C’è un detto che suona più o meno così: “Il tempo cura tutte le ferite“. Ma cosa succede quando, invece di guarire, continuiamo a graffiare il ricordo di quelle ferite? È un paradosso universale: quanto più cerchiamo di dimenticare qualcosa, tanto più questa cosa sembra fissarsi nella nostra mente. Un loop mentale che può essere tanto doloroso quanto frustrante. Non penso certamente alle cose tant dolorose da esser rimosse dalla memoria dal nostro Io, ma alle esperienze negative che abbiamo vissuto. Il risveglio il giorno dell’esame di maturità.
La memoria umana, tanto straordinaria quanto misteriosa, non è solo un archivio passivo di eventi passati. È un sistema attivo, capace di rielaborare e reinterpretare le informazioni, talvolta aggiungendo un tocco drammatico ai ricordi. Freud definiva questo fenomeno come “compulsione alla ripetizione“, un meccanismo inconscio che ci spinge a rivivere eventi traumatici per cercare, paradossalmente, di risolverli o integrarli. Ma spesso questo si traduce in una continua riapertura di vecchie ferite.
Il nostro cervello sembra cablato per prestare maggiore attenzione alle esperienze negative. Una spiegazione scientifica viene dalla teoria del “negativity bias“: la tendenza innata a dare maggiore peso ai ricordi spiacevoli rispetto a quelli positivi. Questo bias ha radici evolutive: ricordare il pericolo e il dolore era essenziale per la sopravvivenza dei nostri antenati. Dimenticare un pericolo poteva significare la morte; ricordarlo, invece, aumentava le probabilità di sopravvivenza.
Quando viviamo un evento doloroso, il cervello rilascia sostanze chimiche che intensificano la memoria, rendendola più vivida e difficile da dimenticare.
“Ogni situazione è neutra: non sono gli eventi a turbare gli uomini, ma il modo in cui li interpretano“, diceva il filosofo Epitteto. Questo significa che non è tanto il ricordo in sé a perseguitarci, quanto il significato che gli attribuiamo. Un insulto, ad esempio, può essere archiviato come un episodio insignificante o trasformarsi in un’ossessione, a seconda del valore emotivo che gli diamo.
“Non pensare a un elefante rosa”. La frase ti ha fatto immaginare proprio un elefante rosa, vero? Questo fenomeno, noto come “effetto del rimbalzo” o “ironia mentale”, è stato studiato dallo psicologo Daniel Wegner. Cercare di sopprimere un pensiero, infatti, spesso lo rende più persistente. Lo stesso accade con i ricordi: più cerchiamo di dimenticare un evento doloroso, più questo si radica nella nostra mente.
Allora, come possiamo liberarci dal peso dei ricordi spiacevoli? Una strategia è accettare il ricordo invece di combatterlo. Secondo le teorie della mindfulness, osservare il pensiero senza giudizio può aiutare a ridurne l’intensità emotiva. Inoltre, parlare con qualcuno di fiducia o scrivere i propri pensieri può rivelarsi catartico. Non si tratta di cancellare il passato, ma di riconoscerlo per ciò che è: una parte della nostra storia, non la nostra intera identità.
In definitiva, i ricordi dolorosi possono insegnarci lezioni preziose, ma solo se siamo disposti a guardarli con occhi nuovi. Come scriveva Oscar Wilde: “L’esperienza è il nome che diamo ai nostri errori”. Forse, accettando questa prospettiva, possiamo trasformare i nostri ricordi più pesanti in strumenti di crescita e consapevolezza.
Dominio delle stronzate, crepuscolo della democrazia, agonia della libertà
Se, come diceva Gesù, «la verità vi farà liberi», allora la scomparsa della verità ci renderà tutti schiavi. E, dato che stiamo precipitando nell’abisso di una società senza verità, ogni istante che passa, siamo sempre meno liberi.
La cosa peggiore, però, non è che non ce ne rendiamo conto. È che – anche quando ce ne rendiamo conto – non ce ne preoccupiamo.
In parte, perché ci illudiamo che non sia così. Pensiamo si tratti dell’ennesimo catastrofismo ingiustificato, messo in giro dai soliti “profeti di sventure”. Gufi disposti a tutto pur di farci vivere nella paura e – come cantava De Gregori – «convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera».
In parte – ed è questo l’aspetto più inquietante – perché crediamo che la cosa non sia poi così importante. Questa o quella cosa non sono vere? E chissenefrega! Come se la Storia non avesse abbondantemente dimostrato che le società senza verità finiscono col destabilizzare e stravolgere le vite delle persone, fino al punto di soffocarle, negarle e, infine, cancellarle.
NIENTE LIBERTÀ, NIENTE VITA
Non c’è vita senza libertà. Eppure ignoranza, stupidità, servilismo, opportunismo, pusillanimità e paura ci convincono che non è così. Morale: andiamo avanti come se niente fosse, tra inconsapevolezza, rassegnazione e fatalismo, fidando nel fatto che, all’ultimo istante, qualcosa o qualcuno ci salverà dall’abisso.
Non succederà. Nessuno verrà a salvarci. Anche perché nessuno – a parte noi – tiene alla nostra libertà. Gli altri non vedono l’ora di togliercela. Se, poi, siamo noi stessi i primi a rinunciarci, tanto meglio per loro: risparmieranno tempo, denaro e fatica.
DIRITTO AL VOTO: REGALO INESTIMABILE, BUTTATO VIA
Un’intera generazione (né alieni né estranei: i nostri nonni e i nostri genitori) ha combattuto e sacrificato la vita per regalare a tutti noi la libertà di votare e scegliere la “casa” che vogliamo, chi la deve costruire e aiutarci a “mandarla avanti”. Un dono dal valore inestimabile del quale, a quanto pare, non sappiamo più cosa farcene. Ce ne siamo stancati, e l’abbiamo buttato via, tra i giocattoli che non divertono più, come fanno i bambini con i regali del Natale precedente.
Dal 1948 a oggi, infatti, l’affluenza alle urne è precipitata. Siamo passati dal 92,23% delle prime elezioni al 49,69% delle Europee dello scorso anno. 42,54 punti percentuali in meno. Un crollo che ha determinato il crollo verticale del “coefficiente di democraticità” della nostra democrazia.
DEMOCRAZIA DIMEZZATA
Un coefficiente che, per la democrazia, è come i carati per l’oro. Più sono, più l’oro è puro e più vale; meno sono, meno l’oro è puro e meno vale. Come ho già scritto, infatti, la democrazia non è come il silenzio, che c’è o non c’è. Somiglia, piuttosto, all’oro: il suo valore, cioè, dipende dal suo grado di “purezza”. Ed è del tutto evidente che una democrazia rappresentativa nella quale vota meno del 50% dell’elettorato è tutt’altro che pura.
Di fatto, quindi, viviamo in una democrazia dimezzata. Il che equivale a trovarsi al volante di un’auto che perde due ruote per strada: praticamente impossibile non schiantarsi.
DEMOCRACY INDEX 2023
Secondo l’ultima edizione del Democracy Index dell’Economist Intelligence Unit (un’istantanea dello stato della democrazia in 165 Stati indipendenti e due territori – quasi l’intera popolazione mondiale e la stragrande maggioranza degli Stati – basata su: processo elettorale e pluralismo, funzionamento del governo, partecipazione politica, cultura politica e libertà civili) sebbene circa la metà della popolazione mondiale (45,4%) viva in una qualche forma di democrazia, solo il 7,8% risiede in “piene/complete democrazie” e ben più di un terzo (39,4%) vive sotto regimi autoritari.
ITALIA DA “SERIE B”
Il nostro Paese, purtroppo, non brilla. E come potrebbe, visto l’andazzo degli ultimi decenni. L’Italia, infatti, non trova posto nella “serie A” del Democracy Index, che ospita i 24 Paesi che lo studio definisce “democrazie piene/complete”. Tra queste, in ordine di graduatoria, troviamo Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca, Irlanda, Svizzera, Paesi Bassi, Lussemburgo, Germania, Canada, Australia, Giappone, Austria, Regno Unito, Grecia, Francia e Spagna.
Il nostro Paese risulta al decimo posto della classifica della “serie B” – le “democrazie imperfette” – preceduta da Cile, Repubblica Ceca, Estonia, Malta, Stati Uniti d’America, Israele, Portogallo, Slovenia e Botswana.
Dietro di noi, infine, Paesi come Belgio (36), India e Polonia (41), Sud Africa (47), Ungheria (50), Brasile (51), Argentina (54), Colombia (55), Croazia (58), Romania (60), Bulgaria (62), Serbia (64), Albania (66), Tunisia (82), Ucraina (91), Turchia (102), Emirati Arabi (125), Egitto (127), Iraq (128), Russia (144), Cina (148), Iran (153), Libia (157), Siria (163), Corea del Nord (165).
Come abbiamo visto, nel nostro Paese, la rappresentatività è fortemente compromessa. E, dato che essa è il cuore della democrazia (aveva ragione Gaber: libertà è partecipazione), fortemente compromesso è anche il cuore della nostra democrazia. Un cuore sempre più prossimo all’infarto.
Alle ultime Europee – solo per citare la tornata elettorale più recente – ha votato meno del 50% dei 47 milioni di aventi diritto: 23.372.323 elettori, contro i 23.663.947 che hanno scelto di non andare a votare.
GOVERNANO LE MINORANZE
Dati infinitamente più preoccupanti di quanto non appaia. Per due ragioni. La prima è che, per la prima volta nella storia repubblicana, è una minoranza – e non una maggioranza – a vincere le elezioni. E, di conseguenza, a formare un Parlamento ed esprimere/orientare un governo.
Alle Europee 2024, FDI – il partito che, in Italia, ha ottenuto più consensi – ha raccolto, infatti, 6.713.952 voti: il 28,81% del totale. Meno di un terzo dei votanti. Minoranza che diventa ancora più minoranza, se si rapportano quei 6,7 milioni di voti ai 47 milioni degli aventi diritto al voto. Risultato? Il 14,27% del totale: un settimo dell’elettorato.
Il che significa che meno di 1,5 elettori su 10 hanno votato per FDI. E, dato che è oggettivamente impossibile definire “maggioranza” 1,5 elettori su 10, dichiarare che “gli italiani hanno scelto FDI” è una colossale mistificazione. Mistificazione che, però, funziona alla grande, dal momento che quasi nessuno, ormai, si prende la briga di raccogliere, verificare e analizzare numeri e percentuali, e di ragionare sulla loro reale o presunta rilevanza.
IL DIRITTO DI VOTO HA I GIORNI CONTATI?
La seconda ragione è ancora più preoccupante della prima. Proverò a sintetizzarla in una semplice domanda: se gli italiani continueranno a disertare le urne e saranno sempre meno quelli che decideranno di esercitare il loro diritto di voto, secondo voi, quanto tempo passerà prima che qualcuno si affacci a un nuovo balcone, arringando la folla al grido: “Visto che non andate a votare, vuol dire che ritenete il voto un inutile fastidio. Non vi preoccupate: da domani, ve ne libereremo!”?
LA LIBERTÀ NON CI INTERESSA…
La verità è che a noi umani la libertà non interessa. Neghiamo che sia così ma lo facciamo sapendo di mentire. Perché? Perché la libertà implica il fardello della responsabilità e non c’è nulla che pesi di più agli esseri umani del fatto di assumersi la responsabilità di decidere del proprio presente/futuro. Molto meglio lasciarlo fare a qualcun altro. Se le cose andranno bene, potremo dire di aver visto giusto. Se le cose andranno male, potremo dire che non è stato per colpa nostra.
Lo scrivo spesso, non perché mi manchino gli argomenti ma perché trovo stupido provare a esprimere con parole migliori questa illuminante verità: aveva ragione il Grande Inquisitore: «nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana più intollerabile della libertà!». Ecco perché «non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà».
… PER QUESTO, NON VOGLIAMO LA VERITÀ
In sintesi: la libertà costa e noi non vogliamo pagare. Ora: se noi non vogliamo essere liberi e la verità ci rende liberi, è evidente che noi non vogliamo la verità.
Ecco perché le stronzate (un istante per crearle, un’eternità per smontarle, sempre ammesso che ci si riesca) hanno così tanto successo. Pensare e scegliere richiedono tempo e fatica. Bisogna informarsi (presso fonti autorevoli e affidabili), approfondire, capire, riflettere, formarsi un’opinione, confrontarsi con gli altri, disposti a sostenere le proprie idee ma, soprattutto, ad accettare il fatto che possano essere sbagliate e, nel caso, essere pronti a modificarle.
Chi ce lo fa fare? È infinitamente più facile, conveniente e gratificante vivere di folli convinzioni fai-da-te, alimentate dalla saggezza-spazzatura che, ormai, domina, incontrastata, ovunque: case, uffici, bar, mezzi pubblici, amicizie, social media, giornali, radio, televisioni. Saggezza-spazzatura che continua a fiorire e a mietere milioni e milioni di proseliti, anche perché, nella Babele di fake news e false narrazioni quasi impossibili da smascherare e smontare, è praticamente impossibile capire cosa sia vero e cosa no.
