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di Alessandra Macrì

Uso con malcelato disagio i tasti del telecomando. Non sono da Netflix e Prime. Da interno borghese riqualificato ai tempi della serialità. Non ci sto sul divano del decubito, appresso alle puntate. Per rappresaglia, mi vieto anche i film da addomesticati. Dal cinema pretendo il sequestro, lo spazio che annienta la realtà. Buio in sala e i baci potenziati dalla visione. 

Brividi d’autore però scoppia subito nel chiarore scintillante delle pellicole che hanno fatto la storia del cinema italiano, levandomi nel tempo di un battito di ciglia, alla nostalgia. Pierfrancesco Campanella non ama i preamboli. Le attese. L’archivio di Alfredo Bini compare come dichiarazione di poetica che congiunge generi diversi alla ricerca di un entomologo. Omaggio alla tradizione e ricerca smisurata del codice per registrare l’evento: l’attimo in cui accade il cinema nuovo. Il link tra Anna Magnani in Mamma Roma e la meravigliosa Maria Grazia Cucinotta di Campanella, persino più bella quando compare senza trucco. 

Secondo Fabio Melelli, docente universitario di Storia del Cinema: ‘Pierfrancesco Campanella è un regista atipico nell’ambito del panorama cinematografico italiano. Un cane sciolto, nel vero senso della parola, completamente al di fuori delle regole del sistema. Le sue opere, spesso contestate da certi critici pseudointellettuali che osannano solo gli artisti schierati, sono disturbanti e politicamente scorrette, anticipando spesso tematiche scomode. Il tempo però gli sta rendendo giustizia e i suoi vecchi film stanno ultimamente diventando veri e propri cult movies’. Annuisco e mi addentro, esaltandomi sui versi di Bukowski.

Lo stile è la risposta a tutto. Un modo nuovo per affrontare qualcosa di noioso o pericoloso fare una cosa noiosa con stile è preferibile al farne una pericolosa senza. fare una cosa pericolosa con stile è quello che io chiamo arte.

Da Charles Bukowski a Ben Gazzara, alias Charles Serking in “Storie di ordinaria follia”, diretto da Marco Ferreri, a uno degli insensibili interlocutori di Louiselle Caterini in “Brividi d’autore”, diretto da lei. Fino a che punto si può osare, provocando le cose pericolose della vita per sottrarsi a quelle noiose, e quando è lo stile che deve intervenire a imporre una misura? Intendo: la vita, da sfruculiata, va verso le sue conseguenze drammatiche, o irrisorie, o fatali. Quando è che l’artista capisce che ha trovato l’ultima scena, quella da cui riverberano tutte le altre, o mai più nessuna, tanto da dare un taglio alle provocazioni che infligge alla vita?

Forse quell’ultima scena non si trova mai. Troppe variabili entrano in gioco durante la fase delle riprese. Ad ogni buon conto, uno stile è fatto di regole che possono essere sovvertite durante il montaggio. E’proprio lì che occorre imporre un ritmo e un pathos crescente.

È possibile ovviare a quanto Mariagrazia Cucinotta, Louiselle, finisce per scegliere quasi fosse – per tutti? Finora i suoi film sono stati profetici… – l’ultima spiaggia, raggiungendo il successo e per ciò corrispondendo in uno al mercato, al conto in banca, e al proprio legittimo desiderio di essere altro tutt’altro da quello che la gente, il pubblico, deve sapere dell’artista? Che prezzo si può arrivare a pagare in nome di questo scopo?

Un prezzo alto, dettato dalla sincerità che prima di tutto si deve a se stessi e poi al proprio pubblico. Ma il cinema è soprattutto un prodotto industriale, fatto anche di mediazioni tra quello che il produttore vorrebbe importi e la tua personale esigenza di raccontare una storia. 

Calvino sosteneva che per scrivere devi uccidere i cani che hai dentro. In un altro dei suoi film, “Cattive inclinazioni”, l’ambiguo personaggio della contraffattrice d’arte interpretato da Florinda Bolkan, fa larghi sorrisi mentre confessa in un talk show da prima serata che il mostro è solo la materializzazione degli istinti che non accettiamo. Quindi si potrebbe finire per eleggere l’audience giudice unico delle mostruosità accettate, accettabili. Magari facendo votare la maggioranza, il pubblico a casa, pure nel caso dei sacrifici d’autore.

Il giudice inesorabile di un artista resta sempre quello che un tempo era il botteghino mentre oggi viene dettato dal numero delle visualizzazioni sulle piattaforme. Non bisogna mai dimenticarlo! Da parte sua il pubblico detiene sempre un telecomando e a lui resta sempre il sacrosanto diritto di cosa scegliere.

Finiremo per abitare la società della cronaca nera? L’editoria piazza overdosi di noir, i telegiornali e i salotti televisivi storie di massacri en famille, passeggiando distrattamente al parco, quando si teme di dare alla luce un bambino nelle situazioni più stravaganti.

E’ la triste prerogativa dei nostri giorni: spesso la realtà supera di gran lunga la fervida fantasia anche di un perverso sceneggiatore o di un regista dalle inclinazioni pericolose. Ce lo dimostrano quotidianamente i programmi televisivi del daytime o di seconda serata, infarciti di efferati casi di cronaca, tesi a tenere alta l’attenzione dello spettatore per un punto di share in più. 

Sperava non fossero profetici i film che girava alle soglie del nuovo millennio?

Immodestamente forse avevo già previsto tutto. I processi oggi vengono celebrati nei nuovi tribunali dell’Inquisizione, inscritti nella scatola televisiva. Il delitto di Cogne in questo ha aperto la strada ad un nuovo e discutibile modo di fare televisione.

Il mostro è Frankenstein. Ma la creatura di Mary Shelley è un ipersensibile esteta sopraffatto da bellezza, un contemplativo condannato dalla meschinità degli umani.

La stessa innocenza dei bambini, quella che abbiamo irrimediabilmente perso nel passaggio alla vita adulta. Ma anche i bambini sanno essere sufficientemente crudeli, specie quando emulano gli adulti.

Stare chiuso qui dentro cercando di conservare cosa non è esistito mai. Incombe come una mannaia nello script di “Brividi d’autore”. Mi ha folgorata. Tuttavia non interrompe la ricerca, fiera e disperata, di Louiselle. Forse chi sa di incatenarsi a un mandato talmente crudele, è piuttosto Gianluigi che si rifiuta di parlare coi grandi, in “Chiedo Asilo” di Ferreri, o Premio Politano di “Cattive inclinazioni”. Il bambino chiede alla mamma: “Dimmi la verità!” Sfuggire al mondo degli adulti significa sfuggire alla necessità della menzogna. Premio Politano, l’interrotto, potrebbe essere l’assassino, o chi non saprebbe concepire misfatto, o colui il quale reagisce all’oscena prevaricazione delle regole dei grandi impugnando una squadra da disegno e facendone ghigliottina. L’artista deve cedere a conseguenze da adulto? In che rapporto stanno menzogna e invenzione?

Nella stessa correlazione che intercorre tra invenzione e rivelazione. Un assioma che potrebbe essere tranquillamente applicato all’essenza stessa del cinema..

Premio. Più che un nome proprio, la configurazione di un indizio. Chi incarna l’originale, l’eterno infante attaccato alla lingua madre, natura e origine, sguazza nell’autenticità che ripaga l’artista della lotta col proprio splendore, col molto dolore, e gli infiniti giorni d’attesa?

L’archetipo di Premio Politano è inscritto nel mito greco di Edipo nel suo rapporto conflittuale con la madre. In chiave metaforica il mio è con il cinema, un mondo tanto affascinante quanto pieno di poche certezze.

Il dolore obbliga alla ricerca e al ricordo, la guarigione preme perché sia oblio. I suoi personaggi sono lesti a ripulirsi delle croste, dagli esiti delle suppurazioni sulla coscienza. Si ributtano nel gioco, si ficcano nella mischia, ascoltano la carne. Quanta voce dà alla carne per alimentarci la sua ispirazione?

Citando Charles Bukowski, nel desiderio sessuale “si commette il più vecchio dei peccati nel più nuovo dei modi”.

In “Storie di ordinaria follia” di Ferreri Ben Gazzara minaccia la svenevole partner: Vuoi che mi tolga la cinghia? Lei lo riporta nei frame collegati alla fantasia di Mariagrazia Cucinotta. Si tratta di una formula assai pronunciata almeno dal secondo dopoguerra, lungo i viali rigogliosi del boom economico, nelle belle case delle belle famiglie italiane. Spettava ai migliori pater familias. Non ci sono più i ‘maschioni’ di una volta?

Non sempre. Ad esempio Ferreri ne “L’ultima donna” aveva sentenziato che l’uomo era perduto, sconfitto dal suo stesso machismo e per questo destinato all’autoevirazione. E non si tratta di un caso isolato!

Uno dei malfattori di una Justine postmoderna, negandole aiuto a dispetto dei loro trascorsi rivela: Io non credo nei sogni Louiselle. È possibile fare cinema e non credere nei sogni? In “I love Marco Ferreri”, Pierfrancesco Campanella espone una citazione da Edgar Allan Poe: “Tutto ciò che vediamo sentiamo o siamo non è altro che un sogno dentro un sogno”

In questo Fellini è stato un maestro. Da “Otto e mezzo” in poi non ha fatto altro che raccontare la stessa storia. L’interpretazione dei suoi sogni in un’ottica junghiana, complice l’incontro con lo psicoterapeuta Ernst Bernhard.

Se perde la possibilità di credere alla creatura cosa ne è dell’artista? Colui che sogna si soddisfa completamente di ciò che sogna. Uno dei moventi a fare arte ancora oggi, secondo Manifesto, l’installazione-lungometraggio del 2015, di Julian Rosefeld.

“La vita è sogno” resta una splendida commedia di Calderon de la Barca. Ma ci sono anche le bollette da pagare… e forse lì si torna alla cruda realtà. 

Hanno paragonato i suoi film per genere e stile a quelli di Dario Argento. Ma lei fa sceneggiature tarantolate, dialoghi in cui ironia e autoironia e persino meta ironia la fanno da padrone. Colgo una volontà programmatica di sottrarre pathos a favore di un estetizzante gusto per il pulp. Quentin Tarantino o gli spazi percorsi dall’orrore misurato goccia a goccia in Dario Argento?

Mi onoro del paragone con due indiscussi Maestri. Non a caso il primo non ha mai nascosto la sua passione per il nostro cinema di genere, mentre al secondo mi sono ispirato quando ho girato trent’anni fa “Bugie rosse”. In quella pellicola non è difficile scovare più di un riferimento a “Profondo rosso”.

Satira derisione deformazione grottesca di una società immune al cambiamento sono i tratti costitutivi della poetica di Ferreri. Il lei di una società globalizzata che ha fondamenta nelle paludi, sulle sabbie mobili di movimenti schizoidi, in flash forward.

Non a caso il “grotesque” e il “divertissement” sono tratti costitutivi della filmografia ferreriana, che io amo molto.

Invece i suoi personaggi appaiono piuttosto materici, attaccati all’oggettività della soddisfazione. L’amore è incompatibile col terrigno, mero, dato di realtà? E poi ‘L’amore è un crimine che richiede un complice’. Nei suoi film si invera l’homo homini lupus. “Solitudini. Ecco cosa siamo”.

In quell’episodio le chiavi di lettura sono molteplici. In pochi minuti vengono affrontati diversi temi come il complesso di Edipo del protagonista, l’omosessualità, i disturbi alimentari ma il nodo principale è quello dell’incomunicabilità di oggi, dominata dai social media. Anche un tema attualissimo come la violenza sulle donne appare ribaltato: da vittima inconsapevole la protagonista si trasforma in una implacabile carnefice.

Lei non mi pare ami cuocere la vittima a fuoco lento. Alla tortura, che imporrebbe il supplizio dell’attesa, preferisce il colpo secco. E la telecamera indugia, sul dopo. La sua preferenza estetica la mette accanto a Rust, in “True Detective”, mentre sbatte sul tavolo delle indagini le foto di tutte quelle donne. Tutti quei corpi arresi, esposti a ciò che infine hanno accettato. A proposito dei corpi. Ipotizza copioni anche in funzione delle sue attrici ricorsive, adattando i ruoli ai loro cambiamenti fisici, o si augura che il corpo delle donne che ha scelto per i suoi film resti inviolato, scampato al tempo, fermo come nei primi frame in cui lei lo ha inquadrato?

In generale non ho mai scritto una sceneggiatura in funzione di una interprete in particolare. Le attrici tendono ad essere poco inclini ad essere imbruttite per esigenze di copione. Preferisco quelle che sanno comprendere la natura del loro personaggio e si appassionano convintamente al progetto.

Ferreri sostanzia di molte belle scene la superiorità della donna. “Ciao maschio”, per esempio, ha battute e dichiarazioni di intenti paragonabili alle scelte di protagoniste di François Truffaut, o di Jean-Luc Godard. Serva del potere, angelo distruttore, natura che autoperpetua se stessa o nuova, iconica alternativa a tutte le strettoie, altrettanti recinti di genere, evocate finora?

Ne cito una su tutte: l’enigmatica e crudele Andrea Ferreol che, ne “La grande abbuffata”, assiste impassibile al desiderio di morte e autodistruzione dei quattro protagonisti.

Francesca Dellera andava mangiata?

Era la diretta risposta ai suoi film precedenti dove la misoginia del maschio veniva combattuta dalla voracità femminile. Nella sua follia Paolo, per non perdere Francesca, la fa a pezzi e se ne ciba. Ma con questo gesto perpetua il desiderio di una comunione totale con il suo corpo. A distanza di oltre trent’anni un film del genere non sarebbe realizzabile.

Sul versante dei legami alternativi alla famiglia tradizionale, mi pare lei non indugi in facili consolazioni. Rispetto all’agito da Ferzan Ozpetek, per esempio, nei suoi film non ci stanno amici che tengano, spariscono i fratelli biologici e quelli di confidenze e avventure comuni, pure il tetto sotto cui ripararsi per allestire qualche progetto nuovo, rischia di essere meno di una allucinazione. Niente esiste, fuori dalla tirannide di desiderio, o al limite passione?

Non sempre è così. Se ripenso al mio debutto dietro la macchina da presa con la commedia “Strepitosamente… flop!”, al centro della vicenda c’era un gruppo di amici che avevano deciso di vivere insieme in una sorta di “comune”, legati da diverse aspirazioni sul loro futuro. Condividevano gioie e dolori, momenti di gloria e numerosi fallimenti, tipici di chi si affaccia alla vita adulta. Lì l’amicizia ricopriva un ruolo fondamentale: l’esatto specchio della mia vita privata. Ho pochi amici ma buoni, su cui so sempre di poter contare. 

