Niente è come sembra, niente è come appare, perché niente è reale, così recita una famosa canzone di Franco Battiato. Cosa sia la realtà è un problema, forse il più antico, su cui i filosofi, tra realisti e anti-realisti, si arrovellano da oltre 2.500 anni.
Sicuramente, dopo le rivoluzioni scientifiche del Seicento è prevalsa la visione scientista che ha portato ad una visione del mondo calcolante ed utilitaristica che vede l’uomo signore e padrone del mondo e la natura come un grande fondo da sfruttare.
Qua nessuno è antiscientista e si riconoscono i grandi benefici apportati dalla ricerca scientifica all’umanità. Il problema è che non possiamo vedere il mondo solo con questa lente, quella dello sguardo scientifico. L’essere si dice in molti modi, la realtà non è unitaria e non si può pretendere di spiegarla nel solo modo scientifico.
Mi è capitato recentemente di imbattermi su un testo che parla della “brocca” (La questione della brocca, a cura di Andrea Pinotti. Mimesis, Milano 2007) che contiene saggi di diversi filosofi su questo oggetto. E’ interessante vedere come un normale oggetto quotidiano, il cui uso diamo per scontato, possa in realtà avere una sua “verita’” al di là della correttezza offerta dalla scienza fisica di un contenitore di liquidi, un sua “cosalità” che, oltre a un senso estetico può richiamare il suo apparire come portatrice di un dono. A riguardo, Heidegger, con un pensiero poetante, ci parla addirittura della “quadratura” che nel dono da versare o offrire, unisce cielo e terra, mortali e divini.
Insomma, si possono guardare le cose in un altro modo e il mondo può essere visto con occhi diversi.
Questo ci porta direttamente al tema dell’apparenza che è la percezione sensibile di un fenomeno nella sua contrapposizione a una realtà e presunta verità. Ovviamente la nostra esperienza ci dice che c’è una realtà fuori di noi, di cui ovviamente siamo parte, ma autoevidente alla nostra coscienza, che è il mondo della vita quotidiana. Questo mondo, che ci è dato, secondo la tesi dei sociologi Berger e Luckmann, è costruito socialmente, frutto della cultura: la realtà come costruzione sociale.
Ovviamente con l’accelerazione della tecnica e l’avvento dei social network, questa costruzione sociale si è ulteriormente artificializzata e resa ancor più manipolabile, basandosi su processi di auto-socializzazione sempre più individualizzanti ed anomici, con una situazione che è sotto gli occhi di tutti.
Anche le relazioni sono diventate virtuali e apparenti. Proprio l’altro giorno una persona si lamentava del fatto che il suo vicino di casa non gli avesse dato l’”amicizia” su Facebook, come se il “mezzo” o, meglio l’apparenza, fosse più importante della relazione quotidiana di chi ti vive nella porta accanto. Il che è emblematico della situazione che stiamo vivendo: ormai l’apparenza vale più della sostanza. Anche in Politica, la rappresentazione ha sostituito la rappresentanza.
Siamo oltre il problema filosofico, siamo alla mistificazione e alla mercé di chi vuole governare il consenso e, di chi è sottomesso, affidandosi o facendosi assorbire da queste false sirene.
Per non parlare degli scenari che si aprono con l’Intelligenza Artificiale dove l’irrealtà rischia di diventare la realtà. Ci sarebbe così la chiusura del cerchio e la domanda sulla realtà diventa inutile.
Come per la brocca, c’è necessità di uno sguardo diverso, non dando per scontata la realtà che ci circonda ed avvolge.
Insomma, problematizzare la quotidianità e superare l’ovvio con fantasia e senso critico, esattamente quello che ci siamo posti con Condi-visioni, che non a caso richiama i due termini di “condivisione” e “visioni”, uno sguardo plurale e critico sulla realtà che vorrebbe dare un seppur piccolo contributo alla riflessione.Chiudo sempre con Battiato, augurandovi una buona estate, On a solitary beach, magari in compagnia di un brocca con una buona e fresca bevanda di acqua, limone e menta, dissentante e disintossicante dalle apparenze della vita quotidiana (probabilmente la reminescenza irriflessa a cui ho ceduto, di un vecchio slogan pubblicitario che recitava contro il logorio della vita moderna…).
Poniamo il caso che una mattina al risveglio, guardandovi allo specchio come tutte le altre mattine scopriste che il naso, quello che avete sempre pensato fosse perfettamente dritto, in realtà sia storto. E no, non è uno scherzo del vostro specchio. Questo potrebbe essere l’inizio di un’avventura surreale nel mondo delle apparenze, esattamente come accadde a Vitangelo Moscarda. Non che sia un cambiamento enorme come quello accaduto a Gregor Samsa di Kafka, che si risvegliò tramutato in scarafaggio, ma è una storia che vale la pena raccontare. Vitangelo, affettuosamente detto Gengè, è il protagonista di “Uno, nessuno e centomila” di Luigi Pirandello. Gengè vive una vita tranquilla finché un giorno sua moglie gli fa notare che il suo naso pende leggermente a destra. Questo piccolo commento innesca una crisi esistenziale. Gengè si rende conto che la percezione che ha di sé non corrisponde a quella degli altri. Se il suo naso, un elemento così evidente del suo volto, appare diverso agli occhi altrui, cos’altro potrebbe essere differente?
Bella domanda!
Gengè si rende conto di essere “uno” nella sua mente, “nessuno” perché la sua identità vera sfugge persino a lui, e “centomila” perché esiste in centomila modi diversi agli occhi di chi lo conosce. Ogni persona vede in lui una versione diversa, influenzata dalle proprie esperienze, pregiudizi e aspettative.
In effetti…quante volte vi siete trovati a comportarvi in modo diverso in base a chi avevate davanti? Con gli amici siamo spensierati e forse un po’ pazzi, al lavoro professionali e misurati, con la famiglia affettuosi e comprensivi. Questi “ruoli” che assumiamo sono come maschere che indossiamo per adattarci alle situazioni e alle aspettative altrui.
Nel mondo moderno, l’apparenza ha trovato poi un palcoscenico grandioso nei social media. Instagram, Facebook, o TikTok sono piattaforme dove condividiamo istanti perfettamente curati della nostra vita. Queste immagini e video, spesso filtrati e modificati, creano una versione idealizzata di noi stessi. È un po’ come se ciascuno di noi fosse il protagonista di una propria rappresentazione pirandelliana, in cui mostrare il lato migliore (o più divertente, o più drammatico).
Ma quanto ci avviciniamo alla nostra vera essenza quando siamo così presi nel costruire queste apparenze? Vitangelo Moscarda, nel suo viaggio di scoperta, cerca disperatamente di liberarsi dalle immagini che gli altri hanno di lui. Vuole trovare il “vero” Gengè, nascosto sotto strati di percezioni e aspettative. Un lavoro immane, ma forse può essere sufficiente essere consapevoli delle nostre “maschere” per cercare di capire chi siamo veramente, al di là di come gli altri ci vedono.
Con l’esplosione dei mass media, e ancor più con i social networks ci ritroviamo a riflettere sulla questione dell’apparenza, su come la comunicazione venga strumentalizzata, le immagini ci mostrino realtà patinate, edulcorate o crude, ma sempre rappresentazioni parziali dell’intero, che formano un pensiero, un concetto, che a sua volta forma quello che siamo e come percepiamo e come ci rapportiamo a ciò che ci circonda. Questioni molto attuali viene da pensare, beh ma erano attuali, in un certo senso, anche nel V secolo a.C. per un signore di nome Platone, che nel libro VII della “Repubblica” ci introduce al Mito della Caverna, una potente allegoria sulla condizione umana e la conoscenza, ma anche di come l’apparenza delle cose a volte possa allontanarci da questa.
Platone descrive alcuni prigionieri incatenati fin dalla nascita in una caverna, costretti a guardare solo le ombre degli oggetti che si trovano alle loro spalle, ombre proiettate da un fuoco sulla parete che hanno difronte. Gli schiavi conoscono le ombre come unica realtà, perché non hanno mai potuto vedere gli oggetti che le generano. Un giorno, uno dei prigionieri riesce a liberarsi, scopre la fonte delle ombre e scappa via dalla caverna. Inizialmente è accecato dalla luce, ma gradualmente si abitua e realizza che il mondo esterno è molto più complesso rispetto alle ombre e così cambia anche la sua percezione del reale. Torna nella caverna per liberare gli altri, ma viene deriso, osteggiato, e infine ucciso, poiché gli altri prigionieri non riescono a cogliere una realtà diversa da quella delle ombre, né sentono il dovere di affrontare le difficoltà descritte per vedere la realtà nella sua interezza. Le ombre sono la loro realtà.
Il mito illustra il percorso dall’ignoranza alla conoscenza e la difficoltà di accettare nuove verità. Platone usa questa allegoria per spiegare la teoria delle idee e la distinzione tra il mondo sensibile e il mondo delle forme intelligibili.
Egli, dunque, ritiene che le apparenze (doxa) siano ingannevoli e che mascherino la vera natura delle Idee. Secondo lui, ciò che vediamo nel mondo sensibile è solo un’ombra della realtà perfetta e immutabile delle Idee a cui dovremmo tendere. Ma ve lo immaginate il suo disappunto difronte alle fake news o alle manipolazioni delle immagini o delle notizie? Forse, se il suo pensiero si fosse mai spinto fino ai giorni nostri, questo pensiero ci avrebbe voluti un po’ meno schiavi e un po’ meno ancorati alle mere proiezioni. E invece, mio caro Platone, siamo ancora nella caverna, però la caverna ora è ben arredata, abbiamo tanti magnifici schermi in cui creiamo volutamente delle ombre, ombre in 4k, ombre con risoluzioni magnifiche e alle quali associamo hashtag. Potremmo dire che c’è poco da opporsi alla natura umana.
Concordiamo tutti che l’apparenza gioca un ruolo cruciale nella comunicazione, influenzando percezioni, giudizi e interazioni. Naturalmente sono diversi i filosofi e i teorici che si sono spesi per affrontare il tema dell’apparenza e del giudizio. Un grande fil rouge interpretato a seconda della sensibilità intellettuale di ognuno.
Immanuel Kant ci parla di Fenomeni e Noumeni, distinguendo tra il mondo fenomenico (ciò che appare ai nostri sensi) e il mondo noumenico (la realtà in sé, che non può essere conosciuta direttamente). Le nostre percezioni sono mediate dalle categorie della mente umana. Questo ci introduce molto bene il mito del Velo di Maya di Schopenhauer: la realtà che percepiamo è solo una rappresentazione, il velo nasconde ai nostri occhi la vera essenza del mondo, ovvero l’apparenza che ci inganna, mascherando la verità.
L’ esistenzialista Sartre enfatizza la libertà individuale e l’autenticità. L’apparenza può essere una scelta consapevole, ma può anche portare a una “cattiva fede” (mauvaise foi) quando gli individui si nascondono dietro ruoli sociali e maschere e, parlando di maschere non possiamo non nominare Erving Goffman e la sua Prospettiva Drammaturgica. Goffman, sociologo canadese, analizzò la vita sociale attraverso la metafora del teatro. Nella sua opera “La vita quotidiana come rappresentazione” (1959), descrive come gli individui mettano in scena ruoli per gestire le impressioni altrui. Goffman sottolinea che la comunicazione si svolge sempre in un contesto fisico, sociale e culturale specifico. La comprensione della comunicazione richiede di considerare sia il microcontesto (la specifica situazione di interazione) sia il macrocontesto (il contesto più ampio e pluridimensionale). Goffman distingue tra “ribalta” (dove è presente un pubblico) e “retroscena” (luogo privato senza pubblico). Con le tecnologie moderne, la comunicazione può essere asincrona e despazializzata. L’atteggiamento dei partecipanti (favorevole, ostile, neutrale) e l’aspetto fisico possono influenzare la comunicazione. La struttura status-ruoli della società influenza le relazioni comunicative. Ogni individuo proietta una definizione della situazione. La comunicazione intra- e interculturale è influenzata dalle diverse culture e contesti di background.
Goffman sostiene che l’identità è composta da più strati e si forma continuamente nelle interazioni con gli altri. Gli individui presentano se stessi attraverso tre modalità principali:
Facciata personale: equipaggiamento espressivo, come l’abbigliamento e i tratti stabili (sesso, età, etnia).
Simboli di status: emblemi dello status sociale o professionale.
Ambientazione: lo scenario in cui avviene la comunicazione.
L’identità può essere confermata, rifiutata o disconfermata dagli altri, e il consolidamento dell’identità personale richiede la presenza di una struttura di plausibilità o consenso. Ma come viene guidato il giudizio degli altri? La psicologia e le scienze sociali ce lo spigano attraverso i bias cognitivi.
