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Tema davvero molto delicato quello del riconoscere e del riconoscersi. Tema delicato perché riguarda l’individuo e quello che ha intorno, riguarda la propria esperienza di vita e riguarda la sfera decisamente personale, quella idiosincrasia che è peculiare dell’individuo.
Pensando a come descrivere questo viaggio personale, mi è venuto in mente che uno dei modi sarebbe potuto essere quello di dare uno sguardo a quelle varie “interpretazioni” che – per forza di cose – cerca di farsi “messaggio universale”, ossia il Cinema: come il Cinema ha trattato, negli anni, questo tema.

Ecco 10 film che potrebbero esprimere al meglio tutto quello che io, con le mie sole parole, non riuscirei mai ad esprimere. Più un bonus al quale sono particolarmente legato.

1) “The King’s Speech” (2010) – Si concentra sulla lotta di un re per superare il suo balbettio con l’aiuto di un terapeuta non convenzionale.

2) “Girl, Interrupted” (1999) – Basato su una storia vera, il film esplora la vita in un ospedale psichiatrico e le relazioni tra i pazienti.

3) “Little Miss Sunshine” (2006) – Una commedia che segue una famiglia disfunzionale in un viaggio verso un concorso di bellezza, affrontando le loro debolezze e rafforzando i legami familiari.

4) “American Beauty” (1999) – Affronta temi di identità, desideri repressi e crisi di mezza età attraverso i personaggi principali.

5) “Eternal Sunshine of the Spotless Mind” (2004) – Un film che esplora le complessità delle relazioni e la memoria emotiva.

6) “Good Will Hunting” (1997) – Racconta la storia di un giovane prodigio che affronta i suoi traumi emotivi con l’aiuto di un terapeuta.

7) “Silver Linings Playbook” (2012) – Segue le vite di due persone che cercano di affrontare i propri problemi mentali e le loro relazioni interpersonali.

8) “A Beautiful Mind” (2001) – Basato sulla vera storia di John Nash, un genio della matematica che combatte contro la schizofrenia.

9) “The Perks of Being a Wallflower” (2012) – Esplora le difficoltà dell’adolescenza e la ricerca di identità attraverso il protagonista Charlie.

10) “Inside Out” (2015) – Un film d’animazione che personifica le emozioni per esplorare il processo di crescita emotiva e l’accettazione di sé stessi.

Il bonus è il film di François Truffaut “I 400 colpi”: il racconto – poetico e diretto – del passaggio della fanciullezza all’età adulta di Antoine, un ragazzo di 12 anni.
Mi piace pensare di chiudere questo articolo, con la stessa immagine che chiude il film, con lo sguardo fisso verso la camera, verso lo spettatore, con il rumore delle onde del mare che fanno da musica di sottofondo.

Non è così facile riconoscersi negli errori che facciamo. Non ci riconosciamo nei clamorosi abbagli che hanno cambiato il corso della nostra vita, né nei piccoli errori di valutazione che commettiamo tutti i giorni nostro malgrado. Poi se a far notare l’errore è un’altra persona, beh allora possiamo arrivare anche a negare il fatto stesso che sia un errore o possiamo essere più o meno accoglienti o accondiscendenti in base al grado di intimità che abbiamo con quella persona. Ma in generale quel “noi stessi” che erra, che sbaglia, che fallisce, che si trova in un percorso lontano dal proprio obiettivo, è una entità dalla quale ci si vuole distaccare, senza riconoscerla. Neghiamo la possibilità di fallire o, forse più propriamente, neghiamo che possiamo fallire.

Mi viene in mente il dipinto di Magritte dove un uomo si guarda allo specchio, ma non si può riconoscere nella figura specchiata perché è girato di spalle. Lo specchio non lo riflette, non lo riproduce (in effetti il titolo del quadro è “Non Riproducibile”)

La nostra società è attratta dal successo – che è obiettivamente l’opposto dal fallimento – ma stigmatizza il fallimento come un carattere perentorio, una valutazione sulla storia della persona che ha fallito.

Da qui certo non voglio dire che il fallimento sia una cosa da desiderare, ma una cosa da guardare in faccia, senza il terrore di provarlo.

In Informatica si è sviluppato un paradigma nuovo.
Per l’Agile Development un’avventura imprenditoriale è quella che “riconosce il fallimento” e cerca di massimizzare la velocità di apprendimento data dal fallimento e di ridurne al minimo le conseguenze. Sì perché chi meglio del fallimento ci da la possibilità di apprendere come raggiungere l’obiettivo che cerchiamo?
Il motto di questo metodo è “fail fast, fail often” – fallire presto, fallire spesso – perché si cerca di guardare in ogni percorso quelle caratteristiche che potrebbero far fallire il progetto e far “fallire” quel percorso, invece che l’intero progetto.

Mi piace ricordare che Enzo Ferrari nella fabbrica di Maranello aveva voluto una teca con tutti i pezzi che avevano fatto perdere una gara. Ogni pezzo rotto, ogni pistone crepato, ogni ammortizzatore spezzato, ogni radiatore bucato, ogni valvola divelta dalla potenza del motore, ogni turbo progettato male era lì, conservato con un cartellino con una data e una località, come fossero Coppe, medaglie, Trofei: una teca dove guardare in faccia l’errore e farsi ispirare da quello ogni volta.

    Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento palle, ventisei volte i miei compagni di squadra mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato.
    Ho fallito. Molte, molte volte.
    Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto.

    Michael Jordan

Il tema del riconoscimento è sicuramente uno dei più pregnanti dell’attualità geopolitica, portato prepotentemente alla ribalta dalle guerre russo-ucraina e israelo-palestinese a cui si è aggiunto più recentemente il conflitto “ibrido” con gli Houthi nel Mar Rosso che sta mettendo a rischio l’economia dell’occidente per le sue conseguenze commerciali.

Altri se ne profilano all’orizzonte, dove sembra sempre più prefigurarsi il già teorizzato “scontro tra civiltà” e, comunque, di chi vorrebbe un ordine mondiale diverso, a partire dal fronte dei paesi del BRICS che si sta progressivamente allargando, anche se ancora poco compatto ma con l’obiettivo chiaro di creare un ordine alternativo a quello occidentale.

Non è che tali contrasti, come tanti altri più o meno conosciuti non ci fossero in precedenza, ma si erano forse sopiti nell’indifferenza generale. In particolare, il conflitto più annoso tra Israele e Palestina, la madre di tutte le guerre, perché, mai come in questo caso, si tratta di un reciproco riconoscimento mai avvenuto, alla radice di gran parte dei mali del Medio Oriente e del terrorismo islamico, in cui si è sempre inserito il gioco dei gruppi religiosi, delle potenze regionali e dei grandi attori internazionali.

Eravamo abituati a leggere la “lotta per il riconoscimento”, tema hegeliano per eccellenza, in categorie come quella tra le classi sociali o, secondo il politologo e filosofo Axel Honneth teorico del riconoscimento, come l’ingiustizia di non riconoscere a una persona ciò che gli spetta portandolo all’esclusione sociale. Oggi assistiamo al bellum omnium contra omnes: terrapiattisti contro la scienza, complottisti contro “integrati”, no-vax contro pro-vax, scienziati contro sé stessi, politici in lotta tra di loro (adesso è diventata però una lotta perniciosa che coinvolge le Istituzioni) e, la cosa peggiore, lo scontro fratricida tra interi popoli e tra Paesi.

Quest’ultimo, si dirà, c’è sempre stato ma si pensava fosse ormai superato e mai di ritorno in queste forme novecentesche, con crudeltà che investono popolazioni inermi, con bombardamenti di ospedali, scuole, università e teatri alle porte della civilissima Europa che pensavamo di non dover mai più rivedere.

In questi giorni si sono celebrate la Giornata della Memoria e quella del Ricordo, a monito delle atrocità commesse nella Seconda guerra mondiale che, evidentemente non ci ricordano abbastanza che occorre l’impegno di tutti nel fermare queste disumanità. Il riferimento è in particolare all’Europa e al suo mancato ruolo come attiva costruttrice di pace. Dopo le macerie del 1945, si è dato forse per scontato un automatismo che avrebbe governato la pace e la democrazia e che non fosse invece necessario prodigarsi costantemente per la concordia tra i popoli e per il loro reciproco riconoscimento. È come se, tutti gli sforzi della grande politica internazionale in Occidente, si fossero concentrati sul pericolo comunista, come unico grande male del pianeta.

Nel 1992, dopo la caduta del muro di Berlino, Francis Fukuyama parlò di “fine della storia” che invece è tornata prepotentemente alla ribalta. Sotto la cappa del comunismo covavano infatti molti conflitti latenti, “neutralizzati” dall’URSS che aveva fatto da collante e “garante” del loro contenimento nonché da deterrente di molti altri anche al suo esterno, nel gioco delle sfere di influenza tra le potenze mondiali. In fin dei conti, occorre inoltre considerare che la storia è poi fatta dagli uomini, al di là di teorie su una supposta evoluzione dell’umanità.

Nel rapporto Censis 2023, sulla situazione sociale del nostro Paese, si parla di “sonnambulismo”, di un paese impaurito ma inerte e cieco di fronte ai presagi. Questa è però la situazione un po’ in tutta l’Europa, e forse, con i dovuti distinguo, in tutto il mondo occidentale. Quest’ultimo credeva di aver conquistato una posizione di benessere e rendita, senza fare i conti con il resto del pianeta e senza impegnarsi troppo come costruttrice di pace, che è cosa ben diversa dall’ “esportare” la democrazia.

La situazione chiama in causa le radici della democrazia stessa. Come affermava il filosofo e pedagogista John Dewey, quest’ultima deve poter trarre l’autorità dal suo interno, dalle fondamenta, dal suo demos, ecco perché è così importante l’Educazione, cosa di cui le nostre società sono manchevoli.

Dewey affermava che la bassa interazione sociale, la scarsità di relazioni nello spazio pubblico, diminuisce l’intelligenza collettiva. Ed è proprio quello che sta avvenendo, una società oscurantista che fa sempre meno uso della ragione, preda delle paure e delle fobie e, dunque, facile preda delle false credenze e delle manipolazioni, anche a causa del dominio sempre più invasivo dei social. Ormai anche la Politica ha adottato il modello “followers”. Questo è un altro dei problemi della nostra società che vede sempre di più la riduzione della dimensione pubblica e sociale a scapito di quella individuale e virtuale, dominata dagli algoritmi e caratterizzata dalle cosiddette “casse di risonanza”, le eco chambers, dove risuonano gli echi di tutti quelli che la pensano nello stesso modo o, peggio, abitate dai followers-sonnambuli.

In tutto questo, dobbiamo considerare il decadimento dell’Etica pubblica e il conseguente scadimento della politica, ormai priva di visione e appiattita sul contingente, sempre più ridotta a rappresentazione invece che a rappresentanza.  Non a caso, per rimanere a questi giorni, anche Sanremo è la cassa di risonanza di importanti questioni politiche.

Occorre sottolineare come il riconoscimento, a livello individuale, sia un bisogno primario dell’essere umano. Lo stesso desiderio nasce dal bisogno di riconoscimento che caratterizza l’esistenza stessa e la progettualità della persona. C’è la necessità di riconoscimento anche degli stessi desideri e di andare oltre gli echi e le false sirene dei social, che mirano al singolo individuo trasformandolo in un follower di bisogni. Qualcosa che, unito all’uso dilagante e improprio dell’intelligenza artificiale, richiama all’ “automa”. Anche le società dovrebbero però coltivare questo desiderio sulla base di un Ethos che le renda “erotiche” nel senso più squisitamente filosofico del termine.

Ho conosciuto Giacinta De Simone, qualche anno fa, in uno dei primi Festival della Sociologia di Narni, adesso arrivato alla sua VIII edizione, dove ci siamo ancora ritrovati. Ci ha subito unito l’interesse per questa materia affascinante e complessa (che è stata anche il suo oggetto di insegnamento nelle scuole), per le sue mille sfaccettature ed implicazioni sociali e politiche ma anche per i suoi riflessi individuali. 

Un microcosmo è sempre in rapporto con il macrocosmo che vi viene in qualche modo riflesso. E, forse partendo proprio da questa sua interiorità, che Giacinta De Simone ha sviluppato la sua passione per la poesia, prima ancora che per la sociologia.

Interno ed esterno, interiorità ed esteriorità, individuale e sociale, tutto si lega in questo suo sviluppo intellettuale. Sì, perché solo successivamente ho scoperto che dietro la sociologa, la docente di scienze umane e sociali, la counselor, c’era una poetessa. Scoperta stupefacente perché è raro trovare dei poeti, sarà che è rimasta scolpita nella mia mente l’orazione di Alberto Moravia, pronunciata nell’ormai lontano 5 novembre del 1975 alle esequie di Pasolini, dove affermava in modo accorato  “…E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo…”.

Certo, non si vogliono fare qui paragoni  inopportuni o impropri,  ma è pur certo che ci sono valide poetesse e poeti seppur nascosti e rari da trovare e ciascuno di loro è un microcosmo che rappresenta un mondo intero affascinante ed insolito.