Incazzarsi è un modo di divertirsi senza ridere come sosteneva Ferreri?

Per me che ho avuto il privilegio di conoscerlo era solo un suo personale modo per sovvertire le regole del buonismo a tutti i costi. Fino al suo ultimo film ha difeso strenuamente il suo sacrosanto desiderio di odiare e di combattere contro i pregiudizi della nostra società.

Per carità le belle famiglie italiane che non ci sono più. Ma quell’attaccamento che può intuire solo chi abbia lottato assieme su un set, chi abbia sofferto la condivisione della nascita di un progetto, l’affetto per gli attori e gli altri addetti ai lavori cinematografici, diventa inevitabile?

Non sempre è così. Con alcuni di loro nasce un rapporto di amicizia e di reciproca stima che mi porta a scritturarli anche in nuovi progetti. Con altri ci si perde di vista per mille motivi ma quando ci si ritrova è sempre una gran festa. Recentemente ho ritrovato un mio vecchio collaboratore, Roberto Girometti, direttore della fotografia di uno dei miei primi film. E’ bello ricordare con lui tanti aneddoti legati ai vecchi tempi.

Un sopruso artistico equivale a uno stupro?

Qualche volta in passato mi è capitato di cedere alle imposizioni di qualche produttore. Oggi, fortunatamente, complice l’esperienza e gli anni sul set, dispongo di un maggior margine di potere decisionale.

I giochi di specchi funzionano sempre, perché alla gente piace guardare gli altri. “Perché a nessuno piace vedere cosa è davvero”. Secondo George Bernard Shaw si usa uno specchio per guardare il viso e si usano le opere d’arte per guardare la propria anima. Quale via di scampo resta all’artista?

Non penso sia soltanto una caratteristica di una società, liquida e voyeuristica come la nostra. La dinamica del guardare e dell’essere guardati è antecedente al cinema e risiede nel suo fratello maggiore, il teatro. Da un palchetto d’opera lo spettatore poteva rimanere ammaliato dal talento dei suoi interpreti ma se la ieraticità dell’artista non catturava la sua attenzione, aveva come alternativa quella di poter sbirciare da una prospettiva privilegiata vizi e virtù di cosa accadeva negli altri palchetti: lo specchio della vita che, a mio giudizio, è sempre più interessante. 

Una vita senza segreti è una vita esposta al pubblico ludibrio?

Poteva esserlo per un esteta come Oscar Wilde. Tocca a noi fare della vita un’opera d’arte, sublime e maestosa.

L’io narrante di “I love Marco Ferreri”, l’uomo che perde il contatto coi propri passi mettendosi sulle tracce del regista scomparso, dice: “E finisco sempre per trovare un indizio di partenza perché il caso non esiste”. È così?

E’ la parabola del suo modo unico di fare cinema: quella di un intellettuale dall’unghia affilata che, grattando le false certezze del modernismo, ci mostrava impietosamente la scimmia dietro l’uomo e il nulla dietro la scimmia.

Nel cinema di Ferreri la fotografia passa dai colori alterati, volutamente artificiali, degli inizi, ai toni lividi della metropoli in cui si compie la disillusione d’amore del giovane Christopher Lambert, alias Michael. È possibile che anche lei diriga la sua vocazione ad accogliere atmosfere paragonabili, in cui l’unico polo di brillante chiarore sia, magari, una eroina tardo romantica, appena un poco decadente, dentro ‘un film di lucida ontologia allucinatoria?

Per me Ferreri resta un insuperato Maestro del cinema italiano, ahimè spesso dimenticato e poco ricordato. E’ possibile che da buon discepolo ne abbia seguito le sue orme.

Gli alberi sono creature meravigliose… nella limpida luce dei propri colori, nella freschezza delle loro ombre. Ci immergiamo nei loro profumi intensi, ci divertiamo a nasconderci dietro il loro corpo, a sbirciare dietro le foglie, ad ascoltare il loro fruscio.

Gli alberi respirano, gli alberi ci parlano… ci raccontano la loro vita, ci mostrano le proprie rughe, ci svelano la propria età senza timori, non hanno paura del tempo.

E conoscono la nostra vita… riconoscono i nostri passi, le nostre parole, osservano silenziosi e apparentemente indifferenti tutto quello che gli gira intorno…

E si chiederanno… “ma che c’avranno da correre…?” “cosa si urlano…?”; “perchè fanno tanto rumore…”.

Noi non possiamo che amarli… belli, brutti, storti, dritti, alti, bassi che siano…
Sono forse gli unici a regalarci un tenero colore, uno spicchio di sole in un tempo grigio che ci porta via tutto con fretta e arroganza…

Roma ne ha partoriti tanti… sono la nostra storia. Ci hanno visto camminare, crescere, cambiare, sperare, sognare. Tutti noi dobbiamo aiutarli a vivere, a resistere… e quando sono malati dobbiamo curali e proteggerli come figli. Figli che si sono fatti da soli, che non hanno mai avuto raccomandazioni, e mai un avvocato che li tutelasse.

Certo, qualcuno può ammalarsi. E come tutte le anime sensibili affronterà il dramma della sofferenza… Noi faremo di tutto per medicarlo, per assisterlo fino alla fine. Se poi dovessimo accorgerci che non ci sono rimedi per tenerlo in vita, perché così malato da non poter far nulla… così malato che potrebbe rappresentare anche un pericolo per la nostra incolumità… allora possiamo anche decidere di porre fine alla sua sofferenza. 

Per tutto il resto… beh, sarebbe quanto meno educato chiedere il loro parere… magari saprebbero darci più soluzioni di quante la nostra limitata fantasia non riesca a trovare.

Anche noi cambieremo, anche le nostre città si incammineranno nel corso mutevole della vita, nuovi volti si affacceranno, altri se ne andranno. Gli alberi no… Resteranno lì, e continueranno a osservare quei buffi esseri che si reggono su due zampe… ma nelle loro cortecce, nei loro rami, nelle nuove foglie che nasceranno e cresceranno, nel loro respiro… ci sarà uno scorcio della nostra vita, dei nostri sospiri.

Impariamo a vivere e ad amare gli alberi, e insegniamolo ogni giorno a chi pian piano si affaccia nella vita dei grandi, ansioso e desideroso di apprendere. 

Martedì 29 ottobre 2024 ha ripreso il via la Rassegna “DONATORI DI MEMORIE” organizzata dall’Associazione culturale RIACHUELO – PROLOCO SAN LORENZO, nella sede di Via dei LATINI 52 a Roma.

La manifestazione, che si protrarrà fino a martedì 3 dicembre, prevede la realizzazione di una serie di incontri e “feste” con personaggi che hanno attraversato il quartiere San Lorenzo in qualità di protagonisti o testimoni, lasciando un’impronta nella storia sociale e culturale di quest’angolo di Roma. 

Storie importanti, alcune forse poco note, ma tutte finalizzate a una narrazione corale, genuina e senza infingimenti, di una zona sospesa tra arte, socialità e militanza. 

Ciascun incontro, – video-registrato e conservato – si pone come un tassello necessario alla costruzione di un Archivio digitale capace di dar conto delle molteplici esperienze del quartiere.

Nell’evento dello scorso 23 ottobre,lafunzionaria archivista di Stato Caterina Arfè ha parlato dell’importanza della Archivistica e delle Fonti orali. È stato poi proiettato il documentario P-artigiano prodotto da Blue CinemaTV di Daniele Baldacci.

Il secondo incontro, tenutosi martedì 5 novembre, è stato dedicato a Biagio Propato, poeta on the road di San Lorenzo con proiezione del film Poeti di Nino D’angelo, proiettato al Festival del cinema di Venezia, del 2009. Testimoni sono stati studiosi, amici e parenti.

Protagonisti dell’incontro del 12 novembre saranno Giuseppe Sartorio, scultore del quartiere, detto “il Michelangelo dei morti”, misteriosamente scomparso nel 1922, e il villino da lui costruito su via Tiburtina. I donatori di memorie saranno, in questa occasione, l’erede saranno Margherita Mastropaolo e lo storico Andrea Amos Niccolini.

Il 19 novembre si terrà un incontro dal titolo A proposito del Pastificio Cerere, la Scuola di San Lorenzo. A raccontare sarà Roberto Gramiccia, medico, critico d’arte e amico, dai primi anni ’80, degli artisti del Palazzo e Alberto Dambruoso, storico dell’arte. 

Il 26 novembre la ricercatrice Serena Donati ricorderà l’esperienza preziosa di Simonetta Tosi e la realizzazione nel 1976 a San Lorenzo del Consultorio autogestito.

Il 3 dicembre Mauro Papa sarà infine il testimone dell’esperienza politica del padre Urbano, autore della scritta “Eredità del fascismo, vergata su una delle pareti di un palazzo crollato sotto le bombe alleate del 1943. 

La rassegna è realizzata con il contributo del Municipio Roma II – Assessorato alla Cultura

PRO LOCO SAN LORENZO, VIA DEI LATINI 52, 

info: 3391467003

Il nuovo libro dell’acclamata scrittrice partenopea, che esplora l’incontro casuale in treno di Graziella e Francesco a prima vista appartenenti a mondi totalmente estranei, esce il 29 ottobre e sarà presentato con eventi a Napoli, Pesaro, Milano, Roma, Cassino.

Annella Prisco torna in libreria con la storia di un incontro ad alta velocità dall’intreccio inaspettato e avvincente. Si intitola “Noi, il segreto” ed è in libreria a partire dal 29 ottobre 2024, a quattro anni esatti dall’uscita del suo ultimo fortunatissimo romanzo, “Specchio a tre ante”, che è stato anche oggetto di traduzione.

È la storia intensa ed emozionante di Graziella, insegnante originaria di Atrani, il più piccolo dei borghi della Costiera amalfitana, raccontata con il solito stile scorrevole e delicato di Annella Prisco, che rivela man mano uno scenario stupefacente e ricco di colpi di scena, di introspezione e di profonde riflessioni.

Sposata con Gerardo, Graziella è una donna passionale e dinamica che decide di accettare l’incarico di docente in un
Istituto scolastico lombardo, nonostante sia costretta a lasciare il paese natìo, in provincia di Salerno, per trasferirsi a Milano. Spesso nasconde un velo di solitudine e inquietudine, causato dai dubbi e dalle incertezze in cui è immersa da quando ha iniziato un nuovo lavoro e una nuova vita in un’altra regione.

«Il contesto – spiega l’Autrice – è quello della problematicità dell’esistenza, che attraversa una serie di eventi: dall’uomo misterioso che incontra sul treno all’amore per il marito, dalla tensione per la malattia del padre all’amicizia profonda con la collega Marta, dal legame con l’ucraina Tanya al racconto dell’orrore della guerra. Con lo sfondo di un’Italia che da Nord a Sud manifesta tutte le sue bellezze, tradizioni e tipicità».

Lo spessore dei personaggi, ben delineati nei loro tratti distintivi, si staglia persino sullo sfondo del monastero più famoso d’Italia, ricostruito dopo la distruzione a seguito dei bombardamenti alleati, l’Abbazia di Montecassino, preso in considerazione dall’Autrice come cornice della narrazione.

La conclusione della vicenda, che ha il ritmo incalzante delle tensioni emotive, sarà sorprendente.

Tanti gli eventi e le iniziative in programma per l’uscita del libro: il primo appuntamento è a Napoli, città natale dell’autrice, sabato 16 novembre alle ore 11 nel foyer del Teatro Diana. Gli altri incontri sono previsti a Torre Annunziata (Libreria Libertà, 29 novembre), Napoli (O’Book, 11 dicembre), Pesaro (Alexander Museum Palace Hotel, 13 dicembre), Milano (20 febbraio 2025), Roma (Libreria Minerva, 14 marzo 2025), Cassino, Salerno, Atrani e poi numerose altre tappe in calendario.

Pubblicato da Guida Editori, con acquerello in copertina di Vincenzo Stinga, il libro è distribuito da Messaggerie Italiane ed è acquistabile in tutte le librerie anche online e dal sito www.guidaeditori.it

Annella Prisco è scrittrice, critico letterario, manager culturale ed esperta in comunicazione e relazioni pubbliche. È componente di varie giurie di Premi letterari e collabora con diverse testate giornalistiche. Nel 2022 le è stato conferito il Premio Donne che ce l’hanno fatta, e nel 2024 il Premio alla carriera L’Iguana – Anna Maria Ortese. All’esordio come autrice nel 1998 con il romanzo Ricordi senza memoria, a quattro mani con Monica Avanzini, hanno fatto seguito Chiaroscuri d’inverno (2005), Trenincorsa (2008), Appuntamento in rosso (2012) e Girasoli al vento (2018), che hanno ricevuto riconoscimenti anche a livello internazionale.

Nel 2020 è uscito il romanzo Specchio a tre ante, che pure ha ricevuto svariate onorificenze. Nel 2023 il romanzo è stato tradotto da Elisabetta Bagli in spagnolo e pubblicato da Papel Y Lapiz con il titolo El espejo de Ada, ricevendo il premio Il Canto di Dafne – Libro internazionale dell’anno, il premio della Giuria Città di Cattolica e il primo premio Libro in
lingua straniera “La Via dei Libri” in seno al Bancarella a Pontremoli.

Negli ultimi anni, l’Unione Europea ha intensificato gli sforzi per ridurre l’esposizione della popolazione al fumo passivo, con l’obiettivo dichiarato di creare una “generazione libera dal tabacco” entro il 2040. 

Questo impegno si riflette nelle recenti proposte di revisione delle raccomandazioni sugli ambienti senza fumo e senza aerosol, un’iniziativa che mira a proteggere maggiormente la salute pubblica attraverso misure più stringenti che includono anche i prodotti emergenti, come le sigarette elettroniche e i dispositivi a tabacco riscaldato. 

L’Europa ha sempre adottato un approccio progressivo e rigoroso nella regolamentazione dei prodotti del tabacco. 

Le raccomandazioni del Consiglio e le normative di riferimento mirano a limitare l’esposizione al fumo passivo, proteggendo in particolar modo le categorie vulnerabili, come bambini e anziani. 

Le norme vigenti si basano sulla Convenzione Quadro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il Controllo del Tabacco, e hanno già portato a una significativa riduzione dei fumatori e dell’esposizione al fumo in ambienti chiusi. Tuttavia, i cambiamenti tecnologici e l’emergere di nuovi prodotti alternativi al fumo tradizionale hanno complicato ulteriormente il panorama.

L’ Italia ha tradizionalemente avuto una legislazione molto restrittiva rispetto ad altri Paesi. La Legge 3 del 16 gennaio 2003 (art. 51), “Tutela della salute dei non fumatori” che ha esteso il divieto di fumo a tutti i locali chiusi (compresi i luoghi di lavoro privati o non aperti al pubblico, gli esercizi commerciali e di ristorazione, i luoghi di svago, palestre, centri sportivi), con le sole eccezioni dei locali riservati ai fumatori e degli ambiti strettamente privati (abitazioni civili).

La norma non prevede un obbligo, ma concede la possibilità di creare locali per fumatori, le cui caratteristiche strutturali e i parametri di ventilazione sono stati definiti con ilDecreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 dicembre 2003, che prevede anche le misure di vigilanza e sanzionamento delle infrazioni.

Un ulteriore passo avanti è stato fatto con la pubblicazione in gazzetta del Decreto Lgs. n. 6 del 12 gennaio 2016, che recepisce la Direttiva 2014/40/UE sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, presentazione e vendita dei prodotti del tabacco e dei prodotti correlati, che abroga la direttiva 2001/37/CE.

E’ un fatto innegabile che mercato del tabacco si è evoluto rapidamente negli ultimi quindici anni, con un aumento significativo della diffusione delle sigarette elettroniche (E-Cig) e dei prodotti del tabacco riscaldato (Tobacco Heating Product THP)

Questi prodotti vengono spesso considerati dai fumatori come alternative meno dannose rispetto alle sigarette tradizionali, ed è ormai noto che molte persone stanno utilizzando questi dispositivi come un mezzo per ridurre o cessare del tutto il consumo di tabacco combusto.

Tuttavia, questa evoluzione del mercato pone nuove sfide regolamentari. 

La Commissione Europea e il Consiglio dell’Unione Europea hanno quindi intrapreso iniziative normative per includere questi nuovi prodotti nei divieti già esistenti per il tabacco, estendendo le restrizioni anche agli spazi aperti.

La Commissione ha annunciato la propria intenzione di aggiornare la Raccomandazione del Consiglio relativa agli ambienti senza fumo emanata nel 2009 

La nuova proposta ed in votazione al Parlamento UE mira a includere non solo i prodotti del tabacco tradizionali, ma anche i nuovi prodotti come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato.

La Commissione sostiene che l’estensione dei divieti a questi prodotti è giustificata dalla necessità di proteggere ulteriormente la salute pubblica dall’esposizione ad aerosol di seconda mano, anche in spazi esterni come terrazze di bar, ristoranti, e aree pubbliche adiacenti a scuole e strutture sanitarie.

L’obiettivo generale di queste iniziative è duplice: ridurre ulteriormente il consumo di tabacco e disincentivare l’uso di prodotti contenenti nicotina, contribuendo alla cosiddetta “denormalizzazione” del fumo e del consumo di nicotina. 

Sebbene questi obiettivi siano, di per sé, condivisibili, la mancanza di un approccio distintivo tra i diversi prodotti e la mancata conduzione di una valutazione d’impatto adeguata rappresentano aspetti che destano non poche perplessità in una all’incisività sulla libertà dei cittadini.

Perplessità espresse da Italia e Romania

Le perplessità espresse dai rappresentanti di Italia e dalla Romania nelle dichiarazioni congiunte in occasione della discussione della raccomandazione del Consiglio sono indicative delle difficoltà legate all’adozione di queste misure. 

L’Italia e la Romania hanno sostenuto la necessità di preservare la salute pubblica e concordato sull’importanza di proteggere la popolazione dal fumo passivo, ma hanno anche evidenziato diverse problematiche procedurali e sostanziali riguardanti il processo di approvazione e il contenuto dell’Atto.

Nella loro dichiarazione, entrambi i Paesi hanno lamentato che “la procedura applicata per la discussione e l’approvazione da parte del Consiglio di questo Atto avrebbe necessitato di tempi e modalità migliori per lo svolgimento del dibattito tra gli Stati membri”. 

Hanno espresso rammarico per il fatto che molti emendamenti significativi proposti dagli Stati membri non siano stati adeguatamente considerati, sottolineando che un atto di tale importanza avrebbe dovuto essere finalizzato attraverso un consenso più ampio tra le parti, tenendo conto delle priorità nazionali.

Inoltre, la mancanza di una valutazione d’impatto adeguata è stata fortemente criticata. Per i due Stati “lintroduzione di misure ampie e generalizzate riferite alle aree esterne, non chiaramente identificate e associate a concetti come la presenza di traffico pedonale intenso, manca di fondamento giuridico e genera potenziale incertezza sul suo significato e sulla sua corretta attuazione”. 

Lapidarie le conclusioni della dichiarazione :”Si ricorda infine che da questo Atto adottato dal Consiglio, per sua stessa natura e portata, non deriva alcun obbligo legale per gli Stati membri di definire adeguatamente la propria legislazione nazionale, tenendo conto delle competenze e delle specificità nazionali nell’attuazione, e non viene creato alcun precedente normativo per qualsiasi futura discussione in seno al Consiglio sulla politica europea del tabacco. Per questo motivo, l’Italia e la Romania mantengono la propria preoccupazione politica sull’adeguatezza di alcune raccomandazioni, come sopra rappresentato, così come ogni ulteriore valutazione, in quanto Stato membro, sulla corretta attuazione nazionale di questo Atto

Tale posizione evidenzia la necessità di basare le politiche su solide evidenze scientifiche e su valutazioni che considerino gli effetti pratici delle restrizioni proposte.

La necessità di differenziare tra fumo tradizionale e alternative 

Un aspetto cruciale che merita particolare attenzione è la necessità di differenziare chiaramente tra i prodotti da fumo tradizionali e le alternative meno dannose come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato. 

Questo principio di differenziazione non è solo una questione di logica normativa, ma è supportato anche da un vasto corpus di letteratura scientifica che indica come le alternative meno dannose possano effettivamente aiutare i fumatori a cessare il consumo di tabacco combustibile, con potenziali benefici per la salute pubblica.

Non distinguere tra questi prodotti nelle politiche sugli ambienti senza fumo potrebbe inviare un messaggio sbagliato ai consumatori, portandoli a ritenere che il vaping o il tabacco riscaldato siano dannosi quanto il fumo di sigarette tradizionali. 

Questo tipo di equiparazione rischia di minare i benefici potenziali per la salute offerti da questi prodotti e, di conseguenza, potrebbe portare alcuni consumatori a tornare al fumo di sigarette tradizionali, annullando anni di progressi nel campo della riduzione del danno.

Diritto dei consumatori a scelte informate

Un altro elemento fondamentale è il diritto dei consumatori a fare scelte informate sulla loro salute. Equiparare i prodotti tradizionali del tabacco a quelli “alternativi” riduce significativamente il ventaglio di opzioni disponibili per chi desidera smettere di fumare, sminuendo i vantaggi distinti che le alternative meno dannose offrono. 

Le sigarette elettroniche e i dispositivi a tabacco riscaldato hanno dimostrato di poter rappresentare uno strumento utile per la cessazione del fumo, come riconosciuto nella Relazione BECA del Parlamento europeo.

Ignorare queste evidenze significa non solo ostacolare i fumatori che vogliono smettere, ma anche compromettere i risultati ottenuti fino a questo momento nella riduzione del danno.

Contrarietà ai divieti generalizzati anche negli spazi aperti

Un altro aspetto che solleva forti perplessità riguarda l’inclusione di divieti generalizzati che si estendono anche agli spazi aperti. 

Interventi normativi che incidono sulla libertà delle persone al punto di impedire loro attività anche all’aperto rischiano di essere percepiti come eccessivamente intrusivi e non proporzionati rispetto agli obiettivi di salute pubblica. 

Limitare la possibilità di utilizzare prodotti come le sigarette elettroniche o i dispositivi a tabacco riscaldato anche in aree all’aperto, senza una chiara base scientifica che giustifichi tali restrizioni, potrebbe generare un significativo malcontento e ridurre l’adesione alle norme, con effetti potenzialmente controproducenti.

Impatto delle regolazioni restrittive sul settore economico Horeca e turismo

Un regolamento restrittivo che impone divieti generalizzati e molto estesi, sia per gli spazi chiusi sia per quelli aperti, rischia di determinare impatti significativi sulle attività economiche e commerciali, in particolare nei settori Horeca (bar, ristoranti, caffetterie) e del turismo. Secondo i dati di un’indagine della Federazione Horeca europea, le restrizioni anti-fumo estese agli spazi aperti hanno provocato una riduzione del 15-20% del fatturato nei locali pubblici in alcune aree metropolitane. 

Inoltre, nel settore del turismo, studi condotti dall’Associazione Europea del Turismo (ETOA) mostrano che politiche restrittive possono dissuadere una significativa quota di visitatori, soprattutto quelli provenienti da paesi con normative meno rigide sul fumo. 

Questi effetti cumulati non solo minacciano la sopravvivenza di molte piccole e medie imprese, ma rischiano anche di compromettere la competitività economica delle città europee nel contesto internazionale.

Anomalie nel procedimento normativo

La revisione delle raccomandazioni del Consiglio ha sollevato anche delle perplessità procedurali. La Commissione Europea non ha condotto una valutazione d’impatto adeguata prima di proporre queste nuove misure. 

Considerando i significativi cambiamenti che il mercato del tabacco ha subito negli ultimi anni, è imprescindibile che le nuove normative siano accompagnate da una valutazione scientifica approfondita dei rischi associati a ciascun prodotto e da un’analisi dell’impatto economico di tali misure. 

Il fatto che queste valutazioni non siano state condotte è preoccupante e rischia di compromettere l’efficacia delle politiche proposte, introducendo incertezza per consumatori e imprese. Maggiori informazioni sulla procedura di valutazione d’impatto sono disponibili sul sito della Commissione Europea.

Inoltre, imporre divieti generalizzati senza una solida base scientifica potrebbe portare a conseguenze indesiderate, come un aumento della confusione tra i consumatori sui rischi relativi dei diversi prodotti. 

Questo tipo di incertezza può indurre i consumatori a credere che l’uso dei prodotti alternativi sia altrettanto dannoso quanto il fumo tradizionale, spingendoli, in ultima analisi, a tornare alle sigarette. 

In questo senso, un approccio basato sull’evidenza scientifica e su una valutazione approfondita degli impatti è essenziale per garantire che le politiche europee abbiano un effetto positivo sulla salute pubblica.

La revisione delle raccomandazioni sugli ambienti senza fumo rappresenta un passo importante nella direzione della tutela della salute pubblica e del benessere dei cittadini europei. 

Tuttavia, è necessario un approccio più equilibrato che riconosca il ruolo delle alternative meno dannose, consentendo ai fumatori di scegliere opzioni più sicure per ridurre il consumo di tabacco combustibile. 

È imperativo evitare provvedimenti normativi di natura liberticida che impongano divieti generalizzati e sproporzionati, compromettendo le libertà fondamentali dei cittadini e criminalizzando comportamenti che non pongono rischi significativi per la salute pubblica.

Senza una chiara differenziazione tra i prodotti e senza una valutazione adeguata dei rischi e degli impatti economici, il rischio è quello di vanificare anni di progressi nel campo della riduzione del danno.

Le politiche non devono limitare inutilmente le libertà personali, specialmente negli spazi aperti, dove i rischi di esposizione al fumo passivo sono notevolmente inferiori.

È essenziale che ogni misura regolatoria sia proporzionata, basata su prove scientifiche concrete e attenta a non incidere negativamente sulle libertà individuali dei cittadini europei.

Fin dalla notte dei tempi, l’umanità ha dovuto affrontare una continua battaglia per la sopravvivenza: trovare cibo, riparo, sicurezza in un mondo spesso ostile e imprevedibile è stata una sfida costante che ha plasmato il nostro DNA evolutivo.
Ma questa lotta esterna, questa necessità di assicurarci le risorse necessarie per vivere, si è col tempo trasformata in una battaglia più intima e personale.
Oggi, mentre le nostre condizioni di vita si sono notevolmente migliorate, la lotta per la sopravvivenza non è scomparsa, ma è diventata sempre più una sfida interiore. Siamo costantemente chiamati a superare gli ostacoli che il mondo ci pone davanti, ma la vera battaglia risiede in noi stessi, nella nostra capacità di affrontare le nostre paure, le nostre debolezze, i nostri demoni interiori.
Questa lotta personale è forse la più ardua, ma è anche quella che ci plasma, che ci rende più forti e determina chi siamo veramente. Proprio come quella verso l’ambiente ha plasmato il nostro DNA.

Ognuno di noi, nel corso della propria vita, deve affrontare momenti di incertezza, di smarrimento, di profonda crisi interiore.
Sono quelli i momenti in cui la lotta per la sopravvivenza è la lotta per la preservazione della nostra identità.

Che si tratti di problemi personali, professionali o di qualsiasi altra natura, la nostra esistenza è costellata di momenti difficili che mettono alla prova la nostra determinazione. È in questi frangenti che la lotta diventa essenziale, la capacità di non arrendersi di fronte alle avversità che la vita ci presenta.

“Non importa quanto sia dura la vita, c’è sempre qualcosa che puoi fare e in cui puoi riuscire” (Stephen Hawking).

È la nostra capacità di adattarci e di rialzarci dopo ogni caduta, a definire chi siamo e a definirci come individui.

La lotta è il viaggio che ci conduce alla scoperta di noi stessi, delle nostre passioni, dei nostri sogni, definirili per poi, seguendoli, diventare la versione migliore di noi stessi.

Immaginate lo stupore di quel gruppo di persone che qualche anno dopo la Seconda Guerra Mondiale hanno scoperto piste d’atterraggio non segnalate, intagliate tra il fitto della boscaglia della foresta malinesiana. Immaginate lo sconcerto nel vedere che le piste di atterraggio non erano state create per far atterrare aerei per il traffico di contrabbando nè di droga, ma avevano uno scopo più alto. A volte ci viene più facile pensare ad una cosa in modo che sia illegale, che sia criminale e criminoso, invece che pacifica e – in qualche modo – tenera.
Le piste di atterraggio – sì, al plurale – erano state create tagliando gli alberi, ponendo torce ai lati della pista e finte torrette di controllo e aerei parcheggiati ai lati della pista. Tutto fatto in legno e bambù. Comprese le cuffie da operatore radio. Di legno e noce di cocco.

Gli indigeni che vivevano nel fitto della boscaglia, lontano dai grandi centri abitati e dalla civiltà così come ce la immaginiamo noi, lontani anche dalle brutture e dagli abomini che gli uomini civili stavano facendo ad altri uomini civili nel corso della Seconda Guerra Mondiale, avevano osservato l’arrivo di enormi aerei carichi di beni materiali sulle loro isole per mesi, per anni. Erano venuti in contatto con i “miracoli” della modernità, a loro prima inaccessibili, ricevendo con quelle spedizioni, tantissime razioni di cibo e vestiti confortevoli che non avevano mai visto prima. Tanto da pensare che fossero davvero dei Miracoli.
Per quelle popolazioni i beni materiali provengono, giungono a terra per la benevolenza degli spiriti degli antenati. Quindi quelle razioni di cibo e quei vestiti non potevano essere altro che doni divini.
Il “culto del cargo” nasce così: riti, danze utili ad attirare di nuovo quegli “Dei del cielo” con i loro preziosi carichi. Preparando ambienti che in qualche modo potessero risultare “familiari”. La ripetizione formale di strutture esteriori, sulle quali però non si ha che una superficiale cognizione della complessità che vi si cela dietro.

Un comportamento ingenuo, ridicolo…ma a quegli indigeni il comportamento risultava essere normale, logico, giusto, addirittura doveroso.

Fino a qualche giorno fa, di questa storia, non ne sapevo assolutamente nulla.
Un collega mi ha parlato di questo Bias Cognitivo, del Bias Cognitivo – quindi riconosciuto dalla comunità scientifica – chiamato “Culto del Cargo”. Tutti gli esseri umani lo hanno, e anche noi, nella nostra “modernità” ci comportiamo in modo simile a quegli indigeni malinesiani.

Pensiamo ai bias cognitivi che influenzano le nostre scelte quotidiane:

Il mito della meritocrazia: credere che “basta lavorare sodo” per ottenere successo, ignorando i fattori strutturali, le disuguaglianze o la semplice fortuna.
La fede nelle mode e nelle tendenze: come indossare scarpe di un marchio prestigioso o seguire diete miracolose, nella speranza di attirare il “cargo” del successo o della felicità.
La dipendenza dai rituali professionali: pensiamo ai meeting o alle presentazioni con grafici complicati, non sempre necessari, ma ripetuti perché ritenuti simboli di efficienza. Non sono, forse, le nostre versioni delle piste di atterraggio di bambù?

Bias cognitivi: la trappola della mente razionale
Le neuroscienze e la psicologia moderna ci spiegano che siamo predisposti a vedere schemi anche dove non ci sono. Questo fenomeno, noto come apofenia, ci porta a interpretare coincidenze come relazioni causali. Non è diverso da un villaggio melanesiano che collega l’apparizione degli aerei ai propri rituali.

Investire in criptovalute senza comprenderne i meccanismi, solo perché “tutti lo fanno”.
Seguire guru motivazionali che promettono formule magiche per il successo, imitando atteggiamenti o posture ritenute “vincenti”.
Il consumismo rituale: pensiamo al Black Friday, dove acquistare diventa un rito collettivo, quasi una celebrazione.

Un altro esempio emblematico è il rapporto con la tecnologia.
Smartphone, intelligenza artificiale, blockchain: spesso li veneriamo senza comprenderne realmente il funzionamento. Cerchiamo “soluzioni magiche” ai nostri problemi, affidandoci ciecamente a qualcosa che percepiamo come superiore, quasi divino.

Le start-up tecnologiche hanno i loro rituali: hackathon, stand-up meetings, pitch perfetti per attirare gli “investitori-dei” che portano il “cargo” dei finanziamenti.

Il culto del cargo ci offre uno specchio: ciò che consideriamo superstizione negli altri spesso è solo un’interpretazione diversa della nostra stessa irrazionalità. Forse non costruiamo aerei di bambù, ma inseguiamo simboli e rituali, nel tentativo di controllare un mondo imprevedibile.

Il confine tra razionalità e irrazionalità è più labile di quanto vorremmo ammettere.
Guardare con rispetto le credenze altrui significa riconoscere i nostri stessi limiti, accettando che, in fondo, siamo tutti umani.
I “cargo” che cerchiamo sono diversi, ma la speranza che ci guida è la stessa.

(Grazie Marino)

Mi capita spesso di pensare ai libri che non ho letto, ai chilometri che non ho calpestato, alle luci che non ho acceso, alle case che non ho abitato, ai letti che non ho vissuto, ai gatti che non ho spiato, ai cuori che non ho nutrito, ai sogni in cui non ho creduto, ai muscoli che non ho scolpito, agli occhi che non ho incontrato.

Mi capita… di pensare a quel che non sono. E a ciò che avrei potuto essere.

L’identità. Questa sconosciuta, verrebbe da dire. Le sue innumerevoli forme e sfumature, le sue nascite, le sue evoluzioni, le sue morti e resurrezioni credo siano ben raccontate, espresse, sottese in questo numero, che si pregia di contributi pronti a scavare ogni superficie.

Grazie a Giorgio Gabrielli, Giovanna La Vecchia e Walter Iolandi per la straordinaria capacità di tenere acceso e lucido il motore di questa avventura editoriale.

Grazie, senza limiti di tempo e di spazio, a Giuseppe Cesaro, per le parole, i pensieri, i sentimenti che ci ha donato.

Buona lettura, cari lettrici, cari lettori!

Questa coppia di concetti è inscindibile, a partire dalla coincidentia oppositorum eraclitea che vede l’unità e identità degli opposti. Per la psicoanalisi l’Io prende la forma dall’Es indistinto, nel suo processo di formazione attraverso il Super-Io, il censore, il moralizzatore che rappresenta l’altro generalizzato. Ma l’Io è essenzialmente memoria, un filo che collega le esperienze nel tempo, per cui fragile e mutevole.
Oggi l’identità, in gran voga nella politica, è un termine molto abusato, che chiama in causa modo anacronistico l’”identitario”: la nazione, l’etnia, il suolo di nascita, la religione, il colore della pelle e così via. Anacronistico perché a tre secoli circa dalla Rivoluzione Francese, sembravano acquisiti gli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza che si accompagnavano ad un certo cosmopolitismo.
Anche il filosofo Kant, di cui celebriamo quest’anno i 300 anni dalla sua nascita, da buon illuminista richiama nella sua opera “Per la pace perpetua” (1795), oltre che la forma repubblicana, un diritto internazionale basato su un federalismo di Stati la cui libertà è garantita dal non intervento
di altri Stati esterni.

Arriviamo al nostro Mazzini, figura semi-dimenticata, oggetto di un recente revival della destra, che da sempre cerca di appropriarsene in malo modo, mistificando il suo messaggio patriottico in nazionalistico. Come ha ben spiegato Maurizio Viroli (Nazionalisti e Patrioti. Editori Laterza, 2019), filosofo e storico alla Princeton University, il primo si richiama valori repubblicani di tipo etico-politico difendendo i legittimi interessi dei cittadini ma elevandoli agli ideali del convivere libero e civile, l’altro si richiama a valori omogenei etnico-culturali legati a vincoli di sangue (si vedano le recenti diatribe tra Ius sanguinis, Ius solis e Ius culturae), a una visione contrapposta “noi-loro” che vuole generare sentimenti di distinzione e superiorità.

La società del rischio ha portato incertezze, paure, smarrimento, sentimenti su cui prosperano le destre in tutta Europa e nel mondo, portatrici di supposti messaggi securitari che passano attraverso la difesa dell’identità (non a caso abbiamo più volte ascoltato il refrain della “sostituzione etnica”).
Le conseguenze sono autocrazie, chiusure degli stati in sé stessi, che tendono a negare diritti civili e conquiste che sembravano acquisite per sempre, nazionalismi e guerre fratricide (basti pensare agli attuali conflitti che si stanno allargando in modo incontrollato.)

Venendo alla società liquida, teorizzata da Baumann, che vede non solo le relazioni ma anche un Io sempre più liquido, esasperatosi con i social media, si è affermata in modo estensivo la messa in scena di sé. Possiamo definirci attraverso i profili con identità multiple, in grado di rappresentarci secondo quello che desidereremmo essere o, come vorremo essere visti dagli altri, il che acuisce quel processo di diffrazione dell’Io e di dissociazione esistenziale quale fenomeno già in atto da tempo con l’avvento della post-modernità.
Emblematico in tal senso il Pirandello di Uno, nessuno e centomila con la cessazione da parte del personaggio principale dei contrasti tra l’Io ed il mondo e la “rinuncia” a quest’ultimo.
Alla liberazione dell’Io moderno e a queste sue forme, riconducibili anche alla condizione umana, resta in tutta la sua problematicità la ricerca dell’Opera della street artist Laika, dal titolo “Italianità” autenticità e di un rinnovato rapporto con il mondo che non può non passare per la veridicità delle relazioni con l’Altro ma, soprattutto, attraverso il suo riconoscimento. È la relazione che cura le lacerazioni della contemporaneità e sviluppa in modo armonioso l’identità.

Contrariamente a quanto, comunemente, pensiamo, i totalitarismi non nascono mai dalla follia sanguinaria di un leader. Nascono sempre dal
servilismo del primo lacchè di quel leader.
E non ha alcuna importanza stabilire cosa determini quella prima, irredimibile, genuflessione: codardia, paura, credulità, stupidità, interesse personale o desiderio di rivalsa/vendetta nei confronti del resto del mondo.

Solo una cosa importa: riflettere sul fatto che, senza lo zerbinarsi di quel primo lacchè, nessun leader diventerebbe mai tale. E, di conseguenza, nessun autoritarismo nascerebbe mai.

Scusate se è poco.
Leader, infatti, significa “guida”, “comandante”, “capo”. È del tutto evidente, quindi, che, senza nessuno da guidare, nessuno da comandare, nessuno a capo del quale mettersi, non può esistere alcun “leader”. E, dunque, nessuna leadership.

Per usare una terminologia social: senza un primo “follower” non può esistere alcun “influencer”. Game over.

Anche se nessuno ci pensa mai, è proprio questo il punto nodale della questione: così come non può esserci un pastore senza pecore o un esercito senza soldati, non può esserci nemmeno un regime senza lacchè. Anche perché, per quanto violento e ben armato possa essere, quanti uomini è in grado di eliminare un uomo solo, prima di essere sopraffatto dalla reazione della moltitudine che gli si oppone?

Per dirla con parole assai più illuminate delle mie (Étienne de La Boétie: “Discorso sulla servitù volontaria”, 1576), il tiranno non ha altra forza che quella che gli uomini gli danno e «ha il potere di danneggiarli unicamente in quanto essi vogliono sopportarlo, che non potrebbe far loro alcun male, se essi non preferissero subirlo, invece di contrastarlo». «Son dunque gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smetter di servire, sarebbero liberi». «È il popolo – dunque – che acconsente al suo male o addirittura lo provoca». Il che dimostra che «la libertà non viene affatto desiderata, per la buona ragione che, se gli uomini la desiderassero, l’otterrebbero».

Aveva ragione il Grande inquisitore dostoevskijano: «Non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura».

Da tutto questo consegue che: se, nell’istante nel quale, nelle folli menti di Mussolini, Hitler, Stalin, Pinochet, Videla o Pol Pot (solo per citare i primi nomi che mi sono venuti in mente) prendeva forma l’idea di trascinare il mondo nell’abisso, accanto a quei sei personaggi in cerca di orrore, ci fosse stato qualcuno in grado di assestare loro un vigoroso e, ovviamente, risolutivo “calcio nel culo” (metaforicamente parlando, s’intende), nessuno dei suddetti signori sarebbe mai riuscito a realizzare il suo folle progetto criminale e il mondo si sarebbe risparmiato decenni di persecuzioni, massacri, torture, lutti e orrori indicibili.
Del resto, qualunque incendio – persino il più devastante che possa deturpare il volto del nostro infelice pianeta – nasce sempre da una prima, minuscola, scintilla.

Per spegnere quella prima scintilla, può essere sufficiente persino un semplice sputo. Per domare un “incendio” delle proporzioni – ad esempio – di una Seconda Guerra Mondiale ci sono voluti, invece, sei interminabili, drammatici anni, e tra i 70 e gli 85 milioni di morti, in gran parte civili (50-55 milioni).

Permettetemi, allora, una domanda: secondo voi, uno sputo e un vigoroso e risolutivo “calcio nel culo” valgono o no sei anni di guerra mondiale e decine di milioni di morti?
Supponiamo che avesse davvero ragione Raskol’nikov (il giovane omicida protagonista di “Delitto e castigo”) e che, in virtù della loro superiorità, alcune persone abbiano il dovere di oltrepassare la legge morale (Raskol’nikov parla, esplicitamente, di “diritto al delitto”), per realizzare la «distruzione del presente in nome del meglio», non credete che – esattamente per quella stessa ragione – chiunque di noi si trovasse accanto a una mente folle, nell’istante nel quale al suo interno scoppia la scintilla dell’orrore, avrebbe il dovere, di soffocare, sul nascere, quella scintilla e fare di tutto per mettere quel folle in condizione di non nuocere?

Perché è così importante capire che, quella del primo lacchè, è la responsabilità più grande di tutte? Perché è così importante sottolineare che è il lacchè, e non il folle, il vero responsabile dello scoppiare di quegli incendi che, per anni – decenni, a volte – mandano in fumo milioni e milioni di chilometri quadrati di libertà, diritti, pace e democrazia?
Perché la tentazione di farsi zerbino può cogliere chiunque di noi, in qualunque momento.

Nessun essere umano ne è immune.
E nessuno di noi può avere la certezza assoluta di non cedere alla paura o alle lusinghe del potere. Vere o false che siano.

Aveva ragione da vendere, allora, Ettore Petrolini – “insuperabile interprete della beffarda anima romanesca” [Treccani] – quando, a teatro, si rivolse a un signore che, fischiando, aveva interrotto la sua recitazione: “Io non ce l’ho con te – disse – ma con quelli che ti stanno vicino e non ti hanno ancora buttato di sotto!”.

Riflettiamo, dunque, sul fatto che, se ciascuno di noi si rifiuterà di genuflettersi per primo, nessuno si genufletterà.
E, se nessuno, si genufletterà, il generale Follia si ritroverà senza esercito e l’unica cosa che riuscirà a mettere a ferro e fuoco sarà il suo putrido, livoroso e velenoso fegato.

IN USCITA IL 7 NOVEMBRE IL FILM “IL RAGAZZO DAI PANTALONI ROSA” tratto dal libro di Teresa Manes. La vera storia di Andrea Spezzacatena “ucciso dal silenzio” il 20 novembre 2012.

Fu il primo caso in Italia di cyberbullismo che portò al suicidio un ragazzo minorenne.
Andrea Spezzacatena aveva appena 15 anni. “La verità resta che il suicidio di un adolescente sottolinea il fallimento dii una società”. Sono queste le parole di una madre Teresa Manes, che ha perso suo figlio. Andrea si è impiccato il 20 novembre del 2012 nella sua casa di Roma. Andrea oltre il pantalone rosa è il libro pubblicato dalla madre, il racconto doloroso, straziante, la ricostruzione di quegli attimi, la difesa di chi non poteva difendersi, il tentativo di comprendere e di aiutarsi, la speranza che questo possa non accadere mai più.
Da quel momento Teresa promuove dinamicamente, anche attraverso canali mediatici nazionali, campagne di prevenzione e contrasto del fenomeno del bullismo e del disagio giovanile. Il 27 dicembre 2021 per questo suo impegno profuso a favore dei giovani, è stata insignita dell’onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana.

Aveva 15 anni e 6 giorni quando si è impiccato – scrive Teresa Manes “Quando un figlio si suicida vieni ingoiato da una valanga di sensi di colpa. Sono andata da una psicologa per circa un anno, con tre sedute di 150 minuti cadauna a settimana. Ho fatto un lavoro di introspezione cosi profondo da levarmi l’anima per vedere di cosa era fatta. Non avevo ascoltato la sua sofferenza. Non avevo visto la sua solitudine.“….imperfetta, indubbia come donna mi piacevo come mamma…
Poi scoprii l’esistenza di una pagina facebook dove veniva etichettato come “il ragazzo dai pantaloni rosa” che aprì lo scenario del bullismo. Anzi de cyberbullismo.
Solo che i like su quella pagina erano solo 27, troppo pochi per essere considerati come influenti e determinanti per una scelta tanto estrema.
Non si è tenuto conto però che quel numero poteva essere rappresentativo di un gruppo classe, ad esempio. “Se ti metti lo smalto non puoi non aspettarti la presa in giro” disse davanti al giudice del tribunale ordinario, un avvocato difensore di uno degli insegnanti indagati (mio figlio si laccava le unghie nell’ultimo mese di vita). Mi venne in mente il caso della donna a cui venne negato di essere riconosciuta vittima di stupro perché indossava un jeans attillato quando fu aggredita”.

Al liceo Cavour di Roma lo chiamavano “il ragazzo dai pantaloni rosa” perché Teresa, la mamma, aveva erroneamente scolorito con la candeggina un paio di pantaloni rossi, che Andrea aveva comunque scelto di continuare a mettere nonostante fossero diventati rosa. I suoi compagni di scuola lo chiamavano anche in tanti altri modi, con crudeltà e ferocia, non credo affatto inconsapevoli di tutto ciò che stavano causando. Umiliato in rete costantemente fino al giorno del tragico evento.
Dopo il suicidio la magistratura, a seguito di due anni di ricerche, indagini ed interrogatori, negò si trattasse di un caso di bullismo e omofobia. Indirizzarono la loro attenzione sulla separazione dei genitori o un amore non corrisposto o su altro.

Dal libro di Teresa Manes è nato il film “Il ragazzo dai pantaloni rosa” (Eagle pictures e Weekend films, regia di Margherita Ferri, soggetto e sceneggiatura di Roberto Proia) che sarà nelle sale dal 7 novembre, il trailer del film a luglio ha avuto in 5 minuti oltre un milione di visualizzazioni, “segno evidente che di un film così se ne sentiva il bisogno. Servirà a far aprire gli occhi, spero anche i cuori”, scrive Teresa sulla sua pagina Facebook. Nel cast Claudia Pandolfi, Samuele Carrino, Andrea Arru, Sara Ciocca, Corrado Fortuna. Presentato al Giffoni Film Festival 2024 il film ha suscitato fortissime emozioni già dalle prime immagini accompagnate dalla canzone “Canta ancora” di Arisa. “E’ stato complesso trasformare questa storia in un film” racconta Roberto Proia “ho sentito forte la responsabilità che tutto questo comportava. Volevamo essere fedeli alla storia e non giudicanti, non raccontare i buoni ed i cattivi. Volevamo riuscire a comunicare con tutti, non solo ai bulli. Far capire che le parole possono suscitare reazioni diverse a seconda di chi le accoglie.
Per entrare nel mondo di Andrea era necessario che Teresa ci aprisse il suo cuore. E’ stato un viaggio complesso, a tappe, abbiamo riso e pianto, e siamo entrati nella mente di Andrea”. “Non esiste solo il bullo manifesto che attacca in modo esplicito e visibile” spiega l’attrice Claudia Pandolfi che nel film interpreta la madre di Andrea “quanti di noi sarebbero in grado di difendere chi viene attaccato? Quando si crea il clima cameratesco nel male è distruttivo, immagino che Andrea si sia sentito solo al mondo per questo, tanti aderivano a questa violenza senza attaccarlo direttamente”.
Il ragazzo dai pantaloni rosa è un film che racconta una storia che ha il diritto di non essere dimenticata.
“Neanche una settimana dopo i funerali di Andrea mi fu recapitata a casa una lettera di una professoressa con cui in buona sostanza ci manifestò cordoglio e vicinanza per la tragedia che ci aveva colpito duramente”, racconta Teresa Manes. “In quella lettera ricordava il sorriso di mio figlio dietro cui era stato bravo a mascherare un male di vivere giovanile, che si annida nelle ragioni più disparate e che nessuno, men che meno io, aveva saputo cogliere. Nella sua chiosa, quella professoressa, mi esortava a confinare la nostra triste storia nel silenzio, in segno di rispetto verso quel dolore che aveva spinto ad una scelta. Incredula davanti a quell’invito, ripiegai il foglio e preparai una valigia. Fu così che iniziò il mio viaggio verso le
scuole….consapevole del fatto che, se avessi chiuso la mia bocca, mio figlio sarebbe morto due volte”.

Andrea Spezzacatena è stato ucciso dal silenzio di persone che avrebbero dovuto comprenderlo, sostenerlo, aiutarlo e “riconoscerlo”, perché l’altra causa della morte di Andrea è stata la determinazione, la forza, il coraggio di non voler essere come i suoi aguzzini, come i suoi assassini, come i suoi coetanei. Voler affermare, a costo della vita, la sua identità, di ragazzo sensibile, profondo, dolce, buono e generoso, sì, è vero Andrea era “diverso” ma non nel senso in cui veniva raffigurato nelle chat, nelle discussioni, negli insulti, nelle umiliazioni e delle aggressioni, Andrea era “diverso” nel senso di “migliore” ed è stata propria questa sua impressionante forza ed affermazione a portarlo al suicidio. Non lo accetti un universo così sfatto, non ne vuoi far parte, non ti vuoi rendere complice di azioni e comportamenti che se oggi riguardano te domani riguarderanno qualcun altro, non cedi a compromessi, non ci credi più e non ti fidi più e soprattutto non ne puoi più di vivere e rivivere ogni giorno la stessa dinamica crudele, malvagia, persecutoria, ossessiva. Andrea ha smosso tante coscienze, Andrea continuerà a lottare, perché morire non sempre significa smettere di vivere ed Andrea è testimone di questo immenso e straordinario stato d’animo.

Leggete il libro e guardate il film. Comprenderete che la portata di un dolore e la quantità di lacrime che ti portano quasi a perdere un occhio per una infezione, possono suscitare sentimenti di comprensione e di aiuto verso il prossimo, e che ci può essere un altro tipo di risposta al male ricevuto ed è IL BENE. Teresa Manes è una madre che sta lavorando da dodici anni affinchè questo fenomeno disumano e purtroppo sempre più vasto, il bullismo ed il cyberbullismo, venga alla luce nella sua reale portata e porti consapevolezza in ognuno di noi, affinchè nessuno possa mai più tacere o sminuire o tentare di alleggerire un dramma che ha strappato via a tante famiglie il bene più prezioso: un figlio.

Il web scraping è la fonte di informazioni delle principali applicazioni di IA. Queste tecnologie, sebbene offrano vantaggi significativi, sollevano anche importanti questioni riguardanti la privacy.

Cos’è il Webscraping?

Il web scraping è in estrema sintesi una tecnica utilizzata per estrarre grandi quantità di dati dal web.

Questo processo automatizzato è ampiamente impiegato per vari scopi, come l’analisi del mercato, la ricerca accademica, il monitoraggio dei prezzi e molto altro.

In un mondo sempre più guidato dai dati, la loro raccolta massiva è diventata uno strumento essenziale per molte aziende.

Non sono solo le Big Tech ad utilizzare questa tecnica per ottenere vantaggi competitivi, come la raccolta di informazioni sui prodotti dei concorrenti o l’analisi dei trend di mercato desunte dai miliardi di utenti dei diversi social media più o meno segmentati.

Con l’espansione del commercio elettronico e l’aumento della disponibilità di dati online, le attività di web scraping sono aumentate. 

Diverse analisi di settore indicano che una percentuale considerevole di traffico web, in alcuni casi fino al 25-40%, può essere attribuita a bot di scraping. 

Nell’e-commerce o nella vendita al dettaglio questi tools consentono di recuperare informazioni sui prezzi dai siti web dei concorrenti e ritagliare offerte mirate su determinati target di clientela.

La pesca indiscriminata dei dati è ampiamente diffusa anche nel settore finanziario e degli investimenti raccogliendo nel web rendiconti finanziari, prezzi delle azioni e i più svariati indicatori economici che permettono di elaborare strategie di investimento mirate.
Utilizzo analogo nel settore immobiliare per individuare tendenze di mercato e dati sui prezzi, mentre nel mercato dei viaggi e turismo il web scraping consente di monitorare le disponibilità e i prezzi analizzando i feedback dei clienti.
Con l’espansione del commercio elettronico e l’aumento della disponibilità di dati online, le attività di strascico dati nel web sono aumentate. 
Diverse analisi di settore indicano che una percentuale considerevole di traffico web, in alcuni casi fino al 25-40%, può essere attribuita a bot di scraping. 

L’educazione della IA e la Privacy

Le principali applicazioni IA soprattutto quelle basate sul deep learning come chatbot e assistenti virtuali, ma anche in campi delicati come quello medico per la diagnosi precoce, apprendono ed evolvono tramite algoritmi che elaborano vasti set di dati.
Alcuni esempi:

Dati Comportamentali: Informazioni su come gli individui interagiscono con siti web, app, e dispositivi. Questo può includere dati di navigazione, preferenze di acquisto, e modelli di utilizzo. 

Dati Demografici: Età, genere, nazionalità, e altre informazioni demografiche possono essere usate per personalizzare e migliorare i servizi. 

Dati di Localizzazione: Posizione GPS, indirizzi IP, e altri dati di localizzazione che aiutano a comprendere le abitudini di mobilità e geografiche degli utenti. 

Dati di Interazione Sociale: Post sui social media, like, commenti, e altre forme di interazione sociale. 

Dati Biometrici: Impronte digitali, riconoscimento del volto, e altri dati biometrici usati per sistemi di sicurezza e identificazione personale. 

Questi contenuti oggetto del data mining possono includere informazioni personali sensibili, sollevando preoccupazioni sulla privacy degli individui che se ne vedono defraudati in rete senza nemmeno saperlo.
L’uso di dati personali nell’apprendimento automatico della IA può anche portare a vere e proprie violazioni della privacy, se non adeguatamente gestito.

Il punto di vista dei Garanti UE: più equilibrio tra innovazione e Privacy

La sfida dei prossimi anni sarà bilanciare le necessità “educative” e il potenziale dell’IA con il rispetto della riservatezza e dei diritti individuali dei cittadini.
Il Garante per la protezione dei dati personali italiano è stato il primo ad approfondire questi nuovi scenari con un’indagine su Open AI e suo ChatGPT che ha fatto conoscere al grande pubblico le potenzialità dei nuovi software basati sull’ intelligenza artificiale.
Nel provvedimento del 30 marzo 2023 veniva contestatala violazione del GDPR alla società statunitense preso atto che non esisteva alcun controllo all’accesso dell’ applicazione ai minori di 18 anni e: ”l’assenza di base giuridica che giustifichi la massiccia raccolta e archiviazione di dati personali per “addestrare” il chatbot”.
Solo dopo una serie di interlocuzioni finalizzate a rendere il software conforme al GDPR l’11 Aprile 2023 ne veniva permessodal Garante l’utilizzo in Italia condizionato all’ adozione di misure di salvaguardia dei dati personali degli utenti.

A sua volta l’European Data Protection Board, l’organismo dei Garanti UE, si è inserito nella tematica decidendo di lanciare una task force specifica su ChatGPT.
Il problema di fondo è semplice ed è stato ben sintetizzato dal Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati personali in un suo intervento:

“I dati personali di miliardi di persone, frammenti della loro identità personale e “titoli rappresentativi” di un diritto fondamentale come il diritto alla privacy vengono letteralmente pescati a strascico dalle grandi fabbriche dell’intelligenza artificiale globale per l’addestramento dei propri algoritmi e, dunque, trasformati in assets commerciali e tecnologici di pochi al fine consentire a questi ultimi di fare business. Il tutto avviene come se il web fosse un’immensa prateria nella quale tutto è di tutti e chiunque può pertanto impossessarsene e farlo proprio per qualsiasi finalità”

Per proteggere i dati personali dal web scraping illegale, è essenziale il ricorso generalizzato alla l’anonimizzazione e la pseudonimizzazione dei dati e l’implementazione di sistemi avanzati di autenticazione e autorizzazione. 
Il consenso informato gioca un ruolo cruciale, assicurando che gli individui siano pienamente consapevoli di come i loro dati vengano utilizzati e abbiano il controllo su di essi.

Il Ruolo della P.A. delle aziende e degli sviluppatori

Gli sviluppatori e le aziende hanno la responsabilità di garantire che le applicazioni IA siano sviluppate e utilizzate in modo responsabile secondo il criterio fondamentale della Privacy by design.
Per far fronte al web scraping dilagante anche i siti web della Pubblica Amministrazione e dei privati devono adottare misure di sicurezza robuste ed efficaci in modo da non compromettere l’usabilità per gli utenti legittimi.
Le migliori pratiche in termini di sicurezza dei dati, come la crittografia l’anonimizzazione e la pseudonimizzazione dei dati ma anche l’implementazione di sistemi avanzati di autenticazione e autorizzazione con audit di sicurezza, sono fondamentali per proteggere i dati raccolti da accessi non autorizzati e abusi nella raccolta.

Il webscraping e l’IA che impara da esso hanno il potere di trasformare radicalmente il nostro modo di interagire con il mondo digitale sicuramente in meglio.

Tuttavia, è imperativo che innovazione e rispetto della privacy procedano di pari passo, garantendo che i benefici della tecnologia non vadano a scapito del diritto alla privacy dei cittadini siano essi digitali o meno.

Non pensavo di vedere il seguito di Inside Out, ma in un pomeriggio piovoso mi sono trovato sul divano a guardarlo e ne sono rimasto piacevolmente spiazzato. Come nel primo film la narrazione è lasciata alle emozioni, i pupazzetti curiosi che hanno sembianze umane hanno slanci caratteristici di quello che rappresentano e così abbiamo Gioia che è sempre allegra e Tristezza che invece non lo è mai, Disgusto e Rabbia, Paura che tremante è sempre in un angolo.

Ma in questo secondo film, che è uscito a quasi 10 anni dal primo (ma quanto tempo è passato!) in questo viaggio attraverso il prisma delle emozioni, si esplora profondamente il concetto di identità proprio nel momento della transizione dall’infanzia all’adolescenza. E così ad un certo punto, una notte, mentre Riley (la ragazzina protagonista) dorme, irrompono altre emozioni e cambiano tutto.