CONCLUSIONI
Permettetemi, quindi, di concludere parafrasando il versetto del Vangelo di Giovanni, ricordato in apertura: «La verità vi renderà liberi. Se solo riuscirete a trovarla, riconoscerla, comprenderla, accettarla e seguirla».
Ogni traguardo, piccolo o grande che sia, nasconde alla memoria delle sue radici una lotta. Non parliamo di conflitti esterni, ma di quella battaglia silenziosa e continua che affrontiamo dentro di noi: la lotta per superare i limiti autoimposti, per abbracciare l’incertezza e per riscrivere chi siamo. Questo viaggio verso la consapevolezza è un percorso unico, fatto di cadute, dubbi, e momenti di incredibile trasformazione.
Immagina di nascere in un piccolo paese come Cissone, un luogo dove il cambiamento è guardato con sospetto e la tradizione è legge. Crescere in un ambiente simile significa spesso interiorizzare convinzioni limitanti:
“Non puoi farcela”,
“Il mondo là fuori è troppo grande, ti perderai come in un bicchier d’acqua”,
“cosa penseranno le altre persone di te”,
“perderai le tue amicizie senza sapere cosa troverai la fuori”.
Eppure, qualcosa dentro, a volte, inizia a muoversi, e ti spinge oltre.
Perchè ti senti stretta, in un mondo in cui non puoi esprimerti perchè sei “diversa”, in cui devi omologarti alla mentalità del “si è sempre fatto così” per sentirti parte di un gruppo e accettata, in cui tutto quello che non è visibile con gli occhi non esiste.
Inizio a buttarmi nel vuoto a 18 anni, aprendo la mia azienda di servizi con 2 socie in cui operavo nel mondo dell’agricoltura biologica e biodinamica con servizi di marketing, logistica, commerciale e segreteria. Dico “buttarmi nel vuoto”, perché nessuno ti insegna a fare l’imprenditrice, non esiste una guida, o peggio, a 18 anni, anche se esistesse, non ti viene in mente di cercarla.
Lavorare in un settore dominato dal “si è sempre fatto così” e portare innovazione e digitalizzazione significava sfidare le convenzioni e il modo di lavorare di diverse persone che ha funzionato per tanti anni.
Sono stati 5 anni in cui ho sempre puntato a quella goccia, che giorno dopo giorno, avrebbe modellato la pietra.
E così è stato, mi ha permesso di capire e sperimentare tante cose come:
l’importanza di aver ben chiara la tipologia di persona che hai davanti, come pensa, come ragiona, riflette, quali sono gli input che fanno attivare certi trigger su cui puoi fare leva per raggiungere il tuo obiettivo;
a calibrare la comunicazione sulla base di queste informazioni ed adattare il tuo registro verbale in base all’interlocutore;
a studiare e comprendere bene il loro punto di partenza e confrontarlo con quello dove vuoi arrivare per evidenziare pro e contro;
ad evidenziare i vantaggi competitivi ed economici della tua proposta.
Tutto questo per cosa?
Per digitalizzare l’azienda, snellire i processi, automatizzarli, introdurre programmi di monitoraggio e gestione che permettessero di lavorare più agilmente ed evitando di perdersi le informazioni, ridurre i tempi di gestione e i rework.
E poi, il salto: dall’agricoltura alla tecnologia. Cambiare industria è come cambiare pelle.
E’ un processo, lento, fatto di tanto tempo, di mettere in discussione la tua realtà, comprendere un nuovo target e le sue dinamiche, che implica apprendimento continuo e la volontà di reinventarsi.
La lotta, in questo caso, è stata contro la paura del fallimento, contro l’idea che cambiare significasse perdere un qualcosa di cui conoscevi molto bene le dinamiche e di entrare in un mondo in cui non eri nessuno, dovevi ricostruirti da zero, in un mondo densissimo di persone competenti.
Oggi, il passato lascia spazio a una vita in costante viaggio ed evoluzione, con connessioni stupende che abbracciano culture e persone diverse. Questo passaggio non è stato privo di difficoltà.
È stato un atto di ribellione contro un qualcosa in cui non volevo più essere io la sola a puntare in alto ma volevo vivere in una spinta costante di ispirazione, energia e desiderio di crescita, una decisione consapevole di rompere il ciclo e costruire una nuova identità.
Come non esistono percorsi per essere imprenditrice, e ci si barcamena in mille aspetti sconosciuti, non esistono qualifiche da community manager.
Mi sentivo un impostore prima, e continuo a sentirmici ora.
Come lo maschero? Con la strategia più semplice in assoluto “fake it until you make it”. Parlo a conferenze internazionali, accetto sempre nuove sfide lavorative, mi butto in progetti che non ho mai fatto.
Perché? Perché la mente è un critico severo, che ci ricorda costantemente ciò che non sappiamo invece di ciò che abbiamo costruito e il modo migliore per smascherare questa dinamica per me è la possibilità di dimostrarmi che ogni volta che ho fatto qualcosa di nuovo, ogni volta che mi sono buttata nell’ignoto, in cui ho avuto paura di non raggiungere il risultato, di deludere le persone, beh ogni volta ho imparato qualcosa e la maggior parte delle volte sono arrivata, li, dove non avrei mai pensato.
La verità è che nessuno ha mai certificato questo ruolo. Nessuna laurea, nessuna qualifica. Eppure, tutto quello che faccio oggi richiede abilità che non si imparano sui libri: empatia, ascolto, leadership, problem solving, gestione delle priorità ecc…
La lotta, qui, è accettare che la competenza non sempre si misura con un pezzo di carta, ma con i risultati, con i feedback, con il segno che sei riuscita a lasciare nel percorso delle persone e con le lezioni imparati dagli errori.
La lotta più significativa, però, è quella quotidiana. È guardarsi allo specchio e amarsi per ciò che siamo e decidere di migliorarsi per diventare le nostra versione migliore, chi noi vogliamo davvero essere. Ogni singolo giorno.
È identificare i propri limiti, per comprenderli, analizzarli e spingerli sempre un po’ più in là se questo ci permette di essere soddisfatti. Creare routine, dedicare del tempo per sé stessi, per sentirsi, per capire cosa ci piace e cosa no, per capire cosa ci fa stare bene e cosa no, per ascoltarsi: tutto questo non è solo un esercizio di crescita, ma un percorso che richiede tanta energia e amore verso sé stessi.
Perchè vuol dire mettersi in discussione, far crollare in autonomia le proprie certezze e l’essere umano ha una disperata necessità di sicurezza quindi entrare in questo flusso è estremamente dispendioso a livello energetico ma ti apre una nuova visione di te, di chi davvero puoi essere.
La lotta interiore è parte integrante della vita. Ci sfida a fare scelte difficili, a confrontarci con le nostre paure e insicurezze. Ma è anche ciò che ci rende vivi, che ci permette di evolvere e di scoprire chi siamo davvero.
Non esiste un punto di arrivo definitivo. Ogni giorno è una nuova opportunità per crescere, per imparare, per abbracciare il cambiamento. La vittoria non è nell’eliminare la lotta, ma nell’accoglierla come parte del viaggio. Essere consapevoli dei propri limiti è il primo passo per superarli. E chi decide di buttarsi sempre oltre la sua zona di comfort, chi accetta il rischio e sceglie di conoscersi meglio, scopre che la vera vittoria è nella trasformazione continua, non dell’obiettivo raggiunto.
La lotta interiore è un invito a vivere, a crescere, a essere più di quello che pensavamo possibile.
La redazione ringrazia per il contributo concesso a titolo gratuito da Michela.
Io lo scrivo quì, ma penso che abbiamo tutti in mente un pensiero negativo ogni qualvolta sentiamo dire o leggiamo dei progressi degli impianti di chip all’interno del cervello umano. “Studi scientifici”, “Progressi Tecnologici”, “Grandi Possibilità” si affrettano ad aggiungere gli esperti interpellati dai giornalisti, eppure dentro di noi si fa largo il ribrezzo al pensiero che un essere umano possa desiderare di farsi impiantare un elemento estraneo nel proprio corpo, per di più nel cervello. Abbiamo tutti in mente la scena di Terminator quando da sotto la pelle di Arnold Swarzenegger emerge il metallo e i circuiti elettrici e abbiamo lo stesso senso di repulsione. Tutti, compresi quei ragazzi che per ragioni anagrafiche il film certamente non l’hanno visto al cinema o forse nemmeno in TV.
Siamo spaventati di un oggetto che, comandato da qualcun altro oppure in ragione della propria programmazione algoritmica, possa prendere il sopravvento sulla nostra volontà.
Scrivendo gli altri articoli per questo numero (“Stop con i beatles stop..?” e “L’annullamento della Memoria come strumento di controllo“) mi sono reso conto che l’Antropocene – ossia l’idea che l’impatto che l’uomo ha sull’ambiente possa configurarsi come una nuova “era geologica” – ha implicazioni anche sulla nostra stessa struttura mentale e non dal 1945 – da quando si fa risalire l’inizio dell’Antropocene appunto. Da quando l’uomo è diventato un essere “civile”, e quindi da tanto tanto tempo fa, ha cercato di modificare l’ambiente circostante per adattarlo in qualche modo alle proprie esigenze. Ha “addomesticato” razze animali e ha “selezionato” razze vegetali, per i propri bisogni primari e anche per il proprio diletto: il selvaggio Uro è diventata la mansueta mucca, il famelico lupo è diventato il delicato Chihuahua, la Rosa canina la profumosa e delicata Tea. Ha costruito habitat artificiali che si sono distaccati moltissimo dai prati verdi e dalle foreste, senza pensare al Bosco Verticale, possiamo immaginare alle palafitte costruite negli stagni o agli arredi nelle caverne vicino alle coste (e ne abbiamo di esempi anche sulle coste laziali ad Circeo, senza dover andare troppo lontano da Roma ad esempio).
Ma molto prima di poter pensare alle estensioni della mente con i chip e prima di pensare all’Intelligenza Artificiale o anche prima di pensare agli automi (e mi viene in mente il servitore di Filone di Bisanzio costruito più di 200 anni prima della nascita di Cristo), prima di tutto questo l’uomo aveva capito che era possibile estendere la propria mente con la scrittura. Lasciando un segno, un disegno in uno dei suoi rifugi poteva ricordare con esattezza come cacciare gli animali. Aveva esteso il concetto del “quì e adesso” nel quale sostanzialmente era relegato per la propria natura umana, portando la sua mente a ricordare cose che il trascorrere del tempo avrebbe lasciato andare nel “panta-rei” fisiologico. Ha creato, per se stesso, un nuovo modo di vivere il tempo e lo spazio. Questo – per gli storici – ha determinato il passaggio dalla Preistoria alla Storia, ma a pensarci è stato il primo passaggio dell’uomo all’antropizzazione della propria natura animale.
Pochi giorni prima dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, l’ex Presidente americano Joe Biden ha lanciato un accorato allarme. “Oggi, in America – ha detto – sta prendendo forma un’oligarchia di estrema ricchezza, potere e influenza, che minaccia realmente l’intera nostra democrazia, i nostri diritti fondamentali e la nostra libertà”. Biden ha, quindi, puntato il dito contro un “complesso tecno-industriale” ultra-ricco che potrebbe esercitare un potere incontrollato sugli americani.
Ma no? Davvero? E se n’è accorto solo quattro giorni prima dell’insediamento di Trump? Un genio, non c’è che dire. E dove diavolo è stato in tutti questi anni?
E gli altri sedicenti progressisti, al di là e al di qua dell’Oceano? Dove diavolo erano in questi quarant’anni nei quali il mondo non si è più diviso – ideologicamente – tra “buoni” (Americani & Co.) e “cattivi” (Russi & Co.) ma – turbocapitalisticamente – tra iper-ricchi (pochissimi) e iper-poveri (miliardi)?
Dove sono stati, in tutti questi anni, i cantori di libertà, giustizia, pace, diritti umani e civili, solidarietà, equità, salute, istruzione, dignità di lavoro e salario, pari opportunità, inclusione, stato sociale, e bla-bla-bla fratelli?
Dormivano tutti? Erano tutti stupidi o troppo impegnati a godersi sprizzini, shottini, salatini, salottini, librettini, teatrini, cinemini, concertini ed eventini, che non se ne sono accorti, poverini?
O, forse, se n’erano accorti ma non sono riusciti a evitare il peggio? Cos’è: incapaci e ignavi, hanno lasciato fare oppure, collusi e complici, volevano che il mondo arrivasse esattamente dov’è arrivato e che le destre tornassero a dominare, indisturbate, praticamente ovunque?
Non risponderò a queste domande.
Che ognuno faccia le proprie riflessioni
e tragga le proprie conclusioni.
