Nel corso della vita, tutti noi affrontiamo dei momenti di “ritorno”. Possiamo ritornare a casa dopo un lungo viaggio, ritornare alla routine dopo le vacanze, ad esempio. Il ritorno descrive i percorsi in modo “circolare”, una ruota che fa la sua rivoluzione per tornare nella stessa situazione di prima, ma è davvero così? Tornando, ci troviamo a confrontarci con il nostro passato e a misurare quanto siano cambiate le cose nel frattempo, anche quanto siamo cambiati noi. Un’opportunità di riflessione e di crescita.
(Foto di Carlo Bavagnoli alla mostra fotografica “Costantino Nivola. Ritorno a Itaca”. )
Il Ritorno a Casa
Sicuramente il tipo di ritorno più comune. Possiamo esser stati lontani per poco tempo – come una giornata lavorativa – o per un periodo lungo, la girare la chiave nella serratura e poi aprire la porta è sempre associato ad un momento di emozione. E’ un’occasione per rivedere la luce ed il profumo del proprio posto, per rivedere amici e familiari, ma può portare con sé anche un senso di nostalgia e una riflessione su quanto siano cambiate le cose per come ce le ricordavamo. Ma se il viaggio, la distanza è stata alquanto lunga, al ritorno a casa si possono notare differenze anche sulle strade della nostra città natale, la si può trovare più bella o più sporca, più frenetica, più piacevole da vivere a passare nei suoi locali e si può essere accompagnati dalla sensazione di confronto tra la persona che siamo diventati e quella che eravamo quando l’abbiamo lasciata. Perché forse a cambiare siamo stati noi.
Il Ritorno alla Routine
Il ritorno alla routine quotidiana dopo un periodo di pausa, come le vacanze estive, può essere un’esperienza altrettanto significativa. Durante le vacanze, si “stacca la spina” dalla solita routine, e il ritorno alla normalità può suscitare sentimenti contrastanti. Da un lato il ritorno alla routine può portare con sé un senso di stabilità e comfort, mentre dall’altro può anche farci riflettere su come impieghiamo il nostro tempo e se stiamo perseguendo ciò che è veramente importante per noi. Questo può spingerci a fare cambiamenti significativi nella nostra vita.
Il “ritorno” è un tema universale, che tocca la vita di ognuno di noi, che tutti noi abbiamo sperimentato. E’ una bella opportunità per la riflessione, la crescita e il cambiamento. Se affrontato con apertura e consapevolezza, il ritorno può portare a nuove prospettive e a una maggiore comprensione di noi stessi e del mondo che ci circonda.
Forse il “ritorno” ci da l’idea di non avanzare davvero, ma forse non importa dove ci porterà questo viaggio, perché in ogni passaggio c’è un’esperienza che ci aiuta a crescere e a scoprire chi siamo veramente.
Come informatico call conference e meeting on-line sono da anni nel mio piano di lavoro quotidiano. Ci si incontrava con i colleghi che – in particolare nel fine settimana – tornavano verso città natale a trovare i genitori, ma continuavano a lavorare e, insieme, si valutavano gli avanzamenti, ci si incontrava con i fornitori, spesso, soprattutto se si trattava di aziende “dislocate” fuori dal territorio romano o, in genere, italiano. Con i Clienti questo approccio avveniva più di rado, perché “una stretta di mano” ha sempre una sua importanza e perché a volte “a quattr’occhi” ci si capisce meglio.
Poi con il 2020 tutto è cambiato. Anche gli aperitivi tra amici sono diventati virtuali, le visite ai genitori e ai parenti sono state sostituite da video chiamate. Mancava il calore di un abbraccio, ma è vero anche che ha permesso di aumentare il numero delle “visite” e alle parole per telefono si è aggiunto anche il viso in “primo piano”. Anche le persone più in la con gli anni, si sono adattate e hanno trovato il modo di addentrarsi nel mondo virtuale. Quanti nonni impacciati, consigliati dai nipoti, nativi digitali.
(Immagine Creative Commons)
E cos’è accaduto al mondo del lavoro?
Microsoft ha recