che hanno cooperato per la riuscita di quest’impresa con le donazioni, con il lavoro fisico, con ogni genere di mezzo e risorse. Non da meno è stato l’interesse del mondo del web, con molti influencer e personaggi che hanno lavorato con i volontari e hanno condiviso l’iniziativa in rete per farla conoscere”.

Arcivescovo Avondios Bica

Il progetto Odissea Della Pace – IL TUO AIUTO PER L’UCRAINA è nato per iniziativa di Avondios Bica, Arcivescovo della Chiesa Ortodossa di San Nicola al Lazzaretto a Milano, e di alcune organizzazioni di volontari dell’hinterland milanese e rappresentanti delle istituzioni comunali, che hanno sospeso le proprie attività per dedicarsi completamente a questa importante causa umanitaria, portando sostegni alla popolazione ucraina colpita dalla guerra.
All’inizio del mese di marzo, é partita da Milano una lunga carovana composta da 16 tir, che dopo due giorni di viaggio senza sosta, ha consegnato oltre 150 tonnellate di beni di prima necessità direttamente in territorio ucraino. Venerdì 18 marzo è partita una seconda staffetta destinata a sostenere le strutture di accoglienza dei profughi e gli orfanatrofi dell’Ucraina
L’Odissea della Pace è una delle tantissime iniziative di solidarietà nate in tempo record grazie alla partecipazione di moltissimi volontari e al contributo di molti personaggi famosi e influencer, che con i propri canali social hanno amplificato questa lodevole iniziativa, sensibilizzando e coinvolgendo così centinaia di cittadini che si sono presentati la notte prima della partenza per aiutare a caricare i tir. Tra questi ultimi, voglio ricordare Paolo Stella, Diego Passoni, Sirio, Victoria Cabello, Nilufar, Dario Head, Clementina Coscera, Alessandra Airo, Andrea Serafini, Nike Martens, Frank Gallucci, Giulia Gaudino, Davide Patuelli, Ana Laura Ribas, Federico Figini, Benedetta Piola, Angelo Cruciani, Tommaso Zorzi, Tommaso Stanzani, Edoardo Mocini.
Un grazie speciale va a Event Management srl., alla Ditta Capozi che ha messo a disposizione camion e tir per il trasporto di viveri e farmaci, alle Associazioni Cleanbusters, Milano SoSpesa e Noah, alla Parrocchia cattolica di San Gerolamo Emiliani, al Comune di Milano zona 3, ai Comuni di Pieve Emanuele, Assago, Basiglio, Opera, Siziano, Rozzano, Gambolò e Segrate.

Tra i molti volontari di questa lodevole impresa c’é anche Gianfranco D’Amato che da Segrate si è unito al convoglio e ha tenuto il diario di bordo della spedizione.

Ciao Gianfranco, ci vuoi raccontare questa toccante esperienza?

Ciao Donatella, tutto é iniziato a febbraio con un sms di un amico, mentre stavo trascorrendo qualche giorno in montagna. Il messaggio diceva che a Segrate stavano facendo una raccolta per aiutare la popolazione ucraina e che avevano intenzione di pubblicare un volantino per coinvolgere le persone a donare cibo, vestiti e medicinali.

Un gruppo di persone era in contatto con la Chiesa Ortodossa di Milano e insieme siamo riusciti a raccogliere una incredibile quantità di aiuti.
Il Comune di Segrate ci ha destinato degli spazi per il deposito e man mano che arrivavano le donazioni, i volontari ci aiutavano a smistarle e a inscatolarle.
Col passare dei giorni, eravamo decine e decine di persone a gestire tonnellate di roba. E la cosa meravigliosa è che tutto è nato per caso. Nulla è stato programmato a tavolino.

A Cascina Commenda, sono stati giorni massacranti a lavorare fianco a fianco con decine di persone che avevano lasciato tutto per dedicarsi all’emergenza.
C’era un fiume di gente che arrivava per donare l’inimmaginabile, ognuno portava quello che poteva e i bambini, in prima fila, regalavano i loro giocattoli per i bambini ucraini
Sono state raccolte tonnellate di beni di prima necessità.
Abbiamo trascorso ore a cercare mezzi e risorse, a pianificare, a sincronizzare meccanismi e programmare azioni, compiti per i quali generalmente servono settimane di tempo.
Qualcuno ha deciso di scatenare una guerra, noi a Segrate, come tanti altri in tutto il mondo, abbiamo risposto così.

La sensazione di vivere in un luogo in cui la gente risponde con tanta generosità a un’emergenza non ha davvero prezzo!
Da quando ho ricevuto il primo messaggio sull’iniziativa, è stato un diluvio di comunicazioni, adesioni, richieste di partecipazione.
C’è tanta gente per bene che, oltre a esprimere un’opinione netta contro la guerra, ha deciso anche di darsi da fare. Si è messa in moto una macchina che sta creando un incredibile effetto domino. Sono orgoglioso di appartenere alla comunità segratese, che in questo drammatico frangente reagisce così.

E’ stato un lavoro estenuante concentrato in soli 4 giorni. E’ davvero incredibile quante persone si sono fatte in quattro per raccogliere, raggruppare, inscatolare, etichettare, trasportare migliaia e migliaia di pacchi.

Sì Donatella, io li ho definiti gli angeli di Segrate.
Appena abbiamo iniziato la raccolta, avevo chiesto al mitico Nunzio Brognoli, leader indiscusso di questa estenuante attività durata quattro infiniti giorni, di raccogliere TUTTI i nomi delle fantastiche persone che hanno lavorato ininterrottamente. Sono così tanti che qualcuno è certamente sfuggito. Tra loro e con loro l’Associazione Nazionale Carabinieri e i volontari della Protezione Civile di Nunzio. Questi, uno per uno, i loro nomi:
Nunzio Brognoli, Claudia Delissandri, Giulia Di Dio, Martina Paiè, Carmelo Alacqua, Mara Altomare, Giovanni Valore, Cornelia Bonfanti, Mario Sormani, Vitale Loto, Sabrina Casiroli, Grazia Santalucia, Maurizio Borgato, Corrado Luppi, Vanda Tubia, Guido Coltivato, Anna Maria Paci, Ornella Paci, Annamaria Legrottaglie, Enrica Mezzella, Giuliana Lusso, Silvia Milesi, Demetrio Russo, Gabriele Gazzoli, Fabrizio Giaccon, Lara Giaccon, Sestica Molle, Alessandro Andreoli, Liba Shevchenko, Mariella Bolchi, Andrea Bertani, Piera Ompi, Carmelo Alacqua, Angelo Nicoli, Ombretta Pizzera, Giouliana Lusso, Mary Pizzera, Alina Thompson, Federica Cazzaniga, Alessia Gandini, Anna Carriero, Dario Giove, Andrea Belloni, Filippo Goldoni, Mucchi Facchinetti, Celeste Facchinetti, Silvia Vitali, Giuseppe Ferrante, Maria Antonietta Romanoni, Elisa Bragagnolo, Paolo Casati.

Nel contesto di una situazione confusa e difficile in cui stanchezza e stress si accumulavano, questa è stata innanzitutto una squadra fenomenale di amici, unita da uno scopo comune.
Una vera macchina da guerra, in moto per l’unica guerra che noi riconosciamo, quella a difesa della solidarietà.

L’Arcivescovo Avondios Bica prima della partenza del convoglio

Il 4 Marzo vi siete ritrovati al punto di raduno per la partenza, a Milano.

Sì, abbiamo recuperato 5 mezzi di trasporto e con altri volontari di Segrate ci siamo uniti alla carovana guidata dall‘Arcivescovo Avondius Bica, che aveva scelto come tappa di partenza lo spazio esterno della Ditta di trasporti Capozi, a sud di Milano.
Un’organizzazione incredibile! Ogni mezzo era meticolosamente incolonnato e aveva sul fianco la scritta ‘aiuti umanitari per l’Ucraina’.

La coda al confine tra Romania e Ucraina

https://youtu.be/wHLzyjwP_HI

https://youtu.be/Hkx9ron87G8

https://youtu.be/XwSPjbGJ5CY

Sapevamo che il luogo di destinazione era al confine tra Romania e Ucraina, e che al nostro arrivo, avremmo avuto dei contatti grazie all’Arcivescovo Bica.  Alcuni aiuti li avremmo dovuti lasciare al confine e altri li avremmo dovuti portare oltre confine, a 35 km, in una cittadina in Ucraina.

Noi non abbiamo attraversato il confine e ci siamo fermati al campo profughi, dopo un viaggio da incubo attraverso la Romania.
Mentre in Slovenia e in Ungheria ci sono autostrade, in Romania ci sono strade dove non puoi superare gli 80 km orari. Abbiamo impiegato 32 ore per arrivare a destinazione!

Al campo profughi c’erano tantissimi volontari e Rumeni che lavoravano assiduamente. Avevano in braccio bambini ed era impressionante il flusso continuo degli arrivi di mamme e bambini.
La temperatura era a meno 3 e nevicava copiosamente.  
C’era un brulichio, un fermento di umanità difficile da descrivere se non ci si trova in mezzo. 

https://youtu.be/y1fNGzclAXs

Alcuni rappresentanti di associazioni di volontariato, con cui eravamo in contatto, ci hanno trovato da dormire in una canonica perché tutti gli alberghi erano pieni.  Tutta la città era strapiena. 
Tutto era improvvisato e senza programmazione.  

Chi era in possesso di passaporto poteva oltrepassare il confine.
Alla dogana c’erano controlli molto severi ma alla fine le merci sono state portate in territorio ucraino.
Noi volevamo sapere a chi sarebbero state destinate e sono state perciò scaricate insieme ai rappresentanti della
Protezione Civile Ucraina.

I pacchi venivano spostati da un camion all’altro.  Alcuni di noi sono saliti sui loro camion e hanno raggiunto la Chiesa del Vescovo ucraino per scaricarli personalmente nei magazzini, per monitorare il tutto ed essere certi che le merci arrivassero alle parrocchie ucraine.
In questo modo, abbiamo seguito l’intero flusso delle merci.

E’ stata una grande prova questo viaggio.

Abbiamo dormito 10 ore in 4 giorni.  
Abbiamo viaggiato 1 giorno e mezzo senza sosta.
Qualcuno ha dormito nei TIR e poi alla mattina prestissimo siamo andati al confine dove abbiamo trovato la situazione che ti ho descritto.  
Poi rientrati, siamo tornati al campo profughi per vedere se qualcuno poteva venire con noi, sui 15 mezzi che avevamo a disposizione.
Questa azione é stata fatta con molta cautela. 
Perché é indispensabile conoscere il luogo preciso della loro destinazione e devono essere in possesso di documenti in regola altrimenti in Ungheria non possono entrare.