L’effetto alone (Halo effect) è un bias cognitivo in cui una caratteristica positiva di una persona (ad esempio, l’aspetto fisico) influisce positivamente su altre percezioni, come l’intelligenza o la competenza. Questo effetto può portare a giudizi superficiali e inaccurati.
L’ Effetto Pigmalione, collegato all’effetto alone, si riferisce al fenomeno per cui le aspettative di una persona influenzano le sue performance. Ad esempio, se un insegnante crede che un alunno sia particolarmente intelligente, è più probabile che quest’ultimo performi meglio.
I bias cognitivi sono scorciatoie mentali che il cervello utilizza per prendere decisioni rapide, questo può portare a errori di giudizio e interpretazione. Alcuni dei principali bias includono:
– Conferma: Tendiamo a cercare informazioni che confermano le nostre preesistenti convinzioni.
– Disponibilità: Valutiamo la probabilità di eventi in base alla facilità con cui possiamo ricordare esempi di tali eventi.
– Ancoraggio: Ci affidiamo troppo alla prima informazione ricevuta (l’ancora) quando prendiamo decisioni.
Il giudizio sugli altri, basato sull’apparenza, è profondamente influenzato dai bias cognitivi e dalle modalità di presentazione del sé. Goffman e altri filosofi ci offrono strumenti per comprendere come le apparenze e i contesti sociali influenzino le nostre interazioni. Riconoscere l’influenza dei bias cognitivi può aiutarci a migliorare la nostra capacità di giudizio e a sviluppare una comprensione più profonda e autentica degli altri.
Ad ognuno la sua scelta: se restare fermi ad osservare le ombre, dando loro il senso del tutto o se esporre i nostri occhi al dolore accecante e necessario per mettere a fuoco le figure che generano quelle ombre.
Per affrontare il concetto dell’insolito, ecco un elenco di 10 film che hanno questo come tema centrale: il confine, a volte labile, tra realtà e sogno, tra realtà e immaginazione (o delirio).
“Donnie Darko” – Un film psicologico che mescola elementi di fantascienza e mistero, seguendo le vicende di un giovane problematico che entra in contatto con un coniglio gigante che lo informa della prossima “fine del mondo”.
“Mulholland Drive” – Una trama intricata e surreale che segue le vite intrecciate di diverse persone a Los Angeles. David Lynch esplora i temi di identità, di sogno e realtà nel “patinato” mondo di Hollywood
“Eyes Wide Shut” – Un dramma erotico diretto da Stanley Kubrick che segue un medico, interpretato da Tom Cruise, che si immerge in un mondo segreto e oscuro dopo aver scoperto i desideri sessuali della moglie.
“Being John Malkovich” – Una commedia surreale che segue un pupazzo burattino scoperto da un impiegato di ufficio che permette alle persone di entrare nella mente dell’attore John Malkovich per quindici minuti alla volta.
“Inception” – Un racconto di fantascienza diretto da Christopher Nolan che esplora il concetto delle intrusioni nei sogni umani per influenzare le decisioni delle persone nel mondo reale. Sottolineo la grande interpretazione fatta da Leonardo di Caprio.
“La Città Incantata” (Spirited Away) – Il genio del maestro Miyazaki ha realizzato questo viaggio onirico fatto da una giovane ragazza intrappolata in un mondo misterioso e magico abitato da spiriti e creature straordinarie.
“Il Sesto Senso” (The Sixth Sense) – Un thriller psicologico diretto da Shyamalan, che ci permette di seguire un bambino che afferma di poter vedere e comunicare con i morti, seguito da uno psicologo, interpretato magistralmente da Bruce Willis.
“Donnie Brasco” – Un film basato sulla vera storia di un agente dell’FBI infiltrato nella mafia. Di insolito (oltre al lavoro dell’infiltrato, ovviamente) c’è il legame che si sviluppa con uno dei criminali sui quali sta indagando.
“The Lobster” – Una commedia nera surreale che presenta una società in cui le persone single vengono trasformate in animali se non riescono a trovare un partner entro un certo periodo di tempo.
“Her” – Un film di fantascienza romantico che segue un uomo solitario che si innamora di un sistema operativo dotato di intelligenza artificiale, portando alla luce domande su amore, solitudine e connessione umana.
Ma voglio anche aggiungere, come undicesimo suggerimento, un film che ha più di 80 anni. “Vogliamo Vivere!” (il titolo originale è “To Be or Not to Be”…e guardando il film si capirà il non-sense del titolo italiano) è un’opera di Lubitsch, realizzato nel 1942. E il film è ambientato proprio in quell’anno. Cosa ci fa Hitler a Varsavia, proprio nella Polonia martoriata dalle truppe tedesche, durante l’occupazione nazista, così a passeggiare da solo per le strade della città?
Sebbene il titolo faccia pensare ad un film sulla resistenza polacca e l’inizio faccia pensare ad un film di guerra, si tratta di una commedia molto simpatica e godibile. Perché – e questo è il tema insolito – anche durante uno dei momenti più cupi della Seconda Guerra Mondiale, che è uno dei momenti bui della storia umana, si può realizzare un racconto, che mescola la satira con il dramma della guerra.
Sì, così con due “z”. Così Trilussa intitolò un sonetto con il quale raccontava l’elezione del 1912. Roma all’epoca era tutta un’altra cosa, era stata “invasa” dai Piemontesi. Erano lontani i bombardamenti e le atrocità della Prima Guerra Mondiale ma si sentivano ancora gli echi della Breccia di Porta Pia: il Papa era chiuso nelle mura del Vaticano e si viveva in una situazione dove il riconoscimento era unilaterale, quello che, “umanamente”, potremmo definire rancoroso. Non a caso utilizzo l’aggettivo “invasa” per Roma, perché anche per i romani più liberali e progressisti, la nuova Intellighenzia risultava essere quasi aliena, completamente “di importazione”. Per dare un riferimento, solo l’anno prima fu inaugurato il Monumento a Vittorio Emanuele II, quello che ora chiamiamo il Vittoriano o l’Altare della Patria, per commemorare i 50 anni dell’Unità d’Italia che era – appunto – un corpo estraneo nella normale struttura urbanistica romana. Per completezza, una seconda inaugurazione si ebbe poi nel 1935 a conclusione di altri lavori che avevano demolito un intero quartiere e messo in luce altri reperti storici per realizzare Viale dell’Impero (ora Viale dei Fori Imperiali).
Nel 1912, dicevo, si svolsero le elezioni politiche e questa è la poesia che Trilussa, con il suo tono tagliente e sarcastico, dedica a quel momento.
Pubblico il sonetto perché fra pochi giorni, l’8 e il 9 Giugno, si svolgeranno le elezioni europee.
L’Elezzione
Se nun pagava sprofumatamente te pensi che votava quarchiduno? Nu’ j’è tornato conto a fa’ er tribbuno, povero amico! Adesso se la sente! E spenni e spanni, nu’ lo sa nessuno li voti ch’ha comprato! Solamente quelli der Commitato Indipendente je so’ costati trenta lire l’uno! Fra pranzi, sbruffi e spese elettorali, c’è Pietro lo strozzino che cià in mano quarantamila lire de cambiali! Un’antra de ‘ste sbiosse, bona notte! La volontà der popolo sovrano je costa cara quanto una coccotte!
“GUARDA L’AMORE CHE FA” e’ il titolo del nuovo evento organizzato in memoria del cantautore romano Enrico Boccadoro, scomparso nel Novembre del 2017, che si terra’ il 9 Giugno alle ore 21.00 presso il Teatro degli Eroi di Roma.
L’incasso servirà per supportare, tramite un app che si chiama SM-APP , le condizioni di vita delle persone affette da Sclerosi Multipla. Il tutto in collaborazione con il Policlinico Umberto I di Roma.
Sul palco si alterneranno artisti del mondo della musica e dello spettacolo , diretti dal regista Pier Luigi Nicoletti.
Il coordinamento dell’evento sarà a cura di Paola Nicoletti, Loredana Caracausi e Fabio Forlano.
La conduzione della serata sarà invece affidata al comico/presentatore Stefano Masciarelli . Ecco di seguito gli ospiti della serata: Francesca Alotta, Nadia Natali, Maria Corso, Franco Fasano, Davide Mottola, Alex di Luca, Valentino Prato e Fabrizio Gaetani.
La fase dello specchio è un concetto centrale nella teoria psicoanalitica di Jacques Lacan, che offre una visione unica e provocatoria sull’origine e lo sviluppo dell’identità individuale. Secondo Lacan, la fase dello specchio è un momento cruciale nella formazione della coscienza e dell’immagine di sé, che si verifica nei primi mesi di vita di un bambino.
Durante questa fase, il bambino si trova di fronte a uno specchio e osserva la sua immagine riflessa. Lacan sostiene che in questo momento il bambino percepisce se stesso come un’unità coerente e completa, nonostante la sua mancanza di consapevolezza completa del proprio corpo e delle proprie capacità motorie. Questa percezione unitaria è creata attraverso l’identificazione con l’immagine riflessa, che diventa il punto di riferimento per la formazione dell’identità.
Tuttavia, Lacan sottolinea che questa immagine riflessa non corrisponde alla realtà oggett
iva del bambino, ma piuttosto rappresenta un’idealizzazione o una proiezione dell’io desiderato. In altre parole, il bambino non si identifica con la sua vera immagine corporea, ma con un’immagine idealizzata di sé stesso, conforme agli ideali culturali e sociali dominanti.
Ciò che rende la fase dello specchio così significativa è che Lacan la interpreta come il momento in cui l’individuo entra nell’ordine simbolico, abbandonando l’illusione di completezza e unità e affrontando la frammentazione e la mancanza che caratterizzano l’esperienza umana. Questo processo segna l’inizio della costruzione del sé come soggetto linguistico e sociale, poiché l’identificazione con l’immagine riflessa implica anche l’internalizzazione delle norme e dei valori della cultura circostante.
Tuttavia, la fase dello specchio non è solo un momento di integrazione e riconoscimento, ma anche di alienazione e perdita. Lacan suggerisce che l’immagine riflessa diventa un oggetto di desiderio e idealizzazione, alimentando un senso di inadeguatezza e insoddisfazione che permea la vita adulta. In questo senso, la fase dello specchio è anche il momento in cui l’individuo sperimenta la divisione tra il sé ideale e il sé reale, dando origine a tensioni e conflitti interni che influenzano il suo sviluppo psicologico e le sue relazioni interpersonali.
In conclusione, la fase dello specchio rappresenta un momento cruciale nella formazione dell’identità individuale, segnando il passaggio dall’unità illusoria alla consapevolezza della mancanza e della frammentazione che caratterizzano l’esperienza umana. Attraverso l’identificazione con l’immagine riflessa, l’individuo entra nell’ordine simbolico, iniziando il processo di costruzione del sé come soggetto linguistico e sociale. Tuttavia, questa identificazione porta anche con sé un senso di alienazione e insoddisfazione, poiché l’immagine riflessa diventa un oggetto di desiderio e idealizzazione, creando tensioni e conflitti interni che influenzano la vita adulta dell’individuo.
Tema davvero molto delicato quello del riconoscere e del riconoscersi. Tema delicato perché riguarda l’individuo e quello che ha intorno, riguarda la propria esperienza di vita e riguarda la sfera decisamente personale, quella idiosincrasia che è peculiare dell’individuo. Pensando a come descrivere questo viaggio personale, mi è venuto in mente che uno dei modi sarebbe potuto essere quello di dare uno sguardo a quelle varie “interpretazioni” che – per forza di cose – cerca di farsi “messaggio universale”, ossia il Cinema: come il Cinema ha trattato, negli anni, questo tema.
Ecco 10 film che potrebbero esprimere al meglio tutto quello che io, con le mie sole parole, non riuscirei mai ad esprimere. Più un bonus al quale sono particolarmente legato.
1) “The King’s Speech” (2010) – Si concentra sulla lotta di un re per superare il suo balbettio con l’aiuto di un terapeuta non convenzionale.
2) “Girl, Interrupted” (1999) – Basato su una storia vera, il film esplora la vita in un ospedale psichiatrico e le relazioni tra i pazienti.
3) “Little Miss Sunshine” (2006) – Una commedia che segue una famiglia disfunzionale in un viaggio verso un concorso di bellezza, affrontando le loro debolezze e rafforzando i legami familiari.
4) “American Beauty” (1999) – Affronta temi di identità, desideri repressi e crisi di mezza età attraverso i personaggi principali.
5) “Eternal Sunshine of the Spotless Mind” (2004) – Un film che esplora le complessità delle relazioni e la memoria emotiva.
6) “Good Will Hunting” (1997) – Racconta la storia di un giovane prodigio che affronta i suoi traumi emotivi con l’aiuto di un terapeuta.
7) “Silver Linings Playbook” (2012) – Segue le vite di due persone che cercano di affrontare i propri problemi mentali e le loro relazioni interpersonali.
8) “A Beautiful Mind” (2001) – Basato sulla vera storia di John Nash, un genio della matematica che combatte contro la schizofrenia.
9) “The Perks of Being a Wallflower” (2012) – Esplora le difficoltà dell’adolescenza e la ricerca di identità attraverso il protagonista Charlie.
10) “Inside Out” (2015) – Un film d’animazione che personifica le emozioni per esplorare il processo di crescita emotiva e l’accettazione di sé stessi.
Il bonus è il film di François Truffaut “I 400 colpi”: il racconto – poetico e diretto – del passaggio della fanciullezza all’età adulta di Antoine, un ragazzo di 12 anni. Mi piace pensare di chiudere questo articolo, con la stessa immagine che chiude il film, con lo sguardo fisso verso la camera, verso lo spettatore, con il rumore delle onde del mare che fanno da musica di sottofondo.
Non è così facile riconoscersi negli errori che facciamo. Non ci riconosciamo nei clamorosi abbagli che hanno cambiato il corso della nostra vita, né nei piccoli errori di valutazione che commettiamo tutti i giorni nostro malgrado. Poi se a far notare l’errore è un’altra persona, beh allora possiamo arrivare anche a negare il fatto stesso che sia un errore o possiamo essere più o meno accoglienti o accondiscendenti in base al grado di intimità che abbiamo con quella persona. Ma in generale quel “noi stessi” che erra, che sbaglia, che fallisce, che si trova in un percorso lontano dal proprio obiettivo, è una entità dalla quale ci si vuole distaccare, senza riconoscerla. Neghiamo la possibilità di fallire o, forse più propriamente, neghiamo che possiamo fallire.
Mi viene in mente il dipinto di Magritte dove un uomo si guarda allo specchio, ma non si può riconoscere nella figura specchiata perché è girato di spalle. Lo specchio non lo riflette, non lo riproduce (in effetti il titolo del quadro è “Non Riproducibile”)
La nostra società è attratta dal successo – che è obiettivamente l’opposto dal fallimento – ma stigmatizza il fallimento come un carattere perentorio, una valutazione sulla storia della persona che ha fallito.
Da qui certo non voglio dire che il fallimento sia una cosa da desiderare, ma una cosa da guardare in faccia, senza il terrore di provarlo.
In Informatica si è sviluppato un paradigma nuovo. Per l’Agile Development un’avventura imprenditoriale è quella che “riconosce il fallimento” e cerca di massimizzare la velocità di apprendimento data dal fallimento e di ridurne al minimo le conseguenze. Sì perché chi meglio del fallimento ci da la possibilità di apprendere come raggiungere l’obiettivo che cerchiamo? Il motto di questo metodo è “fail fast, fail often” – fallire presto, fallire spesso – perché si cerca di guardare in ogni percorso quelle caratteristiche che potrebbero far fallire il progetto e far “fallire” quel percorso, invece che l’intero progetto.
Mi piace ricordare che Enzo Ferrari nella fabbrica di Maranello aveva voluto una teca con tutti i pezzi che avevano fatto perdere una gara. Ogni pezzo rotto, ogni pistone crepato, ogni ammortizzatore spezzato, ogni radiatore bucato, ogni valvola divelta dalla potenza del motore, ogni turbo progettato male era lì, conservato con un cartellino con una data e una località, come fossero Coppe, medaglie, Trofei: una teca dove guardare in faccia l’errore e farsi ispirare da quello ogni volta.
Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento palle, ventisei volte i miei compagni di squadra mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato.
Ho fallito. Molte, molte volte.
Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto.
Michael Jordan
Il tema del riconoscimento è sicuramente uno dei più pregnanti dell’attualità geopolitica, portato prepotentemente alla ribalta dalle guerre russo-ucraina e israelo-palestinese a cui si è aggiunto più recentemente il conflitto “ibrido” con gli Houthi nel Mar Rosso che sta mettendo a rischio l’economia dell’occidente per le sue conseguenze commerciali.
Altri se ne profilano all’orizzonte, dove sembra sempre più prefigurarsi il già teorizzato “scontro tra civiltà” e, comunque, di chi vorrebbe un ordine mondiale diverso, a partire dal fronte dei paesi del BRICS che si sta progressivamente allargando, anche se ancora poco compatto ma con l’obiettivo chiaro di creare un ordine alternativo a quello occidentale.
Non è che tali contrasti, come tanti altri più o meno conosciuti non ci fossero in precedenza, ma si erano forse sopiti nell’indifferenza generale. In particolare, il conflitto più annoso tra Israele e Palestina, la madre di tutte le guerre, perché, mai come in questo caso, si tratta di un reciproco riconoscimento mai avvenuto, alla radice di gran parte dei mali del Medio Oriente e del terrorismo islamico, in cui si è sempre inserito il gioco dei gruppi religiosi, delle potenze regionali e dei grandi attori internazionali.
Eravamo abituati a leggere la “lotta per il riconoscimento”, tema hegeliano per eccellenza, in categorie come quella tra le classi sociali o, secondo il politologo e filosofo Axel Honneth teorico del riconoscimento, come l’ingiustizia di non riconoscere a una persona ciò che gli spetta portandolo all’esclusione sociale. Oggi assistiamo al bellum omnium contra omnes: terrapiattisti contro la scienza, complottisti contro “integrati”, no-vax contro pro-vax, scienziati contro sé stessi, politici in lotta tra di loro (adesso è diventata però una lotta perniciosa che coinvolge le Istituzioni) e, la cosa peggiore, lo scontro fratricida tra interi popoli e tra Paesi.
Quest’ultimo, si dirà, c’è sempre stato ma si pensava fosse ormai superato e mai di ritorno in queste forme novecentesche, con crudeltà che investono popolazioni inermi, con bombardamenti di ospedali, scuole, università e teatri alle porte della civilissima Europa che pensavamo di non dover mai più rivedere.
In questi giorni si sono celebrate la Giornata della Memoria e quella del Ricordo, a monito delle atrocità commesse nella Seconda guerra mondiale che, evidentemente non ci ricordano abbastanza che occorre l’impegno di tutti nel fermare queste disumanità. Il riferimento è in particolare all’Europa e al suo mancato ruolo come attiva costruttrice di pace. Dopo le macerie del 1945, si è dato forse per scontato un automatismo che avrebbe governato la pace e la democrazia e che non fosse invece necessario prodigarsi costantemente per la concordia tra i popoli e per il loro reciproco riconoscimento. È come se, tutti gli sforzi della grande politica internazionale in Occidente, si fossero concentrati sul pericolo comunista, come unico grande male del pianeta.
Nel 1992, dopo la caduta del muro di Berlino, Francis Fukuyama parlò di “fine della storia” che invece è tornata prepotentemente alla ribalta. Sotto la cappa del comunismo covavano infatti molti conflitti latenti, “neutralizzati” dall’URSS che aveva fatto da collante e “garante” del loro contenimento nonché da deterrente di molti altri anche al suo esterno, nel gioco delle sfere di influenza tra le potenze mondiali. In fin dei conti, occorre inoltre considerare che la storia è poi fatta dagli uomini, al di là di teorie su una supposta evoluzione dell’umanità.
Nel rapporto Censis 2023, sulla situazione sociale del nostro Paese, si parla di “sonnambulismo”, di un paese impaurito ma inerte e cieco di fronte ai presagi. Questa è però la situazione un po’ in tutta l’Europa, e forse, con i dovuti distinguo, in tutto il mondo occidentale. Quest’ultimo credeva di aver conquistato una posizione di benessere e rendita, senza fare i conti con il resto del pianeta e senza impegnarsi troppo come costruttrice di pace, che è cosa ben diversa dall’ “esportare” la democrazia.
La situazione chiama in causa le radici della democrazia stessa. Come affermava il filosofo e pedagogista John Dewey, quest’ultima deve poter trarre l’autorità dal suo interno, dalle fondamenta, dal suo demos, ecco perché è così importante l’Educazione, cosa di cui le nostre società sono manchevoli.
Dewey affermava che la bassa interazione sociale, la scarsità di relazioni nello spazio pubblico, diminuisce l’intelligenza collettiva. Ed è proprio quello che sta avvenendo, una società oscurantista che fa sempre meno uso della ragione, preda delle paure e delle fobie e, dunque, facile preda delle false credenze e delle manipolazioni, anche a causa del dominio sempre più invasivo dei social. Ormai anche la Politica ha adottato il modello “followers”. Questo è un altro dei problemi della nostra società che vede sempre di più la riduzione della dimensione pubblica e sociale a scapito di quella individuale e virtuale, dominata dagli algoritmi e caratterizzata dalle cosiddette “casse di risonanza”, le eco chambers, dove risuonano gli echi di tutti quelli che la pensano nello stesso modo o, peggio, abitate dai followers-sonnambuli.
In tutto questo, dobbiamo considerare il decadimento dell’Etica pubblica e il conseguente scadimento della politica, ormai priva di visione e appiattita sul contingente, sempre più ridotta a rappresentazione invece che a rappresentanza. Non a caso, per rimanere a questi giorni, anche Sanremo è la cassa di risonanza di importanti questioni politiche.
Occorre sottolineare come il riconoscimento, a livello individuale, sia un bisogno primario dell’essere umano. Lo stesso desiderio nasce dal bisogno di riconoscimento che caratterizza l’esistenza stessa e la progettualità della persona. C’è la necessità di riconoscimento anche degli stessi desideri e di andare oltre gli echi e le false sirene dei social, che mirano al singolo individuo trasformandolo in un follower di bisogni. Qualcosa che, unito all’uso dilagante e improprio dell’intelligenza artificiale, richiama all’ “automa”. Anche le società dovrebbero però coltivare questo desiderio sulla base di un Ethos che le renda “erotiche” nel senso più squisitamente filosofico del termine.
Ho conosciuto Giacinta De Simone, qualche anno fa, in uno dei primi Festival della Sociologia di Narni, adesso arrivato alla sua VIII edizione, dove ci siamo ancora ritrovati. Ci ha subito unito l’interesse per questa materia affascinante e complessa (che è stata anche il suo oggetto di insegnamento nelle scuole), per le sue mille sfaccettature ed implicazioni sociali e politiche ma anche per i suoi riflessi individuali.
Un microcosmo è sempre in rapporto con il macrocosmo che vi viene in qualche modo riflesso. E, forse partendo proprio da questa sua interiorità, che Giacinta De Simone ha sviluppato la sua passione per la poesia, prima ancora che per la sociologia.
Interno ed esterno, interiorità ed esteriorità, individuale e sociale, tutto si lega in questo suo sviluppo intellettuale. Sì, perché solo successivamente ho scoperto che dietro la sociologa, la docente di scienze umane e sociali, la counselor, c’era una poetessa. Scoperta stupefacente perché è raro trovare dei poeti, sarà che è rimasta scolpita nella mia mente l’orazione di Alberto Moravia, pronunciata nell’ormai lontano 5 novembre del 1975 alle esequie di Pasolini, dove affermava in modo accorato “…E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo…”.
Certo, non si vogliono fare qui paragoni inopportuni o impropri, ma è pur certo che ci sono valide poetesse e poeti seppur nascosti e rari da trovare e ciascuno di loro è un microcosmo che rappresenta un mondo intero affascinante ed insolito.
Per Giacinta De Simone la poesia è una carezza per l’anima e un sogno di vita da parte di una persona molto sensibile, che si rivolgerà poi al sociale, non solo come studio e professione ma anche come impegno e partecipazione. E’ anche una persona estremamente riservata e avvezza alla modestia ma ha partecipato a importanti concorsi nazionali di Poesia e ha pubblicato le sue poesie con diversi editori.
Di seguito, in tema con il riconoscimento dell’altro che abbiamo deciso per questo numero di Condi-Visioni, una delle sue ultime pubblicata da Aletti Editore nel dicembre 2023, recita così:
La mia dedica a te
Tu.
Divini occhi azzurri,
nei quali si legge e “tocca”
l’avvolgente consistenza
d’umanità e d’anima
del tuo infinito.
Ne ho scelte tre dalla sua raccolta personale Poesie Chiare, che sono molto rappresentative del leit-motiv di questo numero.
Poesia blu
Vorrei riversare su di te non solo poche onde ma tutto intero il mare del mio amore. Non un mare scuro che ti sommergesse senza più lasciarti vedere l’azzurro del tuo cielo. Un mare chiaro, leggero, trasparente… che miriadi di piccole gocce bianche, celesti, azzurrine ti danzassero libere intorno… Fra tutte, vorrei che tu ne lasciassi una posarsi sul tuo cuore e, amandola, ti accorgessi che essa è blu.
