“Il
leone sulla giraffa”: Madre, giornalista, scrittrice, imprenditrice, Giovanna
La Vecchia e le sue figlie inventano favole per costruire un piccolo angolo di
paradiso
Come
nasce una favola?
In
molti modi ed ognuno di essi assume un significato straordinario quando il
risultato è un dono prezioso per il lettore curioso in attesa del miracolo
della narrazione.
“Dunque, una madre e due figlie, che invece di fare quello che fanno tutte le persone comuni, ossia andare in libreria, comprarsi un libro di storie, leggerselo in santa pace, lo inventano e se lo scrivono in proprio. E l’idea non è affatto male, è quasi come farsi il pane in casa, che non è buono solo perché lo mangi, ma soprattutto perché lo lavori, e intanto che lo lavori chiacchieri, ridi, inventi forme fantasiose, intriganti, qualche volta spettegoli. Ecco, farsi il pane in casa dà soddisfazione perché fa l’effetto di una storia, e una storia, proprio come il pane fatto in casa, deve tenere vicini, insieme, chi la racconta e chi l’ascolta. Deve aiutare a ‘stare’, voce del verbo stare, il verbo migliore del mondo.
Le
storie esistono proprio per questo, conta più lo stare della trama, e anche se
non tutti sono d’accordo lo dico lo stesso, anzi lo ripeto con maggiore forza,
un genitore che ‘sta’ conferisce energia e credibilità a qualsiasi racconto,
trasformandolo in un atto educativo compiuto.
Se
non c’è nessuno che ‘sta’, tutte le storie sono inutili. Come accade oggi nella
comunicazione virtuale, dove nessuno ‘sta’ ma tutti credono il contrario.”
Domenico Barrilà.
“Il leone sulla giraffa” (Antonio Stango Editore, pag. 100, euro 15) è la recente pubblicazione di Giovanna La Vecchia in collaborazione con le tre figlie Chiara, Maria ed Iris. La prefazione è di Domenico Barrilà, noto psicoterapeuta e analista adleriano, scrittore, da oltre trent’anni impegnato nell’attività clinica. Il libro è corredato da bellissime illustrazioni di Francesco Barbetti. Si tratta della prima pubblicazione di favole per bambini della scrittrice e giornalista Giovanna La Vecchia.
Oltre
vent’anni di giornalismo, diverse pubblicazioni di narrativa, poesia,
saggistica, ha ricoperto il ruolo di capo ufficio stampa per importanti
aziende, organismi, enti pubblici e privati in ambito nazionale. Come nasce “Il
leone sulla giraffa”?
“Nasce da una felice intuizione di una madre e le sue tre figlie, Chiara, Maria ed Iris. Per alcuni anni ho ideato ed organizzato presso le scuole elementari svizzere, dove vivo dal 2014, corsi di “inventastorie”, scrittura creativa, giornalismo, teatro e poesia. Mi sono accorta di come i bambini, soprattutto quelli più problematici, con vissuti anche molto difficili e complessi, riuscissero ad esprimere sentimenti positivi attraverso le parole e l’immaginazione. Erano percorsi attraverso i quali raggiungevano un equilibrio interiore molto profondo e duraturo. Accadevano dei piccoli miracoli e le espressioni di negatività, attraverso l’immaginazione, si trasformavano in personaggi o eventi grazie ai quali si poteva facilmente anche ipotizzare il loro disagio.