Una cosa, però, è certa: in politica, o sei parte della soluzione o sei parte del problema. E, dato che di soluzioni non se ne vede nemmeno l’ombra, mentre “il problema” trionfa quasi dappertutto, suggerirei che tutti coloro i quali – a qualunque titolo e con qualunque grado di responsabilità – non sono riusciti a impedire o, peggio, hanno favorito questa devastante deriva antidemocratica, togliessero il disturbo, una volta per tutte.
Se non altro, i veri democratici – ammesso che ne esista ancora qualcuno – si renderebbero, finalmente, conto del fatto che “non esistono liberatori ma uomini che si liberano”. E potrebbero decidere, una volta tanto con la propria testa, cosa farne di sé stessi e della propria vita.
Uno degli elementi fondanti di ogni regime totalitario è il controllo della memoria collettiva. La storia non è solo una cronaca di eventi passati, ma una struttura narrativa che definisce l’identità di un popolo, le sue radici, i suoi valori. Per questa ragione, uno dei primi atti del nazismo fu la distruzione sistematica dei libri di scuola e dei testi di storia, sostituendoli con una nuova visione della realtà, costruita ad arte per giustificare la loro ideologia e il loro dominio.
Nel 1933, appena salito al potere, il regime nazista organizzò il Bücherverbrennung, il rogo dei libri considerati “non tedeschi”, un atto simbolico che mirava a cancellare idee scomode e sostituirle con una narrazione alternativa. Tra le opere distrutte vi erano testi di scienza, filosofia, letteratura e soprattutto storia, poiché il passato doveva essere riscritto in funzione della visione nazionalsocialista. Questo processo non era solo censura, ma un vero e proprio tentativo di manipolazione della memoria collettiva.
Il Potere della Riscrittura della Storia
La storia è lo strumento con cui una società tramanda i suoi valori e le sue esperienze. I regimi totalitari non possono permettere che esistano narrazioni concorrenti rispetto alla loro ideologia. Questo concetto è brillantemente rappresentato in “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury, dove i libri vengono bruciati non solo per impedire alle persone di leggere, ma soprattutto per eliminare il pensiero critico e sostituirlo con un conformismo imposto dall’alto. “Non volevano uomini che pensassero, ma uomini che obbedissero”, scrive Bradbury, una frase che potrebbe benissimo descrivere l’atteggiamento del nazismo nei confronti dell’istruzione e della cultura.
L’ideologia nazista non poteva accettare una storia che mostrasse le sue contraddizioni o che mettesse in discussione la superiorità della razza ariana. Per questo motivo, non solo i libri furono distrutti, ma anche la storiografia venne riscritta per enfatizzare un passato glorioso e creare nemici immaginari. I programmi scolastici vennero modificati per inculcare nei giovani i principi dell’antisemitismo, del nazionalismo esasperato e della guerra come destino inevitabile.
Casi Storici e Citazioni
Questo fenomeno non è esclusivo del nazismo. Altri regimi totalitari hanno adottato strategie simili per controllare il passato e quindi il futuro:
Unione Sovietica: Stalin fece riscrivere la storia rimuovendo figure politiche scomode, cancellandole persino dalle fotografie ufficiali.
Cina di Mao: Durante la Rivoluzione Culturale, vennero distrutti testi classici e riformati i libri scolastici per eliminare ogni riferimento al passato pre-comunista.
Cambogia di Pol Pot: Il regime dei Khmer Rossi eliminò testi scolastici e chiuse le scuole per annullare qualsiasi forma di sapere precedente alla rivoluzione.
George Orwell in “1984” descrive magistralmente questa dinamica con il concetto di “controllo della memoria” attraverso lo slogan “Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato”. Questa frase sintetizza perfettamente la necessità dei regimi totalitari di riscrivere la storia per legittimarsi.
Conclusione
La distruzione dei libri di storia e dei testi scolastici da parte del nazismo non fu un atto di semplice censura, ma una strategia per plasmare una nuova realtà e un nuovo popolo. La conoscenza del passato è uno strumento di libertà: chi la possiede, può capire e giudicare; chi ne è privato, è destinato a credere e obbedire. Ecco perché ogni regime totalitario ha bisogno di creare una nuova memoria: per cancellare le radici di un popolo e sostituirle con una storia costruita a proprio vantaggio.
Memento (2000) – Christopher Nolan Un uomo con un disturbo della memoria a breve termine cerca di scoprire chi ha ucciso sua moglie, usando tatuaggi e note per ricordare gli indizi. Un puzzle narrativo sulla fragilità della memoria.
Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004) – Michel Gondry Una coppia decide di cancellare i ricordi della loro relazione tramite una procedura medica, ma l’inconscio lotta per trattenere ciò che è importante. Un viaggio emotivo sulla memoria e l’amore. Scrivo il titolo in versione originale perché quella italiana l’aveva trasformato in una commedia di serie B e mi aveva impedito di guardarlo e solo le lunghe insistenze di un amico me lo aveva fatto vedere. E mi sono ricreduto, tanto di metterlo in questa lista, e tra le prime posizioni.
Inception (2010) – Christopher Nolan Oltre a esplorare il sogno e la realtà, il film ruota attorno ai ricordi e a come essi possono essere manipolati o impiantati nella mente umana.
The Manchurian Candidate (1962 / 2004) – John Frankenheimer / Jonathan Demme Un thriller politico in cui un soldato è sottoposto a lavaggio del cervello per diventare un’arma inconsapevole. Un film inquietante sul controllo della memoria. Nomino ambedue i film perché sono uno il clone dell’altro, ma a parte la sceneggiatura, a voi la scelta di quale regia, quale interpretazione scegliere.
The Father (2020) – Florian Zeller Un viaggio nella mente di un uomo affetto da demenza, visto dal suo stesso punto di vista. Il film trasmette in modo potente la confusione della perdita di memoria.
Mulholland Drive (2001) – David Lynch Un film onirico e surreale che mescola amnesia, ricordi distorti e sogni per creare un’esperienza destabilizzante e affascinante.
Total Recall (1990) – Paul Verhoeven Basato su un racconto di Philip K. Dick, esplora l’idea di ricordi impiantati e la difficoltà di distinguere la realtà dalla finzione. Effetti speciali davvero datati, visti con l’occhio di oggi, ma un action movie molto destabilizzante, interpretato da un Arnold Schwarzenegger in forma, molto prima di diventare il Governatore della California.
Shutter Island (2010) – Martin Scorsese Un agente federale indaga sulla scomparsa di un paziente da un ospedale psichiatrico, mentre lotta con i suoi stessi ricordi e traumi.
50 volte il primo bacio (2004) – Peter Segal Una commedia romantica con un sottotesto malinconico: una donna perde la memoria ogni giorno e il protagonista cerca di farla innamorare di lui ogni volta. Per tante e tante volte, cercando di seguire i suoi sogni che, rivivendo sempre lo stesso giorno, avrebbe potuto non realizzare mai.
The Bourne Identity (2002) – Doug Liman Un uomo senza memoria cerca di scoprire chi è, mentre viene braccato da forze misteriose. Una riflessione sull’identità e sul passato dimenticato.
Aggiungo un ultimo film sulla memoria. Un film del grandissimo Alfred Hitchcock: Spellbound. Anche qui la versione italiana (“Io ti salverò”) devia il senso del film che fa diventare una psichiatra giovane e determinata una “crocerossina”. Si tratta di un Thriller ambientato in una casa di cura negli anni ’40 nella quale viene accolto un nuovo medico che nasconde un segreto tanto tanto profondo, nascosto nei meandri della sua memoria. Per questo film, Hitchcock ha voluto niente meno che Salvador Dalì per rappresentare il sogno. A tal proposito mi piace ricordare il mio amico Ernesto Laura che su questo tema scrisse un gran bel libro.
Negli ultimi anni, l’influencer marketing ha guadagnato una posizione di rilievo nel panorama pubblicitario italiano, contribuendo significativamente al fatturato del mercato. Secondo recenti stime, il settore ha raggiunto un valore di circa 323 milioni di euro nel 2023, con un incremento del 10% rispetto all’anno precedente. Tuttavia, questa crescita esponenziale ha sollevato preoccupazioni riguardo alla tutela dei consumatori e alle questioni fiscali legate a questa nuova forma di comunicazione commerciale.
Guadagni degli influencer nelle diverse piattaforme
I compensi degli influencer variano notevolmente a seconda della piattaforma utilizzata. Secondo gli ultimi dati di DeRev su Facebook, il valore medio dei contenuti sta calando; attualmente sono necessari 50.000 follower per guadagnare 50 euro con un singolo post. Inoltre, coloro che hanno oltre 3 milioni di follower vedono dimezzarsi i loro guadagni: da un massimo di 5.000 euro a post nel 2023 a un massimo di 2.500 euro nel 2024. Su Instagram, i nano influencer hanno registrato un incremento del compenso massimo di 50 euro a post. Anche i mid-tier (con 50.000-300.000 follower) stanno beneficiando significativamente con guadagni che variano tra 1.000 e 5.000 euro a contenuto. I macro-influencer (da 300.000 a 1 milione di follower) hanno visto aumentare sia il compenso minimo (da 4.000 a 5.000 euro) sia quello massimo (da 8.000 a 9.000 euro). Tuttavia, i mega influencer (1-3 milioni di follower) e le celebrity hanno subito cali nei ricavi rispettivamente del 16% e del 31,6%. Su TikTok, i ricavi dei nano-influencer rimangono stabili mentre aumentano leggermente quelli dei micro e mid-tier influencer; i primi raggiungono compensi tra 250 e 750 euro a contenuto mentre i secondi tra 750 e 3.000 euro. Si registra invece una diminuzione nei proventi per i macro-influencer (da 3.000-7.000 euro a video a 3.000-5.000 euro) e i mega influencer (da 7.000-18.000 euro a contenuto a 5.000-10.000 euro). Le celebrity subiscono la diminuzione più significativa nei ricavi: dai 18.000-75.000 euro per una partnership su singolo video nel 2023 ai soli 10.000-20.000 euro nel 2024. Infine, su YouTube gli influencer con più di un milione di follower continuano a richiedere compensi che variano da 25.000 a 75.000 euro; tuttavia si registra un calo nei compensi per mega influencer (da un massimo di 35.000 euro nel 2023 a 25.000 euro nel 2024) e macro-influencer (da 20.000 euro a 12.500 euro).
Normative europee
A livello europeo, diverse normative si applicano all’influencer marketing. La Direttiva AVMS (Direttiva 2010/13/UE), aggiornata nel 2018, stabilisce requisiti di trasparenza ed equità nelle comunicazioni commerciali, oltre a proteggere i minori e i gruppi vulnerabili dai contenuti potenzialmente dannosi. Questa direttiva impone anche norme specifiche per la condivisione di video sulle piattaforme e promuove l’alfabetizzazione mediatica, obbligando le piattaforme a fornire gli strumenti necessari. In aggiunta, il Regolamento sui Servizi Digitali (Regolamento 2022/2065/UE) fissa obblighi armonizzati per i fornitori di piattaforme online riguardo ai contenuti illegali e nocivi, inclusa la disinformazione e i contenuti dannosi per i minori. Il Regolamento sull’Intelligenza Artificiale (AI Act)stabilisce norme a protezione della salute, della sicurezza e dei diritti fondamentali, imponendo agli influencer che utilizzano sistemi di IA di informare il pubblico e etichettare chiaramente i deep fake. Anche il Regolamento sulla Trasparenza della Pubblicità Politica (Regolamento 2024/900/UE) si applica agli influencer, obbligandoli a corredare i loro annunci pubblicitari di etichette e informazioni chiare. Infine, il Regolamento sulla Libertà dei Media (Regolamento 2024/1083/UE) può regolare i casi in cui gli influencer sono anche fornitori di servizi di media, salvaguardando un ambiente mediatico indipendente e pluralistico. Il GDPR (Regolamento UE n. 2016/679) impone agli influencer la protezione delle persone fisiche riguardo al trattamento dei dati personali. Soprattutto le normative europee sui diritti dei consumatori, come la Direttiva sulle Pratiche Commerciali Sleali (Direttiva 2005/29/CE) e la Direttiva sui Diritti dei Consumatori (Direttiva 2011/83/UE), recepite nel nostro Codice del Consumo, sono applicabili alle attività commerciali degli influencer quando promuovono prodotti o servizi online e quindi soggetti alla vigilanza dell’Autorità Garante della concorrenza e del Mercato quanto alle eventuali pratiche commerciali scorrette.