“Poesia blu” in AZ Arte Cultura 1995 Anno XX n.82.
In risposta a una tua fotografia
Nei tuoi occhi io mi vedo, nel tuo sorriso c’è il mio, io ci sono, nei tuoi silenzi che mi abbracciano io non mi perdo.
“In risposta a una tua fotografia” in Figli oggi e domani Notiziario CAF 1997 Anno VII n.13.
Il colore dei neri
Il loro colore i neri non ce l’hanno sulla pelle. Come tutti quelli che hanno sofferto ce l’hanno dentro, nell’anima. E’ il colore della fatica e del sudore nei campi di cotone, il colore della sofferenza e del dolore, della discriminazione e dell’apartheid, del razzismo e della schiavitù. E’ il colore intenso della loro musica quando i loro corpi si muovono danzando come solo loro sanno fare, quando suonano jazz, swing e rhythm and blues, quando cantano nei cori gospel. E’ il colore del discorso di Martin Luther King quando legge “I have a dream”, delle troppe volte in cui qualcuno con disprezzo li ha chiamati “negri” e ha negato loro i diritti umani. E’ un colore nero che brilla di luce, d’anima e di libertà. E’ il colore dell’umanità alla quale tutti da sempre apparteniamo: la nostra intera umanità, l’unica umanità.
“Il colore dei neri” Newsletter Associazione Nazionale Sociologi (ANS) n. 4/2020
Nota biografica: Giacinta De Simone, nata a Gallipoli (Lecce) il 18 aprile 1955. Laurea in Sociologia, Diploma in Counseling, già Docente di Scienze umane e sociali, Counselor.
Le poesie e le foto sono state gentilmente concesse dall’autrice
C’è un bel film di Pedro Almodóvar, Volver (Tornare) dell’ormai lontano 2006, la cui trama si svolge in chiave retrospettiva.
In un dialogo fra madre e figlia, il pubblico conosce il retroscena.
E’ anche un ritorno al primo cinema di Almodóvar, che guarda al passato come un pannello di un grande affresco. Penélope Cruz, una delle protagoniste femminili che hanno fregiato il film al Festival di Cannes con il premio per la migliore interpretazione femminile (il film è stato premiato anche che per la migliore sceneggiatura), canta un bel brano del mito del tango Carlos Gardel, Volver (Ritornare), un brano composto nel 1935 insieme al compositore Alfredo Le Pera, entrambi morti giovanissimi nel tragico incidente aereo all’aeroporto di Medellín. Il famoso ritornello recita così:
“Ritornare con la fronte appassita
le nevi del tempo che argentarono la mia tempia
Sentire che è un attimo la vita
che vent’anni non sono niente
che febbrile lo sguardo, errante nelle ombre,
ti cerca e ti nomina”
Anche noi, con le tempie forse un po’ più argentate, torniamo con questa nuova iniziativa che si ricompone come il pannello di un affresco, con la precedente avventura di Condivisione democratica, durata oltre dieci anni, con cui si pone in continuità ma con tanti punti di novità.
Condi-Visioni, vuole essere uno spazio plurale di riflessione per chi si riconosce in un pensiero profondo contro le semplificazioni ed il flusso indistinto e rumoroso delle opinioni banalizzanti, schiacciate mediaticamente sul pensiero dominante o sull’inautenticità del “si dice”. L‘obiettivo è quello di una maggiore partecipazione e coinvolgimento, anche attraverso alcuni canali social e, non ultimo, l’ambizioso progetto di una web TV. Vogliamo usare internet come strumento innovativo ma, allo stesso tempo, esserne anche una sua filosofia critica, riconoscendone opportunità e limiti, cercando di superare quest’ultimi guardando kantianamente sempre all’uomo come un fine e mai come un mezzo, mettendo al centro il rapporto e la comprensione umana con un uso consapevole delle parole e un’analisi meditata dei fatti.
Uno dei problemi del sistema mediatico nel suo insieme, accentuato anche da un uso improprio dei social che, non invitano alla riflessione ma alla semplificazione per slogan, è proprio l’eccessiva polarizzazione. Lo stiamo vedendo con le drammatiche vicende degli ultimi tempi: i conflitti russo-ucraino e israelo-palestinese che ci riportano drammaticamente all’attualità.
Questo, non significa andarsi a schierare su posizioni bianco e nero ma, cercare di riflettere sulla complessità delle situazioni, sulla loro storicità e, con le dinamiche globali, guardando anche alle responsabilità delle varie istituzioni internazionali. Molti conflitti apparentemente regionali s’innestano, inoltre, in scenari di evoluzione geopolitica, alla ricerca di nuovi equilibri nel riassetto dell’ordine mondiale. La guerra, con le inumane atrocità a cui stiamo assistendo e lo spettro della catastrofe nucleare, è un infelice “ritorno” che pensavamo scongiurato, e che si ripresenta problematicamente nella sua drammaticità.
Anche il tema dell’immigrazione è un “ritorno”, se pensiamo alle lontane immagini dell’agosto del 1991 della nave Vlora al porto di Bari con migliaia di Albanesi che cercavano rifugio in Italia dopo la caduta dei regimi comunisti. Nell’immaginario collettivo quello che ci ha aperto gli occhi su questo problema epocale. Ad oltre 30 anni da quell’evento, stiamo discutendo ancora di come gestire queste situazioni e, per ironia della sorte, vorremmo usare noi, oggi l’Albania come centro di destinazione degli immigrati.
Ultimo, ma non meno importante, il grande problema dei cambiamenti climatici che ci sta molto a cuore, come futuro dell’umanità e nostro tema prioritario. Per rimanere in tema, c’è chi afferma che si tratta di un “eterno ritorno” con il succedersi di ere di glaciazioni e riscaldamenti.
Le controversie scientifiche tra i negazionisti e coloro che sostengono i cambiamenti climatici sono oggetto anche di dibattiti politici con le varie implicazioni a livello geo-politico. I paesi in via di sviluppo non vogliono infatti affrontare i costi della sostenibilità che avrebbero impatto sui loro modelli di sviluppo economico, visto che ritengono di essere in una fase storica che i paesi più avanzati hanno già passato, avvantaggiandosene. Questo è evidente anche nella sofferta Cop28 (la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) di questi giorni, sulla risoluzione per la de-carbonizzazione, dove viene spacciata come una vittoria la presenza nel testo dei “combustibili fossili” (carbone, petrolio e gas). Intanto, i principali produttori di quest’ultimi, si oppongono agli intenti di una loro completa eliminazione (phase-out) entro il 2050. Si parla infatti di allontanamento (transitioning away) ma, effettivamente, già il riconoscimento da parte di quasi 200 Paesi che i combustibili fossili sono la causa dell’aumento della temperatura del pianeta e che occorra prendere delle misure, è di una certa portata storica.
C’è poi il tema di chi debba pagare questa transizione, se chi produce più CO2 oggi o chi l’abbia prodotta già dal passato, con la prima industrializzazione. Annosa e controversa questione che vede sostanzialmente contrapposti, il blocco del BRICS con quello “occidentale”.
L’eccessiva antropizzazione con attività che gravano in modo irreversibile sulla vita del pianeta, rendono urgenti, al di là di riconoscimenti e intenti, azioni concrete e provvedimenti non più procrastinabili perché i problemi, al di là di tutto, sono di tale natura e portata che richiedono un contenimento dell’Uomo sul Pianeta per non perdere forse l’ultima opportunità di incidere sulla crisi climatica e sulle risorse della Terra.
Partendo dal tema del Ritorno, passando con leggerezza dal film di Almodóvar alle crisi umanitarie, climatiche e alle guerre, senza voler essere catastrofisti, ci e vi domandiamo, siamo forse arrivati a un punto di Non Ritorno?
Nel corso della vita, tutti noi affrontiamo dei momenti di “ritorno”. Possiamo ritornare a casa dopo un lungo viaggio, ritornare alla routine dopo le vacanze, ad esempio. Il ritorno descrive i percorsi in modo “circolare”, una ruota che fa la sua rivoluzione per tornare nella stessa situazione di prima, ma è davvero così? Tornando, ci troviamo a confrontarci con il nostro passato e a misurare quanto siano cambiate le cose nel frattempo, anche quanto siamo cambiati noi. Un’opportunità di riflessione e di crescita.
Il Ritorno a Casa
Sicuramente il tipo di ritorno più comune. Possiamo esser stati lontani per poco tempo – come una giornata lavorativa – o per un periodo lungo, la girare la chiave nella serratura e poi aprire la porta è sempre associato ad un momento di emozione. E’ un’occasione per rivedere la luce ed il profumo del proprio posto, per rivedere amici e familiari, ma può portare con sé anche un senso di nostalgia e una riflessione su quanto siano cambiate le cose per come ce le ricordavamo. Ma se il viaggio, la distanza è stata alquanto lunga, al ritorno a casa si possono notare differenze anche sulle strade della nostra città natale, la si può trovare più bella o più sporca, più frenetica, più piacevole da vivere a passare nei suoi locali e si può essere accompagnati dalla sensazione di confronto tra la persona che siamo diventati e quella che eravamo quando l’abbiamo lasciata. Perché forse a cambiare siamo stati noi.
Il Ritorno alla Routine
Il ritorno alla routine quotidiana dopo un periodo di pausa, come le vacanze estive, può essere un’esperienza altrettanto significativa. Durante le vacanze, si “stacca la spina” dalla solita routine, e il ritorno alla normalità può suscitare sentimenti contrastanti. Da un lato il ritorno alla routine può portare con sé un senso di stabilità e comfort, mentre dall’altro può anche farci riflettere su come impieghiamo il nostro tempo e se stiamo perseguendo ciò che è veramente importante per noi. Questo può spingerci a fare cambiamenti significativi nella nostra vita.
Il “ritorno” è un tema universale, che tocca la vita di ognuno di noi, che tutti noi abbiamo sperimentato. E’ una bella opportunità per la riflessione, la crescita e il cambiamento. Se affrontato con apertura e consapevolezza, il ritorno può portare a nuove prospettive e a una maggiore comprensione di noi stessi e del mondo che ci circonda.
Forse il “ritorno” ci da l’idea di non avanzare davvero, ma forse non importa dove ci porterà questo viaggio, perché in ogni passaggio c’è un’esperienza che ci aiuta a crescere e a scoprire chi siamo veramente.
Come informatico call conference e meeting on-line sono da anni nel mio piano di lavoro quotidiano. Ci si incontrava con i colleghi che – in particolare nel fine settimana – tornavano verso città natale a trovare i genitori, ma continuavano a lavorare e, insieme, si valutavano gli avanzamenti, ci si incontrava con i fornitori, spesso, soprattutto se si trattava di aziende “dislocate” fuori dal territorio romano o, in genere, italiano. Con i Clienti questo approccio avveniva più di rado, perché “una stretta di mano” ha sempre una sua importanza e perché a volte “a quattr’occhi” ci si capisce meglio.
Poi con il 2020 tutto è cambiato. Anche gli aperitivi tra amici sono diventati virtuali, le visite ai genitori e ai parenti sono state sostituite da video chiamate. Mancava il calore di un abbraccio, ma è vero anche che ha permesso di aumentare il numero delle “visite” e alle parole per telefono si è aggiunto anche il viso in “primo piano”. Anche le persone più in la con gli anni, si sono adattate e hanno trovato il modo di addentrarsi nel mondo virtuale. Quanti nonni impacciati, consigliati dai nipoti, nativi digitali.
E cos’è accaduto al mondo del lavoro?
Microsoft ha recentemente condiviso alcuni numeri estratti dall’uso della piattaforma di videoconferenze e attività di lavoro Teams. Tra il 2021 e il 2022 le riunioni sono complessivamente aumentate di numero, ma sono diventate più brevi e occasionali, perché cambiata la finalità. Le riunioni rapide e senza ricorrenze sono diventate il 64% del totale. Riunioni da meno di 15 minuti sono diventate più del 60 per cento delle riunioni programmate sulla piattaforma, mentre quelle della durata di un’ora o più, sono diminuite di molto.
Sulla base dei numeri forniti da Microsoft si può vedere che le riunioni costituiscono praticamente un giorno alla settimana (7,5 ore di riunione sui 5 giorni lavorativi settimanali).
Il Wall Street Journal riassume il tutto in «Le riunioni possono essere le sabbie mobili della giornata di lavoro» in questo articolo uscito qualche giorno fa. E citando un sondaggio condotto su oltre 2.000 dipendenti riporta che dopo 15 minuti si perde l’attenzione e le riunioni che durano oltre l’ora (quelle dedicate allo Stato di Avanzamento dei Lavori) risultano essere meno produttive di quelle sotto questa soglia.