Noi del gruppo di Segrate abbiamo portato in Italia 8 profughi e altri 12 sono stati accolti sugli altri mezzi.
Dei nostri, Veronica, la più piccolina (solo un anno d’età), é stata accompagnata a Bergamo
insieme ai suoi giovanissimi genitori e ad un’altra mamma con il suo bambino. 
Con me e l’amico Michele Romanelli, hanno viaggiato Olga e le sue due figlie: Anastasiia e Ksenia. rispettivamente di 4 e 9 anni, scappate da una città vicino ad Odessa.
Per tutto il viaggio abbiamo comunicato con Google translator e Olga ci ha raccontato che i suoi genitori avevano perso la casa sotto i bombardamenti mentre suo marito e suo fratello erano rimasti a combattere.  Lei era riuscita a fuggire con le figlie e voleva raggiungere a Catania la sorella. 
La cosa bella è che queste bambine, nonostante l’orrore vissuto in Ucraina, hanno giocato, riso e dormito durante tutto il viaggio verso l’Italia.   

Gianfranco D’Amato sul Van insieme a Olga, Anastasiia e Ksenia

Sono stati molti i momenti emozionanti.

Tutto il viaggio lo è stato.
Un momento molto bello è stato quando il segratese
Nunzio Brognoli ha raggiunto il convoglio con la macchina della Protezione Civile e, superandolo, lo ha guidato fino in Ucraina.

E’ stato molto toccante vedere la piccola Veronica in braccio ai suoi genitori, vedere lo sguardo di Olga e delle sue due bambine.

Ti senti responsabile di queste vite.

La piccola Veronika in braccio al padre

Con Olga ci siamo scambiati tantissimi messaggi per sapere del loro arrivo in Sicilia. Purtroppo, appena arrivate, le cose si sono un po’ complicate.
Pare infatti che non possano essere ospitate da sua sorella
Nadia e inoltre, per poter ottenere i documenti da rifugiati, debbano rimanere per qualche tempo in una struttura religiosa a Ragusa, dove si trovano attualmente.
Si spera che prossimamente possano tornare a Catania, vicino a
Nadia.

Mi stanno contattando in tanti per questa vicenda: ma noi non abbiamo fatto niente di particolare. 
Quando abbiamo visto in tv quello che stava accadendo ci siamo semplicemente alzati dal divano.

Alla fine, si tratta solo di alzarsi e di fare.
Prendi un van e, invece di fare un viaggio, vai laggiù.

Raccolta fondi di Ioan Bica : L’Odissea della Pace: il tuo aiuto per l’Ucraina! (gofundme.com)

Venti di guerra e tentativi di pace. La chiesa cattolica è punto di riferimento per chi prova a proporre un trattato che possa assicurare pace anche in questo difficile conflitto, ma già da tempo, già prima che scoppiasse questo conflitto in seno all’Europa, il Sommo Pontefice aveva proposto di mettersi in cammino per la pace, parlando di chi si impegna a costruirla la pace.

Per parlare di questo incontro Vittorio Gruzza che è uno di quei “Portatori di Pace” che Papa Francesco a chiamato nella chiesa.

Trentino, classe 1980, laureato in Giurisprudenza all’università degli studi di Trento. Dopo aver lavorato per 10 anni nell’industria del gaming occupandosi di compliance aziendale a 360°, dal 2018 è analista finanziario indipendente. Oggi risiede a Roma dal 2011 con la sua famiglia e da quasi due anni fa parte dell’equipe pastorale della parrocchia San Giovanni De La Salle, costituita in risposta al progetto di Papa Francesco per rinnovare e riformare la Chiesa.
Interessi: macroeconomia e finanza, musica e trekking. In generale “cercare di far del bene ed essere utili, laddove si può”.

(Foto dell’Ospite)

L’azione avviata in tutte le diocesi, in tutte le parrocchie è partita da diversi mesi: «Tutti siamo chiamati ad essere costruttori di pace», ha detto il Santo Padre. Ma che vuol dire effettivamente essere Costruttori di Pace?
Personalmente credo che essere “costruttori di pace” significhi essenzialmente essere portatori unilaterali e senza impegno di perdono, disinteresse, ascolto e semplicemente amore. Tutto gira intorno a questa parola. Saper amare è chiave fondamentale per portare la “pace”. Quella vera, quella che tocca il cuore e sa accogliere e placare il mare mosso che ognuno di noi porta dentro, inevitabilmente.

Il Papa ha invitato tutti i fedeli nell’occasione del Mercoledì delle Cenerdì a partecipare ad un momento di Digiuno e di Preghiera per la Pace, per percorrere ogni sforzo possibile. La Quaresima inizia proprio sotto venti di guerra. Che sforzi si possono fare? Serve la Preghiera?
Credo che la cosa giusta da fare sia mettersi a disposizione per quel che si necessita, a cuore aperto. Dire “io ci sono, se serve sono qui” e tenere gli occhi e le orecchie attenti per cogliere queste occasioni. Tuttavia, davanti ad eventi tragici come una guerra, credo che purtroppo le cose da fare che possano effettivamente controbattere alla drammaticità che un tale evento scatena nelle persone che la vivono, siano ben poche. E’ un aiuto, non è un rimedio. C’è un passo del Vangelo in cui Gesù ci dice che se pregassimo con fede avremmo il potere di ordinare alla montagne di spostarsi. La Madonna più volte ci ha ricordato in questi anni che la preghiera ha la forza di fermare le guerre e le leggi naturali. Per quanto tutto questo possa sembrarci lontano dalla materialità del nostro mondo, Io ci voglio credere.  Quante volte abbiamo sentito che la vita di un essere umano è stata salvata da una cosa invisibile come una parola detta al momento giusto? La preghiera è uguale. Viaggia con “parole” scaturite dal cuore dell’uomo che vanno a bussare alla porta del cuore di Dio, nostro Padre. Oggi crediamo ad ogni cosa ci venga propinata sia in tv che alla radio senza minimamente verificare spesso le fonti. Credo sia giunto il momento di credere anche alla Parola di Dio.

(Immagine dal Web)

Mi ha molto colpito vedere l’immagine del Cristo messo in sicurezza dai cittadini, quando hanno difficoltà a mettere in sicurezza loro stessi. Come se quel Cristo fosse effettivamente parte delle proprie vite, delle proprie identità.
E’ un immagine che insegna molto su ciò che può contare davvero nella vita delle persone. E’ una preghiera fatta con le mani e con il corpo. E’ un voler dire al mondo “stiamo perdendo tutto ma non siamo disposti a perdere la nostra fede e la nostra speranza”. Ci sono poche parole secondo me per carpire la profondità di questo gesto ed anche la sua disperazione. Ma il sapore ultimo che provo nel guardarla, non è certo di disperazione, semmai di coraggio, forza e fede. Grande esempio.

La guerra in Ucraina ci ha riportato alla mente situazioni fosche che hanno sconquassato l’Europa e che abbiamo sentito dai nostri nonni – come la Seconda Guerra Mondiale – oppure abbiamo visto nell’ex-Jugoslavia ma che abbiamo pensato relegata ad un momento storico particolare e irripetibile. E invece già l’Ucraina è stato territorio di guerra 8 anni fa. Come si fa ad assicurare la pace? E si può assicurare la pace?La pace si fa nel momento in cui si rinuncia a pestare i piedi al tuo prossimo per trarne un vantaggio. Al di là di posizioni geopolitiche o storiche, peraltro rilevanti, il fondamento di tutto questo sta ancora una volta, nel cuore. Non può esserci pace tra gli uomini se nel cuore dell’uomo ci sono altri idoli. Purtroppo basta guardarsi intorno per capire che oggi, qui, su questa terra, dal teenager che “posta” un video su Instagram e che fa del numero dei suoi follower la sua ragione di vita fino ad arrivare alla banca centrale di qualche paese che dietro la scusa della stabilità economica e dei prezzi opera in modo discutibile attraverso certe politiche monetarie, ciò che conta è il potere, il denaro e il controllo. Finché gli dei saranno questi, non avremo mai vera pace.

(Foto dell’Ospite)

Nel mondo ci sono tanti e tanti teatri di guerra, non solo l’Ucraina. Il Santo Padre si è speso molto per quei territori abbandonati. Ricordo con toccante commozione il gesto umilissimo, con il respiro affaticato di un uomo anziano, che chiede di mantenere la Pace, davanti ai leader del Sud Sudan, sbigottiti e colpiti. Perché la pace non è solo da costruire ma è anche da mantenere, da custodire.
(NdR: questo è il momento al quale ci riferiamo, avvenuto ad Aprile 2019 https://www.youtube.com/watch?v=ZMl_Wf-0jmE)
Assolutamente si. La pace è un dono prezioso e santo. E come ogni cosa santa il demonio ce la vuole distruggere, rubare e portar via. E’ nostra responsabilità mantenere la pace donataci da nostro Padre in cielo, un giorno alla volta, con le nostre libere scelte. Sapendo di essere figli imperfetti e fratelli lunatici. Fa parte del gioco esserlo. L’importante, è avere ben chiaro la sacralità di ciò che la pace contiene e genera.

Lei, Vittorio, coordina un gruppo di una parrocchia a Roma e si spende in prima persona per questo obiettivo che è decisamente immenso. Non si sente un pò una goccia in un mare in burrasca?
Io, insieme a mia moglie Nadia, abbiamo solo dato il nostro piccolo “si”, come altri dell’equipe pastorale e certamente, sono meno di una goccia. Anzi io non sono nulla. Ma il mio nulla è sufficiente nelle mani di Colui che risorge i morti, di Colui che dà la vista ai ciechi e che guarisce gli ammalati. Se penso alla possibilità che Dio, possa usarmi anche per pochi secondi della mia esistenza per agire o toccare il cuore del mio prossimo che non a caso ho davanti, quanto, come e dove dice Lui, mi basta per essere in pace. Alla fine siamo solo strumenti. Tutti noi. Ma come dicevo prima, quando Dio opera credo lo faccia rapidamente. Pochi secondi per resuscitare un morto e ancor di meno per guarire un sofferente.
Bastano pochi secondi per fare del bene. Lasciamo decidere a Lui, il quanto, il dove e il come.

