Doppia personale di Caterina Ciuffetelli e Paolo di Nozzi
Da un’idea e per la cura di Roberto Gramiccia
Dal 15 marzo al 4 aprile 2025
Numeri & Carezze è il titolo della doppia personale di Caterina Ciuffetelli e Paolo Di Nozzi,che è stata inaugurata sabato 15 marzo 2025 presso l’Associazione CulturaleLavatoio Contumaciale di Roma.
Ideata e curata da Roberto Gramiccia, l’esposizione si colloca all’interno di una location suggestiva, sede dell’Associazione culturale fondata nel 1974 da Tomaso Binga (nome d’arte di Bianca Pucciarelli Menna), in collaborazione con Filiberto Menna celebre critico d’arte, e oggi diretta da Grazia Menna.
La ragione del titolo, solo apparentemente bizzarro, risiede nel desiderio del curatore di portare a sintesi in due parole l’universo di senso entro il quale si colloca e da cui trae linfa l’immaginario creativo di Caterina Ciuffetelli e Paolo Di Nozzi.
Scrive Gramiccia: «Numeri, infatti, è lemma che individua i territori sconfinati della certezza matematica, quella che nella nostra tradizione greca viene fatta risalire ad Archimede ma che ha origini ancora più antiche e provenienza molto più a Oriente rispetto all’area del Mediterraneo e della Magna Grecia. Quello dei numeri è il mondo che fa riferimento a quella razionalità calcolante che informa di sé, oggi più che mai, il pensiero unico, prono di fronte alle logiche di un universo fatto di fredde cifre, di mercato e di tecnologia.
Carezze invece è parola che allude a una polarità opposta. Quella che si riconduce alle province dell’incertezza amorosa, dell’eros, del sentimento, del coraggio e della tenerezza che reca conforto a quella debolezza che trae origine dalla fragilità umana rassegnata. La carezza richiama alla mente il gesto della madre verso il bambino o dell’amante verso l’amata. Simbolo in entrambi i casi di energie primordiali. Ma sciocco sarebbe pensare che nel pensiero razionale il “cuore” non abbia cittadinanza, come insegnano le attuali neuroscienze».
Le pareti dell’Ex Lavatoio diventano così il teatro di una scena armoniosa, simbolicamente in bilico tra i lavori bidimensionali di Caterina Ciuffetelli e le tre dimensioni spaziali delle opere di Paolo Di Nozzi.
La visione d’insieme restituisce il senso di una compenetrazione di anime e visioni, con la “geometria sentimentale” di Ciuffetelli che dialoga con il “poverismo barocco” di Di Nozzi, nel solco di un percorso all’insegna di una verità misconosciuta: materia e spirito, come razionalità e sentimento, non sono realtà in competizione tra loro ma facce di un’unica medaglia.
Il colore non è semplicemente una proprietà fisica degli oggetti, ma un fenomeno complesso che nasce dall’interazione tra la luce, l’oggetto che riflette o assorbe la luce e la percezione visiva dell’occhio umano. La scienza del colore è un campo che esplora come vediamo e interpretiamo i colori, le loro proprietà fisiche e come il nostro cervello li elabora. In questo articolo, esploreremo i fondamenti scientifici del colore, dalla teoria della luce alla percezione visiva.
La luce e la teoria del colore
Alla base della percezione del colore c’è la luce. La luce bianca, che percepiamo come una miscela di tutte le lunghezze d’onda dello spettro elettromagnetico visibile, può essere separata in una gamma di colori attraverso un prisma. Questo fenomeno fu studiato da Isaac Newton, che nel 1666 dimostrò che la luce bianca è composta da una serie di colori, visibili quando la luce passa attraverso un prisma. Questi colori corrispondono a lunghezze d’onda specifiche della luce, che vanno dal rosso (lunghezza d’onda più lunga) al violetto (lunghezza d’onda più corta).
Secondo la teoria di Newton, i colori primari che costituiscono lo spettro sono rosso, verde e blu, che combinati in varie proporzioni possono produrre una vasta gamma di colori. Questo principio alla base della sintesi additiva è essenziale per la produzione dei colori sui display elettronici, come quelli dei televisori o degli schermi dei computer.
La percezione del colore nell’occhio umano
Quando la luce colpisce un oggetto, esso assorbe alcune lunghezze d’onda e ne riflette altre, che arrivano ai nostri occhi. La percezione del colore è quindi il risultato di come la luce riflessa viene interpretata dal nostro sistema visivo. Gli esseri umani possiedono tre tipi di coni, cellule sensoriali specializzate nell’elaborazione della luce, ognuna sensibile a un range di lunghezze d’onda specifiche:
• Coni sensibili al rosso (L-coni)
• Coni sensibili al verde (M-coni)
• Coni sensibili al blu (S-coni)
Questi tre tipi di coni permettono la visione tricromatica, che è alla base della nostra capacità di percepire una vasta gamma di colori. L’informazione proveniente da questi coni viene inviata al cervello, che interpreta le differenze nelle lunghezze d’onda come colori diversi.
La teoria dei colori: sintesi additiva e sottrattiva
La sintesi additiva riguarda la creazione di nuovi colori unendo diverse lunghezze d’onda di luce. È il processo utilizzato nei display elettronici e nelle luci a LED. I tre colori primari della sintesi additiva sono rosso, verde e blu (RGB). Quando questi colori vengono combinati in diverse proporzioni, si ottengono altri colori, come il bianco quando tutti e tre i colori primari sono mescolati in eguale misura.
Al contrario, la sintesi sottrattiva riguarda il mescolare pigmenti o coloranti, come nel caso delle pitture. In questo caso, i colori primari sono ciano, magenta e giallo (CMY). Quando i pigmenti vengono mescolati, assorbono (o sottraggono) diverse lunghezze d’onda della luce, producendo vari colori. La sintesi sottrattiva viene utilizzata nella stampa a colori, dove si combinano ciano, magenta e giallo per creare altri colori, mentre l’aggiunta del nero (CMYK) consente di ottenere tonalità più scure.
Il colore nel mondo naturale: pigmenti e riflessione della luce
Nel mondo naturale, i colori che vediamo sugli oggetti sono dovuti a come i materiali riflettono, rifrangono e assorbono la luce. Ad esempio, le piante sono verdi perché la clorofilla, il pigmento principale nella fotosintesi, assorbe la luce rossa e blu, riflettendo la luce verde. Il cielo appare blu per un fenomeno chiamato scattering Rayleigh: quando la luce solare interagisce con le molecole nell’atmosfera, la luce blu viene diffusa più di quella rossa, dando al cielo il suo colore caratteristico.
Colore e visione dei colori: dal daltonismo alla tetrachromia
La percezione del colore non è universale tra gli esseri umani. Una delle condizioni più conosciute è il daltonismo, un difetto visivo che rende difficile distinguere tra alcuni colori, in particolare il rosso e il verde. Il daltonismo è dovuto a una mutazione genetica che impedisce il corretto funzionamento di uno o più dei coni nell’occhio. Si stima che circa il 8% degli uomini e l’1% delle donne soffrano di questa condizione.
Al contrario, alcune persone hanno una condizione chiamata tetrachromia, che consente di percepire un quarto colore. Questa condizione è rara e avviene quando una persona ha quattro tipi di coni sensoriali invece dei consueti tre. Le tetraplogie sono in grado di distinguere sfumature di colore che sono impercettibili per la maggior parte degli altri esseri umani.
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La scienza del colore è un campo affascinante che abbraccia la fisica della luce, la biologia della percezione visiva e le leggi della sintesi dei colori. La comprensione dei meccanismi alla base del colore ci consente di apprezzare meglio la sua importanza in tutte le sfere della vita, dall’arte alla tecnologia, fino alle applicazioni quotidiane come il design e la pubblicità. La percezione del colore è, infatti, un processo complesso e ancora in evoluzione, che continua a stupirci ogni giorno.
Il colore è uno degli strumenti più potenti del cinema, in grado di trasmettere emozioni, significati nascosti e messaggi subliminali. Alcuni film ne fanno un uso particolarmente marcato, sia nella palette visiva che nella trama stessa.
Ecco dieci pellicole nelle quali il colore gioca un ruolo fondamentale.
1. Rosso come il cielo (2006)
Questo film italiano di Cristiano Bortone racconta la storia di Mirco, un bambino che perde la vista e scopre un nuovo modo di percepire il mondo attraverso i suoni. Il rosso, nel titolo e nella simbologia del film, rappresenta la passione, la creatività e il desiderio di superare i limiti imposti dalla vita.
2. Tre colori: Blu, Bianco, Rosso (1993-1994)
La trilogia di Krzysztof Kieślowski è interamente costruita attorno ai colori della bandiera francese, ognuno dei quali simboleggia un ideale rivoluzionario:
Blu per la libertà e la solitudine (“Tre colori: Blu”).
Bianco per l’uguaglianza e il fallimento (“Tre colori: Bianco”).
Rosso per la fraternità e il destino (“Tre colori: Rosso”).
3. Il colore viola (1985)
Steven Spielberg adatta il romanzo di Alice Walker, raccontando la difficile esistenza di una donna afroamericana nei primi decenni del ‘900. Il viola è un simbolo di dolore, resistenza e speranza, un colore che accompagna la protagonista nel suo viaggio verso l’emancipazione.
4. Her (2013)
Il film di Spike Jonze utilizza una dominante cromatica calda, con il rosso e l’arancione che avvolgono il protagonista in un’atmosfera malinconica e intima. Il colore non è solo un dettaglio estetico, ma un mezzo per esprimere il senso di solitudine e connessione della storia d’amore tra un uomo e un’intelligenza artificiale.
5. The Neon Demon (2016)
Diretto da Nicolas Winding Refn, questo film fa un uso intenso dei colori, specialmente il neon e il rosso sangue, per raccontare il mondo ossessivo e spietato della moda. I colori vibranti diventano una metafora dell’illusione, del pericolo e della decadenza.
6. Il favoloso mondo di Amélie (2001)
Jean-Pierre Jeunet utilizza una palette cromatica dominata da verdi, rossi e gialli saturi, creando un’atmosfera fiabesca e nostalgica. I colori riflettono la visione ottimista e sognante della protagonista, rendendo il film un’esperienza visiva unica.
7. Sin City (2005)
Basato sulla graphic novel di Frank Miller, “Sin City” adotta un’estetica noir in bianco e nero, interrotta da dettagli di colore che enfatizzano elementi chiave della storia, come il rosso del rossetto o il giallo della pelle di un personaggio. Questo contrasto visivo esalta il tono dark e iper-stilizzato del film.
8. Joker (2019)
Il colore accompagna l’evoluzione del personaggio di Arthur Fleck. La palette iniziale è desaturata e cupa, riflettendo la sua condizione di emarginato. Man mano che abbraccia la sua nuova identità di Joker, i colori diventano più accesi, con verdi e rossi vibranti che segnano la sua trasformazione definitiva.
9. The Grand Budapest Hotel (2014)
Wes Anderson è noto per il suo uso distintivo del colore, e “The Grand Budapest Hotel” ne è un esempio straordinario. Con palette pastello e accostamenti cromatici armoniosi, il film utilizza il colore per rafforzare il tono surreale e nostalgico della narrazione.
10. Enter the Void (2009)
Gaspar Noé utilizza una palette di colori psichedelici per immergere lo spettatore in un viaggio allucinatorio. Il neon, il viola, il rosso e il giallo pulsante diventano strumenti visivi che riflettono la mente alterata del protagonista e l’atmosfera surreale del film.
Il colore non è solo un fenomeno fisico o psicologico, ma ha anche un’importante valenza culturale. Ogni società, civiltà e religione attribuisce significati diversi ai colori, utilizzandoli per esprimere valori, emozioni e tradizioni. Il colore può essere visto come un linguaggio visivo universale, ma i suoi significati possono variare notevolmente da una cultura all’altra. In questo articolo esploreremo come il colore venga percepito e utilizzato in differenti contesti culturali, storici e religiosi.
Il simbolismo del colore nelle diverse culture
Il rosso
Il rosso è uno dei colori più potenti in molte culture. In Occidente, è spesso associato all’amore, alla passione, ma anche al pericolo e alla violenza. Nella cultura cinese, invece, il rosso è simbolo di felicità, prosperità e buona fortuna. Per questo motivo, il rosso è un colore dominante durante il Capodanno cinese e in altre celebrazioni tradizionali. Nel mondo islamico, il rosso è spesso legato all’idea di sacralità e forza.