Fatta questa premessa, arrivo all’attualità. Il ritorno in ufficio. E sì perchè se Settembre è, in genere, il mese del ritorno in ufficio dopo la pausa estiva, dopo l’abbronzatura sulle spiagge o dopo le lunghe passeggiate in montagna, il Settembre di quest’anno è stato il mese del rientro in ufficio, in presenza. Si sono infatti ridotte drasticamente le ore di “Smart Work“, relegate ad essere al più 8 giorni al mese o proprio zero. Andare in ufficio è tornato ad essere normale. So che in molti se ne sono accorti dal traffico che si trova sulle strade di scorrimento, specificherei sul Raccordo e sulle “consolari” per chi come me vive nella capitale, dove gli incolonnamenti hanno raggiunto vette che non ricordo di aver vissuto prima. Il piacere di rivedere i colleghi, di avere insieme una pausa caffè al bar o anche più modestamente alla “macchinetta”, ha preso lo spazio temporale che prima era dedicato alla cura del proprio animale domestico o alla lezione di yoga seguendo un corso on-line o anche solo a prendere le cose con più lentezza.
Vediamo le differenze sul nostro quotidiano: spendiamo più tempo nel traffico, ma penso si possa dire che le riunioni in presenza siano più produttive, anche se il numero dei “task” eseguite, il numero delle pratiche lavorate, è sostanzialmente aumentato di pochissimo. Sarebbe interessante chiedere a qualche specialista, uno psicologo o un sociologo, quali siano le realtà che si vedono con delle lenti più focalizzate a cogliere queste differenze.
Ma c’è chi non crede e non ha mai creduto al lavoro fuori delle mura dell’ufficio: Elon Musk. Il miliardario statunitense è stato sempre contrario all’uso dello SmartWork anche in piena autonomia. In quel momento ricordava che “As a basis for comparison, the risk of death from C19 is vastly less than the risk of death from driving your car home” – che posso tradurre come “Come base di confronto, il rischio di morte per Covid19 è molto meno che il rischio di morire guidando verso casa“. Si potrebbe obiettare che in effetti aumentare il traffico veicolare, aumenta il rischio di incidenti mortali, ma sorvoliamo.
Questa frase la scrisse a Marzo del 2020 – mentre in Italia entravamo in Lockdown e ci riunchiudevamo in casa – mentre dopo due anni aggiunse che «Chiunque voglia fare smart working deve comunque essere in ufficio per almeno (sottolineo almeno) 40 ore la settimana, altrimenti lasci Tesla» Evidentemente convinto che il detto italiano “L’occhio del padrone ingrassa il cavallo” aggiunse anche che «È il motivo per cui passo così tanto tempo in azienda […], se non l’avessi fatto SpaceX sarebbe andata in bancarotta già molto tempo fa», esortando così i suoi dirigenti: «Più è alto il vostro livello nell’azienda, e più la vostra presenza dovrà essere visibile»
Ma lavorare in mobilità, fuori dall’ufficio non è mai stato chiamato “comfortable work” – lavoro comodo – ma “smart work” – lavoro intelligente – perché cerca di coniugare il più possibile la produttività con la gestione del tempo non solo speso all’interno del posto di lavoro, ma anche al suo esterno. Ogni ora che non si perde nel traffico può essere impiegata per la cura dei propri cari, ad esempio. Secondo alcune stime si può parlare di 190 ore all’anno che si trascorrono all’interno dell’auto, nel traffico (questo a Roma, una delle medie più alte in Europa).
Da tutto questo direi che per trasformare lo “Smart Work” in un “Wise Work“, per renderlo saggio e non solo furbo, intelligente. Dobbiamo coniugare queste varie variabili: non impiegare tempo in riunione poco produttive e che – in fondo – ci fanno sbadigliare (e a videocamera spenta e microfono spento sono sicuro qualcosa l’abbiamo fatto tutti), cercare di coniugare al meglio il tempo personale con quello per il lavoro. Cercando di rimanere imbottigliati nel traffico il meno possibile.
Che siano buoni propositi per questo nuovo inizio.
Si racconta una storia molto carina su questa nave, su la nave più bella del mondo.
Era un giorno del luglio 1962. Mare aperto, nel Mediterraneo orientale, uno dei ragazzi sulla portaerei statunitense “USS Independence”, usa il lampeggiante e in codice morse – strumento desueto con un linguaggio desueto, per mandare una segnalazione alla nave che segue più o meno la stessa rotta a distanza. Di solito queste segnalazioni avvengono via radio e di solito vi è una dichiarazione sul “diritto di precedenza” sull’incrociare la rotta. Invece in quel giorno di Luglio del 1962, parte il messaggio: «Chi siete?». La risposta dall’altra nave: «Nave scuola Amerigo Vespucci, Marina Militare Italiana». «Siete la più bella nave del mondo».
Ecco, la nave più bella del mondo è la Amerigo Vespucci.
Il motto di una nave è scritto in una targa che è accanto al timone, una frase che poi viene ripetuta negli “Hip Hip Hurrà” e nei saluti tra i cadetti. Quando fu varata – il 22 febbraio 1931, quasi 100 anni fa – la nave era accompagnata dal motto “Per la Patria e per il Re”, che fu cambiato, dopo la trasformazione dell’Italia in Repubblica, in “Saldi nella furia dei venti e degli eventi”. Il primo Luglio di quest’anno la nave è tornata in mare aperto per fare il giro del mondo. E un pò un viaggio intorno al mondo, me lo immagino un pò così, con la ciurma sempre concentrata nonostante le intemperie e le avversità. Ma in realtà dal 1978, il motto della nave è diventato “Non chi comincia ma quel che persevera”.
Sintetica poesia di come si possano affrontare le difficoltà, di come si può prestare il viso a quei venti e quegli eventi, saldi, nella perseveranza del raggiungere il proprio risultato.
Ora, mentre scrivo, l’Amerigo Vespucci si trova a Pier Mauá, il porto porto di Rio de Janeiro, quasi pronta a partire alla volta di Buenos Aires. Verso quella terra e verso quei cittadini italiani che a Roma hanno regalato un faro – posto sul promontorio del Gianicolo – per dare la luce a tutti gli italiani.
Mi fa piacere seguire il percorso in questo viaggio che durerà più di un anno e mezzo – 20 mesi per la precisione.
Certamente Condi-Visioni non è propriamente il primo magazine ad occuparsi del concetto del “ritorno”. Tantissime persone prima di noi, tantissimi giornalisti prima di noi, tantissimi artisti prima di noi hanno affrontato questo tema, condividendo con gli ascoltatori, i lettori, gli spettatori le sensazioni e le riflessioni. Da cinefilo, faccio un elenco di 10 film che hanno dato una loro chiave di lettura.
“Forrest Gump” (1994) – Tutta la storia della vita di Forrest Gump ha inizio dal suo ritorno a Greenbow, sua città natale in Alabama, e mentre riflette sulla sua vita passata, nel suo modo candido, racconta la sua storia.
“Il Padrino – Parte II” (1974) – Il sequel de “Il Padrino” di Francis Ford Coppola esplora il ritorno alle origini di Michael Corleone nella città di Corleone in Sicilia. Questo ritorno è una parte cruciale della trama e offre una prospettiva sul suo passato e sul suo futuro.
“Into the Wild” (2007) – Il concetto del ritorno alla natura e alla semplicità è centrale nella trama. Basato su una storia vera, il film segue la vita di Christopher McCandless, un giovane che decide di abbandonare la sua vita precedente e intraprendere un viaggio attraverso l’America.
“Big Fish – Le storie di una vita incredibile” (2003) – Una commedia drammatica di Tim Burton. Si seguono le vicende William Bloom mentre torna nella sua città natale per stare al fianco di suo padre morente. Il film esplora le dinamiche familiari e il concetto di ritorno.
“Rain Man – L’uomo della pioggia” (1988) – Questo film diretto da Barry Levinson segue il personaggio di Tom Cruise, Charlie Babbitt, mentre intraprende un viaggio per riconnettersi con suo fratello autistico, Raymond, interpretato da Dustin Hoffman. Il ritorno di Charlie nel mondo di suo fratello porta a una profonda trasformazione nella sua vita.
“Into the Woods” (2014) – Questo adattamento cinematografico del musical di Stephen Sondheim mescola le storie di diversi personaggi delle fiabe che intraprendono un viaggio per ottenere i loro desideri, ma alla fine devono affrontare le conseguenze dei loro atti mentre tornano alle loro vite quotidiane.
“La Ricerca della Felicità” (2006) – Basato su una storia vera, questo film segue il viaggio di Chris Gardner, interpretato da Will Smith, un uomo senza casa che cerca di costruire una vita migliore per sé e suo figlio. Il suo ritorno alla stabilità finanziaria è un tema centrale nella trama.
“Il Ritorno di Mary Poppins” (2018) – Questo sequel del classico Disney “Mary Poppins” vede il ritorno della tata magica, interpretata da Emily Blunt, alla famiglia Banks. Il film esplora come il ritorno di Mary Poppins influisce sulla vita dei protagonisti.
“Un Giorno di Pioggia a New York” (2019) – In questo film scritto e diretto da Woody Allen, un giovane coppia interpretata da Timothée Chalamet e Elle Fanning torna a New York City per un fine settimana e si imbatte in avventure inaspettate mentre riflettono sulle loro vite.
“Ritorno al Futuro” (1985) – Come potrebbe mancare questo film? Il giovane Marty McFly (il giovanissimo Michael J. Fox) torna indietro nel tempo con l’aiuto di un eccentrico scienziato, interpretato da Christopher Lloyd, e deve assicurarsi che i suoi genitori si incontrino per garantire il suo futuro.
Commedie, drammi, fantascienza, tante chiavi interpretative per raccontare il concetto del ritorno. Tanti spunti di riflessione, da vedere o – certamente – da rivedere.
L’altra parte del globo terrestre è sufficientemente lontano per non avere i problemi che attanagliano la nostra penisola? A quanto pare no. Anche in Argentina ci si interroga su cosa sia la Mafia e quali siano gli strati sociali che ne permettono il radicamento e la diffusione.
Riceviamo da Gabriele Paolo Smeriglio, che ringraziamo, una riflessione e una recensione del nuovo libro di Maria Soledad Balsas, e la pubblichiamo con molto entusiasmo.
Quanto merito ha chi dà il là a una nuova specifica linea di ricerca? Quanto vale reggere gli urti, pubblicare e – soprattutto – farsi leggere nonostante mercantilizzazione e monopoli della conoscenza? Secreto a voces.Mafias italianas y prensa en la Argentina di María Soledad Balsas è un’opera necessaria. Ha il coraggio di dar voce a un dibattito già esistente su uno degli elementi costitutivi dello Stato-nazione: le mafie. Allo stesso modo, si fa carico di un bel fardello perché decide trattare un argomento su cui in Argentina, come ammette la stessa autrice, diversamente da altri paesi del mondo anglosassone in cui vi è una consistente presenza di italiani e nelle cui università la storia delle mafie è spesso scientificamente trattata, si sa ancora molto poco.
Al giorno d’oggi, scrivere di mafia e sulla mafia è arduo, soprattutto in un contesto in cui un’iperinflazione discorsiva ad essa dedicata rende difficile comprendere il significato stesso del termine. Balsas (2021) ne parla nel suo lavoro sulla copertura giornalistica delle mafie italiane in “Clarín” tra il 1997 e il 2020 in cui sostiene che la nozione di mafia non è sufficientemente delimitata nell’agenda pubblica locale e spesso finisce per essere banalizzata e assimilata a qualsiasi forma di clientelismo o corruzione. Balsas si prende l’onere di fare chiarezza, una responsabilità accentuata dal grande vuoto accademico sull’argomento in Argentina.
Parlare di mafia significa anche farsi dei nemici, evidenziare i limiti autoimposti di quei giornali a larga diffusione che, piaccia o no, esercitano un’influenza nei confronti di larghe fette della popolazione degli stati moderni. L’autrice, ha il merito di sviluppare coerentemente le tematiche promesse in sede di ricerca e, non meno rilevante, di non annoiare il lettore. Riesce a farlo mettendo insieme ingredienti fino a ieri studiati spesso solo singolarmente. Nel suo libro si riferisce all’esaltazione onnipresente della figura del mafioso come leader carismatico, portatore di un certo charme, protagonista assoluto del genere giornalistico della cronaca, soprattutto quella dei crimini violenti. Infatti, è spesso presente un fascino perverso legato a un modo di costruire la notizia che mette in risalto il male e l’illegalità a scopo di vendita. Cosa nostra risulta, secondo quanto appurato da Balsas, essere la più citata delle quattro espressioni territoriali mafiose, la sacra corona unita la meno usata. Tuttavia, l’etichetta “mafia” non è usata solo per riferirsi alla versione siciliana, ma è estesa in modo generico a tutte le altre.