Mi sembra che tutti noi siamo prigionieri in un tempo che scorre, allo stesso momento veloce e lentissimo.
Prigionieri di una nostra condizione di “sospensione” al di là del tempo.
Rileggo questo numero del nostro giornale, ché è anch’esso uno strumento per leggere il tempo che trascorre, come fosse un orologio, e così passiamo dal Carnevale alle notizie relative alla Guerra in Ucraina, quasi senza soluzione di continuità.

(Immagine ESA)

La situazione è sicuramente molto complessa: la Pandemia ha spezzato tanti equilibri e ora, anche se è passato quel primo momento di “stupore” e abbiamo imparato a conoscerlo il virus, la sensazione di paura e di sospetto non ci ha completamente abbandonati, i venti di guerra sono tornati a soffiare in Europa e l’invasione Ucraina ci ha posto davanti ad altri interrogativi e dubbi, e paure.
Eppure sento che le immagini scorrono senza lasciare un segno dentro, come un film proiettato alle nostre spalle.

Viviamo in un intorpidimento della nostra coscienza?
Viviamo in un intorpidimento della nostra mente?
Viviamo in un intorpidimento delle nostre energie?

A mio avviso viviamo in uno stato di mancata percezione del tempo che scorre e quindi sentiamo meno la pressione a “fare qualcosa”, l’impellenza di voler superare quegli equilibri spezzati e quella paura sopraggiunta.
Eppure dall’inizio dell’anno, da quel Primo Gennaio che abbiamo festeggiato pieni di buoni propositi, pieni di pensieri sull’anno che si stava per aprire davanti a noi, da quella mezzanotte la nostra cara vecchia Terra ha fatto un quarto del suo giro attorno al sole.
Lei ha fatto parte del suo viaggio, ha percorso un quarto della sua rivoluzione e ora sta a noi, a ciascuno di noi, fare – almeno in parte – la nostra rivoluzione.

Maurizio Biosa, milanese, ha maturato molte esperienze di studio, professionali e di vita sociale. Negli anni novanta ha lavorato come educatore in diversi Centri di aggregazione e dal 1991 al 2002 è stato prima allievo e poi attore della famosa Compagnia QuellidiGrock.
Fotografo freelance, promotore e portavoce del Forum Europeo del Teatro fino al FSE di Londra 2004, Biosa è stato co-fondatore e attore (con la Compagnia Figure Capovolte) del gruppo di ricerca e produzione teatrale Memoria del Presente.
In ambito giornalistico ha collaborato con AGR (agenzia radio-giornalistica) e con la redazione di Box Office Italia.
Nel 2011 si laurea in Programmazione dei Servizi e delle Politiche Sociali alla Facoltà di Sociologia presso l’Università Bicocca di Milano: le sue aree di intervento sono l’interazione interculturale, la mediazione dei conflitti sociali, la mutualità di territorio, il sostegno alla patologia e alla fragilità e la riduzione del disagio sociale.
Educatore professionale per la Comunità MizarCoop.va Filo di Arianna (Responsabile del servizio per la Rete Territoriale), Responsabile dell’Area notturna della Comunità di doppia diagnosi Alisei per CeAS – Centro Ambrosiano di Solidarietà, agente del cambiamento per i diritti sociali e specialista esperto della relazione educativa in contesti complessi o problematici, il suo percorso si allarga alla ricerca antropologica fino ad arrivare alle esperienze di auto mutuo aiuto dedicate al lavoro ed alle attivazioni di progetti sul territorio.
Dall’autunno del 2017 è tra i soci fondatori di Radio NoLo aps.
Sensibile allo sviluppo e alla progettazione “aperta” di reti territoriali di comunità, così come alla facilitazione, alla generazione e valorizzazione delle espressioni artistiche, culturali ed antropologiche già presenti sul campo, ha maturato anche esperienze nelle banlieues parigine ed in terra di Palestina, Gerusalemme Est (Shu’fat camp).
E oggi?Oggi affronto come il resto dell’umanità questa ‘fase pandemica’ e il fantasma della Terza Guerra Mondiale. Ma ci sono, viandante. Nessuno resti indietro. Restiamo umani e pace sulla Guerra all’Ucraina.”

courtesy by Virginia Cabras alias ALAGON @alagooon

L’Europa in apparente ripresa dalla Pandemia che ha colpito tutto il mondo è sprofondata dalla durezza dell’aspirante Zar Vladimir Putin.
Da giorni vivo con grande preoccupazione gli eventi.
Da giorni cortocircuito nel confronto con il reale. Come sotto assedio.
Non riesco a prendere le distanze da quanto è accaduto al popolo Ucraino.
Sono anche io in balia dell’”operazione militare speciale” voluta dal leader del Cremlino.
Si sostiene da lustri che la prima vittima in una guerra sia la Verità.

Una Ucraina, ‘amica e smilitarizzata’ è quella che qualche ora fa il Ministro della Difesa Lavrov ha ‘proiettato come un film’ con le sue parole, davanti ai giornalisti del mondo durante la Conferenza Stampa, al termine dell’incontro odierno col suo omonimo ucraino Kuleba, ad Antalya in Turchia.
Non invasa ma voluta e sostenuta per liberarla e restituirla alla storia della grande madre
Russia. Definitivamente denazificata e liberata dai tossicodipendenti e pure dai gay.
Ma da oggi anche per difesa dagli attacchi degli Stai Uniti…

Io non credo alla Verità.
La guerra è sempre, prima di ogni cosa, una catastrofe per i popoli.
Questa guerra, arrivata al suo 15° giorno, è al momento capace di stravolgere l’esistenza di milioni di persone tra cui almeno 2.500.000 tra donne, anziani e bambini, già rifugiati all’estero.
A detta di molti, la Resistenza del popolo Ucraìno e la imprevedibilità dei piani militari di Mosca potranno fare aumentare il numero di chi sarà costretto ad ‘andarsene’ dalla propria casa, o come la più parte, a lasciare il suo Paese.
I rifugi di fortuna, i tunnel della metropolitana di Kiev.
Bersagliati in tutto il paese dal nemico. Anche se oggi per loro è andata un poco meglio. Meno fuoco su di loro.

La Russia da giorni ha ‘aperto le sue braccia’ per accogliere con corridoi umanitari diretti ai propri confini le persone in fuga. Ma di fatto le scelte ed i modi di condurre l’Operazione da parte di Putin e dei suoi sottoposti, stanno spingendo chi scappa verso il confine Polacco, Moldavo e comunque verso un ‘ovest’, ambito e desiderato prima (l’agognato ingresso nell’UE), ed ora diventato la meta di una disperante fuga dalle proprie radici.

Verso l’Occidente, comunque… Senza “usare” le immagini che hanno fatto il giro del mondo nell’ultima settimana è il buon senso a proporre perché questo stia accadendo.
Il buon senso e… le fosse comuni dell’ormai trucidata Mariupol.
La scelta coraggiosa del Premier ebreo
Zelensky e con lui di un popolo fiero a votarsi alla Resistenza dell’Ucraìna, fa il paio con questa invasione Russa. Anacronistica, quanto disorganizzata, medioevale nella strategia della sua condotta, folle perché verso il cuore e il futuro di un intero continente. Rifiutata e condannata dalla più parte dei Paesi aderenti a ciò che resta dell’ONU. Dall’Europa tutta. Messa in difficoltà dalla coalizione delle sanzioni e degli aiuti economici e militari all’Ucraina.

Resta per chi scrive l’obbligo di spiegare quale sia la frustrazione nel ‘vivere’ più che mai in questi giorni spaventosi quest’occidente. Contraddittorio e bollato, nella contemporaneità, dalla ‘esportazione della democrazia’ e dalla vertiginosa fuga dall’Afghanistan.
Pronto a muovere eserciti per i propri interessi economici ma ridotto alle ‘sanzioni’ davanti alla pericolosa evoluzione verso un ipotetico nuovo Conflitto Mondiale che sarebbe probabilmente non più lungo di un’ora… Così come incapace di promuovere una campagna vaccinale mondiale per affrontare la pandemia. Ma a un tempo solo come uno di un popolo così radicalmente affezionato alla propria libertà.

Alla parola Libertà, a ciò che attualmente rappresenta tengo molto. Intimamente, nell’anima.
Ho ereditato questo radicamento dalla Resistenza nel mio Paese al Nazifascismo.
Dalla straordinaria vitalità di persone come
Liliana Segre e dalla figura intellettuale, poetica e politica di Pier Paolo Pasolini.
Dalla morte di
Fausto Tinelli e Lorenzo (Iaio) Iannucci.
Dal diritto all’autodeterminazione dei popoli, da quello Curdo a quella avversa a quello dei Palestinesi.
Dalla devastazione di intere culture, antiche come quella Mesopotamica in Iraq e dall’annientamento della fresca rivolta dei giovani di Hong Kong così come fu degli studenti di Piazza Tienanmen.
Dall’ipocrisia della ‘guerra umanitaria’ dei Balcani e da quella delle comfort-zones in cui in molti siamo troppo spesso barricati e da cui altri stanno fabbricando anche su questa “guerra” delle fake news. In qualche immorale modo per renderla plausibile.

Ed ecco che dopo tutto questo tempo, il sentimento dell’assedio nell’anima diventa di giorno in giorno insopportabile. Per non riuscire a sostenere altrimenti quelle donne, quegli anziani, quei bambini, inerti e in fuga davanti alla guerra di Putin.
In un momento in cui alla libertà siamo un po’ tutti disabituati, fuori sincrono, disumanizzati dal distanziamento pandemico come dalla paura dell’altro.
Legati solo dal timore del contagio e dalla speranza che si possa tornare a finalmente a “vivere”… Così come, fino a solo tre settimane fa, facevano le donne e gli uomini. Gli anziani e i giovani, l’infanzia in Ucraìna… Sorelle e fratelli. Come chi in Russia ora rischia la prigione (fino a 15 anni) se dice che questa è una guerra o manifesta per la fine delle ostilità.

Spero che questo incubo finisca presto, anche se probabilmente rischia di cambiare gli equilibri di un mondo che aveva più urgenza di far fronte unito contro la Pandemia e i cambiamenti climatici e non aveva certo necessità di un conflitto tanto pericoloso, le cui ferite mortali resteranno per lustri nelle memorie… Così come Putin, il nuovo “Zar”, internazionalmente riconosciuto come criminale di “guerra”.

Cessate il fuoco e… tornate a casa, tutti.
Perché i bambini devono poter tornare a giocare a Maidan*.

Milano 10 Marzo 2022.

*Maidan in ucraìno vuol dire Piazza. E’ così chiamata la Piazza principale di Kiev, Capitale dello Stato libero di Ucraìna.

La ragazza che sapeva trattenere le cose che sparivano. Storia di una principessa un po’ maga e un po’ fotografa. 

“In questa guerra che ammutolisce, vedo bambini con piccole borse colorate camminare al freddo accanto a madri, sorelle, nonne, zie.
Tutte donne che hanno il coraggio di ricominciare.
Penso tante cose; quelle che chi capisce più di me, sa comprendere e analizzare meglio di me.
Stasera mi atterrisce una cosa minima.
Se sei madre, sorella, nonna, zia e ti trovi in questa situazione e devi fuggire, lasciare la tua casa, le tue cose, il tuo posto, la tua cucina, le tue lenzuola pulite, cosa fai mettere ai tuoi figli, ai tuoi nipoti in quelle borse?
Un cappello per il freddo, matite colorate, un libro, un pupazzo, un maglione in più, la foto di una vacanza al sole, la cioccolata?
Come si fa a dire a un bambino questo sì, quello no. Come si fa a scegliere?
Come si fa?
Il mio pensiero minimo va a quelle donne, tutte, e a quei bambini”.
Eva Romoli 

(Foto dell’Ospite)

Somiglia in tutto ad una bambina antica, il suo aspetto fisico, i suoi lunghi capelli che ti viene voglia di sistemare con un enorme fiocco dal colore sgargiante, il tono della sua voce, la sua lentezza quasi avesse a disposizione l’eternità, la sua ingenuità, le sue lettere, i suoi pensieri e le sue parole scritte come in un diario segreto, quello di un tempo che aveva lucchetto e chiave. Il suo desiderio di fermare il tempo traspare in ogni cosa che fa, che pensa, che dice, appare come un volersi rapportare ad uno dei momenti più felici e sereni della sua vita. Eppure è una donna, una professionista, forte, coraggiosa, profonda. Ma quell’odore di biscotto appena sfornato che racconta una storia come fosse una favola, se lo porta addosso come un secondo abito.
Eva Romoli nel 2016 inizia un’attività molto curiosa, fotografa insegne antiche di ogni tipo di attività commerciale. Ovviamente inizia da Roma, sua città d’origine, ma poi la sua iniziativa interessa ogni parte del mondo e coinvolge sempre più persone grazie alla pubblicazione su Facebook. La storia coinvolge e raggruppa sempre più persone, amici reali e virtuali, che la sostengono, le inviano materiale, condividono e commentano. Eva diventa popolare, La Repubblica le dedica un ampio spazio sul quotidiano, la curiosità cresce e questo suo piccolo mondo antico inizia a diventare sempre più grande e popolato. 
L’abbiamo incontrata per i lettori di Condivisione Democratica. 

Più che una passione la sua appare come una esigenza, un bisogno, una chiara volontà di fermare il passato, i ricordi, le emozioni di un tempo in cui la semplicità e la felicità erano più a portata di mano, come se non si dovesse poi faticare molto per ottenerle. Quando si è resa conto di quanto fosse necessario e fondamentale utilizzare
la fotografia per ristabilire un legame così forte ed irrinunciabile?

“Era febbraio 2016. La mia idea originaria, quel pomeriggio, era di fotografare tutti i posti dove ero stata felice con l’uomo di cui ero innamorata. Volevo regalargli una foto per ogni posto in cui eravamo stati insieme. Poi, guardando portoni e vetrine, mentre aspettavo per entrare al cinema, in quei momenti che sembrano momenti persi camminando sul marciapiede, mi sono caduti gli occhi sull’ìnsegna rossa della tavola calda. Era quell’ora del pomeriggio, che ancora non è buio e che basta già per rendere le insegne ancora più luminose.
Ho usato la fotografia che conoscevo, quella col cellulare, perché era l’unico strumento per creare la mia scatola dei ricordi; per fermare i ricordi nel tempo; per dare a quei posti, a quei profumi, a quei mestieri e storie, una vita senza fine”.

Cosa accade ogni volta che fotografa una vecchia insegna?
“Provo la grande soddisfazione di esserci riuscita, di aver fatto in tempo, di essermi spinta per caso fino a lì. In realtà non sono mai andata apposta a cercare insegne per le strade. Sono le insegne che si sono lasciate trovare durante le mie passeggiate e i miei spostamenti a piedi e poi tantissime le devo ai miei amici, di vita e dei social. Alcuni conosciuti virtualmente solo grazie a questa avventura e che non smettono ancora di farmi costantemente bellissime sorprese”. 

Una raccolta di oltre mille insegne in sei anni, la prima risale al 2016. Sono raccolte in tutto il mondo?
“Sono arrivata a 1094 e sì, vengono da tutto il mondo. Ho iniziato dal mio quartiere e mi sono allargata a tutto il mondo, alle piccole isole greche, a quasi tutti i posti di vacanza di amici e di mio fratello. Le insegne sono diventate quello che erano in passato, le cartoline (anche di queste ne ho una bella collezione, una scatola di tutte quelle ricevute): ogni insegna diventa un pensiero e un saluto per me”.

Qual è stata l’insegna più significativa e per quale motivo?
“Quasi impossibile sceglierne una…. Le mie preferite sono foderami, passamanerie, negozi di bottoni, cartolerie, vecchie salumerie; se proprio devo scegliere, d’istinto il pensiero va al vini e olii vicino casa, che poi ha chiuso dopo poco tempo e sono stata felice di aver fermato quel ricordo, prima che venisse cancellato dalla strada.  

(Foto dell’Ospite)

Le insegne vanno di pari passo con mestieri ormai quasi del tutto scomparsi o con definizioni di mestieri che sembrano non appartenere più al vocabolario comune e quotidiano. Salsamenteria, coloreria, foderami, mesticheria. Parole che per molti rappresentano un vissuto sano e pieno. Il linguaggio dei giovani oggi è più aggressivo e diretto. Secondo lei il mestiere del “narratore” di vita passata può aiutare i ragazzi ad un confronto più maturo anche con se stessi?

Sarebbe un aspetto sul quale riflettere, ma che non nasce con la mia collezione. La mia raccolta ha una lettura molto più personale e non voglio veicolare nessun insegnamento. Mi basterebbe che la foto di un’insegna di foderami sollevasse la curiosità di chi ora o fra qualche anno non sa e non saprà nemmeno che anni fa si compravano le fodere e i bottoni, per fare e per riparare i vestiti. Mi piacerebbe non andassero perse quelle attività e quelle atmosfere,  quel modo di vendere e comprare senza fretta. Per esempio il piccolo mondo che ruota intorno alle pizzicherie, ai commessi con le cravatte dai nodi grossi, alle persone che entrano, si riconoscono e si salutano”.

Quanto è importante la volontà di condivisione in lei e come pensa di attivarla nel modo più ampio possibile?
“La condivisione è l’anima di questo percorso. Per questo ho scelto di pubblicare tutte le foto in un album pubblico su fb: per renderlo visibile e fruibile da tutti quelli che ne abbiano curiosità e per fa partecipare più persone possibili. Fossi stata da sola, questa raccolta non sarebbe diventata quella che è.
Ah, importante: anima del progetto è che le foto devono essere scattate sul posto, bisogna passarci davanti fisicamente e poi ogni foto deve essere localizzata topograficamente (sempre la città, meglio se con la via). Unica eccezione l’ho fatta io fotografando, all’interno di due ristoranti e di un negozio di sanitaria, le loro foto delle vecchie insegne, conservate in quadri appesi al muro, dopo la ristrutturazione dei locali”.

I suoi studi di archeologia ed il suo lavoro all’Istituto austriaco sono una parte importante della sua vita. Qual è il suo sogno per il futuro?
“I miei studi sono il mio passato e quello che mi ha formata e resa quello che sono, regalandomi lo sguardo che ho sulle cose, sulla storia e sulle parole; il lavoro che faccio da 20 anni mi permette il contatto con le persone e lo amo per questo. Di sogni ne ho sempre tanti. Se devo dirne uno legato a questa esperienza è pubblicare un libro con una scelta di insegne, raccontando la storia vera di quell’attività e scriverne accanto una io, una immaginata da me”.

Come immaginava il mondo da adulta quando la mattina prima di andare a scuola comprava mille lire di pizza bianca per la merenda?
“Per me, il mio mondo futuro di bambina era tutto il mio presente e contava solo che le persone che amavo fossero con me e che non mi mancasse mai il mare d’estate, la lista dei regali di Natale da scrivere con mio fratello, la pizza bianca sotto al banco. Mi immaginavo ballerina e mamma. L’immaginazione non mi è mai mancata”.

La sua iniziativa ha destato molta curiosità ed interesse, tanto da coinvolgere il quotidiano La Repubblica che le ha dedicato ampio spazio. Quando ha iniziato a fotografare le vecchie insegne immaginava ci potesse essere uno sviluppo “produttivo” e costruttivo?
“No, non l’ho mai pensato e non lo penso neanche ora. Per me iniziare è stato come mettere ricordi in un cassetto e mai avrei immaginato tutto questo interesse e le proposte che mi sono state fatte”.

Sulla sua pagina Facebook ha creato l’album “Lettere antiche” dove pubblica non solo il materiale fotografico ma pensieri, riflessioni, spunti e brani di altri autori. 
“L’album #lettereantiche su fb è dedicato solo alle insegne. L’album per le parole è #parolemie dove scrivo delle mie cose, senza un vero filo logico, se non il mio istinto, per fissare i miei momenti di gioia e quelli tristi. È nato per non lasciare perse nel flusso di fb le mie parole. Come vede, l’istinto alla conservazione e alla raccolta sono sempre prioritari per me!
Tra tanto materiale ho molto apprezzato il suo scritto sui bambini, le donne e la guerra.
Cosa metterebbe lei in quelle borse preparate frettolosamente per fuggire all’orrore della vita?
Me lo sono chiesto e quella lista mi spaventa: mi sembra ridicola e priva di rispetto per chi si trova senza niente ad elencare le mie cose.
Gli occhiali, un libro di mio fratello, l’astuccio, la mia agenda, il telefono e il carica batterie, le tre forcine per capelli di mia nonna, un sasso del mare di Santorini, una foto di mio padre che dorme sotto l’albero, le chiavi di casa, un fiocco di raso di mia madre, un rossetto e la mia acqua di colonia”.  

La rubrica “cose belle”, sempre su Facebook, è come un vademecum della vita semplice e facile. Ognuno credo voglia raggiungere questo obiettivo. Cosa fa lei per costruire un percorso più o meno lineare al di là di ciò che accade soprattutto in una città di sicuro difficile e caotica come Roma?
“Innanzitutto cerco di capire e di non scordare le cose belle che mi capitano; cerco di spronare il mio ottimismo. Anche nei giorni peggiori, sempre capita una cosa bella. Per esempio, durante il lockdown, uno dei primi giorni più tristi in assoluto, mi sono sorpresa contenta di una camelia che stava sbocciando. Così ho iniziato a scrivere ogni giorno una #cosabella nella mia agenda. A volte mi va di condividere queste cose su fb con una foto e allora può essere la gioia di mia madre per una torta inaspettata, mio fratello che torna per Natale, ritornare a parlare passeggiando per Roma con un’amica, che temevo di aver perso, il caffè con le amiche la domenica pomeriggio, prima del cinema, un mazzo di fiori il sabato mattina al mercato, una posizione a yoga che mi rende felice, un cibo speciale cucinato, una telefonata inaspettata. Ogni giorno capita una cosa bella, quello che serve è il tempo per accorgersene e quello di fermarsi per scriverla. Quando la scrivi, è ancora più bella, perché resta e non passa più. Non c’è nulla di lineare nella costruzione di questo percorso, che rimane ad ostacoli e di sicuro non porta alla felicità. Non esistono vite semplici e facili (nemmeno la mia lo è) e raccogliere cose belle mi aiuta a tollerare tutto il resto. Come passeggiare lungo gli argini del Tevere, guardando le cupole delle chiese e i terrazzi meravigliosi da sotto, scordandosi il traffico delle macchine che passano di sopra.
È come guardi le cose, che fa la differenza”.

Molti di noi si sono trovati a dover “camminare con una stampella” a volte anche solo metaforicamente, reggersi spostando il peso tutto da una parte, affrontare scalini, marciapiedi, strisce pedonali e porte dure da aprirsi con la spinta di una sola mano.
Eva è una donna forte, coraggiosa e “allenata”?

“Sono una donna: forza e coraggio me li sono dovuti prendere da sola”. 

Quali sono le sue passioni oltre alla fotografia di insegne antiche?
“Amo leggere e scrivere, il mare e la cartoleria, con tutto il mondo di penne, stilografiche, inchiostri, adesivi, nastri colorati e carte dai vari spessori. E mangiare”. 

Anche il suo aspetto rimanda un po’ al passato, a quelle donne di un tempo, dal viso importante, i lunghi capelli morbidi e gli occhi un po’ abbassati quasi per pudore, timidezza e riservatezza, dalla bellezza particolare e un po’ mistica. Cosa vuol dire essere donna oggi, cosa vede di diverso nel confronto con sua madre?
“Essere donna so quello che vuol dire per me, non so se sia “essere donna oggi”: per me è non smettere mai di credere di poter essere felice, di avere sempre un nuovo mare da scoprire. Questa illusione di avere davanti a me tutte le possibilità, è il regalo del cuore di mia madre. Il suo insegnamento più bello è in fondo la mia ricchezza vera”. 

Continuerà a fotografare insegne antiche o ha già pensato ad un altro modo per rapportarsi al suo essere bambina, fanciulla, adolescente, creatura di un piccolo mondo antico?
“Tutta la mia vita è un rapportarmi alla bambina che metteva da parte i cataloghi dei giocattoli per Natale, da settembre. La vedo e la porto in ogni cosa che faccio. Le insegne, continuerò per sempre a raccoglierle. Insieme a lei”. 

https://youtu.be/rUeH4ak1xgc

“Mai come in questi giorni questa canzone mi sembra avere un senso. Che delusione questo Futuro che si sta infeltrendo come un vecchio calzino di lana. Parafrasando il grandissimo Giorgio Gaber, ‘La Mia Generazione Ha Perso’, la testa e la memoria!
Scusate ragazzi… “

Eugenio Finardi

Il mondo osserva le scene più tragiche appiattite dalle immagini di monitor e tv. E’ l’immagine di un mondo fuori posto, dove ogni logica è saltata e dove la normalità è sospesa.
Non è una storia nuova lo svolgimento drammatico di questa guerra che ha frantumato in mille pezzi le molte illusioni sorte all’inizio degli anni Novanta con la figura di Mikhail Gorbaciov, allora segretario del Partito Comunista dell’Unione sovietica e presidente dell’Urss, a cui venne conferito il Nobel per la Pace, il 15 ottobre del 1990.
Grazie alla “Perestrojka”, ci fu un radicale cambiamento nella società del suo Paese. Le riforme politiche e la scelta di interrompere alla corsa agli armamenti giocarono un ruolo determinante per porre fine alla Guerra Fredda.
Ma questa parentesi illusoria, influenzata da un’eccessiva fiducia nel progresso, ha avuto vita breve. Perché la storia non ha un divenire lineare, ma è un’alternanza di periodi di pace ed espansione e di periodi di crisi e conflitti.

Lo sa bene Fulco Pratesi, Fondatore e Presidente Onorario WWF, a cui ho chiesto di darmi un suo pensiero su questo ennesimo disastro in atto. Con la grande disponibilità e cortesia di sempre, Pratesi mi ha risposto con queste parole:

“Cara Donatella, purtroppo quella a cui stiamo assistendo non è che una delle infinite scene del repertorio creato su un innocente Pianeta e sulla altrettanto innocente sua biodiversità, condannati a convivere con la più aggressiva, invadente e inarrestabile specie, assurdamente autodefinitasi Homo sapiens.

Da millenni la Scimmia Nuda  si accanisce sui propri simili e sulle incolpevoli creature vittime della sua avidità, intolleranza e violenza suicida, favorite da una crescita inarrestabile delle proprie moltitudini ai danni del Creato.


Queste infinite guerre ingaggiate dall’uomo, magari rispondendo a orrendi stimoli  di potere e sopraffazione ai quali stiamo assistendo terrorizzati e indignati, non finiranno mai finché non sarà tornata una nuova era in cui gli esseri umani non comprenderanno la necessità di amare tutte le creature e l’ambiente che le ospita, compresi i propri simili, anche i più indifesi.


Come dice il Signore, attraverso le parole del Profeta Geremia ,”Vi ho condotti in un giardino, per saziarvi dei suoi frutti e dei suoi beni. Ma voi, appena stanziati, avete profanato la mia terra, avete reso la mia eredità un’ abominazione”.

E quale abominazione dobbiamo soffrire, più delle infinite guerre del Pianeta, in una delle quali  oggi dobbiamo assistere a violente uccisioni, devastazioni di città e villaggi, prodromi di un futuro spaventoso che ci sta incombendo?”.

https://youtu.be/XSZDPlZLuNc
courtesy by Giorgio Palombino e Barbara Cossu

Già qualche mese fa, sul web giravano foto di bambini e giovani ucraini a cui veniva insegnato l’uso delle armi per prepararsi a difendere il loro paese dai soldati russi.
Ad altri erano state date delle copie in legno di fucili Kalashnikov per allenarsi a mirare e a sparare ai loro nemici.
Da tempo, a Kiev i cittadini erano stati messi alla prova su un percorso a ostacoli nel terreno di una fabbrica abbandonata, ricevendo lezioni di tattica militare e primo soccorso.

Foto: EPA

Le immagini rilasciate da Planet Labs PBC confermano le voci di azioni intraprese in tutta l’Ucraina prima dell’inizio dell’invasione russa. All’aeroporto, le piste e le vie di rullaggio erano state bloccate, presumibilmente nel tentativo di impedire agli aerei russi di atterrare e utilizzare l’aeroporto.
L’ampia offensiva della Russia, iniziata giovedì 24 Febbraio, si è rapidamente diffusa in tutto il paese con un attacco su tre fronti, via terra, mare e aria e ha preso di mira le infrastrutture militari in tutta l’Ucraina, nonché diversi aeroporti e altri luoghi chiave, utilizzando attacchi missilistici e artiglieria a largo raggio. L’aeroporto internazionale di Kiev era uno degli obiettivi principali.

Immagine satellitare che mostra le piste bloccate all’aeroporto Boryspil di Kiev il 25 febbraio.
Foto: Planet Labs PBC

Nelle scorse settimane le immagini satellitari hanno mostrato soldati russi e artiglieria nella città bielorussa di Brest, a soli 10 miglia a est del confine polacco. Jack Detsch, giornalista che lavora alla Sicurezza Nazionale del Pentagono, afferma che si contavano più di 50 unità che trasportavano attrezzature pesanti in un’area di addestramento vicino alla città e in uno scalo ferroviario limitrofo.
Le forze russe hanno preso progressivamente il controllo di porzioni dell’Ucraina settentrionale al di fuori della capitale Kiev, compresa la zona di Chernobyl, raggiungendo la città di Kherson, a nord della penisola di Crimea.
Mariupol, Kharkiv, Irpin, sono state bombardate pesantemente.
Irpin e Bucha, le due cittadelle alla periferia di Kiev sono il cuore del conflitto tra Ucraina e Russia alle porte della capitale.
E’ finita sotto i bombardamenti anche la città di Leopoli, al confine con la Polonia, crocevia di profughi in fuga e di ucraini che rientrano per combattere.
Secondo l’opinione del segretario di Stato americano Anthony Blinken, Vladimir Putin potrebbe spingersi ulteriormente nell’Europa orientale dopo aver preso il controllo totale dell’Ucraina.

Il negoziato di Instanbul

Da un video su Telegram, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha affermato che l’Ucraina continuerà il processo di negoziazione nella misura in cui dipende davvero da loro: “Contiamo sui risultati. Ci deve essere una vera sicurezza per noi, per il nostro Stato, per la sovranità, per il nostro popolo. Le truppe russe devono lasciare i territori occupati. La sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina devono essere garantite. Non ci possono essere compromessi sulla sovranità e sulla nostra integrità territoriale. Questi sono principi chiari“.

L’allontanamento da Kiev e dalle posizioni nel Nord dell’Ucraina, è stato definito da Vladimir Medinsky, capo della delegazione russa al negoziato, l’inizio dell’escalation militare. L’esperto politico Evgeny Minchenko ha rilasciato a Bloomberg la dichiarazione che c’é stata molta incomprensione su quel che le parti hanno detto ad Istanbul e ha sottolineato che, per ora, hanno avuto la comunicazione che ci sarà meno azione militare vicino a Kiev ed a Chernihiv, perché l’esercito russo sta concentrando le sue risorse contro l’esercito ucraino nel Donbass.