Il blu
Il blu, in molte culture occidentali, è considerato il colore della tranquillità, della serenità e dell’armonia. Tuttavia, nella cultura indiana, il blu è associato al dio Krishna ed è simbolo di divinità e potere. In Giappone, il blu rappresenta la natura e il cielo, e viene utilizzato anche per evocare una sensazione di pace e distensione. In contrasto, nel Medio Oriente, il blu può essere visto come un colore di protezione e viene spesso utilizzato per allontanare gli spiriti maligni.
Il giallo
Il giallo ha diverse connotazioni a seconda della cultura. In molti paesi occidentali, è visto come un colore di ottimismo, energia e gioia. Tuttavia, in alcune culture asiatiche, il giallo è un colore associato alla saggezza e alla ricchezza. In India, il giallo è il colore di Vishnu, una delle principali divinità induiste. In alcuni contesti europei, il giallo è anche legato al tradimento e all’inganno, come nel caso delle stelle gialle indossate dagli ebrei durante l’occupazione nazista.
Il verde
Il verde è il colore della natura e della rinascita. È associato alla vita e alla fertilità in molte culture del mondo. Nella cultura islamica, il verde è particolarmente sacro ed è spesso usato nei luoghi di culto. In alcune culture occidentali, il verde è il simbolo della speranza, ma può anche essere legato all’invidia o alla gelosia (come nel detto “essere verdi di rabbia”). In altre tradizioni, come quella celtica, il verde rappresenta il legame con la terra e la magia.
Il bianco
In molte culture occidentali, il bianco è simbolo di purezza, innocenza e novità. È il colore tradizionale dei matrimoni in molte società occidentali, ma ha anche una forte associazione con il lutto in molte culture orientali, come in Cina e in Giappone, dove il bianco è il colore della morte e della sepoltura. Nella cultura cristiana, il bianco rappresenta la luce divina e la purezza dell’anima, ma in molte religioni africane e in alcune tradizioni asiatiche, il bianco è considerato un colore di sospetto o disgrazia.
Il nero
Il nero è tradizionalmente legato al lutto e alla morte, ma anche all’eleganza e al potere in molte culture. In Occidente, il nero è il colore dei funerali, ma è anche simbolo di raffinatezza nella moda, come nel caso dei classici “piccoli abiti neri” creati da Coco Chanel. Nella cultura africana, il nero è un colore che rappresenta la terra madre, l’origine della vita e la forza spirituale. Nella cultura giapponese, invece, il nero è legato alla nobiltà e all’onore.
I colori nelle religioni e nelle tradizioni spirituali
In molte religioni, il colore gioca un ruolo fondamentale nei rituali, nei vestiti liturgici e nelle opere d’arte. Ad esempio, nel cristianesimo, il porpora è il colore associato alla penitenza e alla preghiera durante la Quaresima, mentre il bianco è usato per celebrare la Pasqua e altre festività cristiane.
Nel Buddhismo, il colore arancione è sacro, simbolizzando la illuminazione e la rinuncia. I monaci buddisti indossano abiti arancioni per rappresentare la loro dedizione al cammino spirituale. In Hinduismo, il safran è un colore di grande valore spirituale e viene utilizzato per rappresentare la purezza e la devozione.
Il colore nel design e nella moda culturale
Nel design moderno, i colori vengono scelti con cura per evocare determinati messaggi e per rispecchiare le tradizioni culturali. Ad esempio, il rosso è spesso usato nel design cinese per evocare prosperità, mentre il blu in contesti europei ed americani è simbolo di fiducia e serietà. La moda, poi, è strettamente legata alla cultura e ai colori che vengono scelti per rappresentare particolari identità sociali o etniche.
In molte culture africane, i colori e i motivi delle stoffe hanno un significato profondo. I colori delle stoffe Kente, ad esempio, variano a seconda della tribù e della storia personale di chi le indossa, mentre in India il sari è tradizionalmente indossato in vari colori che segnalano il periodo della vita della donna (ad esempio, il rosso per il matrimonio, il bianco per il lutto).
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Il colore è un linguaggio visivo universale che, però, assume significati unici e variegati a seconda del contesto culturale. Dai simbolismi religiosi alle tradizioni popolari, passando per il design e la moda, il colore è un potente strumento per comunicare valori, emozioni e identità culturale. È fondamentale comprendere il significato dei colori in differenti contesti per apprezzare appieno la loro profondità e la loro bellezza nelle diverse tradizioni e culture.
I colori, con la loro potente simbologia, svolgono un ruolo fondamentale nelle tradizioni religiose e culturali di tutto il mondo. Ogni religione e cultura attribuisce significati profondi a determinati colori, che spesso sono legati a valori spirituali, credenze e pratiche rituali. L’uso dei colori non solo aiuta a creare un’atmosfera sacra, ma serve anche come strumento per comunicare concetti astratti come la divinità, la moralità, la purificazione e la protezione. In questo articolo esploreremo come i colori vengono interpretati nelle religioni principali del mondo e come sono stati utilizzati nei riti e nelle tradizioni.
Il significato dei colori nel Cristianesimo
Nel Cristianesimo, i colori svolgono un ruolo simbolico profondo, soprattutto nelle liturgie, nell’arte sacra e nei vestiti liturgici. Ogni colore ha un significato specifico, legato a particolari periodi dell’anno liturgico e a eventi religiosi significativi.
Bianco
Il bianco è il colore della purezza e della luce divina. È utilizzato nelle celebrazioni liturgiche più gioiose, come il Natale, la Pasqua e i matrimoni. Il bianco rappresenta la risurrezione, la gloria e la gioia.
Rosso
Il rosso è il colore del sangue, simbolo di sacrificio e passione. Viene utilizzato durante Pentecoste, la Settimana Santa e nelle celebrazioni dei martiri. Esso simboleggia anche la forza spirituale e l’amore divino.
Verde
Il verde è il colore della speranza, della vita eterna e della rinascita spirituale. È il colore della crescita e viene usato durante il periodo ordinario dell’anno liturgico, simboleggiando la crescita e la fede quotidiana.
Viola
Il viola è simbolo di penitenza, preghiera e umiltà. Viene utilizzato durante il periodo di Avvento e la Quaresima, rappresentando il tempo di preparazione spirituale e riflessione prima delle festività principali.
Giallo
Il giallo, come simbolo di luce, è associato al sole e alla gloria di Dio. Sebbene non venga usato frequentemente nelle liturgie, è comunque presente in molte rappresentazioni artistiche, come nell’iconografia dei santi.
Il significato dei colori nell’Induismo
Nell’Induismo, il colore ha un’importanza profonda, essendo legato alla spiritualità e alle divinità. Ogni colore è spesso associato a uno degli dei principali, a uno stato di coscienza o a uno stadio del ciclo karmico.
Arancione
Il colore arancione è strettamente legato alla divinità e alla spiritualità, ed è il colore tradizionale dei sacerdoti e dei monaci. È associato al dio Vishnu, alla conoscenza e alla realizzazione spirituale. Inoltre, l’arancione è un colore che simboleggia la saggezza e la rinuncia.
Rosso
Il rosso è il colore della fertilità, della passione e della prosperità. In molte cerimonie religiose, specialmente nei matrimoni, il rosso rappresenta la vita e la procreazione. È anche un colore sacro che simboleggia la protezione e viene spesso usato nei rituali di benedizione.
Bianco
Il bianco rappresenta la purezza, la pace e la trasparenza. In alcune pratiche religiose, il bianco è indossato durante i riti di purificazione e nei momenti di meditazione per rappresentare la purezza del cuore e della mente.
Verde
Il verde è simbolo di vita e fertilità. È associato al dio Krishna, ed è utilizzato nei templi per simboleggiare l’armonia con la natura e la divinità.
Il significato dei colori nel Buddhismo
Nel Buddhismo, i colori sono spesso utilizzati per rappresentare i vari aspetti della pratica spirituale e della via verso l’illuminazione. Ogni colore è legato a specifici insegnamenti e valori.
Arancione
Come nell’Induismo, l’arancione è un colore sacro anche nel Buddhismo, associato alla purezza mentale e alla rinuncia. I monaci buddisti indossano abiti arancioni per simboleggiare la loro dedicazione alla spiritualità.
Giallo
Il giallo rappresenta la conoscenza, la saggezza e l’illuminazione. È il colore che i monaci tibetani usano durante i rituali e simboleggia la ricerca della verità e la riconciliazione con il mondo.
Bianco
Il bianco nel Buddhismo è il simbolo di pace e purificazione. È il colore della consapevolezza e della serenità che si raggiungono attraverso la meditazione.
Blu
Il blu è associato al Buddha Amitabha e simboleggia l’infinito e l’immortalità. È anche un colore che rappresenta la profondità della meditazione e la calma interiore.
Il significato dei colori nell’Islam
Nel Islam, i colori hanno un’importanza simbolica che si lega alla spiritualità e alla bellezza divina. Mentre non vi è una codifica rigorosa dei colori, alcune tradizioni li associano a concetti fondamentali.
Verde
Il verde è considerato il colore più sacro nell’Islam, spesso associato al profeta Maometto. È simbolo di paradiso, protezione divina e benedizioni. È un colore che evoca pace e armonia ed è comunemente utilizzato nelle moschee e nelle bandiere dei paesi musulmani.
Bianco
Il bianco rappresenta la purezza e l’innocenza. È il colore che viene indossato durante il pellegrinaggio a La Mecca (Hajj), dove i pellegrini indossano il “ihram”, un semplice abito bianco per simboleggiare l’uguaglianza davanti a Dio.
Nero
Il nero ha un significato importante, specialmente nella Kaaba a La Mecca, che è ricoperta da un drappo nero chiamato Kiswah. Il nero è associato alla potenza divina e alla misteriosità di Allah.
Il significato dei colori nel Judaísmo
Nel Judaismo, i colori hanno un’importanza simbolica legata principalmente alla spiritualità e alla purificazione. Alcuni colori hanno un forte legame con i riti religiosi e i simboli ebraici.
Blu
Il blu è uno dei colori più sacri nel giudaismo e si trova nel “tzitzit”, le frange rituali che gli ebrei indossano. Esso rappresenta la presenza divina e il legame con Dio. È anche il colore che simboleggia l’infinito e l’eternità.
Bianco
Il bianco è il colore della purezza e della santità. Viene indossato durante Yom Kippur, il giorno dell’espiazione, e durante le celebrazioni più solenne come il Shabbat.
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I colori hanno un significato profondo e variegato nelle diverse religioni e tradizioni spirituali. Ogni colore, con le sue sfumature e il suo simbolismo, è un mezzo per comunicare idee spirituali universali, dai valori di purezza e amore alla protezione divina e all’illuminazione. Comprendere il significato dei colori nelle tradizioni religiose aiuta a apprezzare il loro potere spirituale e il ruolo che svolgono nel nostro rapporto con la divinità e l’universo.
C’è un detto che suona più o meno così: “Il tempo cura tutte le ferite“. Ma cosa succede quando, invece di guarire, continuiamo a graffiare il ricordo di quelle ferite? È un paradosso universale: quanto più cerchiamo di dimenticare qualcosa, tanto più questa cosa sembra fissarsi nella nostra mente. Un loop mentale che può essere tanto doloroso quanto frustrante. Non penso certamente alle cose tant dolorose da esser rimosse dalla memoria dal nostro Io, ma alle esperienze negative che abbiamo vissuto. Il risveglio il giorno dell’esame di maturità.
La memoria umana, tanto straordinaria quanto misteriosa, non è solo un archivio passivo di eventi passati. È un sistema attivo, capace di rielaborare e reinterpretare le informazioni, talvolta aggiungendo un tocco drammatico ai ricordi. Freud definiva questo fenomeno come “compulsione alla ripetizione“, un meccanismo inconscio che ci spinge a rivivere eventi traumatici per cercare, paradossalmente, di risolverli o integrarli. Ma spesso questo si traduce in una continua riapertura di vecchie ferite.
Il nostro cervello sembra cablato per prestare maggiore attenzione alle esperienze negative. Una spiegazione scientifica viene dalla teoria del “negativity bias“: la tendenza innata a dare maggiore peso ai ricordi spiacevoli rispetto a quelli positivi. Questo bias ha radici evolutive: ricordare il pericolo e il dolore era essenziale per la sopravvivenza dei nostri antenati. Dimenticare un pericolo poteva significare la morte; ricordarlo, invece, aumentava le probabilità di sopravvivenza.
Quando viviamo un evento doloroso, il cervello rilascia sostanze chimiche che intensificano la memoria, rendendola più vivida e difficile da dimenticare.
“Ogni situazione è neutra: non sono gli eventi a turbare gli uomini, ma il modo in cui li interpretano“, diceva il filosofo Epitteto. Questo significa che non è tanto il ricordo in sé a perseguitarci, quanto il significato che gli attribuiamo. Un insulto, ad esempio, può essere archiviato come un episodio insignificante o trasformarsi in un’ossessione, a seconda del valore emotivo che gli diamo.
“Non pensare a un elefante rosa”. La frase ti ha fatto immaginare proprio un elefante rosa, vero? Questo fenomeno, noto come “effetto del rimbalzo” o “ironia mentale”, è stato studiato dallo psicologo Daniel Wegner. Cercare di sopprimere un pensiero, infatti, spesso lo rende più persistente. Lo stesso accade con i ricordi: più cerchiamo di dimenticare un evento doloroso, più questo si radica nella nostra mente.
Allora, come possiamo liberarci dal peso dei ricordi spiacevoli? Una strategia è accettare il ricordo invece di combatterlo. Secondo le teorie della mindfulness, osservare il pensiero senza giudizio può aiutare a ridurne l’intensità emotiva. Inoltre, parlare con qualcuno di fiducia o scrivere i propri pensieri può rivelarsi catartico. Non si tratta di cancellare il passato, ma di riconoscerlo per ciò che è: una parte della nostra storia, non la nostra intera identità.
In definitiva, i ricordi dolorosi possono insegnarci lezioni preziose, ma solo se siamo disposti a guardarli con occhi nuovi. Come scriveva Oscar Wilde: “L’esperienza è il nome che diamo ai nostri errori”. Forse, accettando questa prospettiva, possiamo trasformare i nostri ricordi più pesanti in strumenti di crescita e consapevolezza.
Dominio delle stronzate, crepuscolo della democrazia, agonia della libertà
Se, come diceva Gesù, «la verità vi farà liberi», allora la scomparsa della verità ci renderà tutti schiavi. E, dato che stiamo precipitando nell’abisso di una società senza verità, ogni istante che passa, siamo sempre meno liberi.
La cosa peggiore, però, non è che non ce ne rendiamo conto. È che – anche quando ce ne rendiamo conto – non ce ne preoccupiamo.
In parte, perché ci illudiamo che non sia così. Pensiamo si tratti dell’ennesimo catastrofismo ingiustificato, messo in giro dai soliti “profeti di sventure”. Gufi disposti a tutto pur di farci vivere nella paura e – come cantava De Gregori – «convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera».
In parte – ed è questo l’aspetto più inquietante – perché crediamo che la cosa non sia poi così importante. Questa o quella cosa non sono vere? E chissenefrega! Come se la Storia non avesse abbondantemente dimostrato che le società senza verità finiscono col destabilizzare e stravolgere le vite delle persone, fino al punto di soffocarle, negarle e, infine, cancellarle.
NIENTE LIBERTÀ, NIENTE VITA
Non c’è vita senza libertà. Eppure ignoranza, stupidità, servilismo, opportunismo, pusillanimità e paura ci convincono che non è così. Morale: andiamo avanti come se niente fosse, tra inconsapevolezza, rassegnazione e fatalismo, fidando nel fatto che, all’ultimo istante, qualcosa o qualcuno ci salverà dall’abisso.
Non succederà. Nessuno verrà a salvarci. Anche perché nessuno – a parte noi – tiene alla nostra libertà. Gli altri non vedono l’ora di togliercela. Se, poi, siamo noi stessi i primi a rinunciarci, tanto meglio per loro: risparmieranno tempo, denaro e fatica.
DIRITTO AL VOTO: REGALO INESTIMABILE, BUTTATO VIA
Un’intera generazione (né alieni né estranei: i nostri nonni e i nostri genitori) ha combattuto e sacrificato la vita per regalare a tutti noi la libertà di votare e scegliere la “casa” che vogliamo, chi la deve costruire e aiutarci a “mandarla avanti”. Un dono dal valore inestimabile del quale, a quanto pare, non sappiamo più cosa farcene. Ce ne siamo stancati, e l’abbiamo buttato via, tra i giocattoli che non divertono più, come fanno i bambini con i regali del Natale precedente.
Dal 1948 a oggi, infatti, l’affluenza alle urne è precipitata. Siamo passati dal 92,23% delle prime elezioni al 49,69% delle Europee dello scorso anno. 42,54 punti percentuali in meno. Un crollo che ha determinato il crollo verticale del “coefficiente di democraticità” della nostra democrazia.
DEMOCRAZIA DIMEZZATA
Un coefficiente che, per la democrazia, è come i carati per l’oro. Più sono, più l’oro è puro e più vale; meno sono, meno l’oro è puro e meno vale. Come ho già scritto, infatti, la democrazia non è come il silenzio, che c’è o non c’è. Somiglia, piuttosto, all’oro: il suo valore, cioè, dipende dal suo grado di “purezza”. Ed è del tutto evidente che una democrazia rappresentativa nella quale vota meno del 50% dell’elettorato è tutt’altro che pura.
Di fatto, quindi, viviamo in una democrazia dimezzata. Il che equivale a trovarsi al volante di un’auto che perde due ruote per strada: praticamente impossibile non schiantarsi.
DEMOCRACY INDEX 2023
Secondo l’ultima edizione del Democracy Index dell’Economist Intelligence Unit (un’istantanea dello stato della democrazia in 165 Stati indipendenti e due territori – quasi l’intera popolazione mondiale e la stragrande maggioranza degli Stati – basata su: processo elettorale e pluralismo, funzionamento del governo, partecipazione politica, cultura politica e libertà civili) sebbene circa la metà della popolazione mondiale (45,4%) viva in una qualche forma di democrazia, solo il 7,8% risiede in “piene/complete democrazie” e ben più di un terzo (39,4%) vive sotto regimi autoritari.
ITALIA DA “SERIE B”
Il nostro Paese, purtroppo, non brilla. E come potrebbe, visto l’andazzo degli ultimi decenni. L’Italia, infatti, non trova posto nella “serie A” del Democracy Index, che ospita i 24 Paesi che lo studio definisce “democrazie piene/complete”. Tra queste, in ordine di graduatoria, troviamo Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca, Irlanda, Svizzera, Paesi Bassi, Lussemburgo, Germania, Canada, Australia, Giappone, Austria, Regno Unito, Grecia, Francia e Spagna.
Il nostro Paese risulta al decimo posto della classifica della “serie B” – le “democrazie imperfette” – preceduta da Cile, Repubblica Ceca, Estonia, Malta, Stati Uniti d’America, Israele, Portogallo, Slovenia e Botswana.
Dietro di noi, infine, Paesi come Belgio (36), India e Polonia (41), Sud Africa (47), Ungheria (50), Brasile (51), Argentina (54), Colombia (55), Croazia (58), Romania (60), Bulgaria (62), Serbia (64), Albania (66), Tunisia (82), Ucraina (91), Turchia (102), Emirati Arabi (125), Egitto (127), Iraq (128), Russia (144), Cina (148), Iran (153), Libia (157), Siria (163), Corea del Nord (165).
Come abbiamo visto, nel nostro Paese, la rappresentatività è fortemente compromessa. E, dato che essa è il cuore della democrazia (aveva ragione Gaber: libertà è partecipazione), fortemente compromesso è anche il cuore della nostra democrazia. Un cuore sempre più prossimo all’infarto.
Alle ultime Europee – solo per citare la tornata elettorale più recente – ha votato meno del 50% dei 47 milioni di aventi diritto: 23.372.323 elettori, contro i 23.663.947 che hanno scelto di non andare a votare.
GOVERNANO LE MINORANZE
Dati infinitamente più preoccupanti di quanto non appaia. Per due ragioni. La prima è che, per la prima volta nella storia repubblicana, è una minoranza – e non una maggioranza – a vincere le elezioni. E, di conseguenza, a formare un Parlamento ed esprimere/orientare un governo.
Alle Europee 2024, FDI – il partito che, in Italia, ha ottenuto più consensi – ha raccolto, infatti, 6.713.952 voti: il 28,81% del totale. Meno di un terzo dei votanti. Minoranza che diventa ancora più minoranza, se si rapportano quei 6,7 milioni di voti ai 47 milioni degli aventi diritto al voto. Risultato? Il 14,27% del totale: un settimo dell’elettorato.
Il che significa che meno di 1,5 elettori su 10 hanno votato per FDI. E, dato che è oggettivamente impossibile definire “maggioranza” 1,5 elettori su 10, dichiarare che “gli italiani hanno scelto FDI” è una colossale mistificazione. Mistificazione che, però, funziona alla grande, dal momento che quasi nessuno, ormai, si prende la briga di raccogliere, verificare e analizzare numeri e percentuali, e di ragionare sulla loro reale o presunta rilevanza.
IL DIRITTO DI VOTO HA I GIORNI CONTATI?
La seconda ragione è ancora più preoccupante della prima. Proverò a sintetizzarla in una semplice domanda: se gli italiani continueranno a disertare le urne e saranno sempre meno quelli che decideranno di esercitare il loro diritto di voto, secondo voi, quanto tempo passerà prima che qualcuno si affacci a un nuovo balcone, arringando la folla al grido: “Visto che non andate a votare, vuol dire che ritenete il voto un inutile fastidio. Non vi preoccupate: da domani, ve ne libereremo!”?
LA LIBERTÀ NON CI INTERESSA…
La verità è che a noi umani la libertà non interessa. Neghiamo che sia così ma lo facciamo sapendo di mentire. Perché? Perché la libertà implica il fardello della responsabilità e non c’è nulla che pesi di più agli esseri umani del fatto di assumersi la responsabilità di decidere del proprio presente/futuro. Molto meglio lasciarlo fare a qualcun altro. Se le cose andranno bene, potremo dire di aver visto giusto. Se le cose andranno male, potremo dire che non è stato per colpa nostra.
Lo scrivo spesso, non perché mi manchino gli argomenti ma perché trovo stupido provare a esprimere con parole migliori questa illuminante verità: aveva ragione il Grande Inquisitore: «nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana più intollerabile della libertà!». Ecco perché «non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà».
… PER QUESTO, NON VOGLIAMO LA VERITÀ
In sintesi: la libertà costa e noi non vogliamo pagare. Ora: se noi non vogliamo essere liberi e la verità ci rende liberi, è evidente che noi non vogliamo la verità.
Ecco perché le stronzate (un istante per crearle, un’eternità per smontarle, sempre ammesso che ci si riesca) hanno così tanto successo. Pensare e scegliere richiedono tempo e fatica. Bisogna informarsi (presso fonti autorevoli e affidabili), approfondire, capire, riflettere, formarsi un’opinione, confrontarsi con gli altri, disposti a sostenere le proprie idee ma, soprattutto, ad accettare il fatto che possano essere sbagliate e, nel caso, essere pronti a modificarle.
Chi ce lo fa fare? È infinitamente più facile, conveniente e gratificante vivere di folli convinzioni fai-da-te, alimentate dalla saggezza-spazzatura che, ormai, domina, incontrastata, ovunque: case, uffici, bar, mezzi pubblici, amicizie, social media, giornali, radio, televisioni. Saggezza-spazzatura che continua a fiorire e a mietere milioni e milioni di proseliti, anche perché, nella Babele di fake news e false narrazioni quasi impossibili da smascherare e smontare, è praticamente impossibile capire cosa sia vero e cosa no.
CONCLUSIONI
Permettetemi, quindi, di concludere parafrasando il versetto del Vangelo di Giovanni, ricordato in apertura: «La verità vi renderà liberi. Se solo riuscirete a trovarla, riconoscerla, comprenderla, accettarla e seguirla».