Il fenomeno Fuffaguru e le problematiche connesse alla trasparenzaper i consumatori
La normativa attuale oggetto di revisione non considera adeguatamente l’impatto qualitativo dei contenuti pubblicati, il che potrebbe portare a situazioni in cui influencer con un grande seguito ma contenuti poco etici o ingannevoli possano operare senza adeguate restrizioni. Un aspetto rilevante del panorama dell’influencer marketing è rappresentato purtroppo dai cosiddetti “fuffaguru”. Questo termine, recentemente entrato nel linguaggio comune, si riferisce a individui che sfruttano tecniche da imbonitore per organizzare e gestire corsi, video e seminari online con l’obiettivo di guadagnare profitti in modo truffaldino. I fuffaguru promettono metodi facili per fare soldi, spesso senza alcuna competenza reale o titoli riconosciuti. La loro attività si basa sulla creazione di un’apparenza di valore, attirando particolarmente coloro che cercano soluzioni rapide a problemi economici o desiderano migliorare la propria vita. Questo fenomeno ha suscitato dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che sta monitorando attentamente le pratiche commerciali scorrette anche attraverso una azione di moral suasion e l’implementazione di linee guida sull’advertising (inserimento di apposite avvertenze #PUBBLICITA’ BRAND, #SPONSORIZZATO DA BRAND, #ADVERTISING BRAND, INSERZIONE A PAGAMENTO BRAND, o, nel caso di fornitura del bene ancorché a titolo gratuito, #PRODOTTO FORNITO DA BRAND). In questo contesto, è fondamentale osservare come in altri Paesi si siano affrontate problematiche simili anche al fine di tutelare meglio i consumatori.
In Francia, l’Autorité de Régulation Professionnelle de la Publicité (ARPP) ha implementato regole che richiedono agli influencer di rispettare standard elevati in termini di trasparenza e responsabilità sociale attraverso il sistema del Certificato di Influenza Responsabile. Queste norme sono state introdotte per proteggere i consumatori e garantire che le comunicazioni commerciali siano chiare e oneste.
Le regole dell’AGCOM
L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) ha introdotto le Linee-Guida con la Delibera n. 7/24/CONS e proposto un Codice di Condotta attualmente oggetto di Consultazione pubblica che mirano a riformare e regolamentare l’attività degli influencer in Italia. Queste regole si pongono come obiettivo principale quello di garantire il rispetto delle disposizioni del Testo Unico dei servizi di media audiovisivi (TUSMA) e stabiliscono criteri per la classificazione degli influencer come “rilevanti”, basandosi su soglie quantitative come il numero di follower e il tasso di engagement. Gli influencer possono esercitare una notevole influenza sulle decisioni d’acquisto dei consumatori, specialmente tra i giovani. È quindi essenziale che le normative stabiliscano chiari obblighi di trasparenza per evitare pratiche ingannevoli. E’ necessario rafforzare ulteriormente queste disposizioni per garantire che i diritti dei consumatori siano sempre tutelati.
Il Codice di Condotta
Allegato alla Delibera di consultazione n. 472/24/CONS il Codice rappresenta un passo cruciale per garantire trasparenza, protezione dei consumatori e rispetto delle regole pubblicitarie nel contesto digitale. Il testo sancisce principi fondamentali come la correttezza, l’imparzialità e la lealtà dell’informazione. Gli influencer devono evitare contenuti che promuovano odio, violenza o discriminazione e rispettare le normative sulle comunicazioni commerciali, vietando la pubblicità occulta e limitando la promozione di prodotti come tabacco, alcol e gioco d’azzardo.
Ambito di applicazione
Le norme si applicano agli influencer definiti “rilevanti” dalle Linee Guida AGCOM. La proposta dell’AGCOM è di considerare solo gli influencer che raggiungono un numero di iscritti (i cosiddetti follower) pari ad almeno 500.000 su almeno una delle piattaforme di social media o condivisione di video utilizzate, o un numero di visualizzazioni medie mensili pari a un milione su almeno una delle piattaforme di social media o di condivisione video utilizzate Anche gli influencer virtuali, creati tramite intelligenza artificiale, rientrano nell’ambito di applicazione se rilevanti. Il rispetto del Codice, come concordate con i soggetti firmatari, è solo “raccomandato” anche ai soggetti che non hanno i requisiti previsti dalle Linee guida per essere rilevanti.
Tutela dei minori e delle categorie vulnerabili
Una parte significativa del Codice si concentra sulla protezione dei minori e delle categorie vulnerabili. Gli influencer non possono pubblicare contenuti che possano arrecare danni fisici, mentali o morali ai minori. Inoltre, devono evitare di sfruttare l’inesperienza o la credulità degli utenti, prevenendo contenuti ingannevoli o manipolativi.
Pubblicità e trasparenza
Il Codice impone la chiara identificazione dei contenuti sponsorizzati. Gli influencer devono adottare apposite segnaletiche per distinguere pubblicità, sponsorizzazioni e inserimenti di prodotti. Inoltre, è vietata ogni forma di enfasi indebita sui prodotti promossi.
Gestione e monitoraggio
Un aspetto innovativo del Codice è l’istituzione di un elenco pubblico degli influencer rilevanti, aggiornato semestralmente. Questo elenco, gestito da un soggetto incaricato dall’AGCOM, garantirà maggiore trasparenza e controllo sulle attività degli influencer. L’Autorità, supportata dalla Guardia di Finanza e dalla Polizia Postale, vigilerà sull’applicazione delle norme, conducendo ispezioni e accertamenti per verificare la conformità alle disposizioni.
Segnalazioni e sanzioni
I consumatori possono segnalare contenuti che violano il Codice attraverso un modulo disponibile sul sito dell’AGCOM. In caso di violazioni, sono previste sanzioni pecuniarie proporzionate alla gravità dell’infrazione e alle condizioni economiche dell’influencer.
Campagne di sensibilizzazione
Entro un anno dall’adozione del Codice, l’AGCOM promuoverà campagne informative rivolte sia agli influencer che ai consumatori, per aumentare la consapevolezza sui diritti e doveri legati al mondo digitale. Con questo Codice di Condotta, l’AGCOM punta a creare un ecosistema digitale più sicuro ed equo, garantendo trasparenza e protezione per tutti gli utenti. Gli influencer, d’altra parte, sono chiamati a rispettare regole precise per contribuire a una comunicazione commerciale responsabile e conforme alle normative vigenti.
Gli alberi sono creature meravigliose… nella limpida luce dei propri colori, nella freschezza delle loro ombre. Ci immergiamo nei loro profumi intensi, ci divertiamo a nasconderci dietro il loro corpo, a sbirciare dietro le foglie, ad ascoltare il loro fruscio.
Gli alberi respirano, gli alberi ci parlano… ci raccontano la loro vita, ci mostrano le proprie rughe, ci svelano la propria età senza timori, non hanno paura del tempo.
E conoscono la nostra vita… riconoscono i nostri passi, le nostre parole, osservano silenziosi e apparentemente indifferenti tutto quello che gli gira intorno…
E si chiederanno… “ma che c’avranno da correre…?” “cosa si urlano…?”; “perchè fanno tanto rumore…”.
Noi non possiamo che amarli… belli, brutti, storti, dritti, alti, bassi che siano… Sono forse gli unici a regalarci un tenero colore, uno spicchio di sole in un tempo grigio che ci porta via tutto con fretta e arroganza…
Roma ne ha partoriti tanti… sono la nostra storia. Ci hanno visto camminare, crescere, cambiare, sperare, sognare. Tutti noi dobbiamo aiutarli a vivere, a resistere… e quando sono malati dobbiamo curali e proteggerli come figli. Figli che si sono fatti da soli, che non hanno mai avuto raccomandazioni, e mai un avvocato che li tutelasse.
Certo, qualcuno può ammalarsi. E come tutte le anime sensibili affronterà il dramma della sofferenza… Noi faremo di tutto per medicarlo, per assisterlo fino alla fine. Se poi dovessimo accorgerci che non ci sono rimedi per tenerlo in vita, perché così malato da non poter far nulla… così malato che potrebbe rappresentare anche un pericolo per la nostra incolumità… allora possiamo anche decidere di porre fine alla sua sofferenza.
Per tutto il resto… beh, sarebbe quanto meno educato chiedere il loro parere… magari saprebbero darci più soluzioni di quante la nostra limitata fantasia non riesca a trovare.
Anche noi cambieremo, anche le nostre città si incammineranno nel corso mutevole della vita, nuovi volti si affacceranno, altri se ne andranno. Gli alberi no… Resteranno lì, e continueranno a osservare quei buffi esseri che si reggono su due zampe… ma nelle loro cortecce, nei loro rami, nelle nuove foglie che nasceranno e cresceranno, nel loro respiro… ci sarà uno scorcio della nostra vita, dei nostri sospiri.
Impariamo a vivere e ad amare gli alberi, e insegniamolo ogni giorno a chi pian piano si affaccia nella vita dei grandi, ansioso e desideroso di apprendere.
Martedì 29 ottobre 2024 ha ripreso il via la Rassegna “DONATORI DI MEMORIE” organizzata dall’Associazione culturale RIACHUELO – PROLOCO SAN LORENZO, nella sede di Via dei LATINI 52 a Roma.
La manifestazione, che si protrarrà fino a martedì 3 dicembre, prevede la realizzazione di una serie di incontri e “feste” con personaggi che hanno attraversato il quartiere San Lorenzo in qualità di protagonisti o testimoni, lasciando un’impronta nella storia sociale e culturale di quest’angolo di Roma.
Storie importanti, alcune forse poco note, ma tutte finalizzate a una narrazione corale, genuina e senza infingimenti, di una zona sospesa tra arte, socialità e militanza.
Ciascun incontro, – video-registrato e conservato – si pone come un tassello necessario alla costruzione di un Archivio digitale capace di dar conto delle molteplici esperienze del quartiere.
Nell’evento dello scorso 23 ottobre,lafunzionaria archivista di Stato Caterina Arfè ha parlato dell’importanza della Archivistica e delle Fonti orali. È stato poi proiettato il documentario P-artigiano prodotto da Blue CinemaTV di Daniele Baldacci.
Il secondo incontro, tenutosi martedì 5 novembre, è stato dedicato a Biagio Propato, poeta on the road di San Lorenzo con proiezione del film Poeti di Nino D’angelo, proiettato al Festival del cinema di Venezia, del 2009. Testimoni sono stati studiosi, amici e parenti.
Protagonisti dell’incontro del 12 novembre saranno Giuseppe Sartorio, scultore del quartiere, detto “il Michelangelo dei morti”, misteriosamente scomparso nel 1922, e il villino da lui costruito su via Tiburtina. I donatori di memorie saranno, in questa occasione, l’erede saranno Margherita Mastropaolo e lo storico Andrea Amos Niccolini.
Il 19 novembre si terrà un incontro dal titolo A proposito del Pastificio Cerere, la Scuola di San Lorenzo. A raccontare sarà Roberto Gramiccia, medico, critico d’arte e amico, dai primi anni ’80, degli artisti del Palazzo e Alberto Dambruoso, storico dell’arte.
Il 26 novembre la ricercatrice Serena Donati ricorderà l’esperienza preziosa di Simonetta Tosi e la realizzazione nel 1976 a San Lorenzo del Consultorio autogestito.
Il 3 dicembre Mauro Papa sarà infine il testimone dell’esperienza politica del padre Urbano, autore della scritta “Eredità del fascismo, vergata su una delle pareti di un palazzo crollato sotto le bombe alleate del 1943.
La rassegna è realizzata con il contributo del Municipio Roma II – Assessorato alla Cultura
Il nuovo libro dell’acclamata scrittrice partenopea, che esplora l’incontro casuale in treno di Graziella e Francesco a prima vista appartenenti a mondi totalmente estranei, esce il 29 ottobre e sarà presentato con eventi a Napoli, Pesaro, Milano, Roma, Cassino.
Annella Prisco torna in libreria con la storia di un incontro ad alta velocità dall’intreccio inaspettato e avvincente. Si intitola “Noi, il segreto” ed è in libreria a partire dal 29 ottobre 2024, a quattro anni esatti dall’uscita del suo ultimo fortunatissimo romanzo, “Specchio a tre ante”, che è stato anche oggetto di traduzione.
È la storia intensa ed emozionante di Graziella, insegnante originaria di Atrani, il più piccolo dei borghi della Costiera amalfitana, raccontata con il solito stile scorrevole e delicato di Annella Prisco, che rivela man mano uno scenario stupefacente e ricco di colpi di scena, di introspezione e di profonde riflessioni.
Sposata con Gerardo, Graziella è una donna passionale e dinamica che decide di accettare l’incarico di docente in un Istituto scolastico lombardo, nonostante sia costretta a lasciare il paese natìo, in provincia di Salerno, per trasferirsi a Milano. Spesso nasconde un velo di solitudine e inquietudine, causato dai dubbi e dalle incertezze in cui è immersa da quando ha iniziato un nuovo lavoro e una nuova vita in un’altra regione.
«Il contesto – spiega l’Autrice – è quello della problematicità dell’esistenza, che attraversa una serie di eventi: dall’uomo misterioso che incontra sul treno all’amore per il marito, dalla tensione per la malattia del padre all’amicizia profonda con la collega Marta, dal legame con l’ucraina Tanya al racconto dell’orrore della guerra. Con lo sfondo di un’Italia che da Nord a Sud manifesta tutte le sue bellezze, tradizioni e tipicità».