Ma
il libro nasce anche e soprattutto da una urgenza ed emergenza personale,
quella di trasformare il dolore in guerrieri di pietra, clown, contadini,
scolari, maggiordomi, giraffe e leoni, baroni, principesse, galline, topi e
ghepardi. Personaggi strampalati, divertenti, buffi, che rappresentavano tutte
le difficoltà, di volta in volta magicamente superate, che stava vivendo la mia
famiglia. I momenti in cui io e le mie figlie eravamo insieme sdraiate sul
prato a guardare il cielo o sul letto ad immaginare le stelle e la luna al
posto di un soffitto, si trasformavano in viaggi straordinari, avevamo la
libertà, che in realtà non ci era temporaneamente concessa, di essere dovunque
volevamo e per tutto il tempo che desideravamo. La separazione dei genitori,
vissuta con problematicità e drammaticità, per due bambine è qualcosa di terribile,
a volte bisogna inventarsi un mostro, magari con sette teste che sputa fuoco e
calpesta i fiori ad ogni suo passo, e magari un principe bellissimo su un
cavallo alato che ferma il mostro e salva il castello, il re, la regina, la
principessa e tutto il mondo. I figli impareranno che non ci sono sfide
impossibili e che affrontare le difficoltà non sempre vuol dire soffrire, può
significare crescere con la consapevolezza di come è realmente la vita, né
bella, né brutta, semplicemente vita”.
Sulla
copertina, sotto al titolo, scrive “fiabe favolose per creature avventurose –
otto storie consigliate dagli 8 ai 100 anni”, quindi in pratica è un libro per
tutti?
“I
nostri personaggi raccontano vissuti di ogni tipo ed in ogni luogo, reale,
immaginario, sogno. Ciò che accade alla gallina Teresina, al vecchio contadino,
al principe Magrino, al leone, alla giraffa, al barone di Santandrè, al bambino
dispettoso o alla principessa insonne in realtà è ciò che potrebbe accadere ad
ognuno di noi a qualsiasi età. L’amore, la libertà, la malattia, i vizi ed i
capricci, la solitudine, la prepotenza, l’arroganza e l’inganno fanno parte di
tutti noi nei diversi momenti della nostra vita. Anche i luoghi rappresentati,
la selva oscura, Benzo Benzo, la savana, Pirulì, Tvlandia, rappresentano a
volte un punto di partenza altre un traguardo, un approdo, una salvezza. Ed
ancora tutti i sentimenti che coinvolgono i personaggi, il coraggio, l’onestà,
la fiducia, l’amore rassicurano il bambino sulla circostanza che, a volte gli
adulti possono sbagliare ed anche tanto, possono perdersi, smarrirsi, anche
sparire, ma nulla di tutto ciò è necessariamente “per sempre”. La parola
“definitivamente”, mi disse un mio caro amico settantenne, non esiste, questo
ai bambini può far paura, ma i miei personaggi interagiscono con ogni forma di
sentimento ed emozione, e ne escono fuori sempre vincenti e forti”.
Quindi
con queste favole ha voluto in qualche modo affrontare il tema della
separazione, della perdita, del cambiamento?
“Una
vicenda molto complessa ha visto me e le mie due figlie coinvolte in un
distacco temporaneo ma molto doloroso. Brevi ma intensi gli incontri quotidiani
durante i quali il tempo doveva essere necessariamente ‘impreziosito’ per
lasciare impresse nel cuore e nella mente delle mie bambine la voce ed il
calore di una madre piena d’amore. E cosa può esserci di più prezioso al mondo
che il dono di una favola? Chiedevo alle mie figlie di ‘darmi i personaggi’,
così le piccole coautrici iniziavano a scavare sempre più a fondo della loro
curiosità, fantasia, immaginazione e magia. Mi chiedevano di ‘inventare una
nuova storia con i loro protagonisti’ e così accadde il primo miracolo, senza
affannosa ricerca o disperata volontà di stupire, abbiamo dato vita a qualcosa
che ci terrà legate per sempre, e che le piccole ricorderanno anche da adulte,
quando il peggio sarà passato ed il male, forse, speriamo, le avrà abbandonate
lasciando spazio e rendendo eterno un sentimento forte e tenace. Non a caso il
primo personaggio del libro è un guerriero con il cuore di pietra alla ricerca
di un vero cuore pulsante che possa fargli provare il sentimento più bello del
mondo, l’amore. Il nostro viaggio avventuroso è durato otto storie e, sempre
non a caso, si è concluso con il felice coronamento di una bellissima e dolorosa
storia d’amore. Nulla è un caso in questo libro, neppure le illustrazioni di
Francesco Barbetti, che ha saputo cogliere il significato di questo lavoro con
estrema sensibilità ed intensità, entrando a far parte anche lui, con grande
garbo, di questa vicenda di cui, inconsapevolmente, ha rappresentato tutto il
senso. Lui non conosceva cosa stava
accadendo nella vita reale”.