Ogni traguardo, piccolo o grande che sia, nasconde alla memoria delle sue radici una lotta. Non parliamo di conflitti esterni, ma di quella battaglia silenziosa e continua che affrontiamo dentro di noi: la lotta per superare i limiti autoimposti, per abbracciare l’incertezza e per riscrivere chi siamo. Questo viaggio verso la consapevolezza è un percorso unico, fatto di cadute, dubbi, e momenti di incredibile trasformazione.
Immagina di nascere in un piccolo paese come Cissone, un luogo dove il cambiamento è guardato con sospetto e la tradizione è legge. Crescere in un ambiente simile significa spesso interiorizzare convinzioni limitanti:
“Non puoi farcela”,
“Il mondo là fuori è troppo grande, ti perderai come in un bicchier d’acqua”,
“cosa penseranno le altre persone di te”,
“perderai le tue amicizie senza sapere cosa troverai la fuori”.
Eppure, qualcosa dentro, a volte, inizia a muoversi, e ti spinge oltre.
Perchè ti senti stretta, in un mondo in cui non puoi esprimerti perchè sei “diversa”, in cui devi omologarti alla mentalità del “si è sempre fatto così” per sentirti parte di un gruppo e accettata, in cui tutto quello che non è visibile con gli occhi non esiste.
Inizio a buttarmi nel vuoto a 18 anni, aprendo la mia azienda di servizi con 2 socie in cui operavo nel mondo dell’agricoltura biologica e biodinamica con servizi di marketing, logistica, commerciale e segreteria. Dico “buttarmi nel vuoto”, perché nessuno ti insegna a fare l’imprenditrice, non esiste una guida, o peggio, a 18 anni, anche se esistesse, non ti viene in mente di cercarla.
Lavorare in un settore dominato dal “si è sempre fatto così” e portare innovazione e digitalizzazione significava sfidare le convenzioni e il modo di lavorare di diverse persone che ha funzionato per tanti anni.
Sono stati 5 anni in cui ho sempre puntato a quella goccia, che giorno dopo giorno, avrebbe modellato la pietra.
E così è stato, mi ha permesso di capire e sperimentare tante cose come:
l’importanza di aver ben chiara la tipologia di persona che hai davanti, come pensa, come ragiona, riflette, quali sono gli input che fanno attivare certi trigger su cui puoi fare leva per raggiungere il tuo obiettivo;
a calibrare la comunicazione sulla base di queste informazioni ed adattare il tuo registro verbale in base all’interlocutore;
a studiare e comprendere bene il loro punto di partenza e confrontarlo con quello dove vuoi arrivare per evidenziare pro e contro;
ad evidenziare i vantaggi competitivi ed economici della tua proposta.
Tutto questo per cosa?
Per digitalizzare l’azienda, snellire i processi, automatizzarli, introdurre programmi di monitoraggio e gestione che permettessero di lavorare più agilmente ed evitando di perdersi le informazioni, ridurre i tempi di gestione e i rework.
E poi, il salto: dall’agricoltura alla tecnologia. Cambiare industria è come cambiare pelle.
E’ un processo, lento, fatto di tanto tempo, di mettere in discussione la tua realtà, comprendere un nuovo target e le sue dinamiche, che implica apprendimento continuo e la volontà di reinventarsi.
La lotta, in questo caso, è stata contro la paura del fallimento, contro l’idea che cambiare significasse perdere un qualcosa di cui conoscevi molto bene le dinamiche e di entrare in un mondo in cui non eri nessuno, dovevi ricostruirti da zero, in un mondo densissimo di persone competenti.
Oggi, il passato lascia spazio a una vita in costante viaggio ed evoluzione, con connessioni stupende che abbracciano culture e persone diverse. Questo passaggio non è stato privo di difficoltà.
È stato un atto di ribellione contro un qualcosa in cui non volevo più essere io la sola a puntare in alto ma volevo vivere in una spinta costante di ispirazione, energia e desiderio di crescita, una decisione consapevole di rompere il ciclo e costruire una nuova identità.
Come non esistono percorsi per essere imprenditrice, e ci si barcamena in mille aspetti sconosciuti, non esistono qualifiche da community manager.
Mi sentivo un impostore prima, e continuo a sentirmici ora.
Come lo maschero? Con la strategia più semplice in assoluto “fake it until you make it”. Parlo a conferenze internazionali, accetto sempre nuove sfide lavorative, mi butto in progetti che non ho mai fatto.
Perché? Perché la mente è un critico severo, che ci ricorda costantemente ciò che non sappiamo invece di ciò che abbiamo costruito e il modo migliore per smascherare questa dinamica per me è la possibilità di dimostrarmi che ogni volta che ho fatto qualcosa di nuovo, ogni volta che mi sono buttata nell’ignoto, in cui ho avuto paura di non raggiungere il risultato, di deludere le persone, beh ogni volta ho imparato qualcosa e la maggior parte delle volte sono arrivata, li, dove non avrei mai pensato.
La verità è che nessuno ha mai certificato questo ruolo. Nessuna laurea, nessuna qualifica. Eppure, tutto quello che faccio oggi richiede abilità che non si imparano sui libri: empatia, ascolto, leadership, problem solving, gestione delle priorità ecc…
La lotta, qui, è accettare che la competenza non sempre si misura con un pezzo di carta, ma con i risultati, con i feedback, con il segno che sei riuscita a lasciare nel percorso delle persone e con le lezioni imparati dagli errori.
La lotta più significativa, però, è quella quotidiana. È guardarsi allo specchio e amarsi per ciò che siamo e decidere di migliorarsi per diventare le nostra versione migliore, chi noi vogliamo davvero essere. Ogni singolo giorno.
È identificare i propri limiti, per comprenderli, analizzarli e spingerli sempre un po’ più in là se questo ci permette di essere soddisfatti. Creare routine, dedicare del tempo per sé stessi, per sentirsi, per capire cosa ci piace e cosa no, per capire cosa ci fa stare bene e cosa no, per ascoltarsi: tutto questo non è solo un esercizio di crescita, ma un percorso che richiede tanta energia e amore verso sé stessi.
Perchè vuol dire mettersi in discussione, far crollare in autonomia le proprie certezze e l’essere umano ha una disperata necessità di sicurezza quindi entrare in questo flusso è estremamente dispendioso a livello energetico ma ti apre una nuova visione di te, di chi davvero puoi essere.
La lotta interiore è parte integrante della vita. Ci sfida a fare scelte difficili, a confrontarci con le nostre paure e insicurezze. Ma è anche ciò che ci rende vivi, che ci permette di evolvere e di scoprire chi siamo davvero.
Non esiste un punto di arrivo definitivo. Ogni giorno è una nuova opportunità per crescere, per imparare, per abbracciare il cambiamento. La vittoria non è nell’eliminare la lotta, ma nell’accoglierla come parte del viaggio. Essere consapevoli dei propri limiti è il primo passo per superarli. E chi decide di buttarsi sempre oltre la sua zona di comfort, chi accetta il rischio e sceglie di conoscersi meglio, scopre che la vera vittoria è nella trasformazione continua, non dell’obiettivo raggiunto.
La lotta interiore è un invito a vivere, a crescere, a essere più di quello che pensavamo possibile.
La redazione ringrazia per il contributo concesso a titolo gratuito da Michela.
Io lo scrivo quì, ma penso che abbiamo tutti in mente un pensiero negativo ogni qualvolta sentiamo dire o leggiamo dei progressi degli impianti di chip all’interno del cervello umano. “Studi scientifici”, “Progressi Tecnologici”, “Grandi Possibilità” si affrettano ad aggiungere gli esperti interpellati dai giornalisti, eppure dentro di noi si fa largo il ribrezzo al pensiero che un essere umano possa desiderare di farsi impiantare un elemento estraneo nel proprio corpo, per di più nel cervello. Abbiamo tutti in mente la scena di Terminator quando da sotto la pelle di Arnold Swarzenegger emerge il metallo e i circuiti elettrici e abbiamo lo stesso senso di repulsione. Tutti, compresi quei ragazzi che per ragioni anagrafiche il film certamente non l’hanno visto al cinema o forse nemmeno in TV.
Siamo spaventati di un oggetto che, comandato da qualcun altro oppure in ragione della propria programmazione algoritmica, possa prendere il sopravvento sulla nostra volontà.
Scrivendo gli altri articoli per questo numero (“Stop con i beatles stop..?” e “L’annullamento della Memoria come strumento di controllo“) mi sono reso conto che l’Antropocene – ossia l’idea che l’impatto che l’uomo ha sull’ambiente possa configurarsi come una nuova “era geologica” – ha implicazioni anche sulla nostra stessa struttura mentale e non dal 1945 – da quando si fa risalire l’inizio dell’Antropocene appunto. Da quando l’uomo è diventato un essere “civile”, e quindi da tanto tanto tempo fa, ha cercato di modificare l’ambiente circostante per adattarlo in qualche modo alle proprie esigenze. Ha “addomesticato” razze animali e ha “selezionato” razze vegetali, per i propri bisogni primari e anche per il proprio diletto: il selvaggio Uro è diventata la mansueta mucca, il famelico lupo è diventato il delicato Chihuahua, la Rosa canina la profumosa e delicata Tea. Ha costruito habitat artificiali che si sono distaccati moltissimo dai prati verdi e dalle foreste, senza pensare al Bosco Verticale, possiamo immaginare alle palafitte costruite negli stagni o agli arredi nelle caverne vicino alle coste (e ne abbiamo di esempi anche sulle coste laziali ad Circeo, senza dover andare troppo lontano da Roma ad esempio).
Ma molto prima di poter pensare alle estensioni della mente con i chip e prima di pensare all’Intelligenza Artificiale o anche prima di pensare agli automi (e mi viene in mente il servitore di Filone di Bisanzio costruito più di 200 anni prima della nascita di Cristo), prima di tutto questo l’uomo aveva capito che era possibile estendere la propria mente con la scrittura. Lasciando un segno, un disegno in uno dei suoi rifugi poteva ricordare con esattezza come cacciare gli animali. Aveva esteso il concetto del “quì e adesso” nel quale sostanzialmente era relegato per la propria natura umana, portando la sua mente a ricordare cose che il trascorrere del tempo avrebbe lasciato andare nel “panta-rei” fisiologico. Ha creato, per se stesso, un nuovo modo di vivere il tempo e lo spazio. Questo – per gli storici – ha determinato il passaggio dalla Preistoria alla Storia, ma a pensarci è stato il primo passaggio dell’uomo all’antropizzazione della propria natura animale.
Pochi giorni prima dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, l’ex Presidente americano Joe Biden ha lanciato un accorato allarme. “Oggi, in America – ha detto – sta prendendo forma un’oligarchia di estrema ricchezza, potere e influenza, che minaccia realmente l’intera nostra democrazia, i nostri diritti fondamentali e la nostra libertà”. Biden ha, quindi, puntato il dito contro un “complesso tecno-industriale” ultra-ricco che potrebbe esercitare un potere incontrollato sugli americani.
Ma no? Davvero? E se n’è accorto solo quattro giorni prima dell’insediamento di Trump? Un genio, non c’è che dire. E dove diavolo è stato in tutti questi anni?
E gli altri sedicenti progressisti, al di là e al di qua dell’Oceano? Dove diavolo erano in questi quarant’anni nei quali il mondo non si è più diviso – ideologicamente – tra “buoni” (Americani & Co.) e “cattivi” (Russi & Co.) ma – turbocapitalisticamente – tra iper-ricchi (pochissimi) e iper-poveri (miliardi)?
Dove sono stati, in tutti questi anni, i cantori di libertà, giustizia, pace, diritti umani e civili, solidarietà, equità, salute, istruzione, dignità di lavoro e salario, pari opportunità, inclusione, stato sociale, e bla-bla-bla fratelli?
Dormivano tutti? Erano tutti stupidi o troppo impegnati a godersi sprizzini, shottini, salatini, salottini, librettini, teatrini, cinemini, concertini ed eventini, che non se ne sono accorti, poverini?
O, forse, se n’erano accorti ma non sono riusciti a evitare il peggio? Cos’è: incapaci e ignavi, hanno lasciato fare oppure, collusi e complici, volevano che il mondo arrivasse esattamente dov’è arrivato e che le destre tornassero a dominare, indisturbate, praticamente ovunque?
Non risponderò a queste domande.
Che ognuno faccia le proprie riflessioni
e tragga le proprie conclusioni.