Alla base del lavoro di Balsas è fortemente presente una riflessione difficilmente non condivisibile. Ovvero, nell’epoca delle mafie globalizzate, risulta ingenuo, se non empiricamente falso e forse ideologicamente di parte, sostenere che le potenti organizzazioni criminali nate in Italia e proiettate nel mondo non abbiano riscontro nel Paese che ospita il maggior numero di italiani residenti fuori dall’Italia. Così come continuare a ritenere che i tre milioni di italiani arrivati in Argentina tra la metà dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del Novecento, a cui si aggiungono i flussi più recenti, abbiano portato con sé solo capitali e conoscenza all’arricchimento del Paese. Una revisione critica di questi temi non può, ad avviso dell’autrice, evitare di interrogarsi sull’identità in Argentina, né può ignorare un’analisi delle condizioni sociali, politiche e culturali attraverso le quali il negazionismo mafioso è diventato egemone.
Premesso ciò, generare dati scientificamente validi sulle mafie italiane in Argentina non è certo un compito facile. Oltre alla scarsità di ricerche di base, vi è una carenza di fonti di informazione affidabili a causa della natura sfuggente dell’argomento. Secondo Balsas, gli sviluppi presentati dal libro sarebbero di interesse non solo nel campo specifico della ricerca sulla comunicazione come disciplina scientifica, ma potrebbero essere potenzialmente utili anche per altre aree di conoscenza correlate. Il giornale è portatore sano di un potenziale comunicativo che va ben oltre il significato grafico. Gli articoli non vanno semplicemente letti e le immagini osservate. Il messaggio, infatti, non inizia e finisce lì, ma deve presupporre una comunicazione preliminare, se non un vero e proprio repertorio di conoscenze condivise.
L’analisi, corpo centrale dell’opera di Balsas si basa su tre casi giornalistici. Il percorso proposto, come afferma l’autrice, non è certamente esaustivo, ma all’interno di esso ognuno dei tre casi costituisce una delle tre tappe fondamentali che, per azione o per omissione, hanno contribuito a modellare l’attuale immaginario mafioso del Paese. L’attenzione al framing, definito come l’insieme dei principi cognitivi culturalmente condivisi che agiscono a livello simbolico nella strutturazione significativa del mondo sociale, è molto rilevante in questo contesto. Tale approccio cerca di spiegare l’interpretazione di una situazione inedita presentata dai media in relazione alle cognizioni pregresse del pubblico. Come ricorda Balsas, se è vero che la statura morale di un organo di informazione è percepita tanto o più da ciò che omette che da ciò che pubblica è quindi necessario prestare attenzione sia ai modi in cui si racconta, sia a ciò che non si può o non si vuole raccontare, e persino a ciò che si racconta senza volerlo. È il caso, aggiunge, anche del concetto di agenda cutting, che si riferisce a questioni che non attirano l’attenzione a causa della scarsa o nulla copertura mediatica, dovuta a restrizioni di spazio, pressioni interne e/o esterne o pregiudizi del giornalista. L’omissione, la mancata copertura o il trattamento volutamente subordinato o penalizzato di specifici eventi, oggetti o persone da parte della stampa avrebbero effetti cognitivi, cumulativi e radicati nel tempo, che incidono sui sistemi di conoscenza che il pubblico struttura in modo duraturo.
Il lavoro d’archivio alla base del lavoro di ricerca di Balsas è stato caratterizzato dalla disponibilità di fonti presso l’Hemeroteca de la Biblioteca Nacional de la República Argentina. In generale, è stata privilegiata la traduzione dei testi italiani nella trascrizione letterale in lingua originale per la stessa ragione per cui è stato scelto uno stile più vicino al saggio che alla monografia accademica, ovvero ampliare il pubblico a cui il lavoro si rivolge. Nella prima sezione si propone un’analisi comparativa di tre giornali in lingua italiana – “L’Italia del Popolo”, “La Nuova Patria” e “Il Mattino d’Italia” – pubblicati a Buenos Aires nella prima metà del Novecento in relazione al caso Ayerza, con l’obiettivo di problematizzarne le posizioni politico-editoriali. In questo modo, Balsas cerca di offrire nuovi spunti allo studio del rapporto tra mafie italiane e media in Argentina con riferimento a un caso emblematico, già studiato in relazione alla stampa argentina.
Il secondo capitolo si occupata della recensione del film La Maffia, di Leopoldo Torre Nilsson, da parte della stampa argentina, apparsa nei supplementi dedicati allo spettacolo di “Clarín”, “La Razón” e “La Prensa” il giorno successivo alla prima a Buenos Aires. Successivamente, Balsas esamina la definizione del frame utilizzato per presentare il caso ne “L’Eco dei Calabresi”, senza trascurare la sua ripercussione ne “La Nación”. Infine, problematizza la discussione sulla presentazione degli interessi della comunità italiana e calabrese a partire dagli elementi interpretativi messi in campo ne “L’Eco d’Italia”.
Infine, l’autrice riflette sul modo in cui la Strage di Capaci, in cui il giudice Giovanni Falcone, la moglie e le sue guardie del corpo furono assassinati per ordine della mafia il 23 maggio 1992, fu riportata dai giornali “Clarín” e “La Nación”. Balsas si chiede in che modo la stampa nazionale argentina elaborò l’evento che segnò una svolta nella storia della lotta antimafia in Italia; quale importanza gli fu data; quali frame furono utilizzati nella presentazione della notizia. In contrapposizione, sulla sponda italiana, Balsas analizza sono le caratteristiche del trattamento dell’eventi nella stampa di lingua italiana in Argentina.
Dal primo capitolo si apprende come tra la fine del 1932 e l’inizio del 1933 l’opinione pubblica argentina fu scossa dal rapimento e dal successivo omicidio di Abel Ayerza. Questi fu rapito il 23 ottobre 1932 a Corral de Bustos, nel sud-est della provincia di Córdoba, mentre si trovava in vacanza in una tenuta di Marcos Juárez con alcuni amici. La famiglia Ayerza pagò il riscatto richiesto dal clan di Giovanni Galiffi poco dopo il rapimento, ma a quel punto Ayerza era già morto, fu assassinato il 1° novembre 1932. Dalle ricerche dell’autrice si evince che il caso provocò la mobilitazione di alcuni settori della destra nazionalista che, sulla base della provenienza dei responsabili, manifestarono il loro biasimo per una migrazione che definivano indesiderata. In termini generali, afferma Balsas, la stampa argentina, che aveva sperimentato una strutturale mancanza di esperienza e di conoscenza nella definizione dei termini simbolici degli eventi mafiosi fin da quando questi cominciarono a essere rilevati in alcune aree urbane verso la fine del XIX secolo, nel trattare il caso fu permeabile al modello cinematografico allora diffuso nel giornalismo di polizia.
Le vicende del caso Ayerza furono al centro di un’intensa trattazione giornalistica in cui, si legge nel capitolo, sono identificabili due diversi regimi simbolici che fanno riferimento, rispettivamente, all’esecutore ideologico del crimine, Giovanni Galiffi, e agli artefici materiali della sua esecuzione, Giovanni Vinti e i fratelli Di Grado. La figura di Galiffi, fondata sul suo percorso migratorio dalla Sicilia per diventare un self-made man di successo nel luogo di approdo, fu costruita dalla stampa argentina secondo i parametri dell’immaginario gangsteristico degli anni Trenta, basato sulla cura dell’immagine pubblica e sulle articolate connessioni politiche. L’angoscia straziante della devota madre di Ayerza rappresentò la chiave di volta e attivò immagini ancestrali piene di risonanze religiose sulla maternità, sull’amore materno e sul vincolo matrimoniale.
La teoria criminologica dell’epoca e citata nel libro forniva strumenti e conoscenze che presupponevano che le caratteristiche biologiche o psicologiche di un individuo fossero la fonte e la conseguenza del suo destino di criminale. Grazie a queste procedure, attivisti politici, criminali comuni e mafiosi vennero indistintamente etichettati come “nemici della nazione”. La forte presenza di fonti storiche nel corso della lettura del capitolo argomenta che tra il 1932 e il 1936 la polizia espulse centinaia di “indesiderabili”, accusati di militanza comunista e anarchica, o di coinvolgimento nella criminalità organizzata. Le espulsioni, inoltre, proseguirono per tutto il decennio, legate all’attività di rappresaglia nei confronti del comunismo e della militanza antifascista.
Come ricostruisce Balsas, a Buenos Aires l’importanza della stampa italiana era già stata dimostrata nel censimento municipale del 1887, quando i giornali italiani di Buenos Aires stampavano 20.000 copie al giorno, mentre dei 65 giornali stranieri pubblicati a Buenos Aires nel 1896, 22 erano italiani. I periodici non solo riportavano gli avvenimenti del Paese d’origine e gli eventi nazionali, ma fornivano anche assistenza e consigli ai migranti. Nel grande panorama della stampa italiana in Argentina, si distinguevano “La Patria degli Italiani”, “Il Mattino d’Italia” e “L’Italia del Popolo” per la continuità raggiunta durante il periodo fascista e per il livello di distribuzione raggiunto. “L’Italia del Popolo” trattò il caso Ayerza a partire dal 25 ottobre 1932.
A riprova dell’attenzione posta dall’autrice a storia e teorie sulle mafie si argomenta che prima che un’organizzazione criminale su base etnica, la mafia sembrava esprimere uno stile di vita maschile ai margini di un’urbanità pericolosa e feroce, segnata dalla miseria. Tuttavia, il caso Ayerza si distacca da una certa predeterminazione della criminalità mafiosa che aveva pervaso la storia fino a quel momento. È infatti ambientato in zone rurali, coinvolge sia uomini che donne di origine italiana, e le sue vittime non sono più cittadini anonimi.
Accanto ai temi presenti nella stampa argentina, ne emergono altri nuovi, che riflettono non solo il diffuso sentimento anti-italiano, ma anche e soprattutto le differenze ideologiche all’interno della comunità italiana in Argentina. Se l’offesa e l’apporto economico dell’emigrazione italiana in Argentina fungono da frame, ciò che viene conteso è la auto-assunta difesa dell’onore degli italiani all’estero da parte delle autorità e, di riflesso, della stampa fascista, in particolare “Il Giornale d’Italia” e “Il Mattino d’Italia”. Per quanto riguarda il trattamento dell’informazione, anche nella stampa argentina si può osservare una certa tendenza alla spettacolarizzazione. Questo sistema di definizione delle notizie mirerebbe ad attirare l’attenzione del pubblico e suscita un’attenzione emotiva. L’uso di caratteri grafici in maiuscolo, così come la scelta di titoli altisonanti per attirare l’interesse del lettore, sono un’ulteriore prova di un modo sensazionalista di concepire le notizie.
Balsas non manca di descrivere brevemente l’origine delle organizzazioni mafiose più diffuse in Italia. Iniziando con la camorra, prima formazione mafiosa conosciuta e presente sulla scena criminale di Napoli. Si trattava di un fenomeno urbano che riuniva i settori che speculavano sulla ricchezza prodotta dal lavoro agricolo, dal furto di bestiame, dalla sorveglianza della proprietà terriera altrui e dall’estorsione del commercio. Inoltre, aggiunge che è opinione comune che la mafia siciliana sia nata dopo l’unità d’Italia. Diversamente dalla camorra napoletana, questa era prevalentemente agricola. La sua attività si concentrava nelle pianure irrigue coltivate a frutta intorno a Palermo, nelle aree minerarie sulfuree del centro-sud e nei grandi latifondi dell’entroterra. Nella Sicilia della seconda metà dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, i grandi proprietari terrieri avevano al loro servizio le guardie mafiose, che con la loro presenza fisica sui terreni non solo garantivano la protezione contro gli atti di banditismo o di rapina e mantenevano la disciplina tra i contadini, osteggiando le loro pretese e assurgendo al contempo al compito di punire i più ribelli, che non volevano piegarsi. Da allora, le prospettive di alcuni gruppi mafiosi si sono internazionalizzate, grazie alle opportunità fornite dal mercato nero e dal contrabbando.
Per Gambetta (1992), la data più plausibile per l’origine della mafia è il 1812, quando in Sicilia iniziò la dissoluzione del feudalesimo, e nel 1860-61 probabilmente erano già state gettate le basi di questa industria. I cambiamenti indotti nella proprietà terriera dalle riforme politiche introdotte tra il 1860 e il 1885 con l’estensione della democrazia e quando la politica locale si mescolò alle tensioni preesistenti, diedero un nuovo impulso ai “protettori” di professione, allargandone anche gli orizzonti.