L’identità e la sua crisi
L’identità, come ben osservava Zygmunt Bauman nella sua “Intervista sull’identità”, è in continua evoluzione, specialmente nel contesto della “modernità liquida”, dove i confini del Sé si dissolvono e si ricostruiscono costantemente.
Così come dice Bauman l’identità di Riley è messa a dura prova perché non ha più una identità, una immagine di sè unica “cristallizzata”, ma è fluidità, un processo in movimento, con una negoziazione tra le varie emozioni.
Sono entrate anche Ansia, Invidia, Noia e Imbarazzo.

Se vogliamo possiamo “disturbare” anche Jacques Lacan, con la sua teoria della fase dello specchio, che ci ricorda che la percezione del Sé è mediata dallo sguardo dell’altro. Riley, come molti adolescenti, si trova di fronte a uno specchio simbolico: quello delle aspettative degli altri, della società e dei suoi pari. In questa fase della sua vita, le emozioni interne entrano in conflitto con l’immagine riflessa, portandola a un’esplorazione più complessa e dolorosa di ciò che significa essere se stessi.

La socialità e l’autodefinizione del Sé
Se Lacan sottolinea il ruolo dello sguardo dell’altro, George Herbert Mead offre una prospettiva complementare, concentrandosi su come il Sé si sviluppa attraverso l’interazione sociale. In Inside Out 2, il ruolo della famiglia, degli amici e dei compagni di scuola diventa cruciale nella definizione dell’identità di Riley. Riley si trova a gestire le sue emozioni in relazione a queste nuove interazioni sociali, cercando di definire chi è nel mondo esterno, mentre tenta di mantenere una coerenza interna.

Perché un cartone animato su un tema così importante e “pesante”?
Viene naturale chiederselo. E’ un prodotto per bambini, per ragazzi…e perché caricare di una valenza così importante un prodotto di intrattenimento?
Per parte mia direi che questo sia uno dei pochi spazi rimasti in quel focolare che vedeva riunirsi i componenti di una famiglia in un percorso che sia inter-generazionale, con un linguaggio visivo e simbolico dell’animazione che si presta ad una doppia lettura: da una parte, i più piccoli possono divertirsi con i colori e le avventure delle emozioni, dall’altra, gli adulti possono riflettere sulle profonde implicazioni del Sé e dell’identità della nuova generazione.

L’importanza del dialogo intergenerazionale
La bellezza di Inside Out 2, secondo me, è proprio in questo, nel suo approccio leggero e simpatico alla complessità dell’identità, rendendolo in qualche modo accessibile ma non banale.

Alla fine, Inside Out 2 è molto più di un semplice sequel: è un’opera che, attraverso la metafora delle emozioni, riesce a raccontare la storia di ognuno di noi. Utilizzando l’animazione come linguaggio universale, il film ci ricorda che il viaggio alla scoperta di chi siamo non finisce mai, e che ogni tappa di questo viaggio merita di essere esplorata con la stessa profondità emotiva e intellettuale con cui i grandi filosofi e pensatori hanno affrontato la questione dell’identità. E poi è l’occasione per non dimenticare completamente che siamo stati anche noi adolescenti e abbiamo dovuto affrontare lo stesso impatto delle “nuove emozioni”.

Ve lo consiglio.

La Settima Arte è stata da sempre uno strumento potente per esplorare il concetto di identità. Identità personale o identità collettiva. Identità complessa e sfaccettata. E i “colpi di scena” certamente non sono quelli che si possono avere a teatro, vista la visione “immersiva” che se ne può avere. La domanda “chi siamo veramente?” viene esplorata attraverso storie che mettono in discussione l’individualità, l’autenticità e le maschere che indossiamo. Dai thriller psicologici ai drammi filosofici, ecco un elenco di dieci film che mettono l’identità al centro della loro narrazione.

Fight Club (1999)
Basato sull’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, Fight Club esplora la crisi d’identità attraverso il personaggio del narratore (interpretato da Edward Norton), un uomo anonimo che soffre di insonnia e trova un modo estremo per affrontare il vuoto della sua vita. La lotta per riscoprire sé stesso lo conduce a incontrare, Tyler Durden (Brad Pitt), con cui sfida la società moderna. Il film pone domande sull’alienazione individuale, l’identità frammentata e il confine tra ciò che siamo e ciò che vogliamo essere.

Memento (2000)
La ricerca dell’identità diventa un rompicapo in Memento, dove Leonard Shelby (Guy Pearce) soffre di amnesia anterograda, una condizione che gli impedisce di creare nuovi ricordi. Il film di Christofer Nolan è strutturato in modo non lineare, riflettendo la frammentazione della memoria del protagonista e il suo disperato tentativo di dare senso a chi è, alla sua vendetta e alla sua vita. Questo thriller psicologico mette in luce come la memoria sia fondamentale per definire chi siamo.

The Truman Show (1998)
Nel Truman Show, Truman Burbank (Jim Carrey) scopre di vivere all’interno di un reality show, dove ogni aspetto della sua vita è stato manipolato e trasmesso in diretta. Questo film offre una potente riflessione sull’identità in una società mediatica, esplorando il tema del libero arbitrio contro il controllo esterno. Truman, alla ricerca della sua vera identità, si ribella al sistema che lo ha ingabbiato, rendendo evidente come la costruzione sociale influisca su chi pensiamo di essere.

Black Swan (2010)
La ballerina Nina Sayers (Natalie Portman) è costantemente divisa tra la perfezione che cerca e il lato oscuro che emerge dentro di lei. Black Swan è una discesa psicologica nell’ossessione, dove la dualità dell’identità viene esplorata attraverso il simbolismo del cigno bianco e del cigno nero. La metamorfosi di Nina mostra come l’identità possa essere mutevole, influenzata dalle aspettative esterne e dai desideri interni.

Lost in Translation (2003)
La solitudine e la disconnessione culturale sono al centro di Lost in Translation, dove due personaggi – Bob (Bill Murray) e Charlotte (Scarlett Johansson) – si trovano a Tokyo, cercando un senso di appartenenza. Il film di Sofia Coppola esplora la loro crisi esistenziale e il desiderio di ritrovare una connessione autentica con sé stessi e con gli altri. La loro amicizia diventa un rifugio per esplorare chi sono al di là delle aspettative sociali.

Her (2013)
In un futuro prossimo, Theodore Twombly (Joaquin Phoenix) sviluppa una relazione amorosa con un’intelligenza artificiale chiamata Samantha (doppiata da Scarlett Johansson). Her pone interrogativi su come la tecnologia influenzi la nostra percezione dell’identità e delle relazioni. Theodore, attraverso questa relazione virtuale, esplora il senso di solitudine e l’identità digitale, domandandosi se le connessioni artificiali possano essere autentiche quanto quelle umane.

Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004) di Michel Gondry
In questo film, la memoria e l’identità sono inestricabilmente legate. Joel Barish (Jim Carrey) e Clementine Kruczynski (Kate Winslet) decidono di cancellare i ricordi della loro relazione tramite una procedura sperimentale. Tuttavia, nel processo, Joel scopre che anche i momenti più dolorosi fanno parte di chi è. Il film riflette sull’importanza dei ricordi nella formazione dell’identità e su come il tentativo di cancellare il passato possa privarci di una parte essenziale di noi stessi.

Mulholland Drive (2001) di David Lynch
Mulholland Drive è un puzzle surrealista che esplora la confusione dell’identità in una Hollywood noir. Due donne (Naomi Watts e Laura Harring) si imbarcano in un viaggio onirico che sfuma continuamente tra realtà e immaginazione. Lynch utilizza simbolismi e narrazioni non lineari per rappresentare la dualità e la frammentazione dell’identità, rendendo il film un’esperienza unica nel suo genere, in cui chi siamo dipende dalle percezioni e dalle esperienze vissute.

The Double (2013)
Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Dostoevskij, The Double narra la storia di Simon James (Jesse Eisenberg), un uomo timido e anonimo, la cui vita viene sconvolta dall’arrivo di un suo doppio identico, ma carismatico e sicuro di sé. Il film esplora il concetto di identità attraverso il contrasto tra l’immagine che diamo al mondo e ciò che siamo veramente. La figura del doppio rappresenta il conflitto tra desiderio e realtà, mostrando come l’identità possa essere una costruzione instabile.

Persona (1966) di Ingmar Bergman
Un classico del cinema d’autore, Persona è un’indagine filosofica e psicologica sull’identità e sulla maschera che indossiamo. La storia segue l’attrice Elisabeth Vogler (Liv Ullmann), che perde improvvisamente la capacità di parlare, e la sua infermiera Alma (Bibi Andersson), mentre le loro personalità iniziano a confondersi. Bergman usa la metafora della “persona” (dal latino “maschera”) per esplorare la disintegrazione dell’identità e la crisi esistenziale, suggerendo che chi siamo è in gran parte una costruzione artificiale.

Questi film mostrano come l’identità possa essere fragile, mutevole e influenzata da forze esterne. Attraverso personaggi che cercano di capire chi sono veramente, i registi ci invitano a riflettere sulle nostre stesse vite e sul modo in cui definiamo noi stessi. Che si tratti di una lotta contro il sistema, un viaggio interiore o una discesa nella follia, l’identità rimane uno dei temi più affascinanti e complessi che il cinema possa esplorare.

Non possiamo sapere se sia già accaduto, ma di certo non è storia di tutti i giorni che un libro ispiri una canzone.
Succede con “I giorni del mare“, nuovo singolo del cantautore Davide Mottola (dal 25 ottobre 2024 disponibile in tutti i digital store), ispirato al libro omonimo della scrittrice Caterina Adriana Cordiano, pubblicato nel 2019 da Pellegrini Editore.

Il libro, dato alle stampe pochi mesi prima che il Covid 19 facesse irruzione nelle nostre vite, pur ottenendo lusinghieri consensi di pubblico e di critica letteraria, non ha potuto godere naturalmente della giusta e capillare promozione; ma ecco ora improvvisamente nutrirsi di una nuova vita grazie al contributo artistico del cantautore romano, catturato dalle innumerevoli sfumature ed incursioni del romanzo.

Un uomo alla ricerca della sua identità, la fuga dalle delusioni e dagli intrighi che coinvolgono la sua vita affettiva e professionale, il distacco dall’inquietudine della città, la ricerca di un riparo segreto, l’abbraccio con le sue origini, con la vastità del mare, per poter placare i suoi turbamenti e ritrovare se stesso.

Da queste suggestioni, nasce il desiderio di Davide Mottola di tradurre in versi ed in musica questo percorso, nel quale ogni ascoltatore, come ogni lettore, può riconoscersi, identificarsi, o confrontarsi con la propria personalità, con la propria avventura umana.

Canzone e libro, in un inedito e straordinario abbraccio, viaggeranno in questo progetto, scritto e diretto da Gerry Mottola, giornalista e direttore artistico.

Un percorso denso di momenti, occasioni, incontri e confronti che avrà il suo inizio Venerdì 25 ottobre, alle ore 18.30, presso il Teatro della Dodicesima di Roma, con la presentazione del libro e del brano.

All’evento, promosso da Frammenti Sonori Associazione Culturale, in collaborazione con TamTam Cultura APS e Condi-Visioni.it, testata giornalistica on line, parteciperanno Caterina Adriana Cordiano, autrice del libro, Davide Mottola, autore e interprete del brano, Cettina Quattrocchi, Presidente Consulta della Cultura Municipio Roma IX, Gerry Mottola, autore del progetto.

Nello stesso giorno avverrà la pubblicazione del brano (prodotto da Gerry Mottola e Davide Mottola per la Long Digital Playing di Luca Bonaffini, con gli arrangiamenti di Edoardo Petretti) in tutti i digital store.

Successivamente, un’altra presentazione si terrà a Napoli nel mese di novembre, mentre per il mese di dicembre è in preparazione una serata evento a Roma che vedrà la partecipazione di importanti artisti ed autorità intellettuali. Un “concerto in viaggio” sulle note musicali, letterarie, poetiche, umane e sociali del libro e della canzone.

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La poetessa romana Raffaella Belli pubblica la sua nuova raccolta di poesie “Tende all’eterno ogni sospensione” edita da Edizioni “Il Simbolo”.
A distanza di tredici anni dalla sua ultima raccolta, Raffaella Belli torna alla poesia con un volume vasto e intenso, dove la voglia per una ricerca di luce e armonia si sposa al canto della vita. Con “Tende all’eterno ogni sospensione” (Edizioni “Il Simbolo”, prefazione di Elio Pecora, 153 pagine, 15,00 euro) il poeta conduce il lettore in un limbo segreto, dove ognuno di noi può sperimentare il senso di un’esistenza altra che sappia mutare ogni vibrazione di un respiro che anela all’equilibrio e alla pace dello spirito, poiché senza il presupposto e l’impegno di una naturale preghiera, nonché dei fini trasformativi di una educazione, non è possibile mutare il corso di questo mondo. Non a caso la stessa poetessa avverte nella nota finale al testo come “Le tre sezioni che compongono l’opera poetica, scritte negli ultimi anni, sono testimonianza di un mio sentire poetico in evoluzione costante”.

Raffaella Belli (Roma, 1970) esordisce nel 2001 con la silloge “Pensieri d’Azzurro” (Ibiskos Editrice, prefazione di Giovanna La Vecchia). Tra il 2002 e il 2005 ha pubblicato su periodici, quotidiani e riviste, le seguenti sillogi: “Occhi invisibili”, “L’equilibrio dei fiori”, “Lunafiamma”, “I cedri e l’acqua” e “Silenzio di tempo”, ricevendo attenzione e riconoscimenti in numerosi premi poetici.
Con Maurizio Gregorini, nel 2006, ha pubblicato la silloge “Scaglie di passione” (Edizioni del Cardo). Nel 2011, sempre per le Edizioni del Cardo esce la raccolta poetica “Elitra Diafana – Partitura”. Anche Elio Pecora, nell’introdurre il lettore a questa poetica avverte come la poetessa “Mai lasciando la giornata che logora e trattiene, porta in un altrove i suoi pensieri misti di aspre verità e di cercati rispecchiamenti”. E prosegue citando suddetti versi:

È linfa che corre veloce
la seduzione di un canto
nei recessi del tempo.
Lampo di onde silenti,
collegamento ritmico in un mondo
taciturno nell’estensione dell’attimo

per poi chiarire in che modo “in questi versi leggiamo molto e tutto di quanto sostanzia questo libro e ne rende la vivezza e la necessità. Ed è l’altrove della parola che s’interroga, che sfida sé stessa nei significanti, e si concede e si nega insieme per un’attesa inesausta di interiore salute, di bramata conoscenza. Non si distinguono luoghi né volti in questo poetare; l’indeterminatezza ne estende la comunanza e la durata. Il tempo si compie per ‘impenetrabili passaggi’ e l’essere si presenta come la sola vera misura dell’esistere.