Lo spessore dei personaggi, ben delineati nei loro tratti distintivi, si staglia persino sullo sfondo del monastero più famoso d’Italia, ricostruito dopo la distruzione a seguito dei bombardamenti alleati, l’Abbazia di Montecassino, preso in considerazione dall’Autrice come cornice della narrazione.
La conclusione della vicenda, che ha il ritmo incalzante delle tensioni emotive, sarà sorprendente.
Tanti gli eventi e le iniziative in programma per l’uscita del libro: il primo appuntamento è a Napoli, città natale dell’autrice, sabato 16 novembre alle ore 11 nel foyer del Teatro Diana. Gli altri incontri sono previsti a Torre Annunziata (Libreria Libertà, 29 novembre), Napoli (O’Book, 11 dicembre), Pesaro (Alexander Museum Palace Hotel, 13 dicembre), Milano (20 febbraio 2025), Roma (Libreria Minerva, 14 marzo 2025), Cassino, Salerno, Atrani e poi numerose altre tappe in calendario.
Pubblicato da Guida Editori, con acquerello in copertina di Vincenzo Stinga, il libro è distribuito da Messaggerie Italiane ed è acquistabile in tutte le librerie anche online e dal sito www.guidaeditori.it
Annella Prisco è scrittrice, critico letterario, manager culturale ed esperta in comunicazione e relazioni pubbliche. È componente di varie giurie di Premi letterari e collabora con diverse testate giornalistiche. Nel 2022 le è stato conferito il Premio Donne che ce l’hanno fatta, e nel 2024 il Premio alla carriera L’Iguana – Anna Maria Ortese. All’esordio come autrice nel 1998 con il romanzo Ricordi senza memoria, a quattro mani con Monica Avanzini, hanno fatto seguito Chiaroscuri d’inverno (2005), Trenincorsa (2008), Appuntamento in rosso (2012) e Girasoli al vento (2018), che hanno ricevuto riconoscimenti anche a livello internazionale.
Nel 2020 è uscito il romanzo Specchio a tre ante, che pure ha ricevuto svariate onorificenze. Nel 2023 il romanzo è stato tradotto da Elisabetta Bagli in spagnolo e pubblicato da Papel Y Lapiz con il titolo El espejo de Ada, ricevendo il premio Il Canto di Dafne – Libro internazionale dell’anno, il premio della Giuria Città di Cattolica e il primo premio Libro in lingua straniera “La Via dei Libri” in seno al Bancarella a Pontremoli.
Negli ultimi anni, l’Unione Europea ha intensificato gli sforzi per ridurre l’esposizione della popolazione al fumo passivo, con l’obiettivo dichiarato di creare una “generazione libera dal tabacco” entro il 2040.
Questo impegno si riflette nelle recenti proposte di revisione delle raccomandazioni sugli ambienti senza fumo e senza aerosol, un’iniziativa che mira a proteggere maggiormente la salute pubblica attraverso misure più stringenti che includono anche i prodotti emergenti, come le sigarette elettroniche e i dispositivi a tabacco riscaldato.
L’Europa ha sempre adottato un approccio progressivo e rigoroso nella regolamentazione dei prodotti del tabacco.
Le raccomandazioni del Consiglio e le normative di riferimento mirano a limitare l’esposizione al fumo passivo, proteggendo in particolar modo le categorie vulnerabili, come bambini e anziani.
Le norme vigenti si basano sulla Convenzione Quadro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il Controllo del Tabacco, e hanno già portato a una significativa riduzione dei fumatori e dell’esposizione al fumo in ambienti chiusi. Tuttavia, i cambiamenti tecnologici e l’emergere di nuovi prodotti alternativi al fumo tradizionale hanno complicato ulteriormente il panorama.
L’ Italia ha tradizionalemente avuto una legislazione molto restrittiva rispetto ad altri Paesi. La Legge 3 del 16 gennaio 2003 (art. 51), “Tutela della salute dei non fumatori” che ha esteso il divieto di fumo a tutti i locali chiusi (compresi i luoghi di lavoro privati o non aperti al pubblico, gli esercizi commerciali e di ristorazione, i luoghi di svago, palestre, centri sportivi), con le sole eccezioni dei locali riservati ai fumatori e degli ambiti strettamente privati (abitazioni civili).
La norma non prevede un obbligo, ma concede la possibilità di creare locali per fumatori, le cui caratteristiche strutturali e i parametri di ventilazione sono stati definiti con ilDecreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 dicembre 2003, che prevede anche le misure di vigilanza e sanzionamento delle infrazioni.
Un ulteriore passo avanti è stato fatto con la pubblicazione in gazzetta del Decreto Lgs. n. 6 del 12 gennaio 2016, che recepisce la Direttiva 2014/40/UE sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, presentazione e vendita dei prodotti del tabacco e dei prodotti correlati, che abroga la direttiva 2001/37/CE.
E’ un fatto innegabile che mercato del tabacco si è evoluto rapidamente negli ultimi quindici anni, con un aumento significativo della diffusione delle sigarette elettroniche (E-Cig) e dei prodotti del tabacco riscaldato (Tobacco Heating Product THP)
Questi prodotti vengono spesso considerati dai fumatori come alternative meno dannose rispetto alle sigarette tradizionali, ed è ormai noto che molte persone stanno utilizzando questi dispositivi come un mezzo per ridurre o cessare del tutto il consumo di tabacco combusto.
Tuttavia, questa evoluzione del mercato pone nuove sfide regolamentari.
La Commissione Europea e il Consiglio dell’Unione Europea hanno quindi intrapreso iniziative normative per includere questi nuovi prodotti nei divieti già esistenti per il tabacco, estendendo le restrizioni anche agli spazi aperti.
La nuova proposta ed in votazione al Parlamento UE mira a includere non solo i prodotti del tabacco tradizionali, ma anche i nuovi prodotti come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato.
La Commissione sostiene che l’estensione dei divieti a questi prodotti è giustificata dalla necessità di proteggere ulteriormente la salute pubblica dall’esposizione ad aerosol di seconda mano, anche in spazi esterni come terrazze di bar, ristoranti, e aree pubbliche adiacenti a scuole e strutture sanitarie.
L’obiettivo generale di queste iniziative è duplice: ridurre ulteriormente il consumo di tabacco e disincentivare l’uso di prodotti contenenti nicotina, contribuendo alla cosiddetta “denormalizzazione” del fumo e del consumo di nicotina.
Sebbene questi obiettivi siano, di per sé, condivisibili, la mancanza di un approccio distintivo tra i diversi prodotti e la mancata conduzione di una valutazione d’impatto adeguata rappresentano aspetti che destano non poche perplessità in una all’incisività sulla libertà dei cittadini.
Perplessità espresse da Italia e Romania
Le perplessità espresse dai rappresentanti di Italia e dalla Romania nelle dichiarazioni congiunte in occasione della discussione della raccomandazione del Consiglio sono indicative delle difficoltà legate all’adozione di queste misure.
L’Italia e la Romania hanno sostenuto la necessità di preservare la salute pubblica e concordato sull’importanza di proteggere la popolazione dal fumo passivo, ma hanno anche evidenziato diverse problematiche procedurali e sostanziali riguardanti il processo di approvazione e il contenuto dell’Atto.
Nella loro dichiarazione, entrambi i Paesi hanno lamentato che “la procedura applicata per la discussione e l’approvazione da parte del Consiglio di questo Atto avrebbe necessitato di tempi e modalità migliori per lo svolgimento del dibattito tra gli Stati membri”.
Hanno espresso rammarico per il fatto che molti emendamenti significativi proposti dagli Stati membri non siano stati adeguatamente considerati, sottolineando che un atto di tale importanza avrebbe dovuto essere finalizzato attraverso un consenso più ampio tra le parti, tenendo conto delle priorità nazionali.
Inoltre, la mancanza di una valutazione d’impatto adeguata è stata fortemente criticata. Per i due Stati “l‘introduzione di misure ampie e generalizzate riferite alle aree esterne, non chiaramente identificate e associate a concetti come la presenza di traffico pedonale intenso, manca di fondamento giuridico e genera potenziale incertezza sul suo significato e sulla sua corretta attuazione”.
Lapidarie le conclusioni della dichiarazione :”Si ricorda infine che da questo Atto adottato dal Consiglio, per sua stessa natura e portata, non deriva alcun obbligo legale per gli Stati membri di definire adeguatamente la propria legislazione nazionale, tenendo conto delle competenze e delle specificità nazionali nell’attuazione, e non viene creato alcun precedente normativo per qualsiasi futura discussione in seno al Consiglio sulla politica europea del tabacco. Per questo motivo, l’Italia e la Romania mantengono la propria preoccupazione politica sull’adeguatezza di alcune raccomandazioni, come sopra rappresentato, così come ogni ulteriore valutazione, in quanto Stato membro, sulla corretta attuazione nazionale di questo Atto“
Tale posizione evidenzia la necessità di basare le politiche su solide evidenze scientifiche e su valutazioni che considerino gli effetti pratici delle restrizioni proposte.
La necessità di differenziare tra fumo tradizionale e alternative
Un aspetto cruciale che merita particolare attenzione è la necessità di differenziare chiaramente tra i prodotti da fumo tradizionali e le alternative meno dannose come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato.
Questo principio di differenziazione non è solo una questione di logica normativa, ma è supportato anche da un vasto corpus di letteratura scientifica che indica come le alternative meno dannose possano effettivamente aiutare i fumatori a cessare il consumo di tabacco combustibile, con potenziali benefici per la salute pubblica.
Non distinguere tra questi prodotti nelle politiche sugli ambienti senza fumo potrebbe inviare un messaggio sbagliato ai consumatori, portandoli a ritenere che il vaping o il tabacco riscaldato siano dannosi quanto il fumo di sigarette tradizionali.
Questo tipo di equiparazione rischia di minare i benefici potenziali per la salute offerti da questi prodotti e, di conseguenza, potrebbe portare alcuni consumatori a tornare al fumo di sigarette tradizionali, annullando anni di progressi nel campo della riduzione del danno.
Diritto dei consumatori a scelte informate
Un altro elemento fondamentale è il diritto dei consumatori a fare scelte informate sulla loro salute. Equiparare i prodotti tradizionali del tabacco a quelli “alternativi” riduce significativamente il ventaglio di opzioni disponibili per chi desidera smettere di fumare, sminuendo i vantaggi distinti che le alternative meno dannose offrono.
Le sigarette elettroniche e i dispositivi a tabacco riscaldato hanno dimostrato di poter rappresentare uno strumento utile per la cessazione del fumo, come riconosciuto nella Relazione BECA del Parlamento europeo.
Ignorare queste evidenze significa non solo ostacolare i fumatori che vogliono smettere, ma anche compromettere i risultati ottenuti fino a questo momento nella riduzione del danno.
Contrarietà ai divieti generalizzati anche negli spazi aperti
Un altro aspetto che solleva forti perplessità riguarda l’inclusione di divieti generalizzati che si estendono anche agli spazi aperti.
Interventi normativi che incidono sulla libertà delle persone al punto di impedire loro attività anche all’aperto rischiano di essere percepiti come eccessivamente intrusivi e non proporzionati rispetto agli obiettivi di salute pubblica.
Limitare la possibilità di utilizzare prodotti come le sigarette elettroniche o i dispositivi a tabacco riscaldato anche in aree all’aperto, senza una chiara base scientifica che giustifichi tali restrizioni, potrebbe generare un significativo malcontento e ridurre l’adesione alle norme, con effetti potenzialmente controproducenti.
Impatto delle regolazioni restrittive sul settore economico Horeca e turismo
Un regolamento restrittivo che impone divieti generalizzati e molto estesi, sia per gli spazi chiusi sia per quelli aperti, rischia di determinare impatti significativi sulle attività economiche e commerciali, in particolare nei settori Horeca (bar, ristoranti, caffetterie) e del turismo. Secondo i dati di un’indagine della Federazione Horeca europea, le restrizioni anti-fumo estese agli spazi aperti hanno provocato una riduzione del 15-20% del fatturato nei locali pubblici in alcune aree metropolitane.
Inoltre, nel settore del turismo, studi condotti dall’Associazione Europea del Turismo (ETOA) mostrano che politiche restrittive possono dissuadere una significativa quota di visitatori, soprattutto quelli provenienti da paesi con normative meno rigide sul fumo.
Questi effetti cumulati non solo minacciano la sopravvivenza di molte piccole e medie imprese, ma rischiano anche di compromettere la competitività economica delle città europee nel contesto internazionale.
Anomalie nel procedimento normativo
La revisione delle raccomandazioni del Consiglio ha sollevato anche delle perplessità procedurali. La Commissione Europea non ha condotto una valutazione d’impatto adeguata prima di proporre queste nuove misure.