Da LaPresse
Washington, 29 marzo.
Nel loro colloquio telefonico il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il premier italiano Mario Draghi, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il primo ministro britannico Boris Johnson hanno esaminato i loro sforzi per fornire assistenza umanitaria ai milioni di persone colpite dalla violenza, sia all’interno dell’Ucraina che in cerca di rifugio in altri paesi, e hanno sottolineato la necessità di un accesso umanitario ai civili a Mariupol.

Courtesy by Marco De Angelis

La decisione di Putin di invadere l’Ucraina, con la visione di un imperialismo tout court, ha generato reazioni in tutto il mondo (reazioni di cui Le Grand Continent sta tenendo una mappa aggiornata).

Dalla Porta di Brandeburgo a Berlino, alla Tour Eiffel a Parigi, al Colosseo di Roma, sono state organizzate manifestazioni per dire un NO ALLA GUERRA, UNO STOP ALL’INVASIONE MILITARE voluta da Vladimir Putin.
Il 6 marzo a Firenze è stato posto un drappo nero sulla statua del David in Piazza della Signoria come simbolo di lutto e di dolore per la guerra in Ucraina.
Il sindaco Dario Nardella ha dichiarato: “Il David, emblema della libertà contro la tirannia, oggi si copre di nero. Nel giorno della nascita di Michelangelo, un gesto simbolico di lutto per ricordare le vittime di questa guerra e esprimere tutto il dolore di Firenze.

Un segnale molto forte è stato dato dagli artisti russi Alexandra Sukhareva e Kirill Savchenkov, che, assecondati dal curatore Raimundas Malaauskas, non parteciperanno alla 59a Biennale dell’Arte di Venezia.
Su Instagram, la Sukhareva ha scritto che “Non c’è posto per l’arte quando i civili muoiono sotto il fuoco dei missili, quando i cittadini dell’Ucraina si nascondono nei rifugi e quando chi protesta in Russia viene ridotto al silenzio. Poiché sono nata in Russia non presenterò il mio lavoro al Padiglione della Russia alla Biennale di Venezia“.

La rivista TIME ha pubblicato un’immagine di copertina, illustrata da Neil Jamieson, che presenta le parole pronunciate dal presidente ucraino in un discorso al Parlamento europeo il 1° marzo: “La vita vincerà sulla morte e la luce vincerà sulle tenebre“.
Su Twitter, colpisce la copertina insanguinata di The Economist.
Una narrazione visiva della violenza di una guerra che va fermata!

courtesy by Andrea Santanastaso

@alliance_francaise_paris

Ph. Marcus Schreiber

Una vita a suon di bacchette “magiche”, il ritmo inarrestabile di un percussionista romano: Alex Barberis ed i suoni del mondo 
“Lo spirito della percussione è qualcosa che si può sentire ma che non si può afferrare, ti fa qualcosa che ti entra dentro…Colpisce la gente in modi diversi. Ma la sensazione che si prova è di soddisfazione e gioia. E’ uno stato d’animo che ti fa dire a te stesso “Sono felice di essere vivo oggi! Sono felice di essere parte di questo mondo” – Babatunde Olatunji, percussionista e musicista nigeriano. 
“Se non avessi fatto il percussionista sarei diventato un archeologo”. Per fortuna è diventato un percussionista anche perché sarebbe stato capace di utilizzare pale, picconi e picconcini, zappe, palette, scopette, spazzole e cazzuole al posto delle bacchette probabilmente da battere a suon di musica su carriole, secchi e antichissimi e preziosissimi reperti. 

(Foto dell’Ospite)

Un mondo di musica e di passioni, quello di Alex Barberis, percussionista romano. Il suono portato ovunque, in ogni tipo di esperienza in un arco di tempo importante, quasi quarant’anni. Studia, sperimenta, da vita a gruppi musicali, Maximum Available Gain capitanato dal chitarrista compositore Max Alviti, Simposio, Traccia Mista, L’Albero di Maggio, Janis is Alive, Colors 3, è promotore e partecipa ad iniziative musicali tra cui il primo “Working Progress Clinics Drummer Festival”, di cui è fondatore, una iniziativa messa in atto da un gruppo di insegnanti di batteria appartenenti alla realtà di Roma e dintorni. Un gruppo eterogeneo che si è formato allo scopo di cooperare, con il fine ultimo di divulgare, attraverso l’organizzazione di Clinics, le proprie singolari scuole di pensiero. Ha realizzato brani di sonorizzazione per le trasmissioni Linea Blu (Raiuno) e L’Italia sul due (Raidue), ha collaborato con il musicista americano Buddy Miles ed Alex Britti, il suo cd di musica improvvisata “Colori” è stato utilizzato nella rappresentazione teatrale Medea. Nel 2007 diventa Endorser delle batterie V-Drums Roland esordendo presso l’Open Day, la più importante manifestazione fieristica del settore musicale del centro sud Italia. Con i Three Way Drummers svolge il primo Summer Drummer Masterclass a Firenze. Suona nella maratona musicale “Dalla pelle al cielo” a Roma e per lo spettacolo “Io, Anna e Napoli” tra parole e musica di e con Carlo Delle Piane. 

(Foto dell’Ospite)

Ma questa rappresenta solo una sintesi di tutto il lavoro svolto da Alex Barberis. I suoi orizzonti musicali si estendono a molti generi tra i quali drum’n’bass, R&B, funk, etnofunk, hip hop, jazz funk, jazz fusion, latin jazz, cubana, latino americana, salsa, musica sinfonica, musiche di scena, canto popolare, musica africana, musica araba, world music, ambient, samba ed elettro jazz. Raccontando della sua partecipazione al progetto Khelè è come se descrivesse sè stesso: “Khelè è un universo di simboli e di enunciazioni evocative che trovano nel processo creativo e nelle modalità organizzative prescelte, l’evoluzione dinamica di un autentico viaggio sonoro in continuo divenire. Khelè non si pone alcuna limitazione sul tipo di strutture o tipo di improvvisazione o stile musicale. L’obiettivo principale di Khelè è esprimere creativamente la bellezza dei vari linguaggi musicali, usando in modo ambivalente strutture definite, libera improvvisazione, ricerca timbrica e uso delle nuove tecnologie di sintesi sonora. Khelè è la materializzazione delle infinite emozioni che la musica può offrire: un viaggio musicale che supera qualunque barriera spazio-temporale legata ai limiti di genere o stile musicale”. Perché Alex è un po’ tutto questo, un bellissimo universo di improvvisazione, creatività,  stili differenti, ricerca, dinamicità e poesia.

Lo abbiamo intervistato per i nostri lettori. 

(Foto dell’Ospite)

Cercando di visionare quanto più materiale possibile sulla sua figura professionale mi sono “smarrita” ed è stata una bellissima sensazione. Un mondo immenso di eventi, attività, esperienze, collaborazioni, nell’arco di circa quarant’anni. Mi aiuti a ritrovarmi iniziando a raccontarmi del suo essere bambino, immagino appassionato di tutto ciò che riusciva ad emettere un qualsiasi suono.
Sono l’ultimo di sei fratelli, tutti ascoltavano musica di ogni genere, quindi, venivo a conoscenza di gruppi, musicisti, cantanti e cantautori di ogni parte del mondo grazie a loro. Una volta la musica si ascoltava con molta curiosità ed attenzione. Quando ero piccolo, sei o sette anni, ascoltavo principalmente musica tramite il famoso mangiadischi portatile, dischi in vinile a 45 giri saranno stati 400/500 dischi, da Battisti, Bennato, Frank Sinatra, Mozart, Bach, poi in breve tempo i vinili da 33 giri su piatto ed impianto stereo, e lì un’infinità di musica, Pink Floyd, Genesis, Doors, Rolling Stones, Led Zeppelin, Deep purple, Beatles, Bob Marley, Police, Bach, Beethoven, Mozart, Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Miles Davis, e poi col tempo, Weather Report, Pat Metheny, Jan Garbarek, Bill Frisell. Insomma, tantissima musica e di vario tipo. Poi, ho iniziato a vedere concerti dal vivo, oltre ai tanti visti in TV, e questo mi ha portato ad avere sempre di più un approccio filosofico musicale, ma non cosciente del tutto. Avrei voluto suonare il pianoforte ma, in casa i problemi di sopravvivenza per una famiglia composta da 8 persone non erano semplici, quindi niente pianoforte. Le pentole erano la mia prima batteria ma non per cucinare. La simulazione di una batteria suonata con le cucchiarelle, mia Madre Valeria lo ricorda ancora.
Grazie ai miei amici d’adolescenza, che si riunivano in casa o in soffitta a suonare, approcciai, o meglio strimpellai la batteria….woooowww!…fu amore a prima vista, ma ero imbarazzato ad esternarlo e cominciai in intimità a pensare di comprarne una, purtroppo a quei tempi non esistevano batterie economiche come oggi. Cominciai a lavorare al Luneur, cercando di racimolare soldi per comprare ogni tanto un tamburo usato fino ad assemblare una batteria, ma la paga era bassissima, e vedevo la batteria molto lontana. Non importava, intanto simulavo la batteria con cuscini e i piedi battevano il pavimento simulando i pedali della cassa e del charleston, questa simulazione mi portò comunque a suonare nelle sale prova. Dopo due anni di esercizi sui cuscini, una mattina mio fratello Roberto, anche lui artista pittore della vecchia scuola dell’Accademia delle Belle Arti di Roma, mi vide e mi disse: “Ok!..basta, i cuscini servono per appoggiarci la testa..non per suonare, andiamo a comprare una batteria”. Lo guardavo incredulo. “Tu meriti di suonare veramente non di simularla la musica”, comprò a rate la prima batteria della mia vita, una bellissima Tama Swing Star color platino con piatti Paiste. Ringrazio di cuore mio fratello, che oggi non è più tra noi, il suo gesto meraviglioso ha dato a me la possibilità di percorrere una vita bellissima piena di soddisfazioni e mi ha liberato dall’apatia di quei tempi, quando non c’erano tante cose da fare, soprattutto nei quartieri periferici di Roma, e questo portava molti giovani in brutti percorsi di vita. La Musica mi ha tolto da percorsi negativi che, per molti cari amici è stato fatale…grazie ancora Roberto, grazie Musica!”