Le
favole sono state scritte tra il 2016 ed il 2017, ma sono state pubblicate solo
a dicembre dello scorso anno. Ha volutamente atteso che Maria ed Iris fossero
più grandi affinchè potessero vedere quelle storie come “favole per tutti i
bambini” prendendo un po’ le distanze da quanto accaduto.
“Esatto.
Avevamo tutti bisogno di far trascorrere un tempo sufficiente per
familiarizzare maggiormente con tutti i personaggi. Rileggerlo adesso è stata
un’esperienza incredibile, tante cose sono cambiate, non mi riferisco agli
eventi esterni. Siamo cresciute e abbiamo lasciato che anche Maria, Iris e
Giovanna abitassero tra quelle pagine. C’è stato un distacco tra il prima ed il
dopo e forse anche i personaggi delle otto storie sono cambiati nel frattempo.
Lo sapremo nel seguito de “Il leone sulla giraffa” perché quello che abbiamo
intenzione di fare è continuare a raccontare, nella prossima pubblicazione,
cosa è accaduto agli stessi personaggi della prima edizione e credo che in
quella occasione si aggiungeranno anche una mamma e due bambine che ne combineranno
delle belle. Tutto è cambiato in questi anni, dalla scrittura alla
pubblicazione del libro.
Mentre inventavo queste favole con e per le mie
figlie avevo i minuti contati, il tempo da trascorrere con loro era limitato e
appena finita la storia se ne sarebbero andate via mano nella mano con il padre
senza neppure rendersi conto di ciò che stava accadendo. Ed io raccontavo di
principesse, leoni, baroni, bambini capricciosi e dispettosi, circensi.
Ridevamo sdraiate nell’erba a guardare il cielo. Dentro di me ipotizzavo che
una semplice folata di vento ci avrebbe potuto sollevare da terra per farci
scomparire. Volevo andare lontano. Non mi accorgevo che in realtà eravamo già
lontanissime, catapultate in quelle storie che ci hanno guarito e ci hanno
salvate. “Il leone sulla giraffa” è la dimostrazione di come si possa
descrivere il paradiso pur vivendo l’inferno, di come l’immaginazione, la
creatività e la poesia siano i veri miracoli del nostro tempo, di ogni tempo.
Le bombe esistono e distruggono ogni cosa, ma noi continuiamo a vivere il
nostro sogno e ad urlare libertà”.
Ci racconti delle sue tre figlie Chiara, Maria
ed Iris, protagoniste fondamentali in questo volume. Tre personalità molto
diverse eppure legate da un sentimento forte e profondo. Come le presenterebbe
ai lettori le coautrici de “Il leone sulla giraffa”?
“Posso descriverle con
un breve racconto scritto poco prima della pubblicazione del libro, mentre
riflettevo sulla ovvia frase “i figli sono tutti uguali”. Mi piace riproporlo
in questa intervista.
“Sono madre di tre figlie uniche.
I figli sono tutti uguali. Non è vero, non è assolutamente vero. Lo diciamo noi genitori pensando di non deludere nessuno e convincendoci che sia la cosa giusta, eticamente corretta da dire. Mai bugia più grande ed inutile. I figli sono TUTTI figli unici e li amiamo in un modo completamente diverso, “problema” sconosciuto a chi ha un solo figlio. “Problema”…mi vien da ridere. Ricchezza, risorsa, bellezza, straordinaria sensazione di avere davanti tanti altri sé completamente diversi, unici, “pezzi” unici, con crepe, difetti e particolarità che ci rendono “miliardari” anche senza un soldo e senza un bel niente di niente. Le guardo tutte e tre, ogni volta che posso, me le guardo sempre più in profondità, arrivo fin dove posso e fin dove credo di poter arrivare, consapevole del fatto che c’è un universo infinito a me ancora sconosciuto, e grazie a Dio, mi ripeto incessantemente. Non voglio conoscere tutto, non voglio sapere tutto, non voglio vedere tutto. Mi piace da impazzire quando d’improvviso arriva qualcosa di completamente inaspettato e sorridendo mi dico “questo me lo sarei aspettato da Maria, non da te” oppure “somigli sempre di più a Chiara”, “non parlarmi come farebbe tuo padre!”. Sempre più spesso dico idiozie del genere, il più delle volte quando la rabbia si impossessa di me e mi trascina in vocabolari fin troppo ovvi e scontati ed allora sono loro che mi guardano come se non fossi io, ma mia madre o mia sorella, mai mio padre, purtroppo, la persona più equilibrata e pacata che io abbia mai conosciuto nell’universo.