Per Giacinta De Simone la poesia è una carezza per l’anima e un sogno di vita da parte di una persona molto sensibile, che si rivolgerà poi al sociale, non solo come studio e professione ma anche come impegno e partecipazione. E’ anche una persona estremamente riservata e avvezza alla modestia ma ha partecipato a importanti concorsi nazionali di Poesia e ha pubblicato le sue poesie con diversi editori.

Di seguito, in tema con il riconoscimento dell’altro che abbiamo deciso per questo numero di Condi-Visioni, una delle sue ultime pubblicata da Aletti Editore nel dicembre 2023, recita così:

La mia dedica a te

Tu.

Divini occhi azzurri,

     nei quali si legge e “tocca”

     l’avvolgente consistenza

d’umanità e d’anima

del tuo infinito.

Ne ho scelte tre dalla sua raccolta personale Poesie Chiare, che sono molto rappresentative del leit-motiv di questo numero.  

Poesia blu

Vorrei riversare su di te
non solo poche onde
ma tutto intero il mare del mio amore.
Non un mare scuro che ti sommergesse
senza più lasciarti vedere l’azzurro del tuo cielo.
Un mare chiaro, leggero, trasparente…
che miriadi di piccole gocce
bianche, celesti, azzurrine
ti danzassero libere intorno…
Fra tutte, vorrei che tu
ne lasciassi una posarsi sul tuo cuore
e, amandola, ti accorgessi che essa è blu.

Poesia blu” in AZ Arte Cultura 1995 Anno XX n.82.

In risposta a una tua fotografia

Nei tuoi occhi io mi vedo,
nel tuo sorriso c’è il mio,
io ci sono,
nei tuoi silenzi che mi abbracciano
io non mi perdo.

In risposta a una tua fotografia” in Figli oggi e domani Notiziario CAF 1997 Anno VII n.13.

Il colore dei neri

Il loro colore i neri
non ce l’hanno sulla pelle.
Come tutti quelli che hanno sofferto
ce l’hanno dentro, nell’anima.
E’ il colore della fatica e del sudore
nei campi di cotone,
il colore della sofferenza e del dolore,
della discriminazione e dell’apartheid,
del razzismo e della schiavitù.
E’ il colore intenso della loro musica
quando i loro corpi si muovono danzando
come solo loro sanno fare,
quando suonano jazz, swing e rhythm and blues,
quando cantano nei cori gospel.
E’ il colore del discorso di Martin Luther King
quando legge “I have a dream”,
delle troppe volte in cui qualcuno con disprezzo
li ha chiamati “negri”
e ha negato loro i diritti umani.
E’ un colore nero che brilla di luce, d’anima e di libertà.
E’ il colore dell’umanità alla quale tutti da sempre apparteniamo:
la nostra intera umanità, l’unica umanità.

Il colore dei neri” Newsletter Associazione Nazionale Sociologi (ANS) n. 4/2020

Nota biografica: Giacinta De Simone, nata a Gallipoli (Lecce) il 18 aprile 1955. Laurea in Sociologia, Diploma in Counseling, già Docente di Scienze umane e sociali, Counselor.

Le poesie e le foto sono state gentilmente concesse dall’autrice

C’è un bel film di Pedro Almodóvar, Volver (Tornare) dell’ormai lontano 2006, la cui trama si svolge in chiave retrospettiva.

In un dialogo fra madre e figlia, il pubblico conosce il retroscena.

E’ anche un ritorno al primo cinema di Almodóvar, che guarda al passato come un pannello di un grande affresco. Penélope Cruz, una delle protagoniste femminili che hanno fregiato il film al Festival di Cannes con il premio per la migliore interpretazione femminile (il film è stato premiato anche che per la migliore sceneggiatura), canta un bel brano del mito del tango Carlos Gardel, Volver (Ritornare), un brano composto nel 1935 insieme al compositore Alfredo Le Pera, entrambi morti giovanissimi nel tragico incidente aereo all’aeroporto di Medellín. Il famoso ritornello recita così:

Ritornare con la fronte ap­pas­sita

le nevi del tempo che ar­gen­ta­rono la mia tem­pia

Sentire che è un at­timo la vita

che vent’anni non sono niente

che feb­brile lo sguardo, er­rante nelle om­bre,

ti cerca e ti no­mina

Anche noi, con le tempie forse un po’ più argentate, torniamo con questa nuova iniziativa che si ricompone come il pannello di un affresco, con la precedente avventura di Condivisione democratica, durata oltre dieci anni, con cui si pone in continuità ma con tanti punti di novità.

Condi-Visioni, vuole essere uno spazio plurale di riflessione per chi si riconosce in un pensiero profondo contro le semplificazioni ed il flusso indistinto e rumoroso delle opinioni banalizzanti, schiacciate mediaticamente sul pensiero dominante o sull’inautenticità del “si dice”. L‘obiettivo è quello di una maggiore partecipazione e coinvolgimento, anche attraverso alcuni canali social e, non ultimo, l’ambizioso progetto di una web TV. Vogliamo usare internet come strumento innovativo ma, allo stesso tempo, esserne anche una sua filosofia critica, riconoscendone opportunità e limiti, cercando di superare quest’ultimi guardando kantianamente sempre all’uomo come un fine e mai come un mezzo, mettendo al centro il rapporto e la comprensione umana con un uso consapevole delle parole e un’analisi meditata dei fatti.

Uno dei problemi del sistema mediatico nel suo insieme, accentuato anche da un uso improprio dei social che, non invitano alla riflessione ma alla semplificazione per slogan, è proprio l’eccessiva polarizzazione. Lo stiamo vedendo con le drammatiche vicende degli ultimi tempi: i conflitti russo-ucraino e israelo-palestinese che ci riportano drammaticamente all’attualità.

Questo, non significa andarsi a schierare su posizioni bianco e nero ma, cercare di riflettere sulla complessità delle situazioni, sulla loro storicità e, con le dinamiche globali, guardando anche alle responsabilità delle varie istituzioni internazionali. Molti conflitti apparentemente regionali s’innestano, inoltre, in scenari di evoluzione geopolitica, alla ricerca di nuovi equilibri nel riassetto dell’ordine mondiale. La guerra, con le inumane atrocità a cui stiamo assistendo e lo spettro della catastrofe nucleare, è un infelice “ritorno” che pensavamo scongiurato, e che si ripresenta problematicamente nella sua drammaticità.

Anche il tema dell’immigrazione è un “ritorno”, se pensiamo alle lontane immagini dell’agosto del 1991 della nave Vlora al porto di Bari con migliaia di Albanesi che cercavano rifugio in Italia dopo la caduta dei regimi comunisti. Nell’immaginario collettivo quello che ci ha aperto gli occhi su questo problema epocale. Ad oltre 30 anni da quell’evento, stiamo discutendo ancora di come gestire queste situazioni e, per ironia della sorte, vorremmo usare noi, oggi l’Albania come centro di destinazione degli immigrati.

Ultimo, ma non meno importante, il grande problema dei cambiamenti climatici che ci sta molto a cuore, come futuro dell’umanità e nostro tema prioritario. Per rimanere in tema, c’è chi afferma che si tratta di un “eterno ritorno” con il succedersi di ere di glaciazioni e riscaldamenti.

Le controversie scientifiche tra i negazionisti e coloro che sostengono i cambiamenti climatici sono oggetto anche di dibattiti politici con le varie implicazioni a livello geo-politico. I paesi in via di sviluppo non vogliono infatti affrontare i costi della sostenibilità che avrebbero impatto sui loro modelli di sviluppo economico, visto che ritengono di essere in una fase storica che i paesi più avanzati hanno già passato, avvantaggiandosene. Questo è evidente anche nella sofferta Cop28 (la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) di questi giorni, sulla risoluzione per la de-carbonizzazione, dove viene spacciata come una vittoria la presenza nel testo dei “combustibili fossili” (carbone, petrolio e gas). Intanto, i principali produttori di quest’ultimi, si oppongono agli intenti di una loro completa eliminazione (phase-out) entro il 2050. Si parla infatti di allontanamento (transitioning away) ma, effettivamente, già il riconoscimento da parte di quasi 200 Paesi che i combustibili fossili sono la causa dell’aumento della temperatura del pianeta e che occorra prendere delle misure, è di una certa portata storica.

C’è poi il tema di chi debba pagare questa transizione, se chi produce più CO2 oggi o chi l’abbia prodotta già dal passato, con la prima industrializzazione. Annosa e controversa questione che vede sostanzialmente contrapposti, il blocco del BRICS con quello “occidentale”.

L’eccessiva antropizzazione con attività che gravano in modo irreversibile sulla vita del pianeta, rendono urgenti, al di là di riconoscimenti e intenti, azioni concrete e provvedimenti non più procrastinabili perché i problemi, al di là di tutto, sono di tale natura e portata che richiedono un contenimento dell’Uomo sul Pianeta per non perdere forse l’ultima opportunità di incidere sulla crisi climatica e sulle risorse della Terra.  

Partendo dal tema del Ritorno, passando con leggerezza dal film di Almodóvar alle crisi umanitarie, climatiche e alle guerre, senza voler essere catastrofisti, ci e vi domandiamo, siamo forse arrivati a un punto di Non Ritorno?

Nel corso della vita, tutti noi affrontiamo dei momenti di “ritorno”. Possiamo ritornare a casa dopo un lungo viaggio, ritornare alla routine dopo le vacanze, ad esempio.
Il ritorno descrive i percorsi in modo “circolare”, una ruota che fa la sua rivoluzione per tornare nella stessa situazione di prima, ma è davvero così? Tornando, ci troviamo a confrontarci con il nostro passato e a misurare quanto siano cambiate le cose nel frattempo, anche quanto siamo cambiati noi. Un’opportunità di riflessione e di crescita.

(Foto di Carlo Bavagnoli alla mostra fotografica “Costantino Nivola. Ritorno a Itaca”. )

Il Ritorno a Casa

Sicuramente il tipo di ritorno più comune. Possiamo esser stati lontani per poco tempo – come una giornata lavorativa – o per un periodo lungo, la girare la chiave nella serratura e poi aprire la porta è sempre associato ad un momento di emozione. E’ un’occasione per rivedere la luce ed il profumo del proprio posto, per rivedere amici e familiari, ma può portare con sé anche un senso di nostalgia e una riflessione su quanto siano cambiate le cose per come ce le ricordavamo.
Ma se il viaggio, la distanza è stata alquanto lunga, al ritorno a casa si possono notare differenze anche sulle strade della nostra città natale, la si può trovare più bella o più sporca, più frenetica, più piacevole da vivere a passare nei suoi locali e si può essere accompagnati dalla sensazione di confronto tra la persona che siamo diventati e quella che eravamo quando l’abbiamo lasciata. Perché forse a cambiare siamo stati noi.

Il Ritorno alla Routine

Il ritorno alla routine quotidiana dopo un periodo di pausa, come le vacanze estive, può essere un’esperienza altrettanto significativa.
Durante le vacanze, si “stacca la spina” dalla solita routine, e il ritorno alla normalità può suscitare sentimenti contrastanti.
Da un lato il ritorno alla routine può portare con sé un senso di stabilità e comfort, mentre dall’altro può anche farci riflettere su come impieghiamo il nostro tempo e se stiamo perseguendo ciò che è veramente importante per noi. Questo può spingerci a fare cambiamenti significativi nella nostra vita.

Il “ritorno” è un tema universale, che tocca la vita di ognuno di noi, che tutti noi abbiamo sperimentato.
E’ una bella opportunità per la riflessione, la crescita e il cambiamento. Se affrontato con apertura e consapevolezza, il ritorno può portare a nuove prospettive e a una maggiore comprensione di noi stessi e del mondo che ci circonda.

Forse il “ritorno” ci da l’idea di non avanzare davvero, ma forse non importa dove ci porterà questo viaggio, perché in ogni passaggio c’è un’esperienza che ci aiuta a crescere e a scoprire chi siamo veramente.

Come informatico call conference e meeting on-line sono da anni nel mio piano di lavoro quotidiano. Ci si incontrava con i colleghi che – in particolare nel fine settimana – tornavano verso città natale a trovare i genitori, ma continuavano a lavorare e, insieme, si valutavano gli avanzamenti, ci si incontrava con i fornitori, spesso, soprattutto se si trattava di aziende “dislocate” fuori dal territorio romano o, in genere, italiano. Con i Clienti questo approccio avveniva più di rado, perché “una stretta di mano” ha sempre una sua importanza e perché a volte “a quattr’occhi” ci si capisce meglio.


Poi con il 2020 tutto è cambiato.
Anche gli aperitivi tra amici sono diventati virtuali, le visite ai genitori e ai parenti sono state sostituite da video chiamate. Mancava il calore di un abbraccio, ma è vero anche che ha permesso di aumentare il numero delle “visite” e alle parole per telefono si è aggiunto anche il viso in “primo piano”. Anche le persone più in la con gli anni, si sono adattate e hanno trovato il modo di addentrarsi nel mondo virtuale. Quanti nonni impacciati, consigliati dai nipoti, nativi digitali.