(Foto dell’Ospite)

Inizia quindi il suo percorso professionale. 
“Diciamo che inizia un percorso più strutturato. Per due anni suonai ad orecchio poi iniziai  a studiare batteria con il Maestro Mario Paliano della famosa Scuola di Musica Popolare di Testaccio. Purtroppo, non potevo frequentare sempre perché le lezioni costavano, ed io non avevo la possibilità. Nel tempo, mentre suonavo con vari gruppi, andai a lezione dai Maestri Beppe Giampiero e Alberto D’Anna, presso il Centro di percussioni Timba a Roma. Il tempo per andarci e per studiare non era molto, per pagarmi le lezioni lavoravo con mio zio svegliandomi alle 2:30 del mattino per essere pronto ad andare in giro per il centro di Roma a consegnare gelati nei bar. Alcune volte finivo di lavorare nel tardo pomeriggio ed attraversavo Roma da un capo all’altro con i mezzi pubblici per andare a lezione, alcune volte ero così stanco da non capirci assolutamente nulla. Ma anche quello è servito, uscivo dalle lezioni con un punto interrogativo in testa mentre mi appassionavo sempre di più”.

E poi arriva l’incontro con un grande maestro. 
“Con gli anni, la vita mi ha voluto premiare con un grande Maestro, Horacio El Negro Hernadez. Con lui ho compreso molti insegnamenti dei precedenti insegnanti o musicisti. Io cercavo di seguire i dischi di Afrocubana, dove la batteria non esisteva ma, soltanto con le percussioni e con i miei quattro arti, potevo ricreare in poliritmia i movimenti ritmici dei percussionisti, e come dal cielo ecco arrivare El Negro, che suonava al cubo in modo eccezionale quello che tentavo di fare io. Il direttore del Timba, mi disse, “credo sia arrivato il maestro che fa per te”, nell’aula guardavo fulminato e potevo vedere chi come me aveva un altro approccio sulla batteria, ed in che modo meraviglioso!
Prima di lui, avevo seguito alcune lezioni con il maestro Gianni Di Renzo, maestro di grande umanità, purtroppo ho avuto poco tempo con lui per capirlo e fare un percorso più accademico, ma dopo tanti anni, l’ho incontrato di nuovo tra i docenti di batteria al Saint Louis di Roma. Il resto del mio percorso didattico l’ho proseguito da autodidatta, molte cose le ho dovute imparare da solo, soprattutto nel linguaggio musicale, ma anche in quello tecnico corporale”. 

(Foto dell’Ospite)

Batterista, percussionista, maestro di batteria e percussioni, endorser, compositore, musicista, ideatore dei cajondrums SFINGE, collaboratore e ideatore di progetti musicali di ricerca tra cui Alma Nua e Tupa Ruja. Cosa rimane fermo ed immutabile di lei ogni qualvolta cambia veste, ruolo e personaggio? 
“Nasco principalmente come batterista, facendo un percorso esclusivo da batterista, poi ho cominciato ad assemblare un set con più strumenti a percussione. Al Centro di Percussioni Timba, seguivo  laboratori di percussioni, afrocubane, africane e brasiliane, questi laboratori mi hanno fatto conoscere le percussioni, e non ho fatto altro che creare un set compreso di conga, Djembe, Darbuka, e vari aggeggi, oltre alla batteria, comunque acustici. Il mio mondo sonoro comincia ad avere uno sviluppo e approccio batteristico diverso, sia sonoro che tecnico perché suonare più strumenti diversi richiedeva un tecnicismo maggiore sotto vari aspetti, nella velocità e nelle dinamiche. Endorser dei prestigiosi piatti toscani UFIP di Pistoia, grazie all’azienda pistoiese ho potuto sperimentare molti suoni diversi con più set di piatti e strumenti come gong e aggeggi. Endorser per 5 anni con le batterie Mapex, ho potuto sperimentare due set diversi facendomi costruire il primo set più adatto alle mie esigenze. Endorser, attualmente, della prestigiosa casa di batterie Ludwig, anche qui ho 3 set diversi, di cui uno specifico per le mie esigenze attuali, costruito con misure e legno che ricordasse il suono vintage. Endorser per alcuni anni della Roland, con cui ho collaudato vari strumenti come batterie e percussioni elettroniche. La collaborazione con l’azienda giapponese nasce perché la mia ricerca sonora comprendeva anche quella elettronica, tanto da interagire con sequencer, ma soprattutto era incentrato sulla ricerca delle sonorità synth. Grazie alla mia conoscenza sulla strumentazione Roland, entro come docente di batteria elettronica al Saint Louis di Roma, in seguito anche come docente di batteria classica multistilistica. Grazie al mio corso di V-Drums Roland, ad Utrecht in Olanda, viene portato a conoscenza il mio corso V-Drums svolto al Saint Louis, così da avviare il corso V-Drums School nel mondo. Endorser delle batterie elettroniche 2Box (svedesi) nonché collaudatore. Endorser delle bacchette Vic Firth per molti anni. Endorser, attualmente, delle bacchette Roll Em ottenendo delle bacchette signatur Alex Barberis da me ideate. Endorser Korg con i Wavedrum, una multi percussione elettronica dai suoni estremamente realistici. Endorser dei microfoni per batteria e percussioni Carol, Endorser Remo per le pelli per batteria e percussioni. Per esigenze personali, con l’artigiano Piero Traditi ho ideato il Cajondrums Sfinge, un cajon con seduta e tapa obliqua per avere la comodità di suonare il cajon con un set di batteria, riconosciuto come il proseguimento moderno dei cajon tradizionali alla manifestazione multietnica svolta al museo della civiltà Pigorini di Roma. Endorser Latum di Alessandro Armillotta, costruttore artigiano dei tamburi armonici Latum, con l’ideazione dei tamburi armonici mono nota per batteria e percussioni.
Collaboro da anni in progetti di ricerca musicale, come il genere World Music, il Nu jazz, o tutto ciò che ha influenze musicali di vario tipo, diciamo una fusione di suoni, di musica etnica, jazz, meditativa e moderna. Con gli attuali progetti con cui collaboro, gli Alma Nua, progetto del chitarrista compositore romano Andrea Esposito insieme al bassista Fabio Penna, il concetto musicale di base è l’estemporaneità della musica, in pratica, suoniamo la vera improvvisazione basandoci su dei canovacci, ossia, riconoscimenti armonici, melodici e ritmici, dove possiamo improvvisare e quindi far uscire il proprio estro artistico. Il disco Alma Nua, per ora soltanto in formato liquido, ossia, in formato file mp3 o wave, viene distribuito dagli stessi Alma Nua. L’altro progetto, appena iniziato, è quello world music dei Tupa Ruja, progetto della coppia, sia musicalmente ma, anche nella vita, di Martina Lupi cantante e multi strumentista, e Fabio Gagliardi voce, Didjeridoo e percussioni. Nel nuovo progetto Tupa Ruja, oltre a me alla batteria e percussioni acustiche ed elettroniche, c’è il grande chitarrista Nicola Cantatore, con la sua ricerca sonora meticolosa, e grande arrangiatore che, con i Tupa Ruja svolge in modo impeccabile. Insomma, un quartetto che, oggi, ha raggiunto una sinergia tale da far fare un balzo musicale sonoro e ritmico di notevole spicco.
In tutti i progetti, ovviamente rimango fermo sul mio modo di interpretare la musica, ma ovviamente, mi immergo nella sinergia piena con il resto dei musicisti, nulla deve sfuggirmi, o creare un personaggio in modalità, non è per me un lavoro, è principalmente passione”

Quali sono i suoi riferimenti musicali ed in quale genere crede di riuscire meglio ad esprimere la sua forma artistica in modo più profondo ed incisivo affinchè lo spettatore si senta “a casa sua”?
“I miei riferimenti sono molteplici, ma non ridondanti, mi riferisco a tutta quella musica che lascia lo spazio interpretativo ed improvvisativo. La musica composta da eseguire soltanto con gli occhi e poco con le orecchie, non mi è mai piaciuta, è statica, noiosa e meccanica. Credo fortemente, per mia esperienza diretta, che il pubblico si senta a casa sua se il, o i musicisti, creino credibilità suonando, avendo ognuno un proprio carattere per interagire con gli altri componenti del gruppo e con il pubblico.
Riguardo il genere musicale, quello che più rende vario il genere, che fonda varie conoscenze musicali, e che non sia ridondante. Per esempio, Pat Metheny Group, Bill Frisell, Jan Garbarek, Hadouk Trio, Trilok Gurtu, Oregon, Joe Zawinul, Steve Coleman, Mynta, Jon Scofield, Glen Velez, Lyle Mays e tanti altri, non proseguo perché la lista sarebbe lunghissima”.

(Foto dell’Ospite)

Ci parli del metodo drum time
“Più che metodo, è un percorso, dato che un mio metodo scritto non l’ho ancora realizzato.
Inizialmente è un percorso didattico come tanti altri, ma il mio intento è quello di tirare fuori il più possibile l’estro artistico dell’allievo, cercando di tralasciare inizialmente il percorso accademico, diciamo che la disciplina non deve mancare, d’altronde per ottenere dei risultati non se ne può fare a meno, ma l’approccio non è con la disciplina. Che siano piccoli o grandi, l’inizio è il gioco. Non ho mai dimenticato il mio approccio con lo studio della batteria, tutto troppo serio e noioso. Molti di noi sono nati con una vocazione artistica che deve essere indirizzata con il tempo, la difficoltà è notevole e molte volte può scoraggiare se non si riesce a miscelare bene lo studio con il divertimento. A volte si può avvertire la sensazione del fallimento, sia come allievi che come insegnanti. Per giustificare spesso un cattivo metodo di insegnamento si pone l’accento sulla selezione naturale, ma non è così. Credo che l’approccio di un bravo insegnante sia quello di comprendere la mente dell’allievo oltre alla sua vocazione o bravura, bisogna conoscere il vissuto dei ragazzi e poi trovare il giusto percorso per ognuno di loro. Molti si perdono non perché non bravi, ma perché non hanno incontrato l’insegnante giusto, con quella buona dose di sensibilità e di empatia”

Lei utilizza un suo percorso didattico musicale con la dispensa “6 x 10” da lei creata per tutti coloro che non hanno molto tempo a disposizione per studiare. Come si può con soli 10 minuti al giorno imparare a suonare la batteria? Ci spieghi il suo miracolo.
“Miracolo? Ma no. Io stesso, anni fa, avevo poco tempo a disposizione perché lavorando potevo dedicare poco tempo allo studio, ma ero costante e questo mi consentiva di fare grandi progressi.
Mi resi conto che la costanza, l’essere metodico e puntuale, la perseveranza, la determinazione potevano sopperire alle poche ore di studio. Iniziai ad applicarmi agli esercizi più importanti ogni giorno, ma ugualmente mi accorgevo che il tempo da dedicare alla batteria era troppo poco. Sperimentai che potevo rimediare a questo mio limite con meno esercizi ma ripetitivi. Costantemente gli stessi esercizi per la stessa durata.
Il metodo funzionò più di ogni altra cosa, tanto da applicarlo ai miei allievi, vedendo i giusti risultati. Sei Metodi, o meglio, alcuni esercizi fondamentali ripetuti in sei metodi diversi. L’allievo può dedicarsi iniziando con dieci minuti al giorno iniziando lentamente poi velocizzando sempre di più, sempre per la stessa durata, dieci minuti. Lo stesso esercizio, ad esempio della durata di pochi secondi, ripetuto per dieci minuti con pulizia sonora e di movimento senza mai fermarsi”.