Sulla la mafia calabrese, l’autrice afferma che essa sembra essere emersa all’incirca nello stesso periodo dei carbonari e strutturata secondo le stesse linee, poiché il suo modello e il suo rituale sono ancora massonici. La ‘ndrangheta possiede una struttura improntata ai rapporti di parentela dei capobastone, che è stata centrale per prevenire la collaborazione con la giustizia dei suoi membri. Uno dei suoi punti di forza rispetto alle altre organizzazioni mafiose è stata la strategia di diversificazione geografica. Infine, la sacra corona unita rappresenta la più recente delle quattro organizzazioni mafiose classiche italiane. Emersa in risposta alla crescente diffusione territoriale di organizzazioni mafiose provenienti da regioni vicine.
L’autrice afferma che lo studio del trattamento del caso Ayerza nella stampa etnica italiana a Buenos Aires mostra che l’importanza attribuita al caso non è univoca. Tuttavia, data la parzialità delle fonti consultate, non risulta possibile tracciare un quadro esaustivo della questione. Più che da un’origine nazionale condivisa, essa sembra essere determinata dalla posizione politico-editoriale assunta in ciascun caso analizzato. Mentre l’antifascista “L’Italia del Popolo” dedicò più spazio ai dettagli del caso per un periodo di tempo più lungo, la copertura de “La Nuova Patria”, che utilizzava l’ironia come arma principale, era funzionale a un negazionismo patriottico che cercava di sottrarsi alle accuse xenofobe che vogliono associare l’italianità alla mafia. Con uno stile più surrettizio, “Il Mattino d’Italia” denunciò il sensazionalismo e negò per omissione la relazione tra mafia e italianità.
A partire da questi risultati, apprendiamo, leggendo i risultati della ricerca dell’autrice, che è possibile stabilire che la stampa italiana in Argentina non sia riuscita a definire, nel contesto del caso Ayerza, un discorso coerente e strutturato in grado di informare i dibattiti pubblici sulla mafia italiana in Argentina e di proporsi come alternativa all’autoritarismo dominante, sia in Argentina che in Italia. Di conseguenza, conclude l’autrice, furono gettate le basi per un patto xenofobo, da parte argentina, e negazionista, da parte italiana, che, nella misura in cui concorreva a (ri)creare il mito fondante della migrazione italiana in Argentina in termini esclusivamente positivi sembra aver fatto comodo a entrambe le parti in causa.
Il secondo capitolo è egemonizzato dalla pellicola La Maffia, di Leopoldo Torre Nilsson, che uscì il 29 marzo 1972 nei cinema di Buenos Aires, dopo essere stato proiettata nella città di Rosario. Il film, ci ricorda l’autrice, rievocava la storia della mafia in Argentina nella prima metà del XX secolo. Nello stesso periodo, il direttore de “L’Eco dei Calabresi” presentò reclamo alle autorità giudiziarie locali per impedire la proiezione del film nel circuito ufficiale e per rimuovere due scene con riferimenti all’origine calabrese dei membri fittizi di una banda mafiosa situata a Rosario. Sebbene la richiesta non fu accolta, l’evento divise la stampa, sia nazionale che etnica, e fu commentato anche dalla stampa calabrese. In questo capitolo l’autrice intende proseguire sulla linea avviata nel capitolo precedente, attraverso la problematizzazione dei dibattiti sollevati dalla stampa locale – sia argentina che italiana – sul caso.
In generale, come anche il lavoro di Balsas conferma, parlare di mafie vende (Mangiameli, 2016) e parlare di cinema di mafia vende ancora di più. Inoltre, il continuo ricorso a figure di origine cinematografica non è casuale. Santoro (2007) si preoccupa di cogliere la tensione tra la necessità di costruire l’identità e il continuo e costante controllo e regolazione dei flussi comunicativi. Così la mafia, intesa come sottocultura, non è necessariamente riconducibile a una precisa categoria sociale, né a una comunità organizzata, ma dipende da una serie di credenze e pratiche. Le testimonianze giudiziarie, infatti, mostrano come sia proprio attraverso il contatto culturale generato da reti sovrapposte e mediato da scambi di informazioni, in generale da modelli cognitivi e simbolici, che le organizzazioni si sono formate e perdurano. Le organizzazioni mafiose si sono formate e durano.
Il film La Maffia fu pubblicizzato sui principali quotidiani nazionali. Il risalto riservato dalla stampa si tradusse non solo in consistenti spazi pubblicitari, ma anche in una decina di recensioni, cronache e commenti corredati da ritratti di attori e attrici, fotografie della prima serata e scene del lungometraggio. Nel complesso, la critica nazionale accolse con favore la proposta di Torre Nilsson sulle origini della mafia nel Paese. La scelta di ambientare la storia nel passato favorisce l’emergere del suo carattere inventivo, illuminando la dimensione immaginaria. Anche “La Prensa”, da parte sua, si rallegrò del successo del film all’indomani della prima, un’attitudine che si rifletteva nella scelta di aggettivi e sostantivi che testimoniavano una valutazione positiva del lavoro tecnico del team di produzione del film. “La Razón” sottolineò l’originalità e l’attualità del film nel panorama cinematografico locale.
In tutti i casi, sottolinea Balsas, viene elogiata la bellezza e la sensualità della figura femminile interpretata da Thelma Biral. Come nei film di mafia italiani, anche qui la donna, sia come figlia che come amante, costituisce il punto debole dei protagonisti maschili, la cui virilità è pensata in base alla loro visione del mondo femminile. Eredità di una doppia morale di ispirazione cattolica secondo la quale in privato tutto è permesso mentre in pubblico bisogna mostrarsi irreprensibili.
Pochi giorni dopo la prima de La Maffia, “L’Eco dei Calabresi” pubblicò un editoriale firmato dal suo direttore Pasquale Caligiuri, calabrese di nascita ed emigrato in Argentina nel 1926. Come argomenta Balsas, dalla catena semantica offesa-disprezzo-insulto il frame utilizzato nell’editoriale di Caligiuri attivò il sentimento calabrofobico denunciato dalla stampa italiana in Argentina, in primis nel 1887 da “La Patria degli Italiani”. Il danno percepito provocato dalla diffusione di un’immagine negativa della calabresità in Argentina è mitigato da due principali strategie discorsive. Se da una parte si esagera il contributo culturale, scientifico e commerciale di personaggi calabresi di spicco, dall’altra si invoca la presunta mancanza di conoscenza della lingua italiana.
Varie fonti, argomenta Balsas, riportano la presenza di mafiosi in Argentina negli anni precedenti. Ad esempio, Tommaso Buscetta era emigrato in Argentina con la famiglia nel 1949, dopo essersi unito alla famiglia palermitana di Porta Nuova. Rientrò nel Paese nel 1955, questa volta clandestinamente. Rientrato in Sicilia dopo la seconda esperienza migratoria in Sudamerica, incontrò Lucky Luciano che nel 1946 aveva ottenuto l’autorizzazione a emigrare in Argentina.
Nel corso del capitolo si legge anche che è possibile considerare i dati come un “riflesso” della realtà solo quando la trama narrativa si colloca in geografie e situazioni quotidiane riconoscibili. Ed è forse per questo che, dice l’autrice, pur non essendo l’unico film di mafia destinato a diventare un classico ad essere proiettato nel 1972 a Buenos Aires, La Maffia di Torre Nilsson si rivelò così polemico. Il caso riporta in auge le controversie sull’identità argentina che si sono verificate a partire dalla fine del XIX secolo. Interpretazioni contrastanti del film divisero non solo la stampa argentina ma anche quella etnica, rivelando le lotte interne sulla rappresentazione degli interessi della collettività, che secondo Balsas è ben lungi dall’essere un insieme omogeneo. Le pretese realistiche e documentarie attribuite al film sembrano essere state fondamentali per consolidare l’immaginario della mafia in Argentina come un fatto del passato. Non si può fare a meno di osservare, sottolinea l’autrice, che questo ritorno al passato avviene proprio in un frangente che coincide con l’espansione “imprenditoriale”, a livello internazionale, delle mafie italiane.
Elemento che non risulta sorprendente in quanto la mafia è parte integrante della classe dirigente, dello Stato, dell’economia capitalista in generale. La sua punta più avanzata si trova in tutti i settori della società: nelle istituzioni, nell’alta finanza, nel terziario e nell’agricoltura. La specifica evoluzione storica, economica e sociale del Sud Italia, che oggi si traduce in deindustrializzazione e sottosviluppo, insieme alle frequenti iniezioni di denaro pubblico ufficialmente destinato, ad esempio, alle campagne elettorali e alle elezioni, hanno trasformato le mafie nell’equivalente di società per azioni, multinazionali armate che investono liberamente in vaste aree del pianeta. Oggi, come detto, le mafie hanno aumentato notevolmente la loro influenza nella dimensione politica ed economica transnazionale.
L’ultimo capitolo parte da una data: il 23 maggio 1992, quando il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e tre delle sue guardie del corpo furono assassinati mentre viaggiavano in auto sull’autostrada dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo. Mesi prima di essere ucciso Falcone si era recato in Argentina. Più fonti – sia argentine che italiane –, afferma Balsas, concordano nell’indicare un suo breve soggiorno a Buenos Aires intorno alla metà del 1991. Tenuto conto della connotazione locale delle connessioni mafiose internazionali su cui Falcone stava indagando nel periodo dell’attentato che gli è costato la vita, nonché della circostanza recente del suo viaggio in Argentina e delle ripercussioni mondiali della notizia della sua morte, secondo Balsas, è di grande interesse analizzare la copertura data dalla stampa nazionale argentina – “Clarín” e “La Nación” – a un evento che ha segnato una svolta nella lotta alla mafia in Italia. Balsas riflette su come si posizionò la stampa etnica di fronte a questa copertura giornalistica.
Non sembrano esserci studi scientifici che facciano luce sul viaggio di Falcone in Argentina come sulle modalità con cui la stampa nazionale ha elaborato la notizia della sua morte. Tuttavia, come dettagliatamente ricostruisce il libro oggetto della presente recensione, fonti giornalistiche, istituzionali e autobiografiche documentano il suo viaggio in Argentina. All’inizio dello stesso anno, il direttore del Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (SISDE), prefetto Angelo Finocchiaro, evidenziò nel corso di un’audizione parlamentare la partecipazione del giudice Giovanni Falcone a un evento tenutosi a Buenos Aires nell’ambito della cooperazione giudiziaria e di polizia. Questo coincide con le memorie recentemente pubblicate dell’ex giudice italiano Ilda Boccassini, che sostiene di aver accompagnato Falcone nel suo viaggio in Argentina.
L’interesse mostrato dai due giornali a maggiore diffusione in Argentina per la tragedia di Capaci non fu uniforme. Secondo l’autrice, il valore attribuito a una notizia è interpretabile in termini di scoop e spettacolarità, di prima pagina e di immagine di grande risonanza, di impatto e di ripercussione sullo spazio pubblico, sulla società e sul potere. Pertanto, se prendiamo in considerazione i criteri che determinano la notiziabilità di un evento, l’omissione di “Clarín” in prima pagina, una sfera di attenzione privilegiata che esprime il contratto di lettura di un giornale, è teoricamente inspiegabile.
Una riflessione che inizia a riordinare considerazioni di carattere conclusivo sul lavoro parte da ciò che viene chiamata catastrofe globale, ovvero l’evento di cronaca per eccellenza. Nello, specifico, visto l’argomento principale, le esplosioni sono descritte da Balsas come rilevanti perché rappresentano il manifestarsi di un allarme nella società, di ciò che non ci si attendeva, di ciò che non doveva accadere. La prossimità geografica, culturale, di classe determina la familiarità dell’evento per definirne la potenziale gravità. Vista la consistente presenza di italiani in Argentina, così come la storia di cooperazione giudiziaria e di polizia tra i due Paesi e la recente visita di Falcone in Argentina, questa assenza per l’autrice è determinante nella costruzione dell’agenda giornalistica del giornale, che gradualmente deposita una lettura della mafia come fenomeno estraneo alla realtà socio-politica nazionale. Questa forma di negazione potrebbe essere interpretata, in definitiva, in termini di paura di reagire all’imponderabile che sfugge al controllo sociale, dove le regole sono deviate. Partendo dal presupposto che i media confezionano un quadro interpretativo che filtra la percezione della realtà, definisce le questioni su cui si deve formare un’opinione e la relativa gerarchia, e che il pubblico si orienta a dare importanza agli argomenti, alle persone e agli eventi a cui i media danno più spazio e più risalto il modo in cui è stato trattato marginalmente il caso Falcone è significativo.