Considerando i significativi cambiamenti che il mercato del tabacco ha subito negli ultimi anni, è imprescindibile che le nuove normative siano accompagnate da una valutazione scientifica approfondita dei rischi associati a ciascun prodotto e da un’analisi dell’impatto economico di tali misure.
Il fatto che queste valutazioni non siano state condotte è preoccupante e rischia di compromettere l’efficacia delle politiche proposte, introducendo incertezza per consumatori e imprese. Maggiori informazioni sulla procedura di valutazione d’impatto sono disponibili sul sito della Commissione Europea.
Inoltre, imporre divieti generalizzati senza una solida base scientifica potrebbe portare a conseguenze indesiderate, come un aumento della confusione tra i consumatori sui rischi relativi dei diversi prodotti.
Questo tipo di incertezza può indurre i consumatori a credere che l’uso dei prodotti alternativi sia altrettanto dannoso quanto il fumo tradizionale, spingendoli, in ultima analisi, a tornare alle sigarette.
In questo senso, un approccio basato sull’evidenza scientifica e su una valutazione approfondita degli impatti è essenziale per garantire che le politiche europee abbiano un effetto positivo sulla salute pubblica.
La revisione delle raccomandazioni sugli ambienti senza fumo rappresenta un passo importante nella direzione della tutela della salute pubblica e del benessere dei cittadini europei.
Tuttavia, è necessario un approccio più equilibrato che riconosca il ruolo delle alternative meno dannose, consentendo ai fumatori di scegliere opzioni più sicure per ridurre il consumo di tabacco combustibile.
È imperativo evitare provvedimenti normativi di natura liberticida che impongano divieti generalizzati e sproporzionati, compromettendo le libertà fondamentali dei cittadini e criminalizzando comportamenti che non pongono rischi significativi per la salute pubblica.
Senza una chiara differenziazione tra i prodotti e senza una valutazione adeguata dei rischi e degli impatti economici, il rischio è quello di vanificare anni di progressi nel campo della riduzione del danno.
Le politiche non devono limitare inutilmente le libertà personali, specialmente negli spazi aperti, dove i rischi di esposizione al fumo passivo sono notevolmente inferiori.
È essenziale che ogni misura regolatoria sia proporzionata, basata su prove scientifiche concrete e attenta a non incidere negativamente sulle libertà individuali dei cittadini europei.
Fin dalla notte dei tempi, l’umanità ha dovuto affrontare una continua battaglia per la sopravvivenza: trovare cibo, riparo, sicurezza in un mondo spesso ostile e imprevedibile è stata una sfida costante che ha plasmato il nostro DNA evolutivo. Ma questa lotta esterna, questa necessità di assicurarci le risorse necessarie per vivere, si è col tempo trasformata in una battaglia più intima e personale. Oggi, mentre le nostre condizioni di vita si sono notevolmente migliorate, la lotta per la sopravvivenza non è scomparsa, ma è diventata sempre più una sfida interiore. Siamo costantemente chiamati a superare gli ostacoli che il mondo ci pone davanti, ma la vera battaglia risiede in noi stessi, nella nostra capacità di affrontare le nostre paure, le nostre debolezze, i nostri demoni interiori. Questa lotta personale è forse la più ardua, ma è anche quella che ci plasma, che ci rende più forti e determina chi siamo veramente. Proprio come quella verso l’ambiente ha plasmato il nostro DNA.
Ognuno di noi, nel corso della propria vita, deve affrontare momenti di incertezza, di smarrimento, di profonda crisi interiore. Sono quelli i momenti in cui la lotta per la sopravvivenza è la lotta per la preservazione della nostra identità.
Che si tratti di problemi personali, professionali o di qualsiasi altra natura, la nostra esistenza è costellata di momenti difficili che mettono alla prova la nostra determinazione. È in questi frangenti che la lotta diventa essenziale, la capacità di non arrendersi di fronte alle avversità che la vita ci presenta.
“Non importa quanto sia dura la vita, c’è sempre qualcosa che puoi fare e in cui puoi riuscire” (Stephen Hawking).
È la nostra capacità di adattarci e di rialzarci dopo ogni caduta, a definire chi siamo e a definirci come individui.
La lotta è il viaggio che ci conduce alla scoperta di noi stessi, delle nostre passioni, dei nostri sogni, definirili per poi, seguendoli, diventare la versione migliore di noi stessi.
Immaginate lo stupore di quel gruppo di persone che qualche anno dopo la Seconda Guerra Mondiale hanno scoperto piste d’atterraggio non segnalate, intagliate tra il fitto della boscaglia della foresta malinesiana. Immaginate lo sconcerto nel vedere che le piste di atterraggio non erano state create per far atterrare aerei per il traffico di contrabbando nè di droga, ma avevano uno scopo più alto. A volte ci viene più facile pensare ad una cosa in modo che sia illegale, che sia criminale e criminoso, invece che pacifica e – in qualche modo – tenera. Le piste di atterraggio – sì, al plurale – erano state create tagliando gli alberi, ponendo torce ai lati della pista e finte torrette di controllo e aerei parcheggiati ai lati della pista. Tutto fatto in legno e bambù. Comprese le cuffie da operatore radio. Di legno e noce di cocco.
Gli indigeni che vivevano nel fitto della boscaglia, lontano dai grandi centri abitati e dalla civiltà così come ce la immaginiamo noi, lontani anche dalle brutture e dagli abomini che gli uomini civili stavano facendo ad altri uomini civili nel corso della Seconda Guerra Mondiale, avevano osservato l’arrivo di enormi aerei carichi di beni materiali sulle loro isole per mesi, per anni. Erano venuti in contatto con i “miracoli” della modernità, a loro prima inaccessibili, ricevendo con quelle spedizioni, tantissime razioni di cibo e vestiti confortevoli che non avevano mai visto prima. Tanto da pensare che fossero davvero dei Miracoli. Per quelle popolazioni i beni materiali provengono, giungono a terra per la benevolenza degli spiriti degli antenati. Quindi quelle razioni di cibo e quei vestiti non potevano essere altro che doni divini. Il “culto del cargo” nasce così: riti, danze utili ad attirare di nuovo quegli “Dei del cielo” con i loro preziosi carichi. Preparando ambienti che in qualche modo potessero risultare “familiari”. La ripetizione formale di strutture esteriori, sulle quali però non si ha che una superficiale cognizione della complessità che vi si cela dietro.
Un comportamento ingenuo, ridicolo…ma a quegli indigeni il comportamento risultava essere normale, logico, giusto, addirittura doveroso.
Fino a qualche giorno fa, di questa storia, non ne sapevo assolutamente nulla. Un collega mi ha parlato di questo Bias Cognitivo, del Bias Cognitivo – quindi riconosciuto dalla comunità scientifica – chiamato “Culto del Cargo”. Tutti gli esseri umani lo hanno, e anche noi, nella nostra “modernità” ci comportiamo in modo simile a quegli indigeni malinesiani.
Pensiamo ai bias cognitivi che influenzano le nostre scelte quotidiane:
Il mito della meritocrazia: credere che “basta lavorare sodo” per ottenere successo, ignorando i fattori strutturali, le disuguaglianze o la semplice fortuna. La fede nelle mode e nelle tendenze: come indossare scarpe di un marchio prestigioso o seguire diete miracolose, nella speranza di attirare il “cargo” del successo o della felicità. La dipendenza dai rituali professionali: pensiamo ai meeting o alle presentazioni con grafici complicati, non sempre necessari, ma ripetuti perché ritenuti simboli di efficienza. Non sono, forse, le nostre versioni delle piste di atterraggio di bambù?
Bias cognitivi: la trappola della mente razionale Le neuroscienze e la psicologia moderna ci spiegano che siamo predisposti a vedere schemi anche dove non ci sono. Questo fenomeno, noto come apofenia, ci porta a interpretare coincidenze come relazioni causali. Non è diverso da un villaggio melanesiano che collega l’apparizione degli aerei ai propri rituali.
Investire in criptovalute senza comprenderne i meccanismi, solo perché “tutti lo fanno”. Seguire guru motivazionali che promettono formule magiche per il successo, imitando atteggiamenti o posture ritenute “vincenti”. Il consumismo rituale: pensiamo al Black Friday, dove acquistare diventa un rito collettivo, quasi una celebrazione.
Un altro esempio emblematico è il rapporto con la tecnologia. Smartphone, intelligenza artificiale, blockchain: spesso li veneriamo senza comprenderne realmente il funzionamento. Cerchiamo “soluzioni magiche” ai nostri problemi, affidandoci ciecamente a qualcosa che percepiamo come superiore, quasi divino.
Le start-up tecnologiche hanno i loro rituali: hackathon, stand-up meetings, pitch perfetti per attirare gli “investitori-dei” che portano il “cargo” dei finanziamenti.
Il culto del cargo ci offre uno specchio: ciò che consideriamo superstizione negli altri spesso è solo un’interpretazione diversa della nostra stessa irrazionalità. Forse non costruiamo aerei di bambù, ma inseguiamo simboli e rituali, nel tentativo di controllare un mondo imprevedibile.
Il confine tra razionalità e irrazionalità è più labile di quanto vorremmo ammettere. Guardare con rispetto le credenze altrui significa riconoscere i nostri stessi limiti, accettando che, in fondo, siamo tutti umani. I “cargo” che cerchiamo sono diversi, ma la speranza che ci guida è la stessa.
Mi capita spesso di pensare ai libri che non ho letto, ai chilometri che non ho calpestato, alle luci che non ho acceso, alle case che non ho abitato, ai letti che non ho vissuto, ai gatti che non ho spiato, ai cuori che non ho nutrito, ai sogni in cui non ho creduto, ai muscoli che non ho scolpito, agli occhi che non ho incontrato.
Mi capita… di pensare a quel che non sono. E a ciò che avrei potuto essere.
L’identità. Questa sconosciuta, verrebbe da dire. Le sue innumerevoli forme e sfumature, le sue nascite, le sue evoluzioni, le sue morti e resurrezioni credo siano ben raccontate, espresse, sottese in questo numero, che si pregia di contributi pronti a scavare ogni superficie.
Grazie a Giorgio Gabrielli, Giovanna La Vecchia e Walter Iolandi per la straordinaria capacità di tenere acceso e lucido il motore di questa avventura editoriale.
Grazie, senza limiti di tempo e di spazio, a Giuseppe Cesaro, per le parole, i pensieri, i sentimenti che ci ha donato.
Questa coppia di concetti è inscindibile, a partire dalla coincidentia oppositorum eraclitea che vede l’unità e identità degli opposti. Per la psicoanalisi l’Io prende la forma dall’Es indistinto, nel suo processo di formazione attraverso il Super-Io, il censore, il moralizzatore che rappresenta l’altro generalizzato. Ma l’Io è essenzialmente memoria, un filo che collega le esperienze nel tempo, per cui fragile e mutevole. Oggi l’identità, in gran voga nella politica, è un termine molto abusato, che chiama in causa modo anacronistico l’”identitario”: la nazione, l’etnia, il suolo di nascita, la religione, il colore della pelle e così via. Anacronistico perché a tre secoli circa dalla Rivoluzione Francese, sembravano acquisiti gli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza che si accompagnavano ad un certo cosmopolitismo. Anche il filosofo Kant, di cui celebriamo quest’anno i 300 anni dalla sua nascita, da buon illuminista richiama nella sua opera “Per la pace perpetua” (1795), oltre che la forma repubblicana, un diritto internazionale basato su un federalismo di Stati la cui libertà è garantita dal non intervento di altri Stati esterni.
Arriviamo al nostro Mazzini, figura semi-dimenticata, oggetto di un recente revival della destra, che da sempre cerca di appropriarsene in malo modo, mistificando il suo messaggio patriottico in nazionalistico. Come ha ben spiegato Maurizio Viroli (Nazionalisti e Patrioti. Editori Laterza, 2019), filosofo e storico alla Princeton University, il primo si richiama valori repubblicani di tipo etico-politico difendendo i legittimi interessi dei cittadini ma elevandoli agli ideali del convivere libero e civile, l’altro si richiama a valori omogenei etnico-culturali legati a vincoli di sangue (si vedano le recenti diatribe tra Ius sanguinis, Ius solis e Ius culturae), a una visione contrapposta “noi-loro” che vuole generare sentimenti di distinzione e superiorità.
La società del rischio ha portato incertezze, paure, smarrimento, sentimenti su cui prosperano le destre in tutta Europa e nel mondo, portatrici di supposti messaggi securitari che passano attraverso la difesa dell’identità (non a caso abbiamo più volte ascoltato il refrain della “sostituzione etnica”). Le conseguenze sono autocrazie, chiusure degli stati in sé stessi, che tendono a negare diritti civili e conquiste che sembravano acquisite per sempre, nazionalismi e guerre fratricide (basti pensare agli attuali conflitti che si stanno allargando in modo incontrollato.)