(Immagine Creative Commons)

E cos’è accaduto al mondo del lavoro?

Microsoft ha recentemente condiviso alcuni numeri estratti dall’uso della piattaforma di videoconferenze e attività di lavoro Teams. Tra il 2021 e il 2022 le riunioni sono complessivamente aumentate di numero, ma sono diventate più brevi e occasionali, perché cambiata la finalità. Le riunioni rapide e senza ricorrenze sono diventate il 64% del totale. Riunioni da meno di 15 minuti sono diventate più del 60 per cento delle riunioni programmate sulla piattaforma, mentre quelle della durata di un’ora o più, sono diminuite di molto.

Sulla base dei numeri forniti da Microsoft si può vedere che le riunioni costituiscono praticamente un giorno alla settimana (7,5 ore di riunione sui 5 giorni lavorativi settimanali).

Il Wall Street Journal riassume il tutto in «Le riunioni possono essere le sabbie mobili della giornata di lavoro» in questo articolo uscito qualche giorno fa. E citando un sondaggio condotto su oltre 2.000 dipendenti riporta che dopo 15 minuti si perde l’attenzione e le riunioni che durano oltre l’ora (quelle dedicate allo Stato di Avanzamento dei Lavori) risultano essere meno produttive di quelle sotto questa soglia.

Fatta questa premessa, arrivo all’attualità.
Il ritorno in ufficio.
E sì perchè se Settembre è, in genere, il mese del ritorno in ufficio dopo la pausa estiva, dopo l’abbronzatura sulle spiagge o dopo le lunghe passeggiate in montagna, il Settembre di quest’anno è stato il mese del rientro in ufficio, in presenza. Si sono infatti ridotte drasticamente le ore di “Smart Work“, relegate ad essere al più 8 giorni al mese o proprio zero. Andare in ufficio è tornato ad essere normale. So che in molti se ne sono accorti dal traffico che si trova sulle strade di scorrimento, specificherei sul Raccordo e sulle “consolari” per chi come me vive nella capitale, dove gli incolonnamenti hanno raggiunto vette che non ricordo di aver vissuto prima.
Il piacere di rivedere i colleghi, di avere insieme una pausa caffè al bar o anche più modestamente alla “macchinetta”, ha preso lo spazio temporale che prima era dedicato alla cura del proprio animale domestico o alla lezione di yoga seguendo un corso on-line o anche solo a prendere le cose con più lentezza.

Vediamo le differenze sul nostro quotidiano: spendiamo più tempo nel traffico, ma penso si possa dire che le riunioni in presenza siano più produttive, anche se il numero dei “task” eseguite, il numero delle pratiche lavorate, è sostanzialmente aumentato di pochissimo. Sarebbe interessante chiedere a qualche specialista, uno psicologo o un sociologo, quali siano le realtà che si vedono con delle lenti più focalizzate a cogliere queste differenze.

Ma c’è chi non crede e non ha mai creduto al lavoro fuori delle mura dell’ufficio: Elon Musk. Il miliardario statunitense è stato sempre contrario all’uso dello SmartWork anche in piena autonomia. In quel momento ricordava che “As a basis for comparison, the risk of death from C19 is vastly less than the risk of death from driving your car home” – che posso tradurre come “Come base di confronto, il rischio di morte per Covid19 è molto meno che il rischio di morire guidando verso casa“.
Si potrebbe obiettare che in effetti aumentare il traffico veicolare, aumenta il rischio di incidenti mortali, ma sorvoliamo.

Dall’account Twitter di “Internal Tech Email

Questa frase la scrisse a Marzo del 2020 – mentre in Italia entravamo in Lockdown e ci riunchiudevamo in casa – mentre dopo due anni aggiunse che «Chiunque voglia fare smart working deve comunque essere in ufficio per almeno (sottolineo almeno) 40 ore la settimana, altrimenti lasci Tesla»
Evidentemente convinto che il detto italiano “L’occhio del padrone ingrassa il cavallo” aggiunse anche che «È il motivo per cui passo così tanto tempo in azienda […], se non l’avessi fatto SpaceX sarebbe andata in bancarotta già molto tempo fa», esortando così i suoi dirigenti: «Più è alto il vostro livello nell’azienda, e più la vostra presenza dovrà essere visibile»

Ma lavorare in mobilità, fuori dall’ufficio non è mai stato chiamato “comfortable work” – lavoro comodo – ma “smart work” – lavoro intelligente – perché cerca di coniugare il più possibile la produttività con la gestione del tempo non solo speso all’interno del posto di lavoro, ma anche al suo esterno. Ogni ora che non si perde nel traffico può essere impiegata per la cura dei propri cari, ad esempio. Secondo alcune stime si può parlare di 190 ore all’anno che si trascorrono all’interno dell’auto, nel traffico (questo a Roma, una delle medie più alte in Europa).

Da tutto questo direi che per trasformare lo “Smart Work” in un “Wise Work“, per renderlo saggio e non solo furbo, intelligente. Dobbiamo coniugare queste varie variabili: non impiegare tempo in riunione poco produttive e che – in fondo – ci fanno sbadigliare (e a videocamera spenta e microfono spento sono sicuro qualcosa l’abbiamo fatto tutti), cercare di coniugare al meglio il tempo personale con quello per il lavoro. Cercando di rimanere imbottigliati nel traffico il meno possibile.

Che siano buoni propositi per questo nuovo inizio.

Si racconta una storia molto carina su questa nave, su la nave più bella del mondo.

Era un giorno del luglio 1962. Mare aperto, nel Mediterraneo orientale, uno dei ragazzi sulla portaerei statunitense “USS Independence”, usa il lampeggiante e in codice morse – strumento desueto con un linguaggio desueto, per mandare una segnalazione alla nave che segue più o meno la stessa rotta a distanza. Di solito queste segnalazioni avvengono via radio e di solito vi è una dichiarazione sul “diritto di precedenza” sull’incrociare la rotta. Invece in quel giorno di Luglio del 1962, parte il messaggio: «Chi siete?». La risposta dall’altra nave: «Nave scuola Amerigo Vespucci, Marina Militare Italiana».
«Siete la più bella nave del mondo».

Ecco, la nave più bella del mondo è la Amerigo Vespucci.

Il motto di una nave è scritto in una targa che è accanto al timone, una frase che poi viene ripetuta negli “Hip Hip Hurrà” e nei saluti tra i cadetti. Quando fu varata – il 22 febbraio 1931, quasi 100 anni fa – la nave era accompagnata dal motto “Per la Patria e per il Re”, che fu cambiato, dopo la trasformazione dell’Italia in Repubblica, in “Saldi nella furia dei venti e degli eventi”.
Il primo Luglio di quest’anno la nave è tornata in mare aperto per fare il giro del mondo.
E un pò un viaggio intorno al mondo, me lo immagino un pò così, con la ciurma sempre concentrata nonostante le intemperie e le avversità.
Ma in realtà dal 1978, il motto della nave è diventato “Non chi comincia ma quel che persevera”.

Sintetica poesia di come si possano affrontare le difficoltà, di come si può prestare il viso a quei venti e quegli eventi, saldi, nella perseveranza del raggiungere il proprio risultato.

Ora, mentre scrivo, l’Amerigo Vespucci si trova a Pier Mauá, il porto porto di Rio de Janeiro, quasi pronta a partire alla volta di Buenos Aires. Verso quella terra e verso quei cittadini italiani che a Roma hanno regalato un faro – posto sul promontorio del Gianicolo – per dare la luce a tutti gli italiani.

Mi fa piacere seguire il percorso in questo viaggio che durerà più di un anno e mezzo – 20 mesi per la precisione.

Certamente Condi-Visioni non è propriamente il primo magazine ad occuparsi del concetto del “ritorno”. Tantissime persone prima di noi, tantissimi giornalisti prima di noi, tantissimi artisti prima di noi hanno affrontato questo tema, condividendo con gli ascoltatori, i lettori, gli spettatori le sensazioni e le riflessioni.
Da cinefilo, faccio un elenco di 10 film che hanno dato una loro chiave di lettura.

Forrest Gump” (1994) – Tutta la storia della vita di Forrest Gump ha inizio dal suo ritorno a Greenbow, sua città natale in Alabama, e mentre riflette sulla sua vita passata, nel suo modo candido, racconta la sua storia.

(Forrest Gump – 1994)

Il Padrino – Parte II” (1974) – Il sequel de “Il Padrino” di Francis Ford Coppola esplora il ritorno alle origini di Michael Corleone nella città di Corleone in Sicilia. Questo ritorno è una parte cruciale della trama e offre una prospettiva sul suo passato e sul suo futuro.

Into the Wild” (2007) – Il concetto del ritorno alla natura e alla semplicità è centrale nella trama. Basato su una storia vera, il film segue la vita di Christopher McCandless, un giovane che decide di abbandonare la sua vita precedente e intraprendere un viaggio attraverso l’America.

Big Fish – Le storie di una vita incredibile” (2003) – Una commedia drammatica di Tim Burton. Si seguono le vicende William Bloom mentre torna nella sua città natale per stare al fianco di suo padre morente. Il film esplora le dinamiche familiari e il concetto di ritorno.

Rain Man – L’uomo della pioggia” (1988) – Questo film diretto da Barry Levinson segue il personaggio di Tom Cruise, Charlie Babbitt, mentre intraprende un viaggio per riconnettersi con suo fratello autistico, Raymond, interpretato da Dustin Hoffman. Il ritorno di Charlie nel mondo di suo fratello porta a una profonda trasformazione nella sua vita.

Into the Woods” (2014) – Questo adattamento cinematografico del musical di Stephen Sondheim mescola le storie di diversi personaggi delle fiabe che intraprendono un viaggio per ottenere i loro desideri, ma alla fine devono affrontare le conseguenze dei loro atti mentre tornano alle loro vite quotidiane.

La Ricerca della Felicità” (2006) – Basato su una storia vera, questo film segue il viaggio di Chris Gardner, interpretato da Will Smith, un uomo senza casa che cerca di costruire una vita migliore per sé e suo figlio. Il suo ritorno alla stabilità finanziaria è un tema centrale nella trama.

Il Ritorno di Mary Poppins” (2018) – Questo sequel del classico Disney “Mary Poppins” vede il ritorno della tata magica, interpretata da Emily Blunt, alla famiglia Banks. Il film esplora come il ritorno di Mary Poppins influisce sulla vita dei protagonisti.

Un Giorno di Pioggia a New York” (2019) – In questo film scritto e diretto da Woody Allen, un giovane coppia interpretata da Timothée Chalamet e Elle Fanning torna a New York City per un fine settimana e si imbatte in avventure inaspettate mentre riflettono sulle loro vite.

Ritorno al Futuro” (1985) – Come potrebbe mancare questo film? Il giovane Marty McFly (il giovanissimo Michael J. Fox) torna indietro nel tempo con l’aiuto di un eccentrico scienziato, interpretato da Christopher Lloyd, e deve assicurarsi che i suoi genitori si incontrino per garantire il suo futuro.

Commedie, drammi, fantascienza, tante chiavi interpretative per raccontare il concetto del ritorno. Tanti spunti di riflessione, da vedere o – certamente – da rivedere.

L’altra parte del globo terrestre è sufficientemente lontano per non avere i problemi che attanagliano la nostra penisola? A quanto pare no. Anche in Argentina ci si interroga su cosa sia la Mafia e quali siano gli strati sociali che ne permettono il radicamento e la diffusione.

Riceviamo da Gabriele Paolo Smeriglio, che ringraziamo, una riflessione e una recensione del nuovo libro di Maria Soledad Balsas, e la pubblichiamo con molto entusiasmo.


Quanto merito ha chi dà il là a una nuova specifica linea di ricerca? Quanto vale reggere gli urti, pubblicare e – soprattutto – farsi leggere nonostante mercantilizzazione e monopoli della conoscenza? Secreto a voces. Mafias italianas y prensa en la Argentina di María Soledad Balsas è un’opera necessaria. Ha il coraggio di dar voce a un dibattito già esistente su uno degli elementi costitutivi dello Stato-nazione: le mafie. Allo stesso modo, si fa carico di un bel fardello perché decide trattare un argomento su cui in Argentina, come ammette la stessa autrice, diversamente da altri paesi del mondo anglosassone in cui vi è una consistente presenza di italiani e nelle cui università la storia delle mafie è spesso scientificamente trattata, si sa ancora molto poco. 

Al giorno d’oggi, scrivere di mafia e sulla mafia è arduo, soprattutto in un contesto in cui un’iperinflazione discorsiva ad essa dedicata rende difficile comprendere il significato stesso del termine. Balsas (2021) ne parla nel suo lavoro sulla copertura giornalistica delle mafie italiane in “Clarín” tra il 1997 e il 2020 in cui sostiene che la nozione di mafia non è sufficientemente delimitata nell’agenda pubblica locale e spesso finisce per essere banalizzata e assimilata a qualsiasi forma di clientelismo o corruzione. Balsas si prende l’onere di fare chiarezza, una responsabilità accentuata dal grande vuoto accademico sull’argomento in Argentina.