Ebbene sì, la figlia preferita è Iris. Lo ammetto, voglio essere onesta. La sua dolcezza è disarmante. Sconvolge il tempo e lo spazio, irrompe, travolge. Morbida e liscia come seta, calda come lana, rotonda come una perla, straordinaria nelle sue esternazioni. E’ la parte di me che non sono mai riuscita a far crescere, è quello che mi è sempre mancato per essere “perfetta”. Penso “E’ arrivata per farmi capire che con la calma e con il sorriso si può arrivare dovunque, anche lontanissimo, andata e ritorno”. Non esplode mai, rimane ferma, ferita, offesa e piena di dolore, si nasconde il viso tra le mani, per qualche istante, poi sposta le mani e sorride illuminando il pianeta di stelle. S’accende tutto ed un calore potente si diffonde tra le carni ed il sangue. Mi sento sciogliere, mi dissolvo, evaporo, svanisco da quel mio essere irruenta e prepotente e divento un angelo, mi spuntano due enormi ali e mi sollevo da terra. Lei lo sa l’effetto che produce e se la ride tra sé e sé, come se nulla fosse ed invece è tutto. Ha occhi immensi, di un colore imprecisato, indefinibile, che cambia con il tempo, con le svariate passioni che vive, con lo stato d’animo, con le parole, con i gesti, con i sapori del cibo e con gli orari del giorno e della notte. Comunica con le minuscole venature delle pupille, paralizza quando li sgrana, quegli occhi da aliena e li punta verso una qualsiasi direzione, si riconoscerebbe in mezzo a milioni di esseri pensanti, vien voglia di rapirla e di portarla su un altro pianeta per vedere l’effetto che potrebbe causare il suo esserci. Ha un pugno forte e grande, ma è quando arriva con la mano aperta che riesce ad essere sè stessa, con una sola carezza fa crescere prati di girasoli in mezzo al deserto.
Ebbene sì, la figlia preferita è Maria. Lo ammetto,
voglio essere onesta. La sua creatività è disarmante. Sconvolge il tempo e lo
spazio, irrompe, travolge. Quando la cerco per tutta casa per punirla o
sgridarla o rimproverarla, lei appare “travestita”, una nuvola leggera, una
piuma, un soffio di vento leggero e fresco, mille colori addosso come fosse il
più perfetto tra tutti gli arcobaleni. Gesticola, si agita, balla, canta,
scompigliata, scapigliata, scalmanata, scomposta. Mi punta gli occhioni giganti
addosso e improvvisa uno show davanti al mio dito puntato. La sua camera è un
accampamento, a volte ospita gli indiani d’America, altre indigeni africani,
poi arrivano eserciti dalla Mongolia o geishe ammalianti bianche come
porcellane. Lei arriva da Palenga, ne parla perfettamente la lingua
incomprensibile, la notte viaggia, il giorno è assonnata e stanca, si nutre
appena giusto per sopravvivere, tutto l’annoia, è al di sotto delle sue
aspettative. Legge al mattino alle sei e mezza prima di andare a scuola, fa
lunghe passeggiate da sola nei boschi, raccoglie sassi e legni e foglie. Ha un
innato talento in tutto ciò che fa. E’ sorprendente. E’ bellissima quando in
silenzio adagia il suo viso sulla mia spalla e si lascia baciare. E’ preziosa.