Venendo alla società liquida, teorizzata da Baumann, che vede non solo le relazioni ma anche un Io sempre più liquido, esasperatosi con i social media, si è affermata in modo estensivo la messa in scena di sé. Possiamo definirci attraverso i profili con identità multiple, in grado di rappresentarci secondo quello che desidereremmo essere o, come vorremo essere visti dagli altri, il che acuisce quel processo di diffrazione dell’Io e di dissociazione esistenziale quale fenomeno già in atto da tempo con l’avvento della post-modernità. Emblematico in tal senso il Pirandello di Uno, nessuno e centomila con la cessazione da parte del personaggio principale dei contrasti tra l’Io ed il mondo e la “rinuncia” a quest’ultimo. Alla liberazione dell’Io moderno e a queste sue forme, riconducibili anche alla condizione umana, resta in tutta la sua problematicità la ricerca dell’Opera della street artist Laika, dal titolo “Italianità” autenticità e di un rinnovato rapporto con il mondo che non può non passare per la veridicità delle relazioni con l’Altro ma, soprattutto, attraverso il suo riconoscimento. È la relazione che cura le lacerazioni della contemporaneità e sviluppa in modo armonioso l’identità.
Contrariamente a quanto, comunemente, pensiamo, i totalitarismi non nascono mai dalla follia sanguinaria di un leader. Nascono sempre dal servilismo del primo lacchè di quel leader. E non ha alcuna importanza stabilire cosa determini quella prima, irredimibile, genuflessione: codardia, paura, credulità, stupidità, interesse personale o desiderio di rivalsa/vendetta nei confronti del resto del mondo.
Solo una cosa importa: riflettere sul fatto che, senza lo zerbinarsi di quel primo lacchè, nessun leader diventerebbe mai tale. E, di conseguenza, nessun autoritarismo nascerebbe mai.
Scusate se è poco. Leader, infatti, significa “guida”, “comandante”, “capo”. È del tutto evidente, quindi, che, senza nessuno da guidare, nessuno da comandare, nessuno a capo del quale mettersi, non può esistere alcun “leader”. E, dunque, nessuna leadership.
Per usare una terminologia social: senza un primo “follower” non può esistere alcun “influencer”. Game over.
Anche se nessuno ci pensa mai, è proprio questo il punto nodale della questione: così come non può esserci un pastore senza pecore o un esercito senza soldati, non può esserci nemmeno un regime senza lacchè. Anche perché, per quanto violento e ben armato possa essere, quanti uomini è in grado di eliminare un uomo solo, prima di essere sopraffatto dalla reazione della moltitudine che gli si oppone?
Per dirla con parole assai più illuminate delle mie (Étienne de La Boétie: “Discorso sulla servitù volontaria”, 1576), il tiranno non ha altra forza che quella che gli uomini gli danno e «ha il potere di danneggiarli unicamente in quanto essi vogliono sopportarlo, che non potrebbe far loro alcun male, se essi non preferissero subirlo, invece di contrastarlo». «Son dunque gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smetter di servire, sarebbero liberi». «È il popolo – dunque – che acconsente al suo male o addirittura lo provoca». Il che dimostra che «la libertà non viene affatto desiderata, per la buona ragione che, se gli uomini la desiderassero, l’otterrebbero».
Aveva ragione il Grande inquisitore dostoevskijano: «Non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura».
Da tutto questo consegue che: se, nell’istante nel quale, nelle folli menti di Mussolini, Hitler, Stalin, Pinochet, Videla o Pol Pot (solo per citare i primi nomi che mi sono venuti in mente) prendeva forma l’idea di trascinare il mondo nell’abisso, accanto a quei sei personaggi in cerca di orrore, ci fosse stato qualcuno in grado di assestare loro un vigoroso e, ovviamente, risolutivo “calcio nel culo” (metaforicamente parlando, s’intende), nessuno dei suddetti signori sarebbe mai riuscito a realizzare il suo folle progetto criminale e il mondo si sarebbe risparmiato decenni di persecuzioni, massacri, torture, lutti e orrori indicibili. Del resto, qualunque incendio – persino il più devastante che possa deturpare il volto del nostro infelice pianeta – nasce sempre da una prima, minuscola, scintilla.
Per spegnere quella prima scintilla, può essere sufficiente persino un semplice sputo. Per domare un “incendio” delle proporzioni – ad esempio – di una Seconda Guerra Mondiale ci sono voluti, invece, sei interminabili, drammatici anni, e tra i 70 e gli 85 milioni di morti, in gran parte civili (50-55 milioni).
Permettetemi, allora, una domanda: secondo voi, uno sputo e un vigoroso e risolutivo “calcio nel culo” valgono o no sei anni di guerra mondiale e decine di milioni di morti? Supponiamo che avesse davvero ragione Raskol’nikov (il giovane omicida protagonista di “Delitto e castigo”) e che, in virtù della loro superiorità, alcune persone abbiano il dovere di oltrepassare la legge morale (Raskol’nikov parla, esplicitamente, di “diritto al delitto”), per realizzare la «distruzione del presente in nome del meglio», non credete che – esattamente per quella stessa ragione – chiunque di noi si trovasse accanto a una mente folle, nell’istante nel quale al suo interno scoppia la scintilla dell’orrore, avrebbe il dovere, di soffocare, sul nascere, quella scintilla e fare di tutto per mettere quel folle in condizione di non nuocere?
Perché è così importante capire che, quella del primo lacchè, è la responsabilità più grande di tutte? Perché è così importante sottolineare che è il lacchè, e non il folle, il vero responsabile dello scoppiare di quegli incendi che, per anni – decenni, a volte – mandano in fumo milioni e milioni di chilometri quadrati di libertà, diritti, pace e democrazia? Perché la tentazione di farsi zerbino può cogliere chiunque di noi, in qualunque momento.
Nessun essere umano ne è immune. E nessuno di noi può avere la certezza assoluta di non cedere alla paura o alle lusinghe del potere. Vere o false che siano.
Aveva ragione da vendere, allora, Ettore Petrolini – “insuperabile interprete della beffarda anima romanesca” [Treccani] – quando, a teatro, si rivolse a un signore che, fischiando, aveva interrotto la sua recitazione: “Io non ce l’ho con te – disse – ma con quelli che ti stanno vicino e non ti hanno ancora buttato di sotto!”.
Riflettiamo, dunque, sul fatto che, se ciascuno di noi si rifiuterà di genuflettersi per primo, nessuno si genufletterà. E, se nessuno, si genufletterà, il generale Follia si ritroverà senza esercito e l’unica cosa che riuscirà a mettere a ferro e fuoco sarà il suo putrido, livoroso e velenoso fegato.
IN USCITA IL 7 NOVEMBRE IL FILM “IL RAGAZZO DAI PANTALONI ROSA” tratto dal libro di Teresa Manes. La vera storia di Andrea Spezzacatena “ucciso dal silenzio” il 20 novembre 2012.
Fu il primo caso in Italia di cyberbullismo che portò al suicidio un ragazzo minorenne. Andrea Spezzacatena aveva appena 15 anni. “La verità resta che il suicidio di un adolescente sottolinea il fallimento dii una società”. Sono queste le parole di una madre Teresa Manes, che ha perso suo figlio. Andrea si è impiccato il 20 novembre del 2012 nella sua casa di Roma. Andrea oltre il pantalone rosa è il libro pubblicato dalla madre, il racconto doloroso, straziante, la ricostruzione di quegli attimi, la difesa di chi non poteva difendersi, il tentativo di comprendere e di aiutarsi, la speranza che questo possa non accadere mai più. Da quel momento Teresa promuove dinamicamente, anche attraverso canali mediatici nazionali, campagne di prevenzione e contrasto del fenomeno del bullismo e del disagio giovanile. Il 27 dicembre 2021 per questo suo impegno profuso a favore dei giovani, è stata insignita dell’onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana.
“Aveva 15 anni e 6 giorni quando si è impiccato – scrive Teresa Manes “Quando un figlio si suicida vieni ingoiato da una valanga di sensi di colpa. Sono andata da una psicologa per circa un anno, con tre sedute di 150 minuti cadauna a settimana. Ho fatto un lavoro di introspezione cosi profondo da levarmi l’anima per vedere di cosa era fatta. Non avevo ascoltato la sua sofferenza. Non avevo visto la sua solitudine.“….imperfetta, indubbia come donna mi piacevo come mamma… Poi scoprii l’esistenza di una pagina facebook dove veniva etichettato come “il ragazzo dai pantaloni rosa” che aprì lo scenario del bullismo. Anzi de cyberbullismo. Solo che i like su quella pagina erano solo 27, troppo pochi per essere considerati come influenti e determinanti per una scelta tanto estrema. Non si è tenuto conto però che quel numero poteva essere rappresentativo di un gruppo classe, ad esempio. “Se ti metti lo smalto non puoi non aspettarti la presa in giro” disse davanti al giudice del tribunale ordinario, un avvocato difensore di uno degli insegnanti indagati (mio figlio si laccava le unghie nell’ultimo mese di vita). Mi venne in mente il caso della donna a cui venne negato di essere riconosciuta vittima di stupro perché indossava un jeans attillato quando fu aggredita”.
Al liceo Cavour di Roma lo chiamavano “il ragazzo dai pantaloni rosa” perché Teresa, la mamma, aveva erroneamente scolorito con la candeggina un paio di pantaloni rossi, che Andrea aveva comunque scelto di continuare a mettere nonostante fossero diventati rosa. I suoi compagni di scuola lo chiamavano anche in tanti altri modi, con crudeltà e ferocia, non credo affatto inconsapevoli di tutto ciò che stavano causando. Umiliato in rete costantemente fino al giorno del tragico evento. Dopo il suicidio la magistratura, a seguito di due anni di ricerche, indagini ed interrogatori, negò si trattasse di un caso di bullismo e omofobia. Indirizzarono la loro attenzione sulla separazione dei genitori o un amore non corrisposto o su altro.
Dal libro di Teresa Manes è nato il film “Il ragazzo dai pantaloni rosa” (Eagle pictures e Weekend films, regia di Margherita Ferri, soggetto e sceneggiatura di Roberto Proia) che sarà nelle sale dal 7 novembre, il trailer del film a luglio ha avuto in 5 minuti oltre un milione di visualizzazioni, “segno evidente che di un film così se ne sentiva il bisogno. Servirà a far aprire gli occhi, spero anche i cuori”, scrive Teresa sulla sua pagina Facebook. Nel cast Claudia Pandolfi, Samuele Carrino, Andrea Arru, Sara Ciocca, Corrado Fortuna. Presentato al Giffoni Film Festival 2024 il film ha suscitato fortissime emozioni già dalle prime immagini accompagnate dalla canzone “Canta ancora” di Arisa. “E’ stato complesso trasformare questa storia in un film” racconta Roberto Proia “ho sentito forte la responsabilità che tutto questo comportava. Volevamo essere fedeli alla storia e non giudicanti, non raccontare i buoni ed i cattivi. Volevamo riuscire a comunicare con tutti, non solo ai bulli. Far capire che le parole possono suscitare reazioni diverse a seconda di chi le accoglie. Per entrare nel mondo di Andrea era necessario che Teresa ci aprisse il suo cuore. E’ stato un viaggio complesso, a tappe, abbiamo riso e pianto, e siamo entrati nella mente di Andrea”. “Non esiste solo il bullo manifesto che attacca in modo esplicito e visibile” spiega l’attrice Claudia Pandolfi che nel film interpreta la madre di Andrea “quanti di noi sarebbero in grado di difendere chi viene attaccato? Quando si crea il clima cameratesco nel male è distruttivo, immagino che Andrea si sia sentito solo al mondo per questo, tanti aderivano a questa violenza senza attaccarlo direttamente”. Il ragazzo dai pantaloni rosa è un film che racconta una storia che ha il diritto di non essere dimenticata. “Neanche una settimana dopo i funerali di Andrea mi fu recapitata a casa una lettera di una professoressa con cui in buona sostanza ci manifestò cordoglio e vicinanza per la tragedia che ci aveva colpito duramente”, racconta Teresa Manes. “In quella lettera ricordava il sorriso di mio figlio dietro cui era stato bravo a mascherare un male di vivere giovanile, che si annida nelle ragioni più disparate e che nessuno, men che meno io, aveva saputo cogliere. Nella sua chiosa, quella professoressa, mi esortava a confinare la nostra triste storia nel silenzio, in segno di rispetto verso quel dolore che aveva spinto ad una scelta. Incredula davanti a quell’invito, ripiegai il foglio e preparai una valigia. Fu così che iniziò il mio viaggio verso le scuole….consapevole del fatto che, se avessi chiuso la mia bocca, mio figlio sarebbe morto due volte”.