Parlare di mafia significa anche farsi dei nemici, evidenziare i limiti autoimposti di quei giornali a larga diffusione che, piaccia o no, esercitano un’influenza nei confronti di larghe fette della popolazione degli stati moderni. L’autrice, ha il merito di sviluppare coerentemente le tematiche promesse in sede di ricerca e, non meno rilevante, di non annoiare il lettore. Riesce a farlo mettendo insieme ingredienti fino a ieri studiati spesso solo singolarmente. Nel suo libro si riferisce all’esaltazione onnipresente della figura del mafioso come leader carismatico, portatore di un certo charme, protagonista assoluto del genere giornalistico della cronaca, soprattutto quella dei crimini violenti. Infatti, è spesso presente un fascino perverso legato a un modo di costruire la notizia che mette in risalto il male e l’illegalità a scopo di vendita. Cosa nostra risulta, secondo quanto appurato da Balsas, essere la più citata delle quattro espressioni territoriali mafiose, la sacra corona unita la meno usata. Tuttavia, l’etichetta “mafia” non è usata solo per riferirsi alla versione siciliana, ma è estesa in modo generico a tutte le altre. 

Alla base del lavoro di Balsas è fortemente presente una riflessione difficilmente non condivisibile. Ovvero, nell’epoca delle mafie globalizzate, risulta ingenuo, se non empiricamente falso e forse ideologicamente di parte, sostenere che le potenti organizzazioni criminali nate in Italia e proiettate nel mondo non abbiano riscontro nel Paese che ospita il maggior numero di italiani residenti fuori dall’Italia. Così come continuare a ritenere che i tre milioni di italiani arrivati in Argentina tra la metà dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del Novecento, a cui si aggiungono i flussi più recenti, abbiano portato con sé solo capitali e conoscenza all’arricchimento del Paese. Una revisione critica di questi temi non può, ad avviso dell’autrice, evitare di interrogarsi sull’identità in Argentina, né può ignorare un’analisi delle condizioni sociali, politiche e culturali attraverso le quali il negazionismo mafioso è diventato egemone.

Premesso ciò, generare dati scientificamente validi sulle mafie italiane in Argentina non è certo un compito facile. Oltre alla scarsità di ricerche di base, vi è una carenza di fonti di informazione affidabili a causa della natura sfuggente dell’argomento. Secondo Balsas, gli sviluppi presentati dal libro sarebbero di interesse non solo nel campo specifico della ricerca sulla comunicazione come disciplina scientifica, ma potrebbero essere potenzialmente utili anche per altre aree di conoscenza correlate. Il giornale è portatore sano di un potenziale comunicativo che va ben oltre il significato grafico. Gli articoli non vanno semplicemente letti e le immagini osservate. Il messaggio, infatti, non inizia e finisce lì, ma deve presupporre una comunicazione preliminare, se non un vero e proprio repertorio di conoscenze condivise.

L’analisi, corpo centrale dell’opera di Balsas si basa su tre casi giornalistici. Il percorso proposto, come afferma l’autrice, non è certamente esaustivo, ma all’interno di esso ognuno dei tre casi costituisce una delle tre tappe fondamentali che, per azione o per omissione, hanno contribuito a modellare l’attuale immaginario mafioso del Paese. L’attenzione al framing, definito come l’insieme dei principi cognitivi culturalmente condivisi che agiscono a livello simbolico nella strutturazione significativa del mondo sociale, è molto rilevante in questo contesto. Tale approccio cerca di spiegare l’interpretazione di una situazione inedita presentata dai media in relazione alle cognizioni pregresse del pubblico. Come ricorda Balsas, se è vero che la statura morale di un organo di informazione è percepita tanto o più da ciò che omette che da ciò che pubblica è quindi necessario prestare attenzione sia ai modi in cui si racconta, sia a ciò che non si può o non si vuole raccontare, e persino a ciò che si racconta senza volerlo. È il caso, aggiunge, anche del concetto di agenda cutting, che si riferisce a questioni che non attirano l’attenzione a causa della scarsa o nulla copertura mediatica, dovuta a restrizioni di spazio, pressioni interne e/o esterne o pregiudizi del giornalista. L’omissione, la mancata copertura o il trattamento volutamente subordinato o penalizzato di specifici eventi, oggetti o persone da parte della stampa avrebbero effetti cognitivi, cumulativi e radicati nel tempo, che incidono sui sistemi di conoscenza che il pubblico struttura in modo duraturo.

Il lavoro d’archivio alla base del lavoro di ricerca di Balsas è stato caratterizzato dalla disponibilità di fonti presso l’Hemeroteca de la Biblioteca Nacional de la República Argentina. In generale, è stata privilegiata la traduzione dei testi italiani nella trascrizione letterale in lingua originale per la stessa ragione per cui è stato scelto uno stile più vicino al saggio che alla monografia accademica, ovvero ampliare il pubblico a cui il lavoro si rivolge. Nella prima sezione si propone un’analisi comparativa di tre giornali in lingua italiana – “L’Italia del Popolo”, “La Nuova Patria” e “Il Mattino d’Italia” – pubblicati a Buenos Aires nella prima metà del Novecento in relazione al caso Ayerza, con l’obiettivo di problematizzarne le posizioni politico-editoriali. In questo modo, Balsas cerca di offrire nuovi spunti allo studio del rapporto tra mafie italiane e media in Argentina con riferimento a un caso emblematico, già studiato in relazione alla stampa argentina.

Il secondo capitolo si occupata della recensione del film La Maffia, di Leopoldo Torre Nilsson, da parte della stampa argentina, apparsa nei supplementi dedicati allo spettacolo di “Clarín”, “La Razón” e “La Prensa” il giorno successivo alla prima a Buenos Aires. Successivamente, Balsas esamina la definizione del frame utilizzato per presentare il caso ne “L’Eco dei Calabresi”, senza trascurare la sua ripercussione ne “La Nación”. Infine, problematizza la discussione sulla presentazione degli interessi della comunità italiana e calabrese a partire dagli elementi interpretativi messi in campo ne “L’Eco d’Italia”.

Infine, l’autrice riflette sul modo in cui la Strage di Capaci, in cui il giudice Giovanni Falcone, la moglie e le sue guardie del corpo furono assassinati per ordine della mafia il 23 maggio 1992, fu riportata dai giornali “Clarín” e “La Nación”. Balsas si chiede in che modo la stampa nazionale argentina elaborò l’evento che segnò una svolta nella storia della lotta antimafia in Italia; quale importanza gli fu data; quali frame furono utilizzati nella presentazione della notizia. In contrapposizione, sulla sponda italiana, Balsas analizza sono le caratteristiche del trattamento dell’eventi nella stampa di lingua italiana in Argentina.

Dal primo capitolo si apprende come tra la fine del 1932 e l’inizio del 1933 l’opinione pubblica argentina fu scossa dal rapimento e dal successivo omicidio di Abel Ayerza. Questi fu rapito il 23 ottobre 1932 a Corral de Bustos, nel sud-est della provincia di Córdoba, mentre si trovava in vacanza in una tenuta di Marcos Juárez con alcuni amici. La famiglia Ayerza pagò il riscatto richiesto dal clan di Giovanni Galiffi poco dopo il rapimento, ma a quel punto Ayerza era già morto, fu assassinato il 1° novembre 1932. Dalle ricerche dell’autrice si evince che il caso provocò la mobilitazione di alcuni settori della destra nazionalista che, sulla base della provenienza dei responsabili, manifestarono il loro biasimo per una migrazione che definivano indesiderata. In termini generali, afferma Balsas, la stampa argentina, che aveva sperimentato una strutturale mancanza di esperienza e di conoscenza nella definizione dei termini simbolici degli eventi mafiosi fin da quando questi cominciarono a essere rilevati in alcune aree urbane verso la fine del XIX secolo, nel trattare il caso fu permeabile al modello cinematografico allora diffuso nel giornalismo di polizia. 

Le vicende del caso Ayerza furono al centro di un’intensa trattazione giornalistica in cui, si legge nel capitolo, sono identificabili due diversi regimi simbolici che fanno riferimento, rispettivamente, all’esecutore ideologico del crimine, Giovanni Galiffi, e agli artefici materiali della sua esecuzione, Giovanni Vinti e i fratelli Di Grado. La figura di Galiffi, fondata sul suo percorso migratorio dalla Sicilia per diventare un self-made man di successo nel luogo di approdo, fu costruita dalla stampa argentina secondo i parametri dell’immaginario gangsteristico degli anni Trenta, basato sulla cura dell’immagine pubblica e sulle articolate connessioni politiche. L’angoscia straziante della devota madre di Ayerza rappresentò la chiave di volta e attivò immagini ancestrali piene di risonanze religiose sulla maternità, sull’amore materno e sul vincolo matrimoniale.

La teoria criminologica dell’epoca e citata nel libro forniva strumenti e conoscenze che presupponevano che le caratteristiche biologiche o psicologiche di un individuo fossero la fonte e la conseguenza del suo destino di criminale. Grazie a queste procedure, attivisti politici, criminali comuni e mafiosi vennero indistintamente etichettati come “nemici della nazione”. La forte presenza di fonti storiche nel corso della lettura del capitolo argomenta che tra il 1932 e il 1936 la polizia espulse centinaia di “indesiderabili”, accusati di militanza comunista e anarchica, o di coinvolgimento nella criminalità organizzata. Le espulsioni, inoltre, proseguirono per tutto il decennio, legate all’attività di rappresaglia nei confronti del comunismo e della militanza antifascista.

Come ricostruisce Balsas, a Buenos Aires l’importanza della stampa italiana era già stata dimostrata nel censimento municipale del 1887, quando i giornali italiani di Buenos Aires stampavano 20.000 copie al giorno, mentre dei 65 giornali stranieri pubblicati a Buenos Aires nel 1896, 22 erano italiani. I periodici non solo riportavano gli avvenimenti del Paese d’origine e gli eventi nazionali, ma fornivano anche assistenza e consigli ai migranti. Nel grande panorama della stampa italiana in Argentina, si distinguevano “La Patria degli Italiani”, “Il Mattino d’Italia” e “L’Italia del Popolo” per la continuità raggiunta durante il periodo fascista e per il livello di distribuzione raggiunto. “L’Italia del Popolo” trattò il caso Ayerza a partire dal 25 ottobre 1932.

A riprova dell’attenzione posta dall’autrice a storia e teorie sulle mafie si argomenta che prima che un’organizzazione criminale su base etnica, la mafia sembrava esprimere uno stile di vita maschile ai margini di un’urbanità pericolosa e feroce, segnata dalla miseria. Tuttavia, il caso Ayerza si distacca da una certa predeterminazione della criminalità mafiosa che aveva pervaso la storia fino a quel momento. È infatti ambientato in zone rurali, coinvolge sia uomini che donne di origine italiana, e le sue vittime non sono più cittadini anonimi.

Accanto ai temi presenti nella stampa argentina, ne emergono altri nuovi, che riflettono non solo il diffuso sentimento anti-italiano, ma anche e soprattutto le differenze ideologiche all’interno della comunità italiana in Argentina. Se l’offesa e l’apporto economico dell’emigrazione italiana in Argentina fungono da frame, ciò che viene conteso è la auto-assunta difesa dell’onore degli italiani all’estero da parte delle autorità e, di riflesso, della stampa fascista, in particolare “Il Giornale d’Italia” e “Il Mattino d’Italia”. Per quanto riguarda il trattamento dell’informazione, anche nella stampa argentina si può osservare una certa tendenza alla spettacolarizzazione. Questo sistema di definizione delle notizie mirerebbe ad attirare l’attenzione del pubblico e suscita un’attenzione emotiva. L’uso di caratteri grafici in maiuscolo, così come la scelta di titoli altisonanti per attirare l’interesse del lettore, sono un’ulteriore prova di un modo sensazionalista di concepire le notizie.

Balsas non manca di descrivere brevemente l’origine delle organizzazioni mafiose più diffuse in Italia. Iniziando con la camorra, prima formazione mafiosa conosciuta e presente sulla scena criminale di Napoli. Si trattava di un fenomeno urbano che riuniva i settori che speculavano sulla ricchezza prodotta dal lavoro agricolo, dal furto di bestiame, dalla sorveglianza della proprietà terriera altrui e dall’estorsione del commercio. Inoltre, aggiunge che è opinione comune che la mafia siciliana sia nata dopo l’unità d’Italia. Diversamente dalla camorra napoletana, questa era prevalentemente agricola. La sua attività si concentrava nelle pianure irrigue coltivate a frutta intorno a Palermo, nelle aree minerarie sulfuree del centro-sud e nei grandi latifondi dell’entroterra. Nella Sicilia della seconda metà dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, i grandi proprietari terrieri avevano al loro servizio le guardie mafiose, che con la loro presenza fisica sui terreni non solo garantivano la protezione contro gli atti di banditismo o di rapina e mantenevano la disciplina tra i contadini, osteggiando le loro pretese e assurgendo al contempo al compito di punire i più ribelli, che non volevano piegarsi. Da allora, le prospettive di alcuni gruppi mafiosi si sono internazionalizzate, grazie alle opportunità fornite dal mercato nero e dal contrabbando. 