Balsas, inoltre, mettendo mani ai proprii strumenti di ricercatrice evidenzia come tra il 25 e il 29 maggio 1992, “Clarín” dedicò meno di sei pagine a seguire gli eventi di Capaci nella sezione “Internazionale”. Il 28 maggio 1992, “Clarín” si soffermò sui possibili legami internazionali dell’attentato, indicando l’ex Partito Comunista dell’URSS. D’altra parte, l’interesse de “La Nación” si rese evidente fin dalla prima pagina del 24 maggio 1992. L’esplosione come evento di cronaca fu riconosciuta dalla centralità dello spazio ad essa dedicato, modo sensazionalistico di intendere la notizia. Nella figura del “cacciatore”, per riferirsi a Falcone, la mafia fu poi associata a una certa idea di animalità, già riscontrabile nella stampa etnica della prima metà del XX secolo. Il 27 maggio 1992, “La Nación” citò il quotidiano russo Izvestia in un breve articolo della sezione Esteri per parlare dei supposti legami dell’ex Partito Comunista dell’URSS con la mafia e dei suoi investimenti politici in Italia. L’autrice si chiede, in definitiva, come la stampa argentina di lingua italiana descrisse i fatti di Capaci. “Tribuna Italiana” giornale bilingue della comunità italiana in Argentina nel 1992 aveva una cadenza quindicinale. Per questo motivo la notizia dell’attentato di Capaci fu inserita solo nell’edizione del 3 giugno. Pur essendo una storia di copertina, non venne messa particolarmente messa in risalto. Nell’edizione pubblicata successivamente, quella del 17 giugno, una nota enfatizzò l’azione repressiva della mafia da parte dello Stato attraverso l’uso forzato aggettivi qualificativi.
Benché l’azione degli organi giuridici e di polizia viene esaltata come principale destinataria e portatrice di importanza e responsabilità nella lotta alle mafie. Sebbene non manchino i proclami governativi, a tutti i livelli, sulla lotta alla criminalità organizzata e all’infiltrazione delle istituzioni da parte delle mafie, la pratica mostra una totale indisponibilità da parte dei massimi rappresentanti dello Stato a farlo. Invece di attuare piani di sviluppo, occupazione e industrializzazione per il Mezzogiorno e di affrontare realmente la questione meridionale, spesso si sceglie di “salvare” le periferie attraverso la gentrificazione e la militarizzazione del territorio. In questo modo, l’alternativa alla disoccupazione continuerà spesso a essere il reclutamento nelle file delle organizzazioni criminali, che inevitabilmente aumenteranno il loro potere economico e il loro radicamento sul territorio.
La cultura in generale e la cultura mafiosa in particolare sono complessi depositi o repertori di discorsi, definizioni, orientamenti, codici, a cui gli attori sociali attingono e interpretano continuamente. In particolare, si tratta di estendere il campo di studio alle rappresentazioni della mafia, alle immagini che circolano non solo nei media, ma anche tra gli attori che operano nel mondo della mafia commerciale. Ne parla impeccabilmente Balsas nominando pizzerie e ristoranti, ma anche negozi di abbigliamento, gelaterie, parrucchieri, officine e aziende di logistica, in tutta l’Argentina, che mostrano attraverso le proprie insegne i prestiti lessicali che rendono visibile la cultura mafiosa. Oltre a programmi radiotelevisivi, pubblicità, videoclip, film e concerti. Un’inflazione discorsiva basata su un termine generico che può far riferimento a qualsiasi fenomeno di macrocriminalità.
In altre parole, simboli mafiosi sfruttati e utilizzati dai produttori culturali come emblemi di una particolare “cultura esotica”. I mafiosi sono anche utilizzatori, produttori e, naturalmente, manipolatori di simboli, una produzione simbolica che non è necessariamente una creazione individuale o volontaria, ma è spesso collettiva e incondizionata, un processo di ri-creazione, che come tale produce valori vincolanti per i membri di una sottocultura. L’obiettivo è quindi quello di mostrare il potenziale di un’analisi culturale della mafia che enfatizzi l’idea di “circolarità” dell’identità e delle rappresentazioni del mafioso. È l’idea che i simboli possano tornare circolarmente ad agire sulle identità che li hanno originariamente prodotti, dopo essere stati fatti propri da altri per casi diversi, distaccandosi sempre più dalle forme sociali che li hanno prodotti, per essere ri-significati in altri contesti (Santoro, 2007).
Non mancano, inoltre, esempi in cui la mafia viene assunta come argomentazione per attaccare l’avversario nel confronto politico. L’autrice fa riferimento a un caso che toccò il governatore della provincia di Buenos Aires, Axel Kicillof nel marzo del 2021; alle presidenziali del 2019, quando le mafie ebbero un ruolo di primo piano nella campagna elettorale di “Juntos por el cambio”, il partito di governo guidato da Mauricio Macri e al febbraio 2020, quando, a margine della presentazione dei un suo libro alla fiera del libro dell’Avana, a Cuba, la protagonista fu Cristina Fernández. Per ultimo, vengono menzionati da Balsas anche i rappresentanti degli italiani residenti nella sezione sudamericana della circoscrizione Estero del Parlamento italiano, i quali fecero riferimento a uno degli argomenti principali della campagna elettorale denunciando la gestione “mafiosa” delle pratiche necessarie per conseguire la cittadinanza italiana da parte degli italo-argentini.
Balsas chiude ponendo un monito ai lettori. (Si) Chiede se esistono davvero le mafie italiane in Argentina, se si tratta di un fatto del passato o se la loro presenza si estende ai giorni nostri. Le risposte che dà a queste domande sembrano dipendere essenzialmente da cosa si intende per mafia e da quali caratteristiche le si riconoscono. A questo proposito, ricorda che “mafia” e “criminalità organizzata” non sono concetti intercambiabili, anche se talvolta possono essere considerati sinonimi.
Risulta interessante riscontrare che dall’analisi delle testimonianze analizzate emerge l’immagine di un presente sicuro, scevro da presenze mafiose, in antitesi a quella di un passato criminale. A questo proposito, secondo l’autrice, il problema non può essere affrontato esclusivamente nell’ambito della competenza sociale dei mass media. A tal fine, è auspicabile che il mondo accademico si assuma la propria responsabilità sociale in relazione alla questione, poiché solo la scienza può mettere ordine tra ciò che oggettivamente è e ciò che potrebbe essere. Spesso si tratta, invero, proprio della differenza che intercorre tra un articolo di giornale e una pubblicazione scientifica. Riprendendo un concetto espresso da Balsas nel suo libro, nella fattispecie dello studio delle mafie italiane in Argentina, la stampa si presenta come una preziosa chiave di accesso.
Le ultime pagine del libro sono dedicate anche alle origini calabresi dell’autrice e a quanto sia importante allargare lo spettro il più possibile e promuovere una conversazione sociale su un tema scomodo, spesso legato a culture di paura e silenzio. Il libro continua, sino alla sua conclusione, a por(si)re domande, ennesima riprova di quanto esso rappresenti un lavoro necessario e coraggioso, una base scientifica solida per ciò che verrà.
Referencias
Balsas, M. S. (2021). «El país que no miramos». Las mafias italianas según Clarín (1997-2020). Estudios sobre el Mensaje Periodístico, 27 (4): 1035-1042.
Gambetta, D. (1992). La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata. Torino: Einaudi.
Mangiameli, R. (2016). In guerra con la storia: La mafia al cinema e altri racconti. Meridiana, 87: 231-243.Santoro, M. (2007). La voce del padrino. Verona: Ombre corte.
Un evento sportivo amatoriale aperto a tutti, per sensibilizzare e raccogliere fondi per la ricerca sui sarcomi dei tessuti molli. È la SarcRace, la prima corsa o passeggiata campestre benefica organizzata a Roma per le patologie tumorali rare.
L’appuntamento è domenica 18 settembre 2022, con partenza alle 10,00 da via Àlvaro del Portillo, 5, sede del CESA, Centro per la Salute dell’Anziano della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico. Il percorso si svolge all’interno della Riserva naturale di Decima Malafede lungo un tragitto di 5 km. Al termine della manifestazione sportiva è prevista una cerimonia di premiazione, alla quale seguirà un piccolo ristoro offerto dagli sponsor. Ospiti d’onore saranno l’attore Raoul Bova ed il giornalista Filippo Roma che, con la loro presenza, sosterranno le persone affette da sarcomi dei tessuti molli.
SarcRace è organizzata grazie al patrocinio del Municipio IX di Roma Capitale e della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico e realizzata grazie all’Associazione Sarknos.
Le iscrizioni sono aperte al costo di 10 euro, cifra che verrà interamente devoluta per attività di ricerca. Per info e iscrizioni: sarcrace@sarknos.it
Sarknos: la rete per chi è affetto da sarcoma. Sarknos è un’associazione benefica di medici e pazienti, nata per sostenere e supportare le persone affette dai sarcomi dei tessuti molli durante il percorso di diagnosi, spesso lungo, complesso e impegnativo, dal punto di vista fisico ed emotivo. Fondata il 26 marzo 2022 su iniziativa del dott. Sergio Valeri – Responsabile dell’Unità Operativa di Chirurgia dei Sarcomi dei Tessuti Molli presso la Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma – e di un gruppo di pazienti e medici, spinti dal desiderio di voler creare una rete di contatto e unione per quanti sono affetti da questa forma di tumore dalla complessa gestione clinica e per i loro familiari.
La Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, che ospita la sede legale dell’associazione, ha accolto la sua nascita stipulando una convenzione. L’accordo ha l’obiettivo di promuovere l’associazione patrocinandone le attività e supportandone le iniziative. Sarknos sostiene la ricerca scientifica grazie all’organizzazione di eventi di informazione aperti a tutti. Inoltre, favorisce l’incontro e il confronto tra pazienti, familiari e personale sanitario e promuove la socialità, per far nascere idee e stimoli dalle esperienze comuni, abbattendo le barriere dell’isolamento e della paura. Tra i suoi obiettivi, inoltre, c’è quello di sensibilizzare i professionisti sanitari presenti sul territorio in merito all’importanza di un corretto percorso diagnostico e terapeutico, diffondendo la conoscenza dell’Ambulatorio per la Chirurgia dei Sarcomi e contribuendo a garantire un’adeguata presa in carico alle persone con una nuova diagnosi di sarcoma dei tessuti molli, con l’obiettivo di superare gli ostacoli che si frappongono all’accesso al miglior trattamento possibile.
I cambiamenti a volte possono essere inaspettati o a volte possono essere desiderati, possono essere sfide che sembrano insormontabili o possono essere gradini da salire (o da scendere). Ci possiamo sentire persi e disorientati o invece pieni di energie e motivati ad andare avanti. Può cambiare il terreno sul quale muoviamo i nostri passi, può cambiare il tracciato che stavamo seguendo o che stavamo creando, ma il percorso non si interrompe.
La metafora del “percorso” ci ricorda che la vita è un viaggio, un’esperienza continua di crescita, apprendimento e cambiamento. Nonostante i nostri piani possano essere sconvolti da eventi imprevisti, dobbiamo adattarci e trovare nuove strade per continuare il nostro cammino.
La chiave per affrontare il cambiamento e continuare il nostro percorso è l’adattabilità. Dobbiamo imparare a lasciar andare vecchi schemi mentali e abitudini che potrebbero ostacolare il nostro progresso. Accogliere il cambiamento e abbracciare l’ignoto, ci apre a nuove possibilità e ci aiuta a costruire una versione migliore di noi stessi. La paura del fallimento o del giudizio degli altri può limitarci, ma dobbiamo ricordarci che i fallimenti fanno parte del percorso. Ogni volta che cadiamo, possiamo imparare qualcosa di nuovo e ottenere la forza per rialzarci. Affrontare il cambiamento con coraggio ci porta a riscoprire il nostro potenziale nascosto e ci incoraggia a perseguire i nostri sogni con determinazione.
Ma più che il coraggio, aggiungerei “la felicità”, quella felicità che viene nel fare i percorsi fatti di corde e rami, di legno e ferro, come nei parchi per i ragazzi. Sicuramente si sentiranno coraggiosi a cimentarsi in quella sfida, ma penso che la spinta sia il “divertimento”, la voglia stessa di affrontare il percorso. Con un sorriso.
Per ricordarci i passi che abbiamo fatto finora, proviamo a riproporre quì, alcuni passi che, appena ci giriamo all’indietro, si aprono davanti a noi, significativi e densi di ricordi.
Andiamo avanti con lo sguardo rivolto davanti a noi. E le scarpe ben allacciate per affrontare il nuovo terreno.