Andrea Spezzacatena è stato ucciso dal silenzio di persone che avrebbero dovuto comprenderlo, sostenerlo, aiutarlo e “riconoscerlo”, perché l’altra causa della morte di Andrea è stata la determinazione, la forza, il coraggio di non voler essere come i suoi aguzzini, come i suoi assassini, come i suoi coetanei. Voler affermare, a costo della vita, la sua identità, di ragazzo sensibile, profondo, dolce, buono e generoso, sì, è vero Andrea era “diverso” ma non nel senso in cui veniva raffigurato nelle chat, nelle discussioni, negli insulti, nelle umiliazioni e delle aggressioni, Andrea era “diverso” nel senso di “migliore” ed è stata propria questa sua impressionante forza ed affermazione a portarlo al suicidio. Non lo accetti un universo così sfatto, non ne vuoi far parte, non ti vuoi rendere complice di azioni e comportamenti che se oggi riguardano te domani riguarderanno qualcun altro, non cedi a compromessi, non ci credi più e non ti fidi più e soprattutto non ne puoi più di vivere e rivivere ogni giorno la stessa dinamica crudele, malvagia, persecutoria, ossessiva. Andrea ha smosso tante coscienze, Andrea continuerà a lottare, perché morire non sempre significa smettere di vivere ed Andrea è testimone di questo immenso e straordinario stato d’animo.
Leggete il libro e guardate il film. Comprenderete che la portata di un dolore e la quantità di lacrime che ti portano quasi a perdere un occhio per una infezione, possono suscitare sentimenti di comprensione e di aiuto verso il prossimo, e che ci può essere un altro tipo di risposta al male ricevuto ed è IL BENE. Teresa Manes è una madre che sta lavorando da dodici anni affinchè questo fenomeno disumano e purtroppo sempre più vasto, il bullismo ed il cyberbullismo, venga alla luce nella sua reale portata e porti consapevolezza in ognuno di noi, affinchè nessuno possa mai più tacere o sminuire o tentare di alleggerire un dramma che ha strappato via a tante famiglie il bene più prezioso: un figlio.
Il web scraping è la fonte di informazioni delle principali applicazioni di IA. Queste tecnologie, sebbene offrano vantaggi significativi, sollevano anche importanti questioni riguardanti la privacy.
Cos’è il Webscraping?
Il web scraping è in estrema sintesi una tecnica utilizzata per estrarre grandi quantità di dati dal web.
Questo processo automatizzato è ampiamente impiegato per vari scopi, come l’analisi del mercato, la ricerca accademica, il monitoraggio dei prezzi e molto altro.
In un mondo sempre più guidato dai dati, la loro raccolta massiva è diventata uno strumento essenziale per molte aziende.
Non sono solo le Big Tech ad utilizzare questa tecnica per ottenere vantaggi competitivi, come la raccolta di informazioni sui prodotti dei concorrenti o l’analisi dei trend di mercato desunte dai miliardi di utenti dei diversi social media più o meno segmentati.
Con l’espansione del commercio elettronico e l’aumento della disponibilità di dati online, le attività di web scraping sono aumentate.
Diverse analisi di settore indicano che una percentuale considerevole di traffico web, in alcuni casi fino al 25-40%, può essere attribuita a bot di scraping.
Nell’e-commerce o nella vendita al dettaglio questi tools consentono di recuperare informazioni sui prezzi dai siti web dei concorrenti e ritagliare offerte mirate su determinati target di clientela.
La pesca indiscriminata dei dati è ampiamente diffusa anche nel settore finanziario e degli investimenti raccogliendo nel web rendiconti finanziari, prezzi delle azioni e i più svariati indicatori economici che permettono di elaborare strategie di investimento mirate. Utilizzo analogo nel settore immobiliare per individuare tendenze di mercato e dati sui prezzi, mentre nel mercato dei viaggi e turismo il web scraping consente di monitorare le disponibilità e i prezzi analizzando i feedback dei clienti. Con l’espansione del commercio elettronico e l’aumento della disponibilità di dati online, le attività di strascico dati nel web sono aumentate. Diverse analisi di settore indicano che una percentuale considerevole di traffico web, in alcuni casi fino al 25-40%, può essere attribuita a bot di scraping.
L’educazione della IA e la Privacy
Le principali applicazioni IA soprattutto quelle basate sul deep learning come chatbot e assistenti virtuali, ma anche in campi delicati come quello medico per la diagnosi precoce, apprendono ed evolvono tramite algoritmi che elaborano vasti set di dati. Alcuni esempi:
Dati Comportamentali: Informazioni su come gli individui interagiscono con siti web, app, e dispositivi. Questo può includere dati di navigazione, preferenze di acquisto, e modelli di utilizzo.
Dati Demografici: Età, genere, nazionalità, e altre informazioni demografiche possono essere usate per personalizzare e migliorare i servizi.
Dati di Localizzazione: Posizione GPS, indirizzi IP, e altri dati di localizzazione che aiutano a comprendere le abitudini di mobilità e geografiche degli utenti.
Dati di Interazione Sociale: Post sui social media, like, commenti, e altre forme di interazione sociale.
Dati Biometrici: Impronte digitali, riconoscimento del volto, e altri dati biometrici usati per sistemi di sicurezza e identificazione personale.
Questi contenuti oggetto del data mining possono includere informazioni personali sensibili, sollevando preoccupazioni sulla privacy degli individui che se ne vedono defraudati in rete senza nemmeno saperlo. L’uso di dati personali nell’apprendimento automatico della IA può anche portare a vere e proprie violazioni della privacy, se non adeguatamente gestito.
Il punto di vista dei Garanti UE: piùequilibrio tra innovazione e Privacy
La sfida dei prossimi anni sarà bilanciare le necessità “educative” e il potenziale dell’IA con il rispetto della riservatezza e dei diritti individuali dei cittadini. Il Garante per la protezione dei dati personali italiano è stato il primo ad approfondire questi nuovi scenari con un’indagine su Open AI e suo ChatGPT che ha fatto conoscere al grande pubblico le potenzialità dei nuovi software basati sull’ intelligenza artificiale. Nel provvedimento del 30 marzo 2023 veniva contestatala violazione del GDPR alla società statunitense preso atto che non esisteva alcun controllo all’accesso dell’ applicazione ai minori di 18 anni e: ”l’assenza di base giuridica che giustifichi la massiccia raccolta e archiviazione di dati personali per “addestrare” il chatbot”. Solo dopo una serie di interlocuzioni finalizzate a rendere il software conforme al GDPR l’11 Aprile 2023 ne veniva permessodal Garante l’utilizzo in Italia condizionato all’ adozione di misure di salvaguardia dei dati personali degli utenti.
A sua volta l’European Data Protection Board, l’organismo dei Garanti UE, si è inserito nella tematica decidendo di lanciare una task force specifica su ChatGPT. Il problema di fondo è semplice ed è stato ben sintetizzato dal Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati personali in un suo intervento:
“I dati personali di miliardi di persone, frammenti della loro identità personale e “titoli rappresentativi” di un diritto fondamentale come il diritto alla privacy vengono letteralmente pescati a strascico dalle grandi fabbriche dell’intelligenza artificiale globale per l’addestramento dei propri algoritmi e, dunque, trasformati in assets commerciali e tecnologici di pochi al fine consentire a questi ultimi di fare business. Il tutto avviene come se il web fosse un’immensa prateria nella quale tutto è di tutti e chiunque può pertanto impossessarsene e farlo proprio per qualsiasi finalità”
Per proteggere i dati personali dal web scraping illegale, è essenziale il ricorso generalizzato alla l’anonimizzazione e la pseudonimizzazione dei dati e l’implementazione di sistemi avanzati di autenticazione e autorizzazione. Il consenso informato gioca un ruolo cruciale, assicurando che gli individui siano pienamente consapevoli di come i loro dati vengano utilizzati e abbiano il controllo su di essi.
Il Ruolo della P.A. delle aziende e degli sviluppatori
Gli sviluppatori e le aziende hanno la responsabilità di garantire che le applicazioni IA siano sviluppate e utilizzate in modo responsabile secondo il criterio fondamentale della Privacy by design. Per far fronte al web scraping dilagante anche i siti web della Pubblica Amministrazione e dei privati devono adottare misure di sicurezza robuste ed efficaci in modo da non compromettere l’usabilità per gli utenti legittimi. Le migliori pratiche in termini di sicurezza dei dati, come la crittografia l’anonimizzazione e la pseudonimizzazione dei dati ma anche l’implementazione di sistemi avanzati di autenticazione e autorizzazione con audit di sicurezza, sono fondamentali per proteggere i dati raccolti da accessi non autorizzati e abusi nella raccolta.
Il webscraping e l’IA che impara da esso hanno il potere di trasformare radicalmente il nostro modo di interagire con il mondo digitale sicuramente in meglio.
Tuttavia, è imperativo che innovazione e rispetto della privacy procedano di pari passo, garantendo che i benefici della tecnologia non vadano a scapito del diritto alla privacy dei cittadini siano essi digitali o meno.
Non pensavo di vedere il seguito di Inside Out, ma in un pomeriggio piovoso mi sono trovato sul divano a guardarlo e ne sono rimasto piacevolmente spiazzato. Come nel primo film la narrazione è lasciata alle emozioni, i pupazzetti curiosi che hanno sembianze umane hanno slanci caratteristici di quello che rappresentano e così abbiamo Gioia che è sempre allegra e Tristezza che invece non lo è mai, Disgusto e Rabbia, Paura che tremante è sempre in un angolo.
Ma in questo secondo film, che è uscito a quasi 10 anni dal primo (ma quanto tempo è passato!) in questo viaggio attraverso il prisma delle emozioni, si esplora profondamente il concetto di identità proprio nel momento della transizione dall’infanzia all’adolescenza. E così ad un certo punto, una notte, mentre Riley (la ragazzina protagonista) dorme, irrompono altre emozioni e cambiano tutto.
L’identità e la sua crisi L’identità, come ben osservava Zygmunt Bauman nella sua “Intervista sull’identità”, è in continua evoluzione, specialmente nel contesto della “modernità liquida”, dove i confini del Sé si dissolvono e si ricostruiscono costantemente. Così come dice Bauman l’identità di Riley è messa a dura prova perché non ha più una identità, una immagine di sè unica “cristallizzata”, ma è fluidità, un processo in movimento, con una negoziazione tra le varie emozioni. Sono entrate anche Ansia, Invidia, Noia e Imbarazzo.
Se vogliamo possiamo “disturbare” anche Jacques Lacan, con la sua teoria della fase dello specchio, che ci ricorda che la percezione del Sé è mediata dallo sguardo dell’altro. Riley, come molti adolescenti, si trova di fronte a uno specchio simbolico: quello delle aspettative degli altri, della società e dei suoi pari. In questa fase della sua vita, le emozioni interne entrano in conflitto con l’immagine riflessa, portandola a un’esplorazione più complessa e dolorosa di ciò che significa essere se stessi.
La socialità e l’autodefinizione del Sé Se Lacan sottolinea il ruolo dello sguardo dell’altro, George Herbert Mead offre una prospettiva complementare, concentrandosi su come il Sé si sviluppa attraverso l’interazione sociale. In Inside Out 2, il ruolo della famiglia, degli amici e dei compagni di scuola diventa cruciale nella definizione dell’identità di Riley. Riley si trova a gestire le sue emozioni in relazione a queste nuove interazioni sociali, cercando di definire chi è nel mondo esterno, mentre tenta di mantenere una coerenza interna.
Perché un cartone animato su un tema così importante e “pesante”? Viene naturale chiederselo. E’ un prodotto per bambini, per ragazzi…e perché caricare di una valenza così importante un prodotto di intrattenimento? Per parte mia direi che questo sia uno dei pochi spazi rimasti in quel focolare che vedeva riunirsi i componenti di una famiglia in un percorso che sia inter-generazionale, con un linguaggio visivo e simbolico dell’animazione che si presta ad una doppia lettura: da una parte, i più piccoli possono divertirsi con i colori e le avventure delle emozioni, dall’altra, gli adulti possono riflettere sulle profonde implicazioni del Sé e dell’identità della nuova generazione.
L’importanza del dialogo intergenerazionale La bellezza di Inside Out 2, secondo me, è proprio in questo, nel suo approccio leggero e simpatico alla complessità dell’identità, rendendolo in qualche modo accessibile ma non banale.
Alla fine, Inside Out 2 è molto più di un semplice sequel: è un’opera che, attraverso la metafora delle emozioni, riesce a raccontare la storia di ognuno di noi. Utilizzando l’animazione come linguaggio universale, il film ci ricorda che il viaggio alla scoperta di chi siamo non finisce mai, e che ogni tappa di questo viaggio merita di essere esplorata con la stessa profondità emotiva e intellettuale con cui i grandi filosofi e pensatori hanno affrontato la questione dell’identità. E poi è l’occasione per non dimenticare completamente che siamo stati anche noi adolescenti e abbiamo dovuto affrontare lo stesso impatto delle “nuove emozioni”.