Per Gambetta (1992), la data più plausibile per l’origine della mafia è il 1812, quando in Sicilia iniziò la dissoluzione del feudalesimo, e nel 1860-61 probabilmente erano già state gettate le basi di questa industria. I cambiamenti indotti nella proprietà terriera dalle riforme politiche introdotte tra il 1860 e il 1885 con l’estensione della democrazia e quando la politica locale si mescolò alle tensioni preesistenti, diedero un nuovo impulso ai “protettori” di professione, allargandone anche gli orizzonti.

Sulla la mafia calabrese, l’autrice afferma che essa sembra essere emersa all’incirca nello stesso periodo dei carbonari e strutturata secondo le stesse linee, poiché il suo modello e il suo rituale sono ancora massonici. La ‘ndrangheta possiede una struttura improntata ai rapporti di parentela dei capobastone, che è stata centrale per prevenire la collaborazione con la giustizia dei suoi membri. Uno dei suoi punti di forza rispetto alle altre organizzazioni mafiose è stata la strategia di diversificazione geografica. Infine, la sacra corona unita rappresenta la più recente delle quattro organizzazioni mafiose classiche italiane. Emersa in risposta alla crescente diffusione territoriale di organizzazioni mafiose provenienti da regioni vicine.

L’autrice afferma che lo studio del trattamento del caso Ayerza nella stampa etnica italiana a Buenos Aires mostra che l’importanza attribuita al caso non è univoca. Tuttavia, data la parzialità delle fonti consultate, non risulta possibile tracciare un quadro esaustivo della questione. Più che da un’origine nazionale condivisa, essa sembra essere determinata dalla posizione politico-editoriale assunta in ciascun caso analizzato. Mentre l’antifascista “L’Italia del Popolo” dedicò più spazio ai dettagli del caso per un periodo di tempo più lungo, la copertura de “La Nuova Patria”, che utilizzava l’ironia come arma principale, era funzionale a un negazionismo patriottico che cercava di sottrarsi alle accuse xenofobe che vogliono associare l’italianità alla mafia. Con uno stile più surrettizio, “Il Mattino d’Italia” denunciò il sensazionalismo e negò per omissione la relazione tra mafia e italianità.

A partire da questi risultati, apprendiamo, leggendo i risultati della ricerca dell’autrice, che è possibile stabilire che la stampa italiana in Argentina non sia riuscita a definire, nel contesto del caso Ayerza, un discorso coerente e strutturato in grado di informare i dibattiti pubblici sulla mafia italiana in Argentina e di proporsi come alternativa all’autoritarismo dominante, sia in Argentina che in Italia. Di conseguenza, conclude l’autrice, furono gettate le basi per un patto xenofobo, da parte argentina, e negazionista, da parte italiana, che, nella misura in cui concorreva a (ri)creare il mito fondante della migrazione italiana in Argentina in termini esclusivamente positivi sembra aver fatto comodo a entrambe le parti in causa.

Il secondo capitolo è egemonizzato dalla pellicola La Maffia, di Leopoldo Torre Nilsson, che uscì il 29 marzo 1972 nei cinema di Buenos Aires, dopo essere stato proiettata nella città di Rosario. Il film, ci ricorda l’autrice, rievocava la storia della mafia in Argentina nella prima metà del XX secolo. Nello stesso periodo, il direttore de “L’Eco dei Calabresi” presentò reclamo alle autorità giudiziarie locali per impedire la proiezione del film nel circuito ufficiale e per rimuovere due scene con riferimenti all’origine calabrese dei membri fittizi di una banda mafiosa situata a Rosario. Sebbene la richiesta non fu accolta, l’evento divise la stampa, sia nazionale che etnica, e fu commentato anche dalla stampa calabrese. In questo capitolo l’autrice intende proseguire sulla linea avviata nel capitolo precedente, attraverso la problematizzazione dei dibattiti sollevati dalla stampa locale – sia argentina che italiana – sul caso.

In generale, come anche il lavoro di Balsas conferma, parlare di mafie vende (Mangiameli, 2016) e parlare di cinema di mafia vende ancora di più. Inoltre, il continuo ricorso a figure di origine cinematografica non è casuale. Santoro (2007) si preoccupa di cogliere la tensione tra la necessità di costruire l’identità e il continuo e costante controllo e regolazione dei flussi comunicativi. Così la mafia, intesa come sottocultura, non è necessariamente riconducibile a una precisa categoria sociale, né a una comunità organizzata, ma dipende da una serie di credenze e pratiche. Le testimonianze giudiziarie, infatti, mostrano come sia proprio attraverso il contatto culturale generato da reti sovrapposte e mediato da scambi di informazioni, in generale da modelli cognitivi e simbolici, che le organizzazioni si sono formate e perdurano. Le organizzazioni mafiose si sono formate e durano.

Il film La Maffia fu pubblicizzato sui principali quotidiani nazionali. Il risalto riservato dalla stampa si tradusse non solo in consistenti spazi pubblicitari, ma anche in una decina di recensioni, cronache e commenti corredati da ritratti di attori e attrici, fotografie della prima serata e scene del lungometraggio. Nel complesso, la critica nazionale accolse con favore la proposta di Torre Nilsson sulle origini della mafia nel Paese. La scelta di ambientare la storia nel passato favorisce l’emergere del suo carattere inventivo, illuminando la dimensione immaginaria.  Anche “La Prensa”, da parte sua, si rallegrò del successo del film all’indomani della prima, un’attitudine che si rifletteva nella scelta di aggettivi e sostantivi che testimoniavano una valutazione positiva del lavoro tecnico del team di produzione del film. “La Razón” sottolineò l’originalità e l’attualità del film nel panorama cinematografico locale.

In tutti i casi, sottolinea Balsas, viene elogiata la bellezza e la sensualità della figura femminile interpretata da Thelma Biral. Come nei film di mafia italiani, anche qui la donna, sia come figlia che come amante, costituisce il punto debole dei protagonisti maschili, la cui virilità è pensata in base alla loro visione del mondo femminile. Eredità di una doppia morale di ispirazione cattolica secondo la quale in privato tutto è permesso mentre in pubblico bisogna mostrarsi irreprensibili.

Pochi giorni dopo la prima de La Maffia, “L’Eco dei Calabresi” pubblicò un editoriale firmato dal suo direttore Pasquale Caligiuri, calabrese di nascita ed emigrato in Argentina nel 1926. Come argomenta Balsas, dalla catena semantica offesa-disprezzo-insulto il frame utilizzato nell’editoriale di Caligiuri attivò il sentimento calabrofobico denunciato dalla stampa italiana in Argentina, in primis nel 1887 da “La Patria degli Italiani”. Il danno percepito provocato dalla diffusione di un’immagine negativa della calabresità in Argentina è mitigato da due principali strategie discorsive. Se da una parte si esagera il contributo culturale, scientifico e commerciale di personaggi calabresi di spicco, dall’altra si invoca la presunta mancanza di conoscenza della lingua italiana.

Varie fonti, argomenta Balsas, riportano la presenza di mafiosi in Argentina negli anni precedenti. Ad esempio, Tommaso Buscetta era emigrato in Argentina con la famiglia nel 1949, dopo essersi unito alla famiglia palermitana di Porta Nuova. Rientrò nel Paese nel 1955, questa volta clandestinamente. Rientrato in Sicilia dopo la seconda esperienza migratoria in Sudamerica, incontrò Lucky Luciano che nel 1946 aveva ottenuto l’autorizzazione a emigrare in Argentina.

Nel corso del capitolo si legge anche che è possibile considerare i dati come un “riflesso” della realtà solo quando la trama narrativa si colloca in geografie e situazioni quotidiane riconoscibili. Ed è forse per questo che, dice l’autrice, pur non essendo l’unico film di mafia destinato a diventare un classico ad essere proiettato nel 1972 a Buenos Aires, La Maffia di Torre Nilsson si rivelò così polemico. Il caso riporta in auge le controversie sull’identità argentina che si sono verificate a partire dalla fine del XIX secolo. Interpretazioni contrastanti del film divisero non solo la stampa argentina ma anche quella etnica, rivelando le lotte interne sulla rappresentazione degli interessi della collettività, che secondo Balsas è ben lungi dall’essere un insieme omogeneo. Le pretese realistiche e documentarie attribuite al film sembrano essere state fondamentali per consolidare l’immaginario della mafia in Argentina come un fatto del passato. Non si può fare a meno di osservare, sottolinea l’autrice, che questo ritorno al passato avviene proprio in un frangente che coincide con l’espansione “imprenditoriale”, a livello internazionale, delle mafie italiane. 

Elemento che non risulta sorprendente in quanto la mafia è parte integrante della classe dirigente, dello Stato, dell’economia capitalista in generale. La sua punta più avanzata si trova in tutti i settori della società: nelle istituzioni, nell’alta finanza, nel terziario e nell’agricoltura. La specifica evoluzione storica, economica e sociale del Sud Italia, che oggi si traduce in deindustrializzazione e sottosviluppo, insieme alle frequenti iniezioni di denaro pubblico ufficialmente destinato, ad esempio, alle campagne elettorali e alle elezioni, hanno trasformato le mafie nell’equivalente di società per azioni, multinazionali armate che investono liberamente in vaste aree del pianeta. Oggi, come detto, le mafie hanno aumentato notevolmente la loro influenza nella dimensione politica ed economica transnazionale.

L’ultimo capitolo parte da una data: il 23 maggio 1992, quando il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e tre delle sue guardie del corpo furono assassinati mentre viaggiavano in auto sull’autostrada dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo. Mesi prima di essere ucciso Falcone si era recato in Argentina. Più fonti – sia argentine che italiane –, afferma Balsas, concordano nell’indicare un suo breve soggiorno a Buenos Aires intorno alla metà del 1991. Tenuto conto della connotazione locale delle connessioni mafiose internazionali su cui Falcone stava indagando nel periodo dell’attentato che gli è costato la vita, nonché della circostanza recente del suo viaggio in Argentina e delle ripercussioni mondiali della notizia della sua morte, secondo Balsas, è di grande interesse analizzare la copertura data dalla stampa nazionale argentina – “Clarín” e “La Nación” – a un evento che ha segnato una svolta nella lotta alla mafia in Italia. Balsas riflette su come si posizionò la stampa etnica di fronte a questa copertura giornalistica.

Non sembrano esserci studi scientifici che facciano luce sul viaggio di Falcone in Argentina come sulle modalità con cui la stampa nazionale ha elaborato la notizia della sua morte. Tuttavia, come dettagliatamente ricostruisce il libro oggetto della presente recensione, fonti giornalistiche, istituzionali e autobiografiche documentano il suo viaggio in Argentina. All’inizio dello stesso anno, il direttore del Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (SISDE), prefetto Angelo Finocchiaro, evidenziò nel corso di un’audizione parlamentare la partecipazione del giudice Giovanni Falcone a un evento tenutosi a Buenos Aires nell’ambito della cooperazione giudiziaria e di polizia. Questo coincide con le memorie recentemente pubblicate dell’ex giudice italiano Ilda Boccassini, che sostiene di aver accompagnato Falcone nel suo viaggio in Argentina.

L’interesse mostrato dai due giornali a maggiore diffusione in Argentina per la tragedia di Capaci non fu uniforme. Secondo l’autrice, il valore attribuito a una notizia è interpretabile in termini di scoop e spettacolarità, di prima pagina e di immagine di grande risonanza, di impatto e di ripercussione sullo spazio pubblico, sulla società e sul potere. Pertanto, se prendiamo in considerazione i criteri che determinano la notiziabilità di un evento, l’omissione di “Clarín” in prima pagina, una sfera di attenzione privilegiata che esprime il contratto di lettura di un giornale, è teoricamente inspiegabile.

Una riflessione che inizia a riordinare considerazioni di carattere conclusivo sul lavoro parte da ciò che viene chiamata catastrofe globale, ovvero l’evento di cronaca per eccellenza. Nello, specifico, visto l’argomento principale, le esplosioni sono descritte da Balsas come rilevanti perché rappresentano il manifestarsi di un allarme nella società, di ciò che non ci si attendeva, di ciò che non doveva accadere. La prossimità geografica, culturale, di classe determina la familiarità dell’evento per definirne la potenziale gravità. Vista la consistente presenza di italiani in Argentina, così come la storia di cooperazione giudiziaria e di polizia tra i due Paesi e la recente visita di Falcone in Argentina, questa assenza per l’autrice è determinante nella costruzione dell’agenda giornalistica del giornale, che gradualmente deposita una lettura della mafia come fenomeno estraneo alla realtà socio-politica nazionale. Questa forma di negazione potrebbe essere interpretata, in definitiva, in termini di paura di reagire all’imponderabile che sfugge al controllo sociale, dove le regole sono deviate. Partendo dal presupposto che i media confezionano un quadro interpretativo che filtra la percezione della realtà, definisce le questioni su cui si deve formare un’opinione e la relativa gerarchia, e che il pubblico si orienta a dare importanza agli argomenti, alle persone e agli eventi a cui i media danno più spazio e più risalto il modo in cui è stato trattato marginalmente il caso Falcone è significativo.