Creatura misteriosa. Incomprensibile. Passa dal sorriso al pianto in un
istante. Non se ne conosce il motivo e non è poi così importante conoscerlo. Si
autoguarisce da ogni tipo di ferita. Si lascia amare ma ama con enorme
difficoltà, perché amare è darsi completamente e per lei questo è difficile.
Ebbene sì, la figlia preferita è Chiara. Lo ammetto,
voglio essere onesta. La sua forza è disarmante. Sconvolge il tempo e lo
spazio, irrompe, travolge. Impossibile starle dietro, impossibile anche
camminarle di fianco, di lato, a destra, a sinistra, sotto, sopra. Guerriera
disarmata, in giro per il mondo con valigia e computer. Se lo mangia questo
stupido mondo insignificante. Se lo ingoia e lo risputa fuori migliorato.
Coraggiosa come una tempesta. Furiosa e furibonda. Un fiume in piena senza
rive, argini, approdi. Non si attracca al suo porto anche perché porto non ne
ha e non ne vuole. Impaziente, insaziabile, incontentabile. Sufficiente a sè
stessa. Si basta da sola. Si autogestisce. Si autodistrugge. Ma poi si rialza, si
ricompone e ricomincia. Tutto da sola come fosse l’unica abitante di un pianeta
abbandonato dagli esseri umani, un’apocalisse. Babilonia. “Mamma so io cosa
devo fare”, la frase che ripete incessantemente come un mantra, se ne vuole
convincere, in realtà sa bene che ha bisogno di me ed io di lei, gemelle
diverse, ma incredibilmente uguali. Potente. Attila. Fa paura. Purtroppo anche
a sè stessa. Si contorce frequentemente dal dolore per tutto quello che non
riesce a sputare fuori perché teme di ferire, di far male, di sbagliare.
Ho tre figlie uniche, sono madre di tre figlie uniche,
raro caso al mondo. Mi sento la donna più ricca del pianeta e la più fortunata
e la più completa. Anche loro dicono di avere una mamma unica, una sola. Raro
caso al mondo. Siamo pezzi unici in attesa di un sogno gigante, di quelli che
non durano una sola notte, ma una vita intera. Nel frattempo inventiamo fiabe:
“Sai nascono cosi fiabe che vorrei dentro tutti i sogni miei e le racconterò
per volare in paradisi che non ho. E non è facile restare senza più fate da
rapire, e non è facile giocare se tu manchi”. Abbiamo imparato a giocare tutte
insieme, sempre, per non farci più del male e per non farci fare più male da
nessuno. Non è difficile il gioco che facciamo, semplicemente non ha regole,
così, incredibilmente nessuno vince mai e nessuno perde mai”.
Madre a 15 anni, in un sud di quasi quarant’anni fa,
uno scandalo che la portò ad abbandonare la sua terra per trasferirsi a Roma
dove ha vissuto per quasi trent’anni. E’ stato forse questo avvenimento a
lasciare intatto ed immutato quel suo sguardo da bambina sul mondo?
“Sicuramente quella esperienza ha fatto sì che sentissi dentro di me l’esigenza di recuperare quegli anni persi, quell’adolescenza bloccata, quello smarrimento e quella paura che andava prima o poi necessariamente guardata in faccia senza filtri.
Ho affrontato la belva scrivendo il mio primo romanzo autobiografico “Le apparenze”, ho cercato di perdonare tutti, principalmente me stessa ed è nato in quel momento il bisogno di fare qualcosa per aiutare tutti i bambini ad affrontare i loro dolori più grandi. Perché a 15 anni ero una bambina, che vestiva con i maglioni di lana giganti ed i calzettoni al ginocchio. Quella subita fu una vera e propria violenza da parte di tutti, la società condannava una bambina e le dava anche un nome ben preciso e non proprio piacevole. Ma io non mi identificavo in quella etichetta piena di cattiveria e pregiudizio. Io mi sentivo come la gallina Teresina, la principessa insonne, il leone in fin di vita salvato dalla giraffa, il bambino dispettoso e capriccioso al primo giorno di scuola che cerca in tutti i modi di attirare l’attenzione, la gazzella spaventata, tutti i personaggi de “Il leone sulla giraffa” hanno qualcosa di quella ragazzina costretta a lasciare la sua città per evitare le maldicenze e per salvare la buona reputazione della famiglia. Ma non è stato certo solo quell’episodio a formare la donna che sono diventa
ta. Quasi trent’anni fa ho perso mia sorella e l’anno dopo mio padre, i miei punti di riferimento più importanti. Poi un matrimonio approdato ad un divorzio disumano e disonesto. Il 10 febbraio di quest’anno, l’anniversario della morte di mia sorella Mariella, ho ripensato un po’ alla mia vita. Quasi trent’anni senza di lei.