Così ricorrono nei diversi componimenti, tutti brevi e densi, tutti chiari e inquietanti, sostantivi (compiutezza, trasparenza, riflessione, inerzia) che segnano domande estreme e pretendono risposte. E’ che qui si vuole ‘plasmare parole oltre la materia’, opporsi all’affanno ‘dei limiti in lotta’, rendersi consapevoli anche nella pena e nella discordia, appressarsi all’imponderabile altresì ‘nei vincoli della carne’. Risuonano parole che accompagnano verso un meno angusto tragitto: ‘La mappa del mondo /
sognata da passi / è celata dal viaggio’. E qui vale rammemorare quel che James
Hillman chiama ‘l’anima del mondo’. Chi va così pronunciandosi ha lasciato le
stanze e le voci per risalire agli inizi e chiedersi le ragioni prime, quindi interrogare
e interrogarsi per riconoscersi, finanche nella stupefazione. Quest’anima, non legata
a un nome e a un destino, appartiene a tanti e a tutto: ‘Trascinata nei gorghi’ va,
ancora va, promettendosi ‘un’intesa d’amore’ e scioglie dal silenzio ‘inattese
risposte’. Così vasto e intenso è il suo desiderio di luce e di armonia che pure nella pena più fonda non si sottrae al ritmo della Terra, al canto della vita. Ed è in questa ondulante sapienza la misura raggiunta, il possibile traguardo”.

Abbiamo intervistato la poetessa Raffaella Belli per i lettori di Condi-Visioni. Ci accoglie nella sua bellissima casa romana, tra quadri, libri, due gatti ed un’atmosfera d’altri tempi. Tutto somiglia a lei e lei somiglia a tutto ciò di cui è circondata. Una luce soffusa avvolge tutto e l’accoglienza è calda e serena.

Tutto è armonia e l’autrice di “Tende all’eterno ogni sospensione” ha un sorriso rassicurante che trasmette un infinito senso di pace. La poesia di Raffaella Belli è contorcente, i suoi versi si aggrappano alle viscere del lettore, ogni organo ne è profondamente ed intimamente coinvolto. E’ potenza pura, è urlo, è tenacia, forza, coraggio e conoscendo l’autrice tutto questo sentimento lacerante sembra celato, perché tutto ciò che noi vediamo è un volto rilassato con due occhi carichi di luce e di speranza. E’ rassicurante Raffaella Belli, è pacata, il tono di voce equilibrato e moderato, la sua ironia è
spiazzante, la sua autoironia è brillante, ed è disarmante e sorprendente venire a
conoscenza che quei versi arrivano da una donna così confortante ed incoraggiante.
Dentro di lei un mondo così profondo, intimo, personale raccontato con una potenza
devastante. Non deve essere stato assolutamente impresa semplice per lei, raccontarsi
così ferocemente, per questo forse dovremmo sapere apprezzare ancora di più tutto ciò che accade in questo nuovo libro edito da Edizioni “Il simbolo”.

Belli, ne sono passati di anni da quando la incontrai per prefarle il suo primo libro di versi. Le confesso che sono soddisfatta che abbia potuto, nel corso del tempo, trovare un giusto equilibrio di scrittura.
“Trova? Se così fosse la ringrazio davvero. Però per mia natura sono e resto sempre incerta, soprattutto se si tratta di scrittura, in questo caso, di poesia. Sono e resto assillata da dubbi: è giusto?, non è giusto?, questa poesia rende davvero ciò che intendo riferire? Sa, le confesso che ogni volta che rileggo versi da me scritti, il discutibile mi si presenta con sfrontatezza, lasciandomi incerta se si tratti di versi felici”.
Se così non fosse, non credo che un poeta della statura di Elio Pecora ne avrebbe aperto un dialogo col lettore. So bene come Pecora introduca solo libri di qualità.

“Guardi, sono ancora sorpresa: considerare che un poeta del calibro di Pecora
abbia speso parole significanti per il mio nuovo libro può solo significare che
davvero dovrei accettare il fatto che forse poeta lo sono per davvero. In altri termini:
devo considerare per forza di cose che in me vive anche questa identità”.
Ecco, identità. Questo nostro numero tratta proprio il tema della identità. Lei
come risolve la questione?

“Ah, proprio non saprei. Pero so che si tratta di un termine e un principio filosofico
che genericamente indica l’eguaglianza di un oggetto rispetto a sé stesso; nel mio
caso forse l’oggetto è la poesia stessa. Però in relazione ad altri oggetti l’identità è
tutto ciò che rende un’entità definibile e riconoscibile, perché possiede un insieme di
qualità o di caratteristiche che portano l’essere a divenire un tutt’uno col circostante.
Va anche detto, nel modo in cui ognuno di noi sa bene, che l’identità è anche presa di coscienza della propria individualità corporea, consapevolezza del valore del corpo come una delle espressioni della personalità.

Non è un caso anomalo che recenti ricerche chiariscono in che modo lo sviluppo dell’immagine corporea è il punto di partenza per la costruzione del sé in tutte le sue dimensioni. Infine, come ha affermato il filosofo Remo Bodei in un’intervista dell’Enciclopedia Multimediale
delle Scienze Filosofiche del 1996, il concetto di identità personale designa la
coscienza che un individuo ha del suo permanere lo stesso attraverso il tempo e
attraverso le fratture dell’esperienza. Ma tornando a noi, a me, se vogliamo
tratteggiare una probabile identità poetica, non posso non affermare che, in quanto
poeta, la mia identità è certamente visionaria. Come ogni poeta, anche io immagino
e ritengo vere cose non rispondenti alla realtà, elaborando, con le parole, disegni
inattuabili. Una sognatrice? Forse, anche se generalmente chi viene considerato tale
può essere soggetto a visioni, apparizioni soprannaturali, allucinazioni visive, ma le
assicuro che non è il mio caso. E soffermandomi sul mio nuovo libro di poesia, posso
dirle di essere una persona dotata di immaginazione e di sentimento, racconto il mio
mondo in modo verosimile, lasciando a me stesa la libertà di creazione e invenzione.
O perlomeno è quello che sostiene di me Maurizio Gregorini, editore di questo libro”.
Oh, il Gregorini: quando si tratta dei suoi versi c’è sempre lui di mezzo. Tra
l’altro anni fa avete licenziato una silloge insieme. So che lui stima molto il suo
lavoro. Tra l’altro io sarei una complice: vi feci incontrare anni fa e mai avrei
immaginato una totale empatia del vostro rapporto.

“Trovo Maurizio un uomo amabile. E sì, devo a lui una certa maturazione poetica. Sempre lì a chiedermi se scrivo nuove poesie, a volerle leggere, a consigliarmi su come costruire un libro. Anche nel caso di ‘Tende all’eterno ogni sospensione’ c’è stata la sua fermezza a volerlo editare. Aveva appena aperto la sua casa editrice e, nell’esprimergli la mia contentezza, ha chiesto immediatamente un libro. Ora, lei sa bene che io pubblico raramente, perché proprio nel modo in cui ci siamo detti poco fa, sono e resto esitante. Ma niente, ha voluto gli dessi le tre sezioni che sono parte
del libro e non c’è stato nulla da fare: alla mia incertezza ha avanzato il suo convincimento”.
E non ne è felice?
“Come non esserlo? Se non ci fosse stata la sua determinazione il libro non esisterebbe; forse tiene a questa nuova pubblicazione più di quanto ci tenga io (ride,n.d.i.). Ma è e resta per me un amico fidato, fondamentale. Pensi che a molti tiene sempre a dire che è come fossimo sposati, e in un certo senso è vero: sono certa di esistere poeticamente perché c’è sempre lui a sostenermi, contro ogni logica”.
Ma Gregorini ama la sua poesia…
“Sì, ed è sempre lui a ripetermi che debbo pensare, riflettere, scrivere, in quanto poeta, non in quanto persona comune. Mai incontrato un lettore più convincente di lui. Che dire? E’ evidente che si tratta di un destino che unisce le nostre anime”. Cosa pensa di aver aggiunto alla sua poesia con la nuova opera? “Proprio non saprei. Gregorini mi è solito affermare che, anche se i temi da me proposti sono ricorrenti, si tratta di una poesia affatto superficiale, che per penetrarvi si necessita di una rilettura costante, come si trattasse di un trattato spirituale; almeno a lui accade così. Non a caso ha scelto una incisione ottocentesca giapponese per la grafica e voluto mettere in quarta di copertina questi versi:

‘Soggiogata nell’ardente immortalità/ trascoloro ignara della tenebra./ Interminabili
fiammeggianti guizzi/ dispongono nelle altezze celesti/ la sontuosità d’ineffabili
amori./ Velato nel rigoglio dei fiori/ protetto dai perseveranti cieli,/ il canto della vita
mia/ narra di un giardino di pietre’.

Ma lui mi ama e non fa testo (ride di nuovo,n.d.i.). I motivi ricorrenti nei miei versi, lo ribadisco, sono sempre gli stessi: la luna, il mare, la terra, la flora, l’invisibile percepito nel visibile… in essi sono certa di riscontrare una libera spontaneità per una giocosità della naturale creazione: mi affascina il cosmo, l’energia, la fisica, l’imponderabile. Non spetta a me dire se abbia aggiunto o no qualcosa alle precedenti pubblicazioni; spero solo che chi si
appresta a leggere queste poesie ne gradisca la musicalità o un possibile fascino”.

Ci salutiamo con un caffè e le fusa dei gatti, rimane impressa in noi una immagine molto forte, un sentimento che ha accompagnato l’intera intervista, lo scambio di battute, la visita della casa, per tutto il tempo ci siamo sentiti avvolti e protetti, la poetica di Raffaella Belli e della sua casa ci tiene lontani da un mondo che non capiamo più e che ha perso e vuole farci perdere identità e natura. Per qualche ora siamo stati immuni al resto quasi con la certezza di una possibile salvezza. La poesia è vita e da vita ad ogni cosa, ne comprendiamo appieno la portata, ma la poesia di Raffaella Belli riesce a fare qualcosa di più, ci rende donatori di qualcosa di bello, di sano e di pulito a chi vuole comunicare con noi e vuole comprendere. Ci sono incontri particolarmente felici, questo è sicuramente uno tra quelli che potremo ricordare in un modo diverso. Leggere “Tende all’eterno ogni sospensione” (già il titolo è una poesia), è stato un viaggio lungo e memorabile, comodamente seduti su una poltrona ben imbottita e con un’ottima tappezzeria, eppure non esente da rischi, poiché la poesia, quella vera, ha in sé inevitabilmente il rischio della consapevolezza,
della coscienza e della verità.

Immaginate un’epoca in cui l’apparenza sia tutto, dove ogni dettaglio della vita quotidiana venga curato in modo maniacale per mantenere una facciata perfetta.
Questo era il mondo nella Londra dell’età vittoriana.
Nessuna attenzione a quelli che fossero i problemi personali o i comportamenti certamente poco nobili e poco “morali” dei cittadini, ma tantissima agli abiti che indossavano, alle cure che avevano per il “manico dell’ombrello” e il modo “affettato” del parlare. Una grande rigidità sociale, non solo poi nei costumi, ma anche nella mobilità sociale perché certamente solamente i nobili e i ricchi potevano permettersi il mantenimento di quello “standard” di vita, di spesa. Le famiglie non in grado di “stare al passo” potevano essere emarginate o, per evitarlo o prevenirlo, potevano migrare nel nuovo mondo cercando di “scambiare” nobiltà con ricchezza.

Immaginate i dandy del XIX secolo, che si distinguevano per il loro stile raffinato e la loro vita elegante, per il cilindro teso e brillante, la barba ben curata, immaginatevi su quei dagherrotipi le parole di Oscar Wilde: i suoi aforismi a sottolineare quel mondo “strano”, dove la “corruzione del corpo” andava avanti senza scalfire l’immagine esteriore proprio come ne “il Ritratto di Dorian Grey”.

Immaginato?

Ora scorrete i reel su Instagram o su TikTok: spiagge immacolate, città pittoresche e paesaggi mozzafiato, sorrisi, situazioni buffe, balletti che vedono ragazzi e ragazze che sono diventate “celebrità” secondo quella legge che Andy Warhol aveva enunciato quasi 60 anni fa.
Queste immagini creano l’illusione di una vita perfetta e di destinazioni da sogno. Tuttavia, la realtà è spesso molto diversa.
Quello che non vediamo in quei tramonti, in quegli orizzonti, sono le folle di turisti, il traffico, il rumore, e talvolta persino le condizioni climatiche avverse. I luoghi presentati sui social media sono il risultato di una cura meticolosa della scena, di filtri e di angolazioni studiate per mostrare solo il meglio.
Quello che non vediamo in quei balletti “improvvisati” su una base “virale” di 20 secondi, sono le prove, le coreografie provate fin nel dettaglio più insignificante.

Molti sentono l’impulso di visitare gli stessi luoghi, sperando di replicare le esperienze viste online. Tuttavia, quando arrivano, spesso trovano una realtà che non corrisponde alle loro aspettative. Questo disallineamento tra realtà e rappresentazione può portare a delusioni e a una continua ricerca di quel momento perfetto che esiste solo nelle foto filtrate, solo nei balletti di TikTok provati e riprovati minuziosamente.

Così come quelle gonne ampissime e gli abiti pieni di merletti come una cattedrale barocca era piena di stucchi, i sorrisi sono il frutto di un nuovo Dandismo dove, anziché salotti e giardini ben curati, il palcoscenico è il mondo digitale e i social network. Scenari dove la realtà viene rappresentata in modo spesso distorto.

Prima di avviarci verso una spiaggia deserta, prima di pensare di calpestare una sabbia bianchissima o di fare tuffi in acque cristalline, pensiamo a dove vorremmo davvero essere, a cosa vorremmo davvero, per spezzare questa catena di illusioni perfette.

La bellezza risiede anche nelle imperfezioni perché ogni esperienza, reale e non filtrata, ha il suo valore unico.

Buone vacanze a tutti.

Ah…..scattate foto bellissime!

L’accordo raggiunto dopo estenuanti trattative nel Trilogo tra Parlamento, Consiglio e Commission, noto come AI Act, rappresenta una svolta epocale nella storia delle tecnologie emergenti.

Con prossimo Regolamento, pubblicato non prima della primavera 2024, l’Unione Europea si posiziona non solo come un leader normativo globale, ma anche come un pioniere nell’intrecciare etica e legge nell’ambito dell’intelligenza artificiale.