Balsas, inoltre, mettendo mani ai proprii strumenti di ricercatrice evidenzia come tra il 25 e il 29 maggio 1992, “Clarín” dedicò meno di sei pagine a seguire gli eventi di Capaci nella sezione “Internazionale”. Il 28 maggio 1992, “Clarín” si soffermò sui possibili legami internazionali dell’attentato, indicando l’ex Partito Comunista dell’URSS. D’altra parte, l’interesse de “La Nación” si rese evidente fin dalla prima pagina del 24 maggio 1992. L’esplosione come evento di cronaca fu riconosciuta dalla centralità dello spazio ad essa dedicato, modo sensazionalistico di intendere la notizia. Nella figura del “cacciatore”, per riferirsi a Falcone, la mafia fu poi associata a una certa idea di animalità, già riscontrabile nella stampa etnica della prima metà del XX secolo. Il 27 maggio 1992, “La Nación” citò il quotidiano russo Izvestia in un breve articolo della sezione Esteri per parlare dei supposti legami dell’ex Partito Comunista dell’URSS con la mafia e dei suoi investimenti politici in Italia. L’autrice si chiede, in definitiva, come la stampa argentina di lingua italiana descrisse i fatti di Capaci. “Tribuna Italiana” giornale bilingue della comunità italiana in Argentina nel 1992 aveva una cadenza quindicinale. Per questo motivo la notizia dell’attentato di Capaci fu inserita solo nell’edizione del 3 giugno. Pur essendo una storia di copertina, non venne messa particolarmente messa in risalto. Nell’edizione pubblicata successivamente, quella del 17 giugno, una nota enfatizzò l’azione repressiva della mafia da parte dello Stato attraverso l’uso forzato aggettivi qualificativi.

Benché l’azione degli organi giuridici e di polizia viene esaltata come principale destinataria e portatrice di importanza e responsabilità nella lotta alle mafie. Sebbene non manchino i proclami governativi, a tutti i livelli, sulla lotta alla criminalità organizzata e all’infiltrazione delle istituzioni da parte delle mafie, la pratica mostra una totale indisponibilità da parte dei massimi rappresentanti dello Stato a farlo. Invece di attuare piani di sviluppo, occupazione e industrializzazione per il Mezzogiorno e di affrontare realmente la questione meridionale, spesso si sceglie di “salvare” le periferie attraverso la gentrificazione e la militarizzazione del territorio. In questo modo, l’alternativa alla disoccupazione continuerà spesso a essere il reclutamento nelle file delle organizzazioni criminali, che inevitabilmente aumenteranno il loro potere economico e il loro radicamento sul territorio.

La cultura in generale e la cultura mafiosa in particolare sono complessi depositi o repertori di discorsi, definizioni, orientamenti, codici, a cui gli attori sociali attingono e interpretano continuamente. In particolare, si tratta di estendere il campo di studio alle rappresentazioni della mafia, alle immagini che circolano non solo nei media, ma anche tra gli attori che operano nel mondo della mafia commerciale. Ne parla impeccabilmente Balsas nominando pizzerie e ristoranti, ma anche negozi di abbigliamento, gelaterie, parrucchieri, officine e aziende di logistica, in tutta l’Argentina, che mostrano attraverso le proprie insegne i prestiti lessicali che rendono visibile la cultura mafiosa. Oltre a programmi radiotelevisivi, pubblicità, videoclip, film e concerti. Un’inflazione discorsiva basata su un termine generico che può far riferimento a qualsiasi fenomeno di macrocriminalità.

In altre parole, simboli mafiosi sfruttati e utilizzati dai produttori culturali come emblemi di una particolare “cultura esotica”. I mafiosi sono anche utilizzatori, produttori e, naturalmente, manipolatori di simboli, una produzione simbolica che non è necessariamente una creazione individuale o volontaria, ma è spesso collettiva e incondizionata, un processo di ri-creazione, che come tale produce valori vincolanti per i membri di una sottocultura. L’obiettivo è quindi quello di mostrare il potenziale di un’analisi culturale della mafia che enfatizzi l’idea di “circolarità” dell’identità e delle rappresentazioni del mafioso. È l’idea che i simboli possano tornare circolarmente ad agire sulle identità che li hanno originariamente prodotti, dopo essere stati fatti propri da altri per casi diversi, distaccandosi sempre più dalle forme sociali che li hanno prodotti, per essere ri-significati in altri contesti (Santoro, 2007).

Non mancano, inoltre, esempi in cui la mafia viene assunta come argomentazione per attaccare l’avversario nel confronto politico. L’autrice fa riferimento a un caso che toccò il governatore della provincia di Buenos Aires, Axel Kicillof nel marzo del 2021; alle presidenziali del 2019, quando le mafie ebbero un ruolo di primo piano nella campagna elettorale di “Juntos por el cambio”, il partito di governo guidato da Mauricio Macri e al febbraio 2020, quando, a margine della presentazione dei un suo libro alla fiera del libro dell’Avana, a Cuba, la protagonista fu Cristina Fernández. Per ultimo, vengono menzionati da Balsas anche i rappresentanti degli italiani residenti nella sezione sudamericana della circoscrizione Estero del Parlamento italiano, i quali fecero riferimento a uno degli argomenti principali della campagna elettorale denunciando la gestione “mafiosa” delle pratiche necessarie per conseguire la cittadinanza italiana da parte degli italo-argentini.

Balsas chiude ponendo un monito ai lettori. (Si) Chiede se esistono davvero le mafie italiane in Argentina, se si tratta di un fatto del passato o se la loro presenza si estende ai giorni nostri. Le risposte che dà a queste domande sembrano dipendere essenzialmente da cosa si intende per mafia e da quali caratteristiche le si riconoscono. A questo proposito, ricorda che “mafia” e “criminalità organizzata” non sono concetti intercambiabili, anche se talvolta possono essere considerati sinonimi.

Risulta interessante riscontrare che dall’analisi delle testimonianze analizzate emerge l’immagine di un presente sicuro, scevro da presenze mafiose, in antitesi a quella di un passato criminale. A questo proposito, secondo l’autrice, il problema non può essere affrontato esclusivamente nell’ambito della competenza sociale dei mass media. A tal fine, è auspicabile che il mondo accademico si assuma la propria responsabilità sociale in relazione alla questione, poiché solo la scienza può mettere ordine tra ciò che oggettivamente è e ciò che potrebbe essere. Spesso si tratta, invero, proprio della differenza che intercorre tra un articolo di giornale e una pubblicazione scientifica. Riprendendo un concetto espresso da Balsas nel suo libro, nella fattispecie dello studio delle mafie italiane in Argentina, la stampa si presenta come una preziosa chiave di accesso.

Le ultime pagine del libro sono dedicate anche alle origini calabresi dell’autrice e a quanto sia importante allargare lo spettro il più possibile e promuovere una conversazione sociale su un tema scomodo, spesso legato a culture di paura e silenzio. Il libro continua, sino alla sua conclusione, a por(si)re domande, ennesima riprova di quanto esso rappresenti un lavoro necessario e coraggioso, una base scientifica solida per ciò che verrà.

Referencias

Balsas, M. S. (2021). «El país que no miramos». Las mafias italianas según Clarín (1997-2020). Estudios sobre el Mensaje Periodístico, 27 (4): 1035-1042.

Gambetta, D. (1992). La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata. Torino: Einaudi.

Mangiameli, R. (2016). In guerra con la storia: La mafia al cinema e altri racconti. Meridiana, 87: 231-243.Santoro, M. (2007). La voce del padrino. Verona: Ombre corte.

Un evento sportivo amatoriale aperto a tutti, per sensibilizzare e raccogliere fondi per la ricerca sui sarcomi dei tessuti molli. È la SarcRace, la prima corsa o passeggiata campestre benefica organizzata a Roma per le patologie tumorali rare.

L’appuntamento è domenica 18 settembre 2022, con partenza alle 10,00 da via Àlvaro del Portillo, 5, sede del CESA, Centro per la Salute dell’Anziano della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico. Il percorso si svolge all’interno della Riserva naturale di Decima Malafede lungo un tragitto di 5 km. Al termine della manifestazione sportiva è prevista una cerimonia di premiazione, alla quale seguirà un piccolo ristoro offerto dagli sponsor. Ospiti d’onore saranno l’attore Raoul Bova ed il giornalista Filippo Roma che, con la loro presenza, sosterranno le persone affette da sarcomi dei tessuti molli.

SarcRace è organizzata grazie al patrocinio del Municipio IX di Roma Capitale e della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico e realizzata grazie all’Associazione Sarknos.

Le iscrizioni sono aperte al costo di 10 euro, cifra che verrà interamente devoluta per attività di ricerca. Per info e iscrizioni: sarcrace@sarknos.it

Sarknos: la rete per chi è affetto da sarcoma. Sarknos è un’associazione benefica di medici e pazienti, nata per sostenere e supportare le persone affette dai sarcomi dei tessuti molli durante il percorso di diagnosi, spesso lungo, complesso e impegnativo, dal punto di vista fisico ed emotivo. Fondata il 26 marzo 2022 su iniziativa del dott. Sergio Valeri – Responsabile dell’Unità Operativa di Chirurgia dei Sarcomi dei Tessuti Molli presso la Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma – e di un gruppo di pazienti e medici, spinti dal desiderio di voler creare una rete di contatto e unione per quanti sono affetti da questa forma di tumore dalla complessa gestione clinica e per i loro familiari.

La Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, che ospita la sede legale dell’associazione, ha accolto la sua nascita stipulando una convenzione. L’accordo ha l’obiettivo di promuovere l’associazione patrocinandone le attività e supportandone le iniziative. Sarknos sostiene la ricerca scientifica grazie all’organizzazione di eventi di informazione aperti a tutti. Inoltre, favorisce l’incontro e il confronto tra pazienti, familiari e personale sanitario e promuove la socialità, per far nascere idee e stimoli dalle esperienze comuni, abbattendo le barriere dell’isolamento e della paura. Tra i suoi obiettivi, inoltre, c’è quello di sensibilizzare i professionisti sanitari presenti sul territorio in merito all’importanza di un corretto percorso diagnostico e terapeutico, diffondendo la conoscenza dell’Ambulatorio per la Chirurgia dei Sarcomi e contribuendo a garantire un’adeguata presa in carico alle persone con una nuova diagnosi di sarcoma dei tessuti molli, con l’obiettivo di superare gli ostacoli che si frappongono all’accesso al miglior trattamento possibile.

I cambiamenti a volte possono essere inaspettati o a volte possono essere desiderati, possono essere sfide che sembrano insormontabili o possono essere gradini da salire (o da scendere). Ci possiamo sentire persi e disorientati o invece pieni di energie e motivati ad andare avanti.
Può cambiare il terreno sul quale muoviamo i nostri passi, può cambiare il tracciato che stavamo seguendo o che stavamo creando, ma il percorso non si interrompe.

La metafora del “percorso” ci ricorda che la vita è un viaggio, un’esperienza continua di crescita, apprendimento e cambiamento. Nonostante i nostri piani possano essere sconvolti da eventi imprevisti, dobbiamo adattarci e trovare nuove strade per continuare il nostro cammino.

La chiave per affrontare il cambiamento e continuare il nostro percorso è l’adattabilità.
Dobbiamo imparare a lasciar andare vecchi schemi mentali e abitudini che potrebbero ostacolare il nostro progresso. Accogliere il cambiamento e abbracciare l’ignoto, ci apre a nuove possibilità e ci aiuta a costruire una versione migliore di noi stessi. La paura del fallimento o del giudizio degli altri può limitarci, ma dobbiamo ricordarci che i fallimenti fanno parte del percorso. Ogni volta che cadiamo, possiamo imparare qualcosa di nuovo e ottenere la forza per rialzarci.
Affrontare il cambiamento con coraggio ci porta a riscoprire il nostro potenziale nascosto e ci incoraggia a perseguire i nostri sogni con determinazione.

Ma più che il coraggio, aggiungerei “la felicità”, quella felicità che viene nel fare i percorsi fatti di corde e rami, di legno e ferro, come nei parchi per i ragazzi. Sicuramente si sentiranno coraggiosi a cimentarsi in quella sfida, ma penso che la spinta sia il “divertimento”, la voglia stessa di affrontare il percorso. Con un sorriso.

Per ricordarci i passi che abbiamo fatto finora, proviamo a riproporre quì, alcuni passi che, appena ci giriamo all’indietro, si aprono davanti a noi, significativi e densi di ricordi.

Andiamo avanti con lo sguardo rivolto davanti a noi. E le scarpe ben allacciate per affrontare il nuovo terreno.

Dopo lo straordinario successo della scorsa edizione, con circa 400 partecipanti, tra pazienti,
medici, amici, studenti, volontari e cittadini provenienti da tutta Italia, si riaffaccia a Roma la
SarkRace, un evento sportivo amatoriale aperto a tutti, per sensibilizzare e raccogliere fondi per la
ricerca e la cura dei sarcomi dei tessuti molli, rara forma di tumore, dalla complessa gestione
clinica.