Cos’è un batterista organico?
“Per organico si intende musicale, melodico, attento a suonare insieme alla ritmica sempre in movimento diverso degli altri strumenti, che non sia soltanto di accompagnamento ritmico, ma espressivo ed estemporaneo musicalmente, quello che, appunto,  solitamente fanno tutti gli altri strumenti.
Il batterista e percussionista americano Bob Moses, ne fece una vera e propria filosofia batteristica, tanto da influenzare molti batteristi nel mondo”. 

L’insegnamento per lei è una vera e propria vocazione oppure ha deciso nel corso del tempo di approcciarsi a tale mestiere? Cosa c’era nei suoi sogni di bambino? Essere un musicista puro l’ha mai contemplato?
“Iniziai ad insegnare trentuno anni fa, per caso. Un amico mi chiese di insegnargli a suonare la batteria. Non era nelle mie vedute, ma mi piacque molto, era molto soddisfacente..e mi consentiva di guadagnare in parallelo con il lavoro di musicista. Si unirono poi altri allievi, la sala era in un contesto piacevole, vicino la vecchia torre di avvistamento romana Tor di Valle, un edificio storico. In seguito mi sono perfezionato nell’insegnamento riprendendo e continuando a studiare, questa è stata una crescita per me, per migliorarmi e per aggiornarmi. La passione per l’insegnamento con il tempo è aumentata ed è poi diventata una vera e propria professione che amo molto.
Da bambino avevo tanti sogni, non solo la musica, ma ero un ribelle e le istituzioni mi fecero disamorare e distogliere da tanti altri obiettivi. Musicalmente sognavo ad occhi aperti la felicità di suonare per un grande pubblico felice di ascoltarmi. Mi emoziono ancora oggi nel ricordarlo e nell’immaginarlo anche adesso. I sogni di bambino non passano mai, non finiscono anche se non li realizzi completamente, sono belli proprio per questo motivo. Sono diversi dai sogni degli adulti.
Sono un musicista puro, faccio quello che più mi piace e mi va. I compromessi si fanno sempre, li fa chiuque. Anche se non sembra, li fai tutti i giorni e la vita non gira soltanto intorno a noi”

Se avesse potuto scegliere in quale band del passato avrebbe voluto suonare? Qual è stato il suo sogno gigante? Avrebbe voluto girare il mondo con Bruce Springsteen (mi perdoni la citazione, è il mio più grande innamoramento)?
“Doors quando ero molto giovane, Pat Metheny Group, Peter Gabriel, Jan Garbarek, Bill Frisell, ma questi sono sogni ancora vivi. Mi spiace deluderti ma non seguo Springsteen, un grande, ma non mi sarebbe piaciuto, non amo la staticità batteristica da sempre”

Nella sua intervista a Radio Città Aperta parla del grande progetto musicale “Alma Nua” del trio Esposito/Penna/Barberis. Le sue parole raccontano in libertà la sua vita da batterista senza compromessi. Quanto le è costato in termini professionali, morali, sociali, umani ed economici non scendere a compromessi?
“Il progetto Alma Nua è un progetto che amo molto perché mi consente di esprimermi liberamente e completamente a modo mio. Un progetto ancora vivo, nonostante il difficilissimo periodo, che condivido con i miei amici Andrea e Fabio.
La difficoltà di portare avanti un percorso sincero e serio professionalmente e artisticamente è sempre tanta, ma poi te ne fai una ragione, e non vedi il mondo come cattivo e menefreghista ma pieno di tante cose. Siamo in tanti, ognuno vive la sua scelta personale senza far del male agli altri. Io mi vivo la bellezza di quello che con le mie capacità artistiche ed imprenditoriali riesco a costruirmi, senza colpevolizzarmi o trovare alibi per quello che non ho potuto o voluto fare.
Comunque è una strada che mi ha portato a non avere il giusto economicamente, ma le dinamiche sono state tante e sono giunto a cinquantacinque anni con molte separazioni sia nel lavoro che sentimentalmente, ma questa è una lunga storia magari la raccontiamo un’altra volta”

Domanda banale ma di rito, per la curiosità dei lettori, se non avesse fatto il musicista cosa avrebbe voluto fare nella vita?
“In poche parole? L’archeologo”.

John Bonham, Neil Peart, Joey Jordison, Mike Portnoy e Buddy Rich vengono definiti i primi cinque batteristi più grandi al mondo. Cosa ne pensa e qual è la sua classifica?
“Tutti grandi batteristi, non è un caso che hanno e fanno la storia del batterismo, ma non li seguo, non sono per me l’ideale del batterista organico. Li ho seguiti perché è giusto che un musicista conosca i grandi. Tra tutti chi mi ha colpito molto è John Bonam, lui è stato veramente un batterista organico con i Led Zeppelin”. 

Ci parli del progetto Ti-Amat
“Ti-Amat era un progetto in movimento, dico era perché è fermo da un po’, ma comunque esistente. Perché in movimento? Perché vedevo come organico un duo che poteva essere affiancato da più musicisti in base alle possibilità, cioè riuscire a non far fermare mai il progetto anche se mancava un elemento del duo. Con basi apposite pilotate da computer, il progetto poteva vivere sempre, ma la pandemia ha dato un fermo, purtroppo, a molti progetti”. 

Un altro progetto molto interessante è Simul (dal latino, insieme), la sua collaborazione con la danzatrice Silvia Layla, i mantradrums. La danza ed il ritmo, due forme d’arte che viaggiano insieme e che mai si separano. Un’altra forma di ricerca e sperimentazione?
“Simula nasce dall’incontro con Silvia Layla, bravissima danzatrice di vari stili di danza, tra cui anche classica. Il progetto si basava sul suonare con le mie basi e le mie percussioni, un set percussivo non batteristico, e Silvia all’epicentro del progetto ovviamente. Anche questo progetto ha avuto un necessario periodo di pausa, sono stati anni veramente complicati artisticamente parlando, umanamente poi ancora più gravi. Siamo cambiati un po’ tutti e non sempre in meglio, un’artista fermo non per scelta ma per necessità imposte, è come un leone in gabbia, ma poi chissà magari una volta liberato riesce a lanciare un urlo così forte da far tremare la terra. Dentro di noi ognuno ha costruito qualcosa di forte, ora ripartendo dobbiamo trovare il modo per rappresentarlo, riprodurlo, interpretarlo”. 

Arte, yoga e danza coinvolgono Argilla in movimento. Relax, camminate, musica, danza, mani nell’argilla, ascolto, una bella occasione per nutrire corpo e anima. Lasciar andare, rallentare, trasformare, fermentare, arare. Nel 2020 celebravate così l’equinozio d’autunno. Un atto creativo a tutto campo. Sembra non esserci ambito in cui la sua musica non sia presente e coinvolta.
“Questo progetto, anche esso fermo per la pandemia, aveva sempre di base il duo, un po’ come Simul ma, su una idea e progetto della Maestra Rita Malizia. Ho cercato sempre di avere persone interessanti intorno a me con cui condividere la musica, ogni altra forma artistica poteva rappresentare uno spunto, un inizio, un punto di partenza. La meraviglia di questo lavoro è fatta anche di incontri e di contaminazioni, dobbiamo imparare a fidarci ed affidarci agli altri se vogliamo realizzare progetti audaci e coraggiosi”

Diversificare per ampliare, mettersi all’ascolto, suscitare reazioni ed azioni. A tratti appare come un esploratore della vita e dell’essere umano, non solo della musica. Credo si tratti a volte di una sfida con se stesso o di una ricerca di se stesso?
“Semplicemente vivo la musica per come io la concepisco. Negli anni ho cambiato generi musicali, lavorato su vari generi musicali, ma quello che mi faceva vivere il piacere di farlo era la ricerca musicale, l’esplorazione di ritmi, suoni, facendomi avvicinare a musicisti con le stesse mie vedute., non è una ricerca introspettiva, ma soltanto vivere il piacere musicale”. 

Cosa hanno rappresentato questi ultimi due anni di fermo nel mondo per lei e per la sua attività?
“Non in termini religiosi, ma per certi versi veramente una benedizione. Mi ha fatto capire veramente che la mia strada non doveva essere deviata da ciò che mi appariva davanti ma doveva essere influenzata da ciò che mi andavo a cercare. Nel periodo del lock down ho realizzato il mio primo disco di sole percussioni, realizzato in casa con il musicista compositore Matteo Colasanti, un disco ed un progetto “Olocene”, musica meditativa e di ricerca. Quindi, un fermarsi sì ma, anche ripulirsi da scorie varie, creando di nuovo e vivendo la musica felicemente in un momento difficile”. 

Il potere della musica anche contro le guerre? Cosa ne pensa?
“La Musica è un linguaggio universale, una volta, storicamente, si parlava un’unica lingua, oggi la Musica è l’unico linguaggio per unire il mondo intero!”

Progetti per il futuro?
“Con i Tupa Ruja saremo a Roma il 28 aprile all’auditorium ed il 18 maggio all’Alexanderplatz. Poi dal 1 al 4 luglio in Friuli in quattro diverse località.  Con gli Alma Nua saremo a maggio ancora a Roma al Riverside. Si riparte, speriamo, senza ulteriori interruzioni e con l’augurio che tutto vada veramente per il meglio”.