Stavo per addormentarmi, Maria, mia figlia,
chiacchierava senza smettere un attimo. Ho guardato l’orologio. È apparso quel
numero 10 che mi ha riportato alla memoria quella sera. Roma. Policlinico
Umberto I. “Mi dispiace. Non ce l’ha fatta”. Fine della storia. Le solite
spalle di un camice bianco che se ne va e ci lascia a digerire quel dolore
inconcepibile, inaccettabile, ingiusto. E poi subito dopo aver visto il numero
10 sul mio orologio ho guardato Maria che si era addormentata. Iris era nella
sua stanza, dormiva anche lei. Chiara mi aveva scritto poco prima o poco dopo
la mezzanotte subito prima di addormentarsi, per darmi la buonanotte. Continuavo
a pensare a come risolvere ciò che sta accadendo. Il mio problema di sempre.
Lui. Il padre delle mie figlie. E allora ho ripercorso in pochi secondi
un’altra storia. Agosto 1984, avevo 15 anni e mezzo. Avevo partorito a Roma da
un mese più precisamente il 3 giugno. Avevo lasciato mia figlia in ospedale,
sulla sua cartella clinica la scritta ADOTTABILE. Ero tornata a casa mia a Crotone. Lo scandalo
era stato evitato, ingenuamente pensavamo. Non era trascorso un solo istante in
cui non avessi pensato a mia figlia Chiara Ileana Francesca, chiamata con i
nomi delle tre infermiere presenti al parto. Il 14 agosto prendo la decisione
di tornare a Roma per riprendere mia figlia. Mia madre decide di accompagnarmi.
Partiamo troviamo una stanza vicino la stazione termini. Andiamo al tribunale
per i minorenni ci dicono che occorre fare una causa e bisogna trovare un
avvocato. Apriamo l’elenco telefonico a caso, il primo nome che appare, una
cabina telefonica, l’appuntamento. Dopo pochi giorni l’udienza. C’è stato un
errore. Prima del compimento dei 16 anni non si può scegliere se riconoscere o
non riconoscere un figlio. Un errore commesso in ospedale. Mia figlia deve
tornare da me. Dopo qualche ora rivedo Chiara e fino al 15 novembre rimango con
lei a vivere in un istituto per ragazze madri a Monteverde. Avevo 15 anni e
mezzo, mia figlia 2 mesi. Quando le luci dell’istituto si spegnevano la sera
iniziavo a piangere e smettevo solo quando arrivavano le prime luci dell’alba.
Ho vissuto così per tre mesi ma a me sembrarono 30 anni. C’erano le sbarre alle
finestre. Una guardia al cancello per impedirci di scappare. Ragazze
abbandonate dalla famiglia, con realtà di droga, prostituzione, violenza. Avevo
15 anni e mezzo, mia figlia due mesi. E quella sera, il 10 febbraio di
quest’anno, in quel preciso istante in
cui una figlia mi dormiva vicina, un’altra nella stanza di fianco ed un’altra
ancora, quella del miracolo, mi aveva dedicato il suo ultimo pensiero prima di
addormentarsi, dicevo a me stessa “Se ho superato tutto questo puoi tu uomo mettermi
in difficoltà fino al punto di farmi crollare, soccombere, spezzarmi? E no,
caro mio, hai fatto male i conti ed hai scelto la donna sbagliata per
esercitare tutto il tuo potere distruttivo. Una madre che si è vista strappare
sua figlia una volta ed è sopravvissuta, stai pur certo e sicuro, caro uomo,
che sarà in grado di sopravvivere anche a te. Rincara pure la dose ed io di
quella scena ne farò un tempio in cui pregare non un dio qualunque, ma il dio
delle madri e dei figli, e non lo pregherò per me, ma per te, affinché abbia
pietà e non ti faccia pagare un prezzo troppo alto per tutto il male che hai
fatto, prezzo che tu di certo non saresti in grado di sopportare. Amen e così
sia”. Da quel 3 giugno 1984 non ho mai smesso neppure per un giorno di pensare
a come fare del bene a bambine e ragazze a cui è stato impedito finanche di
sognare, non solo di sperare. Mi sono impegnata in battaglie gigantesche
affinchè nessuno si arrogasse il diritto di mettere un’etichetta ad un essere
umano, soprattutto se piccolo, indifeso e spaventato dagli eventi. Anche “Il
leone sulla giraffa” è un piccolo contributo in tal senso. Se sono capace io,
ancora oggi a 53 anni di inventare e raccontare favole, chiunque può farlo in
qualunque condizione si trovi, anche sotto le bombe, sotto le dittature e sotto
tiranni che non hanno nulla di essere umano ma somigliano sempre di più al
mostro dalle sette teste di cui mi raccontava mio padre quando avevo appena
pochi anni”.
Il male che si riceve ed il dolore che si subisce possono trasformarci in
qualcosa che non vorremo mai essere?
“No, assolutamente no. Noi a casa abbiamo un nostro particolare modo di affrontare le “botte” che la vita ci ha dato, ci dà e ci continuerà a dare.
Una botta? due chili di farina lievito olio e
sale. Due botte? Raddoppiamo le quantità e di pane ne vengono fuori due. Tre
botte? Triplichiamo tutto e la casa profuma di famiglia, figli, pasta, pane e
torta di mele. E no, potremmo essere bestie, animali feroci, orchi, draghi
maledetti, streghe e malvagi guerrieri avidi di conquiste, e invece sforniamo
fiabe e pane e ne facciamo dono anche ai nemici, perché lo dobbiamo a noi
stesse, non diventare mai come loro. Che poi chi lo sa, qualcuno trasformó i
pani ed i pesci moltiplicandoli, può darsi che quel pane pieno d’amore in bocca
ai peggiori demoni si trasformi in veleno e allora sarà ciò che deve essere, ma
per noi rimarrà sempre il più grande gesto d’amore. Siamo fatte così e si illuda
pure chi pensa di averla fatta franca. Non cerchiamo vendetta, noi gridiamo
giustizia in questo ed in tutti i mondi possibili. Nulla può renderti ciò che
tu non sei, nulla può tirar fuori da te ciò che tu non hai”.
Domenico
Barrilà è l’autore della prefazione de “Il leone sulla giraffa”, molto
intuitivo il suo paragone tra le favole ‘fatte in casa’ dalle autrici ed
il pane caldo e fragrante, accogliente e nutriente che ‘fa famiglia’
sempre e comunque, ovunque in ogni casa ed in ogni angolo dell’universo.
“L’incontro con Domenico Barrilà è stato
illuminante, un uomo che da sempre si occupa del disagio giovanile, che ha
scritto tantissimo dimostrando di conoscere molto bene i giovani, il contesto
sociale con tutte le sue trasformazioni ed i suoi velocissimi cambiamenti. Uno
psicoterapeuta attento e scrupoloso cui ho affidato le mie favole nella speranza
che avesse tempo e voglia di leggerle e di commentarle insieme per lasciare un
messaggio ai lettori. E’ stata una gioia grande quando mi ha inviato il suo
scritto cogliendo straordinariamente ed esattamente la natura profonda di
questo lavoro per me così importante. Non potrò mai smettere di ringraziarlo e
di essergli riconoscente. Ogni sua espressione è pregna di significato. “Le
storie che fabbricano, che si leggono tra di loro e poi ci raccontano, sono
piene zeppe di “vecchia” umanità, quella che se muore siamo morti tutti. Non
c’è una sola delle otto fiabe che non contenga un monito intelligente, privo di
moralismo”, scrive Barrilà. E conclude “Ce n’è per tutti i gusti, ma solo per
chi è disposto a credere che il futuro esiste solo se ci portiamo appresso il
meglio del passato, compresa quell’innocenza che per tanti è diventata una
zavorra invece è una solidissima zattera”. Straordinario”.
Il libro è corredato da numerose colorate
illustrazioni di Francesco Barbetti. Com’è nata questa solida collaborazione?
“Conoscere Francesco è stato un altro miracolo
di questo lavoro, io li chiamo così i
momenti importanti, non un caso, perché il caso non esiste, esistono equilibri
fatti di istanti irripetibili, di unioni di cuori e neppure è un caso che un
padre abbia compreso così bene il messaggio d’amore di una madre, pur essendo
all’epoca del nostro incontro, due perfetti sconosciuti, legati solo dalle
fiabe scritte e da pubblicare. È esattamente
ciò che avrei voluto. Grazie davvero ad un grande artista, oggi amico sincero e
lavoratore instancabile. Le modifiche al lavoro originario di Francesco sono
state minime, quasi inesistenti. Ha colto sin da subito esattamente ciò che
avevo in mente, senza nessun tipo di difficoltà. Una intuizione ed una
sensibilità incredibili accompagnate da una mano delicata e leggera. Le
illustrazioni sono poesia pura. Il libro non sarebbe stato quello che è e non
avrebbe rappresentato il messaggio che avevo deciso di trasmettere senza i suoi
disegni bellissimi”.
Alcune
delle favole contenute nel libro sono state messe in scena con la
partecipazione di sua figlia Chiara Stirpe, che ha collaborato anche nella
stesura del volume. Sua figlia è un ingegnere presso una multinazionale, come è
riuscita a coinvolgerla in questo progetto?
“Chiara è un essere speciale, un elfo, una
fata, uno gnomo, un folletto che mi ha sempre sostenuta in ogni folle idea ed
iniziativa, spesso partecipandovi in prima persona, interprete dei miei
racconti in veste di attrice drammatica o comica. Un piccolo gioiello nella mia
vita, senza il quale non sempre avrei avuto modo di ‘brillare’ pur con spunti e
pensieri ‘luccicanti’. Indimenticabile la sua interpretazione della gallina
Teresina, vestita di piume, tacchi altissimi e spacco vertiginoso, una tra le
più belle rappresentazioni teatrali dei miei scritti. Improvvisava davanti ad
un pubblico, bambini ed adulti,
entusiasta e partecipe che non riusciva a trattenere le risate. E’ un po’ tutto
fatto in casa questo lavoro, ma una casa davvero particolare, nessuno si è mai
sottratto alle mie direttive, sono un capo esigente ed intransigente, mi viene
concesso tutto perché agli artisti, si sa, non si può mai dire di no e non si
possono porre limiti, come ad un
sonnambulo, se lo svegli mentre vaga per tutta la casa in preda al suo
disturbo, le conseguenze sono imprevedibili, o come un funambulo, se lo distrai
mentre esegue il suo esercizio con le sue regole ed il suo equilibrio, può
accadere il peggio. Io sono una mamma a metà tra l’uno e l’altro. Ad ogni modo
mi temono e questo serve a me ed a loro”.
Incredibilmente queste favole sembrano
cresciute irrigate da fiumi di lacrime e di risate. Sembra un miracolo in
equilibrio perfetto.
“Di risate ne abbiamo fatte tante, fino a
sentirci male, fino quasi a non respirare. Ma io credo fermamente che ciò che
ha contato di più sono state le lacrime.
Potrei versare tutte le lacrime del mondo ma
non basterebbe a raccontare questo bellissimo dolore che vivo per voler amare così
tanto e a tutti i costi la vita, di cui, sono sincera nel dirlo, non cambierei
neppure un giorno. Ci vuole poco per essere felici, ma occorre un grande cuore
ed una coraggiosa fantasia per rimanere per sempre bambini”.