L’appuntamento è per domenica 24 settembre 2023, con partenza alle 10,00 da via Àlvaro del
Portillo, 5
, sede del CESA, Centro per la Salute dell’Anziano della Fondazione Policlinico
Universitario Campus Bio-Medico. Il percorso si svolge all’interno della Riserva naturale di
Decima Malafede lungo un tragitto di 5 km.
Al termine della manifestazione sportiva, saranno premiati i primi tre classificati e verranno donati
alcuni gadget ricordo per tutti i partecipanti.
L’evento, ideato ed organizzato dall’Associazione Sarknos, in collaborazione con la Fondazione
Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, è patrocinato dalla Regione Lazio, dal Municipio IX
di Roma Capitale e da F.A.V.O. (Federazione Italiana delle Associazioni di Volontariato in
Oncologia).

Numerose le autorità istituzionali che hanno abbracciato l’iniziativa e non hanno voluto mancare a
questo appuntamento di solidarietà, impegno, testimonianza e sensibilizzazione. Saranno presenti
la Senatrice Paola Binetti (Presidente onorario Associazione Sarknos), l’On. Luciano Ciocchetti
(Vice Presidente XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati), l’On. Massimiliano
Maselli
(Assessore Servizi sociali, Disabilità, Terzo Settore, Servizi alla Persona della Regione Lazio),
l’On. Marco Bertucci (Presidente IV Commissione Bilancio della Regione Lazio), l’Ing. Carlo Tosti
(Presidente della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio Medico), il Dott. Patrizio
Chiarappa
(Assessore Sport e Grandi Eventi Municipio IX Comune di Roma).
La “iena” Filippo Roma, da sempre amico e sostenitore dell’associazione Sarknos, condurrà la
giornata in tutti i suoi momenti e sviluppi.
Le iscrizioni sono aperte al costo di 10 euro. Il ricavato verrà interamente devoluto per le attività di ricerca e di cura del sarcoma.
Per info e iscrizioni: amministrazione@sarknos.it


Sarknos: la rete per chi è affetto da sarcoma. Sarknos è un’associazione benefica di medici e
pazienti, nata per sostenere e supportare le persone affette dai sarcomi dei tessuti molli durante il
percorso di diagnosi, spesso lungo, complesso e impegnativo, dal punto di vista fisico ed emotivo.
Fondata il 26 marzo 2022 su iniziativa del Dott. Sergio Valeri – Responsabile Unità Operativa
Semplice – Chirurgia dei Sarcomi dei tessuti molli presso la Fondazione Policlinico Universitario
Campus Bio-Medico di Roma – e di un gruppo di pazienti e medici, spinti dal desiderio di voler
creare una rete di contatto e unione per quanti sono affetti da questa forma di tumore.
La Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, che ospita la sede legale
dell’associazione, ha accolto la sua nascita stipulando una convenzione. L’accordo ha l’obiettivo di
promuovere l’associazione patrocinandone le attività e supportandone le iniziative. Sarknos
sostiene la ricerca scientifica grazie all’organizzazione di eventi di informazione aperti a tutti.
Inoltre, favorisce l’incontro e il confronto tra pazienti, familiari e personale sanitario e promuove
la socialità, per far nascere idee e stimoli dalle esperienze comuni, abbattendo le barriere
dell’isolamento e della paura. Tra i suoi obiettivi, inoltre, c’è quello di sensibilizzare i professionisti
sanitari presenti sul territorio in merito all’importanza di un corretto percorso diagnostico e
terapeutico, diffondendo la conoscenza dell’Ambulatorio per la Chirurgia dei Sarcomi e
contribuendo a garantire un’adeguata presa in carico alle persone con una nuova diagnosi di
sarcoma dei tessuti molli, con l’obiettivo di superare gli ostacoli che si frappongono all’accesso al
miglior trattamento possibile.

Ufficio stampa SarkNos
Gerry Mottola
Tel. 3332725538
ufficiostampa@sarknos.it

Di solito si arriva a questi “anniversari” dicendo “10 anni e non sentirli”. Forse si potrebbe anche provare a parafrasare quell’aforisma di Wilde che enunciava che “La tragedia della vecchiaia non è di essere già vecchi, ma di essere ancora giovani.”
E invece non è così: sono passati 10 anni da quando è nata Condivisione Democratica e li sento tutti. Ne sento il peso, ne sento la fatica.

All’inizio fu un’idea di Gerry, non solo una scintilla ma una vera intuizione, il dare voce alla necessità di avere uno spazio di discussione, di rappresentazione delle idee, un laboratorio di idee – ancora non andava di moda chiamare “Think Tank” queste cose. Gerry col suo entusiasmo ha coinvolto un gruppo di amici e così è nata questa Testata Giornalistica. Non un blog, non un sito, non una pagina Facebook, ma una vera e propria testata giornalistica, che è molto più vincolante, che è un progetto molto più “ambizioso” – diciamolo.

In questi 10 anni sono cambiate tante cose – non mi dilungo a fare l’elenco, ma esorto a pensare a cosa è accaduto nel frattempo, partendo proprio da quel 2012 arrivando fino ad oggi, sia sul lato “pubblico”, “internazionale e nazionale”, ma anche “privato e personale” – e questo progetto ci sta un pò “stretto”. Quella necessità di rappresentazione delle idee, di darle forma, di elaborarle e di condividerle, non è venuta meno, anzi è aumentata, è accresciuta e si è piano piano strutturata in modo diverso. Quindi è arrivato il momento di dare una nuova veste a tutto.
E’ ancora presto per raccontare “cosa sarà”, ma sicuramente è arrivato il momento di salutare “cosa è stato”.
Condivisione Democratica per me è stato un grande progetto, è stato un bel laboratorio, dove sono cresciute nuove esperienze e nuove alchimie. Potrei perdermi nei ringraziamenti – l’elenco delle persone sarebbe davvero lunghissimo, con le persone che sono nella redazione o ne hanno fatto parte in questo lungo percorso, le persone che hanno dato un contributo scrivendo proprie testimonianze e anche le persone che ho avuto l’opportunità di intervistare – e quindi mi limito a dire che ho scoperto, in questo progetto, quale fosse il vero significato di “Condivisione”. A parole forse lo conosciamo tutti, ma “sperimentarlo” ha fatto la differenza. Dentro di me.
Sono stati 10 anni bellissimi.
Ma, come amo citare spesso, “The Best is yet to come”.

Abbandonare non è lasciare, lasciare è un’azione pensata, calibrata, ponderata… Abbandonare è un atto viscerale, un’esigenza inevitabile e improrogabile. Un’azione imposta alla persona o all’oggetto che la subisce. Lasciare qualcuno, invece, prevede un confronto, uno scambio dialettico, prevede l’atto di informare l’altro di ciò che sta accadendo.

E’ stano come si possa soffrire per la paura dell’abbandono e allo stesso tempo essere affascinati dai luoghi desueti, è come guardarla in faccia la paura e forse volerci trovare anche un lato positivo, il fascino, l’attrazione.

Anche abbandonare parti di sé è necessario, perché cambiamo, maturiamo, invecchiamo, evolviamo, perdiamo pezzi e ne acquisiamo di nuovi, non abbiamo più le stesse esigenze, ma soprattutto prendiamo consapevolezza di noi stessi e realizziamo quanto sia necessario, a volte vitale, abbandonare modalità, abitudini, legami, pensieri e persone che ci hanno accompagnato da sempre. E’ un processo dolorosissimo, crudele, destabilizzante e l’apice della sofferenza è nel momento in cui si abbandona senza riuscire a riempire, sostituire, ripartire.

C’è un luogo abbandonato che mi ha particolarmente affascinato, a cui ultimamente ripenso molto, tanto da riguardare le numerose foto che ho scattato.
Le sensazioni che mi dà sono tante, tantissime, forse perché in tutti i suoi aspettati immortala esattamente questo preciso momento della mia vita.

Lascio parlare le foto, che esprimono più di mille parole….vi presento l’Ex Orfanatrofio della Bufalotta, all’interno della riserva della Marcigliana, a Roma Nord.

Nella città in cui vivo c’è un luogo incredibilmente affascinante e misterioso: il vecchio manicomio, uno dei più grandi d’Italia, venti padiglioni e un parco di 125 mila metri quadri.

Nato nel 1937 come Ospedale Psichiatrico Nazionale e chiuso nel 1978 con la legge Basaglia, legge promulgata dal dott. Besaglia, neurologo e psichiatra, che pose al centro la questione dei diritti umani e ricollocò questi individui come pazienti, e non più come detenuti. Certo, questa legge vide anche una massiccia contrazione delle spese pubbliche, ma preferisco pensare che non fosse la priorità. Alcuni padiglioni rimasero ancora attivi come A.S.L. fino al 1991, quando in città venne inaugurato il nuovo ospedale, dopodiché fu definitivamente abbandonato a sé stesso (e agli appassionati di urbex). Naturalmente non è aperto al pubblico, ma questo non è mai stato un freno per i numerosi gruppi di curiosi, che spesso arrivano anche da fuori confine, attraversando campi, orti e reti metalliche per potersi introdurre all’interno e tuffarsi nella magia dell’esplorazione. Questo luogo ripaga di tutti gli sforzi. Addentrandoci troviamo ancora le vasche, i lettini, i tavolini autoptici, un’infinità di libri e articoli scientifici, le cinghie di contenimento, fino alle schede dei pazienti e ai registri, scritti a mano, con quella calligrafia così anacronistica. Sorvolando (anche se un po’ contro la volontà) sul fatto che tutto il materiale contenente dati sensibili andasse conservato in maniera più idonea, archiviato con maggiore attenzione o distrutto, rimane quel senso di incredulità e fascinazione a trovarsi circondati da oggetti come questi.

Sì chiamano luoghi abbandonati o luoghi fantasma,
eppure non manca mai qualche amante che faccia loro il filo.  C’è sempre una forza di attrazione che ci
spinge a voler esplorare ciò che un tempo era vitale e attivo, e la
fascinazione che subiamo di fronte a questo passato pieno di interrogativi,
pronto a raccontarci storie incredibili e che in fondo è un po’ in nostro
terriccio, da dove le nostre radici traggono nutrimento (e si spera anche
qualche insegnamento).

Ripercorrendo i corridoi del vecchio manicomio,
contemplando la violenza che il passare del tempo può esercitare anche sulle
cose inanimate, e respirando quell’odore di muffa e di marciume, in questa
cornice dove il passato è sospeso, e dove le pareti sembrano voler soffocare il
grido degli orrori vissuti, è difficile non fantasticare su come vivessero la
quotidianità tra quelle mura medici e infermieri, ma soprattutto i pazienti. Quale
fosse l’ingrediente in eccesso nella ricetta, che li facesse passare agli occhi
delle persone comuni come “pazzi”?! E se fossero stati solo dei sognatori
cronici? Vittime inghiottite dal mondo Onirico? Uomini e donne riluttanti ad
una realtà troppo complicata? O semplicemente persone in qualche modo scomode,
da dover privare della propria libertà… E mi domando se anche la nostra psiche
non sia un po’ come uno di questi luoghi abbandonati. Un universo infinito, da
esplorare con cautela, ma dal quale non farsi inghiottire completamente,
mantenendo il ponte con la realtà, un luogo in cui avventurarsi in punta di
piedi , con la giusta attrezzatura e poi uscirne, possibilmente integri.

Secondo Jung, fondatore di uno dei due
approcci principali della psicoanalisi, il centro della nostra psiche è
l’inconoscibile sé, che se esplorato e indagato può diventare una straordinaria
forma di libertà e autodeterminazione. Come si può farlo vi chiederete voi? In
un modo bellissimo: attraverso i sogni. Quelle immagini folli e apparentemente
senza senso che si sviluppano quando dormiamo e lasciamo andare le redini. Il linguaggio
dell’inconscio, e quindi dei sogni, non è facilmente fruibile al conscio perché
non è razionale, si esprime attraverso immagini, metafore e simboli,
esattamente come fa il linguaggio artistico.

E cosa succede quando questo luogo non lo
esploriamo e lo consegniamo all’incuria? Quando diventa il luogo dei potenziali
irrealizzati? Quando non siamo armonizzati con il sé? Ebbene c’è il rischio di
sviluppare sintomi, inquietudine o addirittura nevrosi. Ma analizzando questo luogo,
spesso dimenticato, abbiamo una guida per realizzare il nostro destino.

Penso all’inconscio come ad un luogo
abbandonato perché i sogni mirano ai nostri lati oscuri, non a ciò che già conosciamo,
non sono l’espressione dei nostri desideri e delle nostre paure. Associare o
proiettare eventi accaduti nei sogni a cose che conosciamo nella realtà può
rivelarsi incorretto o impreciso. I sogni hanno una struttura ed un linguaggio
a sé e ciò può rende complicato fare un’autoanalisi.