L’impatto di questa legislazione è vasto, impattando l’intelligenza artificiale la società a più livelli, influenzando l’economia nascente del settore e rafforzando i diritti umani fondamentali in un’era dominata sempre più dalla tecnologia.

Non mancano le voci critiche sulle scelte annunciate dall’Unione definite da alcuni eccessivamente allarmistiche, paternalistiche e scollegate rispetto ad un mercato ancora agli albori.

Va ricordato però che anche negli USA, paese leader nel settore della IA Generativa (Chat GPT di Open AI, Bard e Gemini di Google solo per citare i chatbot più noti) almeno 25 Stati nel 2023 hanno preso in considerazione una legislazione specifica e 15 hanno emanato leggi o risoluzioni, mentre il Presidente Biden ha firmato il 30 ottobre un Executive Order che fissa standard di protezione della sicurezza e della privacy.

Anche in Cina la Cyberspace Administration of China ha fissato linee guida sulla intelligenza artificiale generativa che impongono una disciplina specifica dei contenuti in chiave di salvaguardia dell’ordine pubblico.

Secondo PwC l’I.A. apporterà un contributo all’economia globale di 15.7 trilioni di dollari di cui, 6,6 trilioni di dollari deriveranno probabilmente dall’aumento della produttività e 9,1 trilioni di dollari nei da effetti collaterali sui consumi che saranno rivoluzionati in praticamente tutti i mercati insieme alla logistica.

Le applicazioni di Intelligenza artificiale generativa ( qualsiasi tipo di intelligenza artificiale in grado di creare, in risposta a specifiche richieste, diversi tipi di contenuti come testi, audio, immagini, video) sono in continuo aumento generando condivisibili ansie in tutti i settori in cui l’impatto sulla occupazione è considerato rilevante quanto inevitabile.

Principali tools di IA generativa by Sequoia al 17 ottobre 2022

La regolazione europea: principi fondamentali

Schematizzando i contenuti dell’accordo raggiunto dai tre legislatori UE ecco gli elementi salienti del prossimo Regolamento.

Protezione dei diritti civili

Il cuore dell’AI Act europeo è focalizzato sulla protezione dei cittadini contro i rischi potenziali delle nuove applicazioni.

La norma fisserà una serie di divieti mirati a salvaguardare la privacy e prevenire abusi possibili ai danni dei cittadino, fra cui:

  • sistemi di categorizzazione biometrica che utilizzano caratteristiche sensibili (es. convinzioni politiche, religiose, filosofiche, orientamento sessuale, razza);
  • raccolta non mirata di immagini facciali da Internet o filmati CCTV (TV a circuito chiuso) per creare database di riconoscimento facciale;
  • riconoscimento delle emozioni sul posto di lavoro e nelle istituzioni educative;
    punteggio sociale basato sul comportamento sociale o sulle caratteristiche personali;
  • sistemi di intelligenza artificiale che manipolano il comportamento umano per aggirare il loro libero arbitrio;
  • ogni applicazione in cui l’intelligenza artificiale viene utilizzata per sfruttare le vulnerabilità delle persone (a causa della loro età, disabilità, situazione sociale o economica).

Le eccezioni per le forze dell’ordine
Nonostante le restrizioni generali, la norma in fieri concede specifiche eccezioni per le forze dell’ordine, bilanciando le esigenze di sicurezza pubblica con la tutela dei diritti individuali che includono l’uso controllato di sistemi di identificazione biometrica in contesti dove la sicurezza pubblica potrebbe essere in gioco, come la ricerca di sospetti di gravi reati. L’obiettivo è prevenire l’abuso di tecnologie potenzialmente invasive come ad esempio l’identificazione generalizzata dei partecipanti ad una manifestazione politica, sindacale ecc.

Dettagli sugli obblighi per i sistemi ad alto rischio
L’AI Act classifica alcuni sistemi di intelligenza artificiale come “ad alto rischio” ovvero quando risultano capaci di incidere in modo sensibile sulla salute e sui diritti fondamentali delle persone fisiche.e impone loro requisiti rigorosi per garantire la sicurezza e la conformità etica. Questi sistemi includono quelli impiegati in settori critici come la sanità, il trasporto, l’energia, dove un malfunzionamento o un abuso potrebbe avere conseguenze gravi. Il regolamento richiede che questi sistemi siano trasparenti, affidabili e soggetti a valutazioni d’impatto periodiche.

Implicazioni per i sistemi di I.A. generali
Per i sistemi di I.A. di uso generale, si applicheranno norme di trasparenza e obblighi di documentazione tecnica. Una cautela è particolarmente importante per i sistemi che, pur non essendo classificati come ad alto rischio, hanno comunque il potenziale di influenzare significativamente la vita quotidiana delle persone. Le norme si spera garantiranno che gli utenti comprendano come e perché determinate decisioni vengono prese dai sistemi di I.A., promuovendo una maggiore fiducia nell’uso della tecnologia.

Promozione dell’innovazione e supporto alle PMI
Un aspetto fondamentale dell’AI Act è il suo impegno per promuovere l’innovazione e supportare le piccole e medie imprese ma anche gli alti costi di implementazione. Solo l’addestramento e la formazione di ChatGPT-4 è costata 100 milioni di dollari. Commissione, Consiglio e Parlamento UE hanno concordato l’introduzione di “sandbox regolatori” spazi liberi per stimolare lo sviluppo tecnologici . Tali ambienti controllati permettono alle aziende di sperimentare e affinare le soluzioni di I.A. prima del lancio sul mercato, riducendo così gli ostacoli alla crescita e alla competitività.

Sanzioni
L’AI Act non solo stabilisce linee guida, ma prevede anche sanzioni rigorose per la non conformità, che possono arrivare fino a 35 milioni di euro o al 7% del fatturato globale dell’azienda. Queste misure dimostrano la serietà con cui l’UE intende far rispettare le nuove normative, sottolineando l’importanza di un uso responsabile dell’IA.

Impatto e crescita dell’Intelligenza Artificiale in Italia

La diffusione e l’importanza dell’intelligenza artificiale in Italia sono messe in luce da dati recenti forniti dall’Osservatorio Artificial Intelligence del Politecnico di Milano. Questi dati rivelano che il mercato dell’Artificial Intelligence nel nostro paese vale attualmente 380 milioni di euro, registrando un impressionante aumento del 27% rispetto all’anno precedente.

Un terzo degli investimenti per progetti di Intelligent Data Processing, il 28% NLP e Chatbot, il 19% Recommendation System, il 10% Computer Vision, il 9% Intelligent RPA

Oltre 6 grandi imprese su 10 hanno già avviato almeno un progetto di AI, tra le PMI il 15%

Il 93% degli italiani conosce l’AI, il 58% la considera molto presente nella vita quotidiana e il 37% nella vita lavorativa. 

Il 73% degli utenti ha timori per l’impatto sul lavoro

Nonostante questa rapida espansione, emerge una discrepanza nella percezione pubblica dell’IA: sebbene il 95% delle persone sia a conoscenza dell’esistenza dell’IA, solo il 60% è in grado di riconoscerne le funzioni in prodotti e servizi concreti. Questo sottolinea la necessità di una maggiore consapevolezza e comprensione dell’I.A. tra il pubblico italiano come confermato uno studio di Goldman Sachs secondo cui abbiamo il tasso più basso di ricerca dei principali tool di I.A. sul web in tutta Europa.

L’influenza occulta della I.A. nel marketing il vero rischio per i consumatori
Nell’era digitale, il marketing assistito dall’intelligenza artificiale sta diventando sempre più raffinato e pervasivo.

In Italia il 19% del mercato della I.A. è legato ad applicazioni basate su algoritmi che suggeriscono ai clienti contenuti in linea con le singole preferenze (Recommendation System).

Se da un lato l’intelligenza artificiale offre benefici in termini di personalizzazione dell’offerta e efficienza nella customer care, dall’altro nasconde rischi significativi per i consumatori.

McKinsey Applicazioni dell’AI marketing nel ciclo di vita del cliente – Smart Insights, 2021

Uno studio di McKinsey ha messo in evidenza con accuratezza e precisione come l’intelligenza artificiale può incidere un tutto il ciclo di vita commerciale del cliente dalla creazione dei contenuti per generare la domanda all’analisi predittiva dei bisogni e più ancora a strumenti molto discussi come il dynamic pricing e persino al customer service predittivo.

L’utilizzo spregiudicato della I.A. nel marketing può tuttavia portare a manipolazioni, invasione della privacy e amplificazione di pregiudizi chiaramente in contrasto con le garanzie e tutele previste dagli ordinamenti dell’UE e nazionali.

Manipolazione comportamentale

La I.A. può analizzare enormi quantità di dati per creare profili utente dettagliati, permettendo ai marketer di indirizzare messaggi pubblicitari in modo estremamente personalizzato. Questo può sfociare in tecniche di manipolazione che sfruttano le vulnerabilità psicologiche degli individui, influenzando le loro decisioni di acquisto in modi che possono non essere nel lorointeresse ovvero decisioni commerciali che non avrebbero assunto con la dovuta consapevolezza in contrasto con il Codice del Consumo.

Invasione della Privacy

Il marketing basato sull’I.A. richiede l’accesso a dati personali spesso sensibili. La raccolta e l’analisi massiva di questi dati, senza il consenso esplicito e informato dell’utente, rappresentano una grave violazione della privacy. Inoltre, l’accumulo di dati può aumentare il rischio di fughe di informazioni e abusi.

Amplificazione di pregiudizi e discriminazioni

L’I.A. è priva di pregiudizi sono se lo sono anche i dati su cui è addestrata. Se i contenuti appresi riflettono pregiudizi esistenti, il programma può involontariamente perpetuarli e amplificarli Nel contesto del marketing, ciò può tradursi in discriminazioni basate su età, genere, etnia o altre caratteristiche personali, con campagne mirate che rinforzano stereotipi e disuguaglianze.

Conclusioni: la necessità di una regolamentazione responsabile nell’interesse di cittadini e imprese

Alla luce di questa breve disamina, diventa essenziale che l’impatto sulla vita dei cittadini dell’I.A. sia sottoposto a una regolamentazione attenta e responsabile, in linea con i principi dell’AI Act e le altre fonti dei diritti fondamentali.

La tutela dei cittadini, anche nella veste di consumatori, deve essere una priorità, garantendo un marketing trasparente, etico, che non invada la privacy o manipoli le persone profilandole illegalmente e inducendole a scelte di ogni tipo in contrasto con il proprio interesse e quella delle loro comunità.

L’AI Act dovrà ricevere l’approvazione formale del Parlamento europeo e del Consiglio, per entrare quindi in vigore 20 giorni dopo la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale.

La legge sull’IA diventerà applicabile due anni dopo la sua entrata in vigore, fatta eccezione per alcune disposizioni specifiche: i divieti si applicheranno già dopo 6 mesi, mentre le norme sull’IA per finalità generali si applicheranno dopo 12 mesi.

Per il periodo transitorio che precederà l’applicazione generale del regolamento, la Commissione ha deciso di lanciare il Patto sull’IA, rivolto a sviluppatori di I.A. europei e del resto del mondo, che si impegneranno a titolo volontario ad attuare gli obblighi fondamentali della legge sull’IA prima dei termini di legge.

Il testo del futuro Regolamento UE e la sua attuazione richiederanno certamente ulteriori approfondimenti, specifiche tecniche più dettagliate e chiarimenti su chi debba vigilare, contemperando il sempre difficile equilibrio tra regolazione e libertà di iniziativa economica in un settore in cui USA, Cina e Regno Unito sono leader mondiali con solo due Paesi della UE ovvero Francia e Germania ben distanziati in termini di investimenti e startup.

Il Cinema è la “Settima Arte” ed è quella che più delle altre usa l’Apparenza come sistema di comunicazione con il proprio pubblico. Certo anche i giochi dei bambini a volte iniziano con un “Facciamo finta che…”, e nel Teatro l’attore con il volto truccato pesantemente può essere l’Otello di Shakespeare o un samurai nel teatro kabuki, ma si svolge in uno spazio definito. Il Cinema riesce infatti ad unire “l’estensione dello spazio e la dimensione del tempo” (come scrisse Canudo nel 1921, nel manifesto “La nascita della settima arte”).

Così ho pensato di fare un elenco di 10 film che hanno proprio “L’Apparenza” come tema centrale.

  1. American Beauty (1999) – Le vite apparentemente perfette di una famiglia suburbana e le realtà nascoste dietro la facciata.
  2. The Great Gatsby (2013) – Dal romanzo di F. Scott Fitzgerald, si mette in luce la vita lussuosa e le illusioni del protagonista Jay Gatsby.
  3. Gone Girl (2014) – Le apparenze, le illusioni (e le menzogne) che ruotano attorno alla scomparsa di Amy Dunne.
  4. The Truman Show (1998) – La vita di Truman Burbank è semplicemente perfetta…finché non scopre che in realtà è un reality show orchestrato.
  5. Black Swan (2010) – Il film segue la discesa nella follia di una ballerina, esplorando la dualità e le apparenze nel mondo della danza.
  6. Shutter Island (2010) – Un thriller psicologico che esplora la percezione della realtà e le apparenze ingannevoli in un ospedale psichiatrico.
  7. The Talented Mr. Ripley (1999) – Il film segue un uomo che assume diverse identità per vivere una vita di lusso, esplorando l’inganno e la manipolazione.
  8. The Stepford Wives (2004) – Una commedia nera (di Frank Oz) che racconta di un gruppo di donne che sembrano perfette ma nascondono un oscuro segreto.
  9. The Prestige (2006) – La rivalità tra due maghi e le apparenze ingannevoli delle loro illusioni, raccontato con la maestria di Christopher Nolan.
  10. Fight Club (1999) – Un film che mette in discussione l’identità e l’apparenza, rivelando la vera natura dei personaggi principali. Da seguire fino alla fine, assolutamente.

Ma nel Cinema dedicato all’Apparenza, non può assolutamente mancare il mio film preferito:

Vertigo (1958) – Un thriller psicologico di Alfred Hitchcock che esplora l’inganno e le apparenze attraverso il personaggio di Scottie e la sua ossessione per una donna.

In quest’estate calda e torrida, proponiamo questa bella poesia di Umberto Saba, “Meriggio d’estate”, tratta dalla sua opera Il Canzoniere (1921), che ci richiama alla natura, alla pace e all’armonia ma, al contempo, ci riporta alle gravi problematiche dei cambiamenti climatici in corso.

Silenzio! Hanno chiuso le verdi
persiane delle case.
Non vogliono essere invase.
Troppe le fiamme
della tua gloria, o sole!
Bisbigliano appena
gli uccelli, poi tacciono, vinti
dal sonno. Sembrano estinti
gli uomini, tanto è ora pace
e silenzio… Quand’ecco da tutti
gli alberi un suono s’accorda,
un sibilo lungo che assorda,
che solo è così: le cicale.