Una cosa, però, è certa: in politica, o sei parte della soluzione o sei parte del problema. E, dato che di soluzioni non se ne vede nemmeno l’ombra, mentre “il problema” trionfa quasi dappertutto, suggerirei che tutti coloro i quali – a qualunque titolo e con qualunque grado di responsabilità – non sono riusciti a impedire o, peggio, hanno favorito questa devastante deriva antidemocratica, togliessero il disturbo, una volta per tutte.
Se non altro, i veri democratici – ammesso che ne esista ancora qualcuno – si renderebbero, finalmente, conto del fatto che “non esistono liberatori ma uomini che si liberano”. E potrebbero decidere, una volta tanto con la propria testa, cosa farne di sé stessi e della propria vita.
Uno degli elementi fondanti di ogni regime totalitario è il controllo della memoria collettiva. La storia non è solo una cronaca di eventi passati, ma una struttura narrativa che definisce l’identità di un popolo, le sue radici, i suoi valori. Per questa ragione, uno dei primi atti del nazismo fu la distruzione sistematica dei libri di scuola e dei testi di storia, sostituendoli con una nuova visione della realtà, costruita ad arte per giustificare la loro ideologia e il loro dominio.
Nel 1933, appena salito al potere, il regime nazista organizzò il Bücherverbrennung, il rogo dei libri considerati “non tedeschi”, un atto simbolico che mirava a cancellare idee scomode e sostituirle con una narrazione alternativa. Tra le opere distrutte vi erano testi di scienza, filosofia, letteratura e soprattutto storia, poiché il passato doveva essere riscritto in funzione della visione nazionalsocialista. Questo processo non era solo censura, ma un vero e proprio tentativo di manipolazione della memoria collettiva.
Il Potere della Riscrittura della Storia
La storia è lo strumento con cui una società tramanda i suoi valori e le sue esperienze. I regimi totalitari non possono permettere che esistano narrazioni concorrenti rispetto alla loro ideologia. Questo concetto è brillantemente rappresentato in “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury, dove i libri vengono bruciati non solo per impedire alle persone di leggere, ma soprattutto per eliminare il pensiero critico e sostituirlo con un conformismo imposto dall’alto. “Non volevano uomini che pensassero, ma uomini che obbedissero”, scrive Bradbury, una frase che potrebbe benissimo descrivere l’atteggiamento del nazismo nei confronti dell’istruzione e della cultura.
L’ideologia nazista non poteva accettare una storia che mostrasse le sue contraddizioni o che mettesse in discussione la superiorità della razza ariana. Per questo motivo, non solo i libri furono distrutti, ma anche la storiografia venne riscritta per enfatizzare un passato glorioso e creare nemici immaginari. I programmi scolastici vennero modificati per inculcare nei giovani i principi dell’antisemitismo, del nazionalismo esasperato e della guerra come destino inevitabile.
Casi Storici e Citazioni
Questo fenomeno non è esclusivo del nazismo. Altri regimi totalitari hanno adottato strategie simili per controllare il passato e quindi il futuro:
Unione Sovietica: Stalin fece riscrivere la storia rimuovendo figure politiche scomode, cancellandole persino dalle fotografie ufficiali.
Cina di Mao: Durante la Rivoluzione Culturale, vennero distrutti testi classici e riformati i libri scolastici per eliminare ogni riferimento al passato pre-comunista.
Cambogia di Pol Pot: Il regime dei Khmer Rossi eliminò testi scolastici e chiuse le scuole per annullare qualsiasi forma di sapere precedente alla rivoluzione.
George Orwell in “1984” descrive magistralmente questa dinamica con il concetto di “controllo della memoria” attraverso lo slogan “Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato”. Questa frase sintetizza perfettamente la necessità dei regimi totalitari di riscrivere la storia per legittimarsi.
Conclusione
La distruzione dei libri di storia e dei testi scolastici da parte del nazismo non fu un atto di semplice censura, ma una strategia per plasmare una nuova realtà e un nuovo popolo. La conoscenza del passato è uno strumento di libertà: chi la possiede, può capire e giudicare; chi ne è privato, è destinato a credere e obbedire. Ecco perché ogni regime totalitario ha bisogno di creare una nuova memoria: per cancellare le radici di un popolo e sostituirle con una storia costruita a proprio vantaggio.
Memento (2000) – Christopher Nolan Un uomo con un disturbo della memoria a breve termine cerca di scoprire chi ha ucciso sua moglie, usando tatuaggi e note per ricordare gli indizi. Un puzzle narrativo sulla fragilità della memoria.
Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004) – Michel Gondry Una coppia decide di cancellare i ricordi della loro relazione tramite una procedura medica, ma l’inconscio lotta per trattenere ciò che è importante. Un viaggio emotivo sulla memoria e l’amore. Scrivo il titolo in versione originale perché quella italiana l’aveva trasformato in una commedia di serie B e mi aveva impedito di guardarlo e solo le lunghe insistenze di un amico me lo aveva fatto vedere. E mi sono ricreduto, tanto di metterlo in questa lista, e tra le prime posizioni.
Inception (2010) – Christopher Nolan Oltre a esplorare il sogno e la realtà, il film ruota attorno ai ricordi e a come essi possono essere manipolati o impiantati nella mente umana.
The Manchurian Candidate (1962 / 2004) – John Frankenheimer / Jonathan Demme Un thriller politico in cui un soldato è sottoposto a lavaggio del cervello per diventare un’arma inconsapevole. Un film inquietante sul controllo della memoria. Nomino ambedue i film perché sono uno il clone dell’altro, ma a parte la sceneggiatura, a voi la scelta di quale regia, quale interpretazione scegliere.
The Father (2020) – Florian Zeller Un viaggio nella mente di un uomo affetto da demenza, visto dal suo stesso punto di vista. Il film trasmette in modo potente la confusione della perdita di memoria.
Mulholland Drive (2001) – David Lynch Un film onirico e surreale che mescola amnesia, ricordi distorti e sogni per creare un’esperienza destabilizzante e affascinante.
Total Recall (1990) – Paul Verhoeven Basato su un racconto di Philip K. Dick, esplora l’idea di ricordi impiantati e la difficoltà di distinguere la realtà dalla finzione. Effetti speciali davvero datati, visti con l’occhio di oggi, ma un action movie molto destabilizzante, interpretato da un Arnold Schwarzenegger in forma, molto prima di diventare il Governatore della California.
Shutter Island (2010) – Martin Scorsese Un agente federale indaga sulla scomparsa di un paziente da un ospedale psichiatrico, mentre lotta con i suoi stessi ricordi e traumi.
50 volte il primo bacio (2004) – Peter Segal Una commedia romantica con un sottotesto malinconico: una donna perde la memoria ogni giorno e il protagonista cerca di farla innamorare di lui ogni volta. Per tante e tante volte, cercando di seguire i suoi sogni che, rivivendo sempre lo stesso giorno, avrebbe potuto non realizzare mai.
The Bourne Identity (2002) – Doug Liman Un uomo senza memoria cerca di scoprire chi è, mentre viene braccato da forze misteriose. Una riflessione sull’identità e sul passato dimenticato.
Aggiungo un ultimo film sulla memoria. Un film del grandissimo Alfred Hitchcock: Spellbound. Anche qui la versione italiana (“Io ti salverò”) devia il senso del film che fa diventare una psichiatra giovane e determinata una “crocerossina”. Si tratta di un Thriller ambientato in una casa di cura negli anni ’40 nella quale viene accolto un nuovo medico che nasconde un segreto tanto tanto profondo, nascosto nei meandri della sua memoria. Per questo film, Hitchcock ha voluto niente meno che Salvador Dalì per rappresentare il sogno. A tal proposito mi piace ricordare il mio amico Ernesto Laura che su questo tema scrisse un gran bel libro.
Negli ultimi anni, l’influencer marketing ha guadagnato una posizione di rilievo nel panorama pubblicitario italiano, contribuendo significativamente al fatturato del mercato. Secondo recenti stime, il settore ha raggiunto un valore di circa 323 milioni di euro nel 2023, con un incremento del 10% rispetto all’anno precedente. Tuttavia, questa crescita esponenziale ha sollevato preoccupazioni riguardo alla tutela dei consumatori e alle questioni fiscali legate a questa nuova forma di comunicazione commerciale.
Guadagni degli influencer nelle diverse piattaforme
I compensi degli influencer variano notevolmente a seconda della piattaforma utilizzata. Secondo gli ultimi dati di DeRev su Facebook, il valore medio dei contenuti sta calando; attualmente sono necessari 50.000 follower per guadagnare 50 euro con un singolo post. Inoltre, coloro che hanno oltre 3 milioni di follower vedono dimezzarsi i loro guadagni: da un massimo di 5.000 euro a post nel 2023 a un massimo di 2.500 euro nel 2024. Su Instagram, i nano influencer hanno registrato un incremento del compenso massimo di 50 euro a post. Anche i mid-tier (con 50.000-300.000 follower) stanno beneficiando significativamente con guadagni che variano tra 1.000 e 5.000 euro a contenuto. I macro-influencer (da 300.000 a 1 milione di follower) hanno visto aumentare sia il compenso minimo (da 4.000 a 5.000 euro) sia quello massimo (da 8.000 a 9.000 euro). Tuttavia, i mega influencer (1-3 milioni di follower) e le celebrity hanno subito cali nei ricavi rispettivamente del 16% e del 31,6%. Su TikTok, i ricavi dei nano-influencer rimangono stabili mentre aumentano leggermente quelli dei micro e mid-tier influencer; i primi raggiungono compensi tra 250 e 750 euro a contenuto mentre i secondi tra 750 e 3.000 euro. Si registra invece una diminuzione nei proventi per i macro-influencer (da 3.000-7.000 euro a video a 3.000-5.000 euro) e i mega influencer (da 7.000-18.000 euro a contenuto a 5.000-10.000 euro). Le celebrity subiscono la diminuzione più significativa nei ricavi: dai 18.000-75.000 euro per una partnership su singolo video nel 2023 ai soli 10.000-20.000 euro nel 2024. Infine, su YouTube gli influencer con più di un milione di follower continuano a richiedere compensi che variano da 25.000 a 75.000 euro; tuttavia si registra un calo nei compensi per mega influencer (da un massimo di 35.000 euro nel 2023 a 25.000 euro nel 2024) e macro-influencer (da 20.000 euro a 12.500 euro).
Normative europee
A livello europeo, diverse normative si applicano all’influencer marketing. La Direttiva AVMS (Direttiva 2010/13/UE), aggiornata nel 2018, stabilisce requisiti di trasparenza ed equità nelle comunicazioni commerciali, oltre a proteggere i minori e i gruppi vulnerabili dai contenuti potenzialmente dannosi. Questa direttiva impone anche norme specifiche per la condivisione di video sulle piattaforme e promuove l’alfabetizzazione mediatica, obbligando le piattaforme a fornire gli strumenti necessari. In aggiunta, il Regolamento sui Servizi Digitali (Regolamento 2022/2065/UE) fissa obblighi armonizzati per i fornitori di piattaforme online riguardo ai contenuti illegali e nocivi, inclusa la disinformazione e i contenuti dannosi per i minori. Il Regolamento sull’Intelligenza Artificiale (AI Act)stabilisce norme a protezione della salute, della sicurezza e dei diritti fondamentali, imponendo agli influencer che utilizzano sistemi di IA di informare il pubblico e etichettare chiaramente i deep fake. Anche il Regolamento sulla Trasparenza della Pubblicità Politica (Regolamento 2024/900/UE) si applica agli influencer, obbligandoli a corredare i loro annunci pubblicitari di etichette e informazioni chiare. Infine, il Regolamento sulla Libertà dei Media (Regolamento 2024/1083/UE) può regolare i casi in cui gli influencer sono anche fornitori di servizi di media, salvaguardando un ambiente mediatico indipendente e pluralistico. Il GDPR (Regolamento UE n. 2016/679) impone agli influencer la protezione delle persone fisiche riguardo al trattamento dei dati personali. Soprattutto le normative europee sui diritti dei consumatori, come la Direttiva sulle Pratiche Commerciali Sleali (Direttiva 2005/29/CE) e la Direttiva sui Diritti dei Consumatori (Direttiva 2011/83/UE), recepite nel nostro Codice del Consumo, sono applicabili alle attività commerciali degli influencer quando promuovono prodotti o servizi online e quindi soggetti alla vigilanza dell’Autorità Garante della concorrenza e del Mercato quanto alle eventuali pratiche commerciali scorrette.
Il fenomeno Fuffaguru e le problematiche connesse alla trasparenzaper i consumatori
La normativa attuale oggetto di revisione non considera adeguatamente l’impatto qualitativo dei contenuti pubblicati, il che potrebbe portare a situazioni in cui influencer con un grande seguito ma contenuti poco etici o ingannevoli possano operare senza adeguate restrizioni. Un aspetto rilevante del panorama dell’influencer marketing è rappresentato purtroppo dai cosiddetti “fuffaguru”. Questo termine, recentemente entrato nel linguaggio comune, si riferisce a individui che sfruttano tecniche da imbonitore per organizzare e gestire corsi, video e seminari online con l’obiettivo di guadagnare profitti in modo truffaldino. I fuffaguru promettono metodi facili per fare soldi, spesso senza alcuna competenza reale o titoli riconosciuti. La loro attività si basa sulla creazione di un’apparenza di valore, attirando particolarmente coloro che cercano soluzioni rapide a problemi economici o desiderano migliorare la propria vita. Questo fenomeno ha suscitato dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che sta monitorando attentamente le pratiche commerciali scorrette anche attraverso una azione di moral suasion e l’implementazione di linee guida sull’advertising (inserimento di apposite avvertenze #PUBBLICITA’ BRAND, #SPONSORIZZATO DA BRAND, #ADVERTISING BRAND, INSERZIONE A PAGAMENTO BRAND, o, nel caso di fornitura del bene ancorché a titolo gratuito, #PRODOTTO FORNITO DA BRAND). In questo contesto, è fondamentale osservare come in altri Paesi si siano affrontate problematiche simili anche al fine di tutelare meglio i consumatori.
In Francia, l’Autorité de Régulation Professionnelle de la Publicité (ARPP) ha implementato regole che richiedono agli influencer di rispettare standard elevati in termini di trasparenza e responsabilità sociale attraverso il sistema del Certificato di Influenza Responsabile. Queste norme sono state introdotte per proteggere i consumatori e garantire che le comunicazioni commerciali siano chiare e oneste.
Le regole dell’AGCOM
L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) ha introdotto le Linee-Guida con la Delibera n. 7/24/CONS e proposto un Codice di Condotta attualmente oggetto di Consultazione pubblica che mirano a riformare e regolamentare l’attività degli influencer in Italia. Queste regole si pongono come obiettivo principale quello di garantire il rispetto delle disposizioni del Testo Unico dei servizi di media audiovisivi (TUSMA) e stabiliscono criteri per la classificazione degli influencer come “rilevanti”, basandosi su soglie quantitative come il numero di follower e il tasso di engagement. Gli influencer possono esercitare una notevole influenza sulle decisioni d’acquisto dei consumatori, specialmente tra i giovani. È quindi essenziale che le normative stabiliscano chiari obblighi di trasparenza per evitare pratiche ingannevoli. E’ necessario rafforzare ulteriormente queste disposizioni per garantire che i diritti dei consumatori siano sempre tutelati.
Il Codice di Condotta
Allegato alla Delibera di consultazione n. 472/24/CONS il Codice rappresenta un passo cruciale per garantire trasparenza, protezione dei consumatori e rispetto delle regole pubblicitarie nel contesto digitale. Il testo sancisce principi fondamentali come la correttezza, l’imparzialità e la lealtà dell’informazione. Gli influencer devono evitare contenuti che promuovano odio, violenza o discriminazione e rispettare le normative sulle comunicazioni commerciali, vietando la pubblicità occulta e limitando la promozione di prodotti come tabacco, alcol e gioco d’azzardo.
Ambito di applicazione
Le norme si applicano agli influencer definiti “rilevanti” dalle Linee Guida AGCOM. La proposta dell’AGCOM è di considerare solo gli influencer che raggiungono un numero di iscritti (i cosiddetti follower) pari ad almeno 500.000 su almeno una delle piattaforme di social media o condivisione di video utilizzate, o un numero di visualizzazioni medie mensili pari a un milione su almeno una delle piattaforme di social media o di condivisione video utilizzate Anche gli influencer virtuali, creati tramite intelligenza artificiale, rientrano nell’ambito di applicazione se rilevanti. Il rispetto del Codice, come concordate con i soggetti firmatari, è solo “raccomandato” anche ai soggetti che non hanno i requisiti previsti dalle Linee guida per essere rilevanti.
Tutela dei minori e delle categorie vulnerabili
Una parte significativa del Codice si concentra sulla protezione dei minori e delle categorie vulnerabili. Gli influencer non possono pubblicare contenuti che possano arrecare danni fisici, mentali o morali ai minori. Inoltre, devono evitare di sfruttare l’inesperienza o la credulità degli utenti, prevenendo contenuti ingannevoli o manipolativi.
Pubblicità e trasparenza
Il Codice impone la chiara identificazione dei contenuti sponsorizzati. Gli influencer devono adottare apposite segnaletiche per distinguere pubblicità, sponsorizzazioni e inserimenti di prodotti. Inoltre, è vietata ogni forma di enfasi indebita sui prodotti promossi.
Gestione e monitoraggio
Un aspetto innovativo del Codice è l’istituzione di un elenco pubblico degli influencer rilevanti, aggiornato semestralmente. Questo elenco, gestito da un soggetto incaricato dall’AGCOM, garantirà maggiore trasparenza e controllo sulle attività degli influencer. L’Autorità, supportata dalla Guardia di Finanza e dalla Polizia Postale, vigilerà sull’applicazione delle norme, conducendo ispezioni e accertamenti per verificare la conformità alle disposizioni.
Segnalazioni e sanzioni
I consumatori possono segnalare contenuti che violano il Codice attraverso un modulo disponibile sul sito dell’AGCOM. In caso di violazioni, sono previste sanzioni pecuniarie proporzionate alla gravità dell’infrazione e alle condizioni economiche dell’influencer.
Campagne di sensibilizzazione
Entro un anno dall’adozione del Codice, l’AGCOM promuoverà campagne informative rivolte sia agli influencer che ai consumatori, per aumentare la consapevolezza sui diritti e doveri legati al mondo digitale. Con questo Codice di Condotta, l’AGCOM punta a creare un ecosistema digitale più sicuro ed equo, garantendo trasparenza e protezione per tutti gli utenti. Gli influencer, d’altra parte, sono chiamati a rispettare regole precise per contribuire a una comunicazione commerciale responsabile e conforme alle normative vigenti.
Gli alberi sono creature meravigliose… nella limpida luce dei propri colori, nella freschezza delle loro ombre. Ci immergiamo nei loro profumi intensi, ci divertiamo a nasconderci dietro il loro corpo, a sbirciare dietro le foglie, ad ascoltare il loro fruscio.
Gli alberi respirano, gli alberi ci parlano… ci raccontano la loro vita, ci mostrano le proprie rughe, ci svelano la propria età senza timori, non hanno paura del tempo.
E conoscono la nostra vita… riconoscono i nostri passi, le nostre parole, osservano silenziosi e apparentemente indifferenti tutto quello che gli gira intorno…
E si chiederanno… “ma che c’avranno da correre…?” “cosa si urlano…?”; “perchè fanno tanto rumore…”.
Noi non possiamo che amarli… belli, brutti, storti, dritti, alti, bassi che siano… Sono forse gli unici a regalarci un tenero colore, uno spicchio di sole in un tempo grigio che ci porta via tutto con fretta e arroganza…
Roma ne ha partoriti tanti… sono la nostra storia. Ci hanno visto camminare, crescere, cambiare, sperare, sognare. Tutti noi dobbiamo aiutarli a vivere, a resistere… e quando sono malati dobbiamo curali e proteggerli come figli. Figli che si sono fatti da soli, che non hanno mai avuto raccomandazioni, e mai un avvocato che li tutelasse.
Certo, qualcuno può ammalarsi. E come tutte le anime sensibili affronterà il dramma della sofferenza… Noi faremo di tutto per medicarlo, per assisterlo fino alla fine. Se poi dovessimo accorgerci che non ci sono rimedi per tenerlo in vita, perché così malato da non poter far nulla… così malato che potrebbe rappresentare anche un pericolo per la nostra incolumità… allora possiamo anche decidere di porre fine alla sua sofferenza.
Per tutto il resto… beh, sarebbe quanto meno educato chiedere il loro parere… magari saprebbero darci più soluzioni di quante la nostra limitata fantasia non riesca a trovare.
Anche noi cambieremo, anche le nostre città si incammineranno nel corso mutevole della vita, nuovi volti si affacceranno, altri se ne andranno. Gli alberi no… Resteranno lì, e continueranno a osservare quei buffi esseri che si reggono su due zampe… ma nelle loro cortecce, nei loro rami, nelle nuove foglie che nasceranno e cresceranno, nel loro respiro… ci sarà uno scorcio della nostra vita, dei nostri sospiri.
Impariamo a vivere e ad amare gli alberi, e insegniamolo ogni giorno a chi pian piano si affaccia nella vita dei grandi, ansioso e desideroso di apprendere.
Martedì 29 ottobre 2024 ha ripreso il via la Rassegna “DONATORI DI MEMORIE” organizzata dall’Associazione culturale RIACHUELO – PROLOCO SAN LORENZO, nella sede di Via dei LATINI 52 a Roma.
La manifestazione, che si protrarrà fino a martedì 3 dicembre, prevede la realizzazione di una serie di incontri e “feste” con personaggi che hanno attraversato il quartiere San Lorenzo in qualità di protagonisti o testimoni, lasciando un’impronta nella storia sociale e culturale di quest’angolo di Roma.
Storie importanti, alcune forse poco note, ma tutte finalizzate a una narrazione corale, genuina e senza infingimenti, di una zona sospesa tra arte, socialità e militanza.
Ciascun incontro, – video-registrato e conservato – si pone come un tassello necessario alla costruzione di un Archivio digitale capace di dar conto delle molteplici esperienze del quartiere.
Nell’evento dello scorso 23 ottobre,lafunzionaria archivista di Stato Caterina Arfè ha parlato dell’importanza della Archivistica e delle Fonti orali. È stato poi proiettato il documentario P-artigiano prodotto da Blue CinemaTV di Daniele Baldacci.
Il secondo incontro, tenutosi martedì 5 novembre, è stato dedicato a Biagio Propato, poeta on the road di San Lorenzo con proiezione del film Poeti di Nino D’angelo, proiettato al Festival del cinema di Venezia, del 2009. Testimoni sono stati studiosi, amici e parenti.
Protagonisti dell’incontro del 12 novembre saranno Giuseppe Sartorio, scultore del quartiere, detto “il Michelangelo dei morti”, misteriosamente scomparso nel 1922, e il villino da lui costruito su via Tiburtina. I donatori di memorie saranno, in questa occasione, l’erede saranno Margherita Mastropaolo e lo storico Andrea Amos Niccolini.
Il 19 novembre si terrà un incontro dal titolo A proposito del Pastificio Cerere, la Scuola di San Lorenzo. A raccontare sarà Roberto Gramiccia, medico, critico d’arte e amico, dai primi anni ’80, degli artisti del Palazzo e Alberto Dambruoso, storico dell’arte.
Il 26 novembre la ricercatrice Serena Donati ricorderà l’esperienza preziosa di Simonetta Tosi e la realizzazione nel 1976 a San Lorenzo del Consultorio autogestito.
Il 3 dicembre Mauro Papa sarà infine il testimone dell’esperienza politica del padre Urbano, autore della scritta “Eredità del fascismo, vergata su una delle pareti di un palazzo crollato sotto le bombe alleate del 1943.
La rassegna è realizzata con il contributo del Municipio Roma II – Assessorato alla Cultura
Il nuovo libro dell’acclamata scrittrice partenopea, che esplora l’incontro casuale in treno di Graziella e Francesco a prima vista appartenenti a mondi totalmente estranei, esce il 29 ottobre e sarà presentato con eventi a Napoli, Pesaro, Milano, Roma, Cassino.
Annella Prisco torna in libreria con la storia di un incontro ad alta velocità dall’intreccio inaspettato e avvincente. Si intitola “Noi, il segreto” ed è in libreria a partire dal 29 ottobre 2024, a quattro anni esatti dall’uscita del suo ultimo fortunatissimo romanzo, “Specchio a tre ante”, che è stato anche oggetto di traduzione.
È la storia intensa ed emozionante di Graziella, insegnante originaria di Atrani, il più piccolo dei borghi della Costiera amalfitana, raccontata con il solito stile scorrevole e delicato di Annella Prisco, che rivela man mano uno scenario stupefacente e ricco di colpi di scena, di introspezione e di profonde riflessioni.
Sposata con Gerardo, Graziella è una donna passionale e dinamica che decide di accettare l’incarico di docente in un Istituto scolastico lombardo, nonostante sia costretta a lasciare il paese natìo, in provincia di Salerno, per trasferirsi a Milano. Spesso nasconde un velo di solitudine e inquietudine, causato dai dubbi e dalle incertezze in cui è immersa da quando ha iniziato un nuovo lavoro e una nuova vita in un’altra regione.
«Il contesto – spiega l’Autrice – è quello della problematicità dell’esistenza, che attraversa una serie di eventi: dall’uomo misterioso che incontra sul treno all’amore per il marito, dalla tensione per la malattia del padre all’amicizia profonda con la collega Marta, dal legame con l’ucraina Tanya al racconto dell’orrore della guerra. Con lo sfondo di un’Italia che da Nord a Sud manifesta tutte le sue bellezze, tradizioni e tipicità».
Lo spessore dei personaggi, ben delineati nei loro tratti distintivi, si staglia persino sullo sfondo del monastero più famoso d’Italia, ricostruito dopo la distruzione a seguito dei bombardamenti alleati, l’Abbazia di Montecassino, preso in considerazione dall’Autrice come cornice della narrazione.
La conclusione della vicenda, che ha il ritmo incalzante delle tensioni emotive, sarà sorprendente.
Tanti gli eventi e le iniziative in programma per l’uscita del libro: il primo appuntamento è a Napoli, città natale dell’autrice, sabato 16 novembre alle ore 11 nel foyer del Teatro Diana. Gli altri incontri sono previsti a Torre Annunziata (Libreria Libertà, 29 novembre), Napoli (O’Book, 11 dicembre), Pesaro (Alexander Museum Palace Hotel, 13 dicembre), Milano (20 febbraio 2025), Roma (Libreria Minerva, 14 marzo 2025), Cassino, Salerno, Atrani e poi numerose altre tappe in calendario.
Pubblicato da Guida Editori, con acquerello in copertina di Vincenzo Stinga, il libro è distribuito da Messaggerie Italiane ed è acquistabile in tutte le librerie anche online e dal sito www.guidaeditori.it
Annella Prisco è scrittrice, critico letterario, manager culturale ed esperta in comunicazione e relazioni pubbliche. È componente di varie giurie di Premi letterari e collabora con diverse testate giornalistiche. Nel 2022 le è stato conferito il Premio Donne che ce l’hanno fatta, e nel 2024 il Premio alla carriera L’Iguana – Anna Maria Ortese. All’esordio come autrice nel 1998 con il romanzo Ricordi senza memoria, a quattro mani con Monica Avanzini, hanno fatto seguito Chiaroscuri d’inverno (2005), Trenincorsa (2008), Appuntamento in rosso (2012) e Girasoli al vento (2018), che hanno ricevuto riconoscimenti anche a livello internazionale.
Nel 2020 è uscito il romanzo Specchio a tre ante, che pure ha ricevuto svariate onorificenze. Nel 2023 il romanzo è stato tradotto da Elisabetta Bagli in spagnolo e pubblicato da Papel Y Lapiz con il titolo El espejo de Ada, ricevendo il premio Il Canto di Dafne – Libro internazionale dell’anno, il premio della Giuria Città di Cattolica e il primo premio Libro in lingua straniera “La Via dei Libri” in seno al Bancarella a Pontremoli.
Negli ultimi anni, l’Unione Europea ha intensificato gli sforzi per ridurre l’esposizione della popolazione al fumo passivo, con l’obiettivo dichiarato di creare una “generazione libera dal tabacco” entro il 2040.
Questo impegno si riflette nelle recenti proposte di revisione delle raccomandazioni sugli ambienti senza fumo e senza aerosol, un’iniziativa che mira a proteggere maggiormente la salute pubblica attraverso misure più stringenti che includono anche i prodotti emergenti, come le sigarette elettroniche e i dispositivi a tabacco riscaldato.
L’Europa ha sempre adottato un approccio progressivo e rigoroso nella regolamentazione dei prodotti del tabacco.
Le raccomandazioni del Consiglio e le normative di riferimento mirano a limitare l’esposizione al fumo passivo, proteggendo in particolar modo le categorie vulnerabili, come bambini e anziani.
Le norme vigenti si basano sulla Convenzione Quadro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il Controllo del Tabacco, e hanno già portato a una significativa riduzione dei fumatori e dell’esposizione al fumo in ambienti chiusi. Tuttavia, i cambiamenti tecnologici e l’emergere di nuovi prodotti alternativi al fumo tradizionale hanno complicato ulteriormente il panorama.
L’ Italia ha tradizionalemente avuto una legislazione molto restrittiva rispetto ad altri Paesi. La Legge 3 del 16 gennaio 2003 (art. 51), “Tutela della salute dei non fumatori” che ha esteso il divieto di fumo a tutti i locali chiusi (compresi i luoghi di lavoro privati o non aperti al pubblico, gli esercizi commerciali e di ristorazione, i luoghi di svago, palestre, centri sportivi), con le sole eccezioni dei locali riservati ai fumatori e degli ambiti strettamente privati (abitazioni civili).
La norma non prevede un obbligo, ma concede la possibilità di creare locali per fumatori, le cui caratteristiche strutturali e i parametri di ventilazione sono stati definiti con ilDecreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 dicembre 2003, che prevede anche le misure di vigilanza e sanzionamento delle infrazioni.
Un ulteriore passo avanti è stato fatto con la pubblicazione in gazzetta del Decreto Lgs. n. 6 del 12 gennaio 2016, che recepisce la Direttiva 2014/40/UE sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, presentazione e vendita dei prodotti del tabacco e dei prodotti correlati, che abroga la direttiva 2001/37/CE.
E’ un fatto innegabile che mercato del tabacco si è evoluto rapidamente negli ultimi quindici anni, con un aumento significativo della diffusione delle sigarette elettroniche (E-Cig) e dei prodotti del tabacco riscaldato (Tobacco Heating Product THP)
Questi prodotti vengono spesso considerati dai fumatori come alternative meno dannose rispetto alle sigarette tradizionali, ed è ormai noto che molte persone stanno utilizzando questi dispositivi come un mezzo per ridurre o cessare del tutto il consumo di tabacco combusto.
Tuttavia, questa evoluzione del mercato pone nuove sfide regolamentari.
La Commissione Europea e il Consiglio dell’Unione Europea hanno quindi intrapreso iniziative normative per includere questi nuovi prodotti nei divieti già esistenti per il tabacco, estendendo le restrizioni anche agli spazi aperti.
La nuova proposta ed in votazione al Parlamento UE mira a includere non solo i prodotti del tabacco tradizionali, ma anche i nuovi prodotti come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato.
La Commissione sostiene che l’estensione dei divieti a questi prodotti è giustificata dalla necessità di proteggere ulteriormente la salute pubblica dall’esposizione ad aerosol di seconda mano, anche in spazi esterni come terrazze di bar, ristoranti, e aree pubbliche adiacenti a scuole e strutture sanitarie.
L’obiettivo generale di queste iniziative è duplice: ridurre ulteriormente il consumo di tabacco e disincentivare l’uso di prodotti contenenti nicotina, contribuendo alla cosiddetta “denormalizzazione” del fumo e del consumo di nicotina.
Sebbene questi obiettivi siano, di per sé, condivisibili, la mancanza di un approccio distintivo tra i diversi prodotti e la mancata conduzione di una valutazione d’impatto adeguata rappresentano aspetti che destano non poche perplessità in una all’incisività sulla libertà dei cittadini.
Perplessità espresse da Italia e Romania
Le perplessità espresse dai rappresentanti di Italia e dalla Romania nelle dichiarazioni congiunte in occasione della discussione della raccomandazione del Consiglio sono indicative delle difficoltà legate all’adozione di queste misure.
L’Italia e la Romania hanno sostenuto la necessità di preservare la salute pubblica e concordato sull’importanza di proteggere la popolazione dal fumo passivo, ma hanno anche evidenziato diverse problematiche procedurali e sostanziali riguardanti il processo di approvazione e il contenuto dell’Atto.
Nella loro dichiarazione, entrambi i Paesi hanno lamentato che “la procedura applicata per la discussione e l’approvazione da parte del Consiglio di questo Atto avrebbe necessitato di tempi e modalità migliori per lo svolgimento del dibattito tra gli Stati membri”.
Hanno espresso rammarico per il fatto che molti emendamenti significativi proposti dagli Stati membri non siano stati adeguatamente considerati, sottolineando che un atto di tale importanza avrebbe dovuto essere finalizzato attraverso un consenso più ampio tra le parti, tenendo conto delle priorità nazionali.
Inoltre, la mancanza di una valutazione d’impatto adeguata è stata fortemente criticata. Per i due Stati “l‘introduzione di misure ampie e generalizzate riferite alle aree esterne, non chiaramente identificate e associate a concetti come la presenza di traffico pedonale intenso, manca di fondamento giuridico e genera potenziale incertezza sul suo significato e sulla sua corretta attuazione”.
Lapidarie le conclusioni della dichiarazione :”Si ricorda infine che da questo Atto adottato dal Consiglio, per sua stessa natura e portata, non deriva alcun obbligo legale per gli Stati membri di definire adeguatamente la propria legislazione nazionale, tenendo conto delle competenze e delle specificità nazionali nell’attuazione, e non viene creato alcun precedente normativo per qualsiasi futura discussione in seno al Consiglio sulla politica europea del tabacco. Per questo motivo, l’Italia e la Romania mantengono la propria preoccupazione politica sull’adeguatezza di alcune raccomandazioni, come sopra rappresentato, così come ogni ulteriore valutazione, in quanto Stato membro, sulla corretta attuazione nazionale di questo Atto“
Tale posizione evidenzia la necessità di basare le politiche su solide evidenze scientifiche e su valutazioni che considerino gli effetti pratici delle restrizioni proposte.
La necessità di differenziare tra fumo tradizionale e alternative
Un aspetto cruciale che merita particolare attenzione è la necessità di differenziare chiaramente tra i prodotti da fumo tradizionali e le alternative meno dannose come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato.
Questo principio di differenziazione non è solo una questione di logica normativa, ma è supportato anche da un vasto corpus di letteratura scientifica che indica come le alternative meno dannose possano effettivamente aiutare i fumatori a cessare il consumo di tabacco combustibile, con potenziali benefici per la salute pubblica.
Non distinguere tra questi prodotti nelle politiche sugli ambienti senza fumo potrebbe inviare un messaggio sbagliato ai consumatori, portandoli a ritenere che il vaping o il tabacco riscaldato siano dannosi quanto il fumo di sigarette tradizionali.
Questo tipo di equiparazione rischia di minare i benefici potenziali per la salute offerti da questi prodotti e, di conseguenza, potrebbe portare alcuni consumatori a tornare al fumo di sigarette tradizionali, annullando anni di progressi nel campo della riduzione del danno.
Diritto dei consumatori a scelte informate
Un altro elemento fondamentale è il diritto dei consumatori a fare scelte informate sulla loro salute. Equiparare i prodotti tradizionali del tabacco a quelli “alternativi” riduce significativamente il ventaglio di opzioni disponibili per chi desidera smettere di fumare, sminuendo i vantaggi distinti che le alternative meno dannose offrono.
Le sigarette elettroniche e i dispositivi a tabacco riscaldato hanno dimostrato di poter rappresentare uno strumento utile per la cessazione del fumo, come riconosciuto nella Relazione BECA del Parlamento europeo.
Ignorare queste evidenze significa non solo ostacolare i fumatori che vogliono smettere, ma anche compromettere i risultati ottenuti fino a questo momento nella riduzione del danno.
Contrarietà ai divieti generalizzati anche negli spazi aperti
Un altro aspetto che solleva forti perplessità riguarda l’inclusione di divieti generalizzati che si estendono anche agli spazi aperti.
Interventi normativi che incidono sulla libertà delle persone al punto di impedire loro attività anche all’aperto rischiano di essere percepiti come eccessivamente intrusivi e non proporzionati rispetto agli obiettivi di salute pubblica.
Limitare la possibilità di utilizzare prodotti come le sigarette elettroniche o i dispositivi a tabacco riscaldato anche in aree all’aperto, senza una chiara base scientifica che giustifichi tali restrizioni, potrebbe generare un significativo malcontento e ridurre l’adesione alle norme, con effetti potenzialmente controproducenti.
Impatto delle regolazioni restrittive sul settore economico Horeca e turismo
Un regolamento restrittivo che impone divieti generalizzati e molto estesi, sia per gli spazi chiusi sia per quelli aperti, rischia di determinare impatti significativi sulle attività economiche e commerciali, in particolare nei settori Horeca (bar, ristoranti, caffetterie) e del turismo. Secondo i dati di un’indagine della Federazione Horeca europea, le restrizioni anti-fumo estese agli spazi aperti hanno provocato una riduzione del 15-20% del fatturato nei locali pubblici in alcune aree metropolitane.
Inoltre, nel settore del turismo, studi condotti dall’Associazione Europea del Turismo (ETOA) mostrano che politiche restrittive possono dissuadere una significativa quota di visitatori, soprattutto quelli provenienti da paesi con normative meno rigide sul fumo.
Questi effetti cumulati non solo minacciano la sopravvivenza di molte piccole e medie imprese, ma rischiano anche di compromettere la competitività economica delle città europee nel contesto internazionale.
Anomalie nel procedimento normativo
La revisione delle raccomandazioni del Consiglio ha sollevato anche delle perplessità procedurali. La Commissione Europea non ha condotto una valutazione d’impatto adeguata prima di proporre queste nuove misure.
Considerando i significativi cambiamenti che il mercato del tabacco ha subito negli ultimi anni, è imprescindibile che le nuove normative siano accompagnate da una valutazione scientifica approfondita dei rischi associati a ciascun prodotto e da un’analisi dell’impatto economico di tali misure.
Il fatto che queste valutazioni non siano state condotte è preoccupante e rischia di compromettere l’efficacia delle politiche proposte, introducendo incertezza per consumatori e imprese. Maggiori informazioni sulla procedura di valutazione d’impatto sono disponibili sul sito della Commissione Europea.
Inoltre, imporre divieti generalizzati senza una solida base scientifica potrebbe portare a conseguenze indesiderate, come un aumento della confusione tra i consumatori sui rischi relativi dei diversi prodotti.
Questo tipo di incertezza può indurre i consumatori a credere che l’uso dei prodotti alternativi sia altrettanto dannoso quanto il fumo tradizionale, spingendoli, in ultima analisi, a tornare alle sigarette.
In questo senso, un approccio basato sull’evidenza scientifica e su una valutazione approfondita degli impatti è essenziale per garantire che le politiche europee abbiano un effetto positivo sulla salute pubblica.
La revisione delle raccomandazioni sugli ambienti senza fumo rappresenta un passo importante nella direzione della tutela della salute pubblica e del benessere dei cittadini europei.
Tuttavia, è necessario un approccio più equilibrato che riconosca il ruolo delle alternative meno dannose, consentendo ai fumatori di scegliere opzioni più sicure per ridurre il consumo di tabacco combustibile.
È imperativo evitare provvedimenti normativi di natura liberticida che impongano divieti generalizzati e sproporzionati, compromettendo le libertà fondamentali dei cittadini e criminalizzando comportamenti che non pongono rischi significativi per la salute pubblica.
Senza una chiara differenziazione tra i prodotti e senza una valutazione adeguata dei rischi e degli impatti economici, il rischio è quello di vanificare anni di progressi nel campo della riduzione del danno.
Le politiche non devono limitare inutilmente le libertà personali, specialmente negli spazi aperti, dove i rischi di esposizione al fumo passivo sono notevolmente inferiori.
È essenziale che ogni misura regolatoria sia proporzionata, basata su prove scientifiche concrete e attenta a non incidere negativamente sulle libertà individuali dei cittadini europei.
Fin dalla notte dei tempi, l’umanità ha dovuto affrontare una continua battaglia per la sopravvivenza: trovare cibo, riparo, sicurezza in un mondo spesso ostile e imprevedibile è stata una sfida costante che ha plasmato il nostro DNA evolutivo. Ma questa lotta esterna, questa necessità di assicurarci le risorse necessarie per vivere, si è col tempo trasformata in una battaglia più intima e personale. Oggi, mentre le nostre condizioni di vita si sono notevolmente migliorate, la lotta per la sopravvivenza non è scomparsa, ma è diventata sempre più una sfida interiore. Siamo costantemente chiamati a superare gli ostacoli che il mondo ci pone davanti, ma la vera battaglia risiede in noi stessi, nella nostra capacità di affrontare le nostre paure, le nostre debolezze, i nostri demoni interiori. Questa lotta personale è forse la più ardua, ma è anche quella che ci plasma, che ci rende più forti e determina chi siamo veramente. Proprio come quella verso l’ambiente ha plasmato il nostro DNA.
Ognuno di noi, nel corso della propria vita, deve affrontare momenti di incertezza, di smarrimento, di profonda crisi interiore. Sono quelli i momenti in cui la lotta per la sopravvivenza è la lotta per la preservazione della nostra identità.
Che si tratti di problemi personali, professionali o di qualsiasi altra natura, la nostra esistenza è costellata di momenti difficili che mettono alla prova la nostra determinazione. È in questi frangenti che la lotta diventa essenziale, la capacità di non arrendersi di fronte alle avversità che la vita ci presenta.
“Non importa quanto sia dura la vita, c’è sempre qualcosa che puoi fare e in cui puoi riuscire” (Stephen Hawking).
È la nostra capacità di adattarci e di rialzarci dopo ogni caduta, a definire chi siamo e a definirci come individui.
La lotta è il viaggio che ci conduce alla scoperta di noi stessi, delle nostre passioni, dei nostri sogni, definirili per poi, seguendoli, diventare la versione migliore di noi stessi.
Immaginate lo stupore di quel gruppo di persone che qualche anno dopo la Seconda Guerra Mondiale hanno scoperto piste d’atterraggio non segnalate, intagliate tra il fitto della boscaglia della foresta malinesiana. Immaginate lo sconcerto nel vedere che le piste di atterraggio non erano state create per far atterrare aerei per il traffico di contrabbando nè di droga, ma avevano uno scopo più alto. A volte ci viene più facile pensare ad una cosa in modo che sia illegale, che sia criminale e criminoso, invece che pacifica e – in qualche modo – tenera. Le piste di atterraggio – sì, al plurale – erano state create tagliando gli alberi, ponendo torce ai lati della pista e finte torrette di controllo e aerei parcheggiati ai lati della pista. Tutto fatto in legno e bambù. Comprese le cuffie da operatore radio. Di legno e noce di cocco.
Gli indigeni che vivevano nel fitto della boscaglia, lontano dai grandi centri abitati e dalla civiltà così come ce la immaginiamo noi, lontani anche dalle brutture e dagli abomini che gli uomini civili stavano facendo ad altri uomini civili nel corso della Seconda Guerra Mondiale, avevano osservato l’arrivo di enormi aerei carichi di beni materiali sulle loro isole per mesi, per anni. Erano venuti in contatto con i “miracoli” della modernità, a loro prima inaccessibili, ricevendo con quelle spedizioni, tantissime razioni di cibo e vestiti confortevoli che non avevano mai visto prima. Tanto da pensare che fossero davvero dei Miracoli. Per quelle popolazioni i beni materiali provengono, giungono a terra per la benevolenza degli spiriti degli antenati. Quindi quelle razioni di cibo e quei vestiti non potevano essere altro che doni divini. Il “culto del cargo” nasce così: riti, danze utili ad attirare di nuovo quegli “Dei del cielo” con i loro preziosi carichi. Preparando ambienti che in qualche modo potessero risultare “familiari”. La ripetizione formale di strutture esteriori, sulle quali però non si ha che una superficiale cognizione della complessità che vi si cela dietro.
Un comportamento ingenuo, ridicolo…ma a quegli indigeni il comportamento risultava essere normale, logico, giusto, addirittura doveroso.
Fino a qualche giorno fa, di questa storia, non ne sapevo assolutamente nulla. Un collega mi ha parlato di questo Bias Cognitivo, del Bias Cognitivo – quindi riconosciuto dalla comunità scientifica – chiamato “Culto del Cargo”. Tutti gli esseri umani lo hanno, e anche noi, nella nostra “modernità” ci comportiamo in modo simile a quegli indigeni malinesiani.
Pensiamo ai bias cognitivi che influenzano le nostre scelte quotidiane:
Il mito della meritocrazia: credere che “basta lavorare sodo” per ottenere successo, ignorando i fattori strutturali, le disuguaglianze o la semplice fortuna. La fede nelle mode e nelle tendenze: come indossare scarpe di un marchio prestigioso o seguire diete miracolose, nella speranza di attirare il “cargo” del successo o della felicità. La dipendenza dai rituali professionali: pensiamo ai meeting o alle presentazioni con grafici complicati, non sempre necessari, ma ripetuti perché ritenuti simboli di efficienza. Non sono, forse, le nostre versioni delle piste di atterraggio di bambù?
Bias cognitivi: la trappola della mente razionale Le neuroscienze e la psicologia moderna ci spiegano che siamo predisposti a vedere schemi anche dove non ci sono. Questo fenomeno, noto come apofenia, ci porta a interpretare coincidenze come relazioni causali. Non è diverso da un villaggio melanesiano che collega l’apparizione degli aerei ai propri rituali.
Investire in criptovalute senza comprenderne i meccanismi, solo perché “tutti lo fanno”. Seguire guru motivazionali che promettono formule magiche per il successo, imitando atteggiamenti o posture ritenute “vincenti”. Il consumismo rituale: pensiamo al Black Friday, dove acquistare diventa un rito collettivo, quasi una celebrazione.
Un altro esempio emblematico è il rapporto con la tecnologia. Smartphone, intelligenza artificiale, blockchain: spesso li veneriamo senza comprenderne realmente il funzionamento. Cerchiamo “soluzioni magiche” ai nostri problemi, affidandoci ciecamente a qualcosa che percepiamo come superiore, quasi divino.
Le start-up tecnologiche hanno i loro rituali: hackathon, stand-up meetings, pitch perfetti per attirare gli “investitori-dei” che portano il “cargo” dei finanziamenti.
Il culto del cargo ci offre uno specchio: ciò che consideriamo superstizione negli altri spesso è solo un’interpretazione diversa della nostra stessa irrazionalità. Forse non costruiamo aerei di bambù, ma inseguiamo simboli e rituali, nel tentativo di controllare un mondo imprevedibile.
Il confine tra razionalità e irrazionalità è più labile di quanto vorremmo ammettere. Guardare con rispetto le credenze altrui significa riconoscere i nostri stessi limiti, accettando che, in fondo, siamo tutti umani. I “cargo” che cerchiamo sono diversi, ma la speranza che ci guida è la stessa.
Mi capita spesso di pensare ai libri che non ho letto, ai chilometri che non ho calpestato, alle luci che non ho acceso, alle case che non ho abitato, ai letti che non ho vissuto, ai gatti che non ho spiato, ai cuori che non ho nutrito, ai sogni in cui non ho creduto, ai muscoli che non ho scolpito, agli occhi che non ho incontrato.
Mi capita… di pensare a quel che non sono. E a ciò che avrei potuto essere.
L’identità. Questa sconosciuta, verrebbe da dire. Le sue innumerevoli forme e sfumature, le sue nascite, le sue evoluzioni, le sue morti e resurrezioni credo siano ben raccontate, espresse, sottese in questo numero, che si pregia di contributi pronti a scavare ogni superficie.
Grazie a Giorgio Gabrielli, Giovanna La Vecchia e Walter Iolandi per la straordinaria capacità di tenere acceso e lucido il motore di questa avventura editoriale.
Grazie, senza limiti di tempo e di spazio, a Giuseppe Cesaro, per le parole, i pensieri, i sentimenti che ci ha donato.