Abbiamo detto che è importante comunicare con
il proprio inconscio attraverso i sogni, ma sappiamo bene che non è così facile
registrarli prima ancora di analizzarli e tradurli. Molte persone fanno fatica
a ricordare i propri sogni. Ci vuole un po’ di allenamento, in effetti, ma
anche l’impegno di scriverli non appena svegli. Perché questi, al mattino, con
il primo raggio di luce che contempliamo, 
svaniscono come una folata di vento.

Una buona tecnica sarebbe quella di prendere
un foglio e dividerlo in due, come si faceva con i temi alle superiori. Nella
parte sinistra registriamo il sogno e nella parte destra annotiamo le nostre
associazioni, quello che il sogno ci ha evocato. E bisogna farlo nel modo meno
razionale possibile. Lasciare la mente libera di vagare e lasciar parlare le
immagini, come se fossimo di fronte al Trittico del Giardino delle Delizie di
Hieronymus Bosch. Opera complessa, sublime ed assolutamente folle agli occhi
severi della razionalità.

I sogni sono spontanei e imprevedibili eppure
tutti presentano una struttura identificabile nella quale si organizzano.

La psicologia junghiana ci permette di
esaminare il sogno dividendolo nelle sue tre componenti strutturali: introduzione
o ambientazione, azione e conclusione (obiettivo del sogno, la
fase che fornisce la soluzione inconscia). Ma alle volte semplicemente non
esiste una libera associazione. E qui è il caso di alzare l’asticella e passare
al livello superiore, prendendo in considerazione i sogni archetipici. Gli
archetipi sono dei modelli di comportamento primitivi, che l’umanità ha
sviluppato nel tempo attraverso l’adattamento all’ambiente. Dei veri e propri
centri di gravità dell’inconscio collettivo. Hanno quindi un significato
mitologico, che prescinde dall’individuo stesso.

Spesso quando sogniamo qualcuno, magari qualcuno
che non c’è più, ci abbandoniamo a un senso di nostalgia e/o pensiamo che lo
spirito di quella persona voglia comunicare con noi.  Qui bisogna stabilire su quale piano ci
troviamo: oggettivo o soggettivo. Mi spiego meglio, se nel sogno compare il nonno,
interpretarlo sul piano oggettivo vuol dire che le azioni di questo personaggio
appartengono davvero a lui, mentre su un piano soggettivo le attribuisco ad una
parte di me, che può avere delle affinità con la figura rappresentata (il nonno
può essere il lato maschile della mia personalità, per esempio). Nella
stragrande maggioranza dei casi, la giusta interpretazione ha carattere
soggettivo!

Solitamente nella prima metà della vita i
sogni riguardano maggiormente l’andamento della vita esteriore terreno e
materiale Nella seconda metà invece il modello onirico induce l’individuo a
occuparsi del suo mondo interiore, a sviluppare una certa saggezza, a prendere
coscienza dell’aspetto profondo dell’esistenza. A rendere il sé un luogo non
completamente abbandonato.

Città fondate e cresciute, raffazzonatamente, durante la “febbre dell’oro” in Klondike o in California, le cui case ora sono riempite dalla sabbia del deserto e contengono un’aria polverosa che vortica, riempendo solo di rumori quello spazio altrimenti silenzioso e vuoto.
Antiche costruzioni erette dalla sapiente opera dei Popoli Antichi. Mura, a frammenti, che hanno respinto barbari per secoli e ora nulla possono contro l’edera e la natura che le vince con nuove foglie e nuovi fiori.
Questo, forse, abbiamo in mente quando pensiamo ai “luoghi abbandonati”.
Forse.

(Immagine dal Web)

Pensando ai Luoghi Abbandonati, mi vengono anche in mente diversi luoghi che ho attraversato – rigorosamente a piedi – avendo dentro quella strana sensazione di vivere in un mondo post-olocausto atomico, con tutta la popolazione svanita nel nulla, cose se fossi un sopravvissuto. Attorno a me un silenzio assordante.
Non c’è bisogno di arrivare in Klondike o di visitare Pompei. E’ stato così entrare in un ospedale durante il periodo di “Lockdown stretto”, a Marzo 2020, ed è stato così tornare all’Università nel periodo estivo di quell’anno terribile, è stato così prendere il treno al mattino presto, in una Stazione Termini popolata solo di qualche “invisibile” e di qualche “vigilantes” schivo.
Una sensazione stranissima.
Del resto – pensai proprio su quel treno preso prestissimo – quei luoghi sono stati proprio creati per ospitare persone, e tante, hanno significato intrinsecamente “Antropico” e senza di loro, senza gli essere umani, ne sono snaturati. Sono luoghi che mantengono “tracce di vita” anche se lì di vita non ce n’è più. Se ne può sentire l’impronta, il segno del passaggio dell’essere umano, degli esseri umani. Forse è questo che mi colpisce molto: vedere il segno di quello che l’uomo riesce a fare per adattare lo spazio a sè stesso, a proprio uso e consumo. Mentre lo viviamo ci sembra “naturale”, funzionale per noi, e quindi non ne percepiamo gli effetti, così come quando camminiamo sulla spiaggia pensiamo a mettere un passo avanti all’altro e non pensiamo alle orme che lasciamo dietro di noi. Ma questi luoghi abbandonati sono delle enormi impronte che pian piano la natura ricopre, così come il mare fa sparire le orme sulla sabbia.

Confesso che ho sempre provato un grande fascino per questi luoghi abbandonati.

(Immagine dal Web)

Quando ci penso mi vengono in mente gli attraversamenti dei loro “confini”. Penso alle Reti o ai Muri da superare, passandoci sotto – sfruttando qualche buco nella recinzione – oppure sopra – stando attenti a non graffiarsi con il filo spinato o con i luccicanti cocci di bottiglia rotti impastati nel cemento – oppure attraverso. Sento ancora la sensazione dei mattoni, spaccati e sbrecciati, o di un pezzo di rete ricurvo, che mi graffiano il petto, la schiena, i fianchi, che lacerano la maglietta o i pantaloni. “Se ci passa la testa, poi ci passa tutto il corpo” mi dicevano i miei cugini che mandavano avanti me, il più piccolo, per incitarmi. Sento ancora la fatica e l’impegno di voler raggiungere quei luoghi, per poterli visitare, per poterci passeggiare dentro, per guardare attraverso i vetri delle finestre ormai opacizzati dal tempo. Per cercare di capire a cosa servissero i macchinari ormai decisamente obsoleti.

Oltre a questi luoghi fisici, a pensarci, ci sono poi anche luoghi dell’anima, luoghi che sono dentro la nostra anima e che – per qualche motivo – non frequentiamo più, non visitiamo più, eppure hanno lasciato una impronta dentro di noi.
Forse non li frequentiamo più per paura, forse perché presi dal tran-tran quotidiano, forse perché non più coerenti con quello che siamo diventati nel frattemppo. Anche questi luoghi – penso – a visitarli, daranno la stessa strana sensazione: costruiti nell’arco degli anni per ospitare persone, per ospitare voci, luci, per ospitare risate fragorose o lacrime silenziose. Luoghi con la propria “impronta antropica” dentro.

Così come per i luoghi fisici – con le loro stanze polverose, i loro saloni dai vetri rotti, le fessure delle mura dalle quali sparare con gli archibugi, i loro macchinari bloccati, le bobine antiche, i ganci sul soffitto – cerchiamo di capirne il significato, la funzionalità, cerchiamo di capire come camminassero gli uomini, come corressero i legionari sui camminamenti, come vivessero quegli spazi.

Ecco, dopo tanti anni ho capito che quella esortazione forse fisicamente non era proprio vera ma, “Se ci passa la testa, poi ci passa tutto il corpo” è proprio vero.

@Lavizzari Donatella

Mi piace immaginare un mondo senza guerre, violenze ed ingiustizie.
Utopia? Il mio è un sentimento istintivo, un sentimento che mi abita.

Penso che l’ARTE, in tutte le sue forme, sia ancora in grado, anche in modo indiretto, di cambiare il mondo.
La CULTURA unisce il mondo.
Smettiamola di essere indignati e cominciamo a “disturbare”.
Come ha scritto Gian Paolo Serino, le bombe di carta e le molotov d’inchiostro sono le armi migliori per tentare di sconfiggere non solo dittature ma anche regimi democratici dove informazione e comunicazione sono ridotte a favole.
Il vero senso di una favola non é quello di creare dei lettori volta pagina ma dei lettori consapevoli.
Perché il vero senso di una favola non é farci vedere che esistono i draghi ma farci comprendere che i draghi si possono combattere.

E a quelli che mi chiedono come, rispondo con le parole pronunciate nel 1975 da Giorgio Strehler, durante la manifestazione celebrativa del trentennale della Resistenza, al Piccolo di Milano: “Come si può sconvolgere un costume, un modo di essere, mutare il grande gioco della politica, diciamolo pure, la grande miserabilità umana […]?
Ebbene, poco si può fare da soli ma molto insieme alle altre forze che esistono, che ci sono e che sono accanto a noi.
Le forze di quelli che lavorano e lottano per un mondo migliore.
E noi accanto a loro. Non siamo pochi né soli.
Soltanto restando legati come tentiamo, come tenacemente vogliamo agli altri uomini che non vogliono continuare a esistere in questa “pregevole” marea, in questa nebbia di memoria turpe che troppo ci circonda, in questo costume antico di compromesso, viltà, egoismo e tanto altro, anche noi piccola comunità teatrante possiamo aiutare il movimento della storia.

INSIEME RESISTIAMO AL ‘BUIO’, ALLA NON DIALETTICA VISIONE DEL MONDO.

@Lavizzari Donatella

Voglio ringraziare tutti gli ARTISTI e gli AMICI che hanno aderito con le loro meravigliose opere a IMAGINE PEACE e a MASTERS OF WAR.

In primis, grazie a Fulco Pratesi e a Bruno Bozzetto, Ambasciatori del Pianeta Terra, che dimostrano sempre una grande disponibilità e generosità nei miei confronti.

Un grazie speciale

a Marco De Angelis, attento scrutatore del mondo, per il suo sguardo ironico, schietto, a volte poetico, a volte tagliente;

a Alberto Fortis, Poeta visionario e Ambasciatore Unicef, per il suo costante impegno a livello sociale e umanitario;

A Riccardo Azzurri, Poeta e Spirito libero, per la sua grande sensibilità e l’intensa attività nel sociale, a tutela delle fasce più fragili;

a Gianfranco D’Amato, per la preziosa testimonianza resa con la partecipazione all’Odissea della Pace, una carovana guidata dal Vescovo ortodosso Avondios Bica, per portare aiuti in Ucraina e per il recente viaggio intrapreso, insieme ad altri volontari, per portare in Italia alcuni profughi.

Dedico a tutti quanti voi la Poesia “Il Silenzio“, che ritengo sia una delle più belle scritte da Pablo Neruda.

https://youtu.be/B62MqNGIaiU

ELENCO INTERVENTI E CONTRIBUTI

Fulco Pratesi Homo Sapiens

Bruno Bozzetto Il seme della guerra

Marco De Angelis Wartime

Alberto Fortis Siamo tutti piccoli istanti di UN enorme Firmamento

Riccardo Azzurri Ferma la guerra!

Giuseppe Afeltra alias Peppafè Stop War!

Candido Baldacchino Guerra e Pace

Monica Bic Cara amica

Maurizio Biosa L’assedio

Maurizio Boscarol Il benpensante

Franco Buffarello Homo Sapiens? Homo Sapiens con Capinera

Francesco Cabras United Photographers for Ukraine

Virginia Cabras alias Alagon@alagooon Mettete dei fiori nei vostri cannoni

Marina Caccia In apnea. Manca il respiro

Virginio Carrobbio Dedicato a tutti i bambini

Carlo Casaburi alias Charlie Comics Pace – Black List – Anatomia

Piero Corva Stop the War

Gianfranco D’Amato L’Odissea della Pace
Il ponte di aiuti tra Italia e Ucraina
 
Alessandro Da Soller People Have the Power

Sergio De Agostini Vite rubate – S.O.S. al mondo

Alex Di Viesti e Marco Marsano Music for Peace

Cinzia Epis Anime in fuga

Cesare Gallarini 256 secondi, piovono bombe!

Carmine Cassese alias Gattonero Intelligenti

Nini Maria Giacomelli Homo Homini Lupus

Angelo Jelmini Forza Europa – Le bandiere di questa guerra

Kutoshi Kimimo L’atomica – Sangue freddo -L’aviazione russa

Francois Lapierre The Flag

Fabio Magnasciutti Evocando la pace

Pier Giuseppe Moroni War & Peace

Renato Orsingher Il fiore del silenzio

Giorgio Palombino & Barbara Cossu Society

Paolo Patruno Da qualche parte c’é luce

Pierpaolo Perazzolli Stop the War – No bombs on civilians – Save the Children

Ester Perin Sognavo per te una vita diversa

Ilaria Pregnolato e Igor Mazzone Imagine

Luca Ricciarelli Sanzioni – Neanderthal

Andrea Santanastaso Prime Pagine

Davide Scagno Accordi di Pace

Corrado Dado Tedeschi Dado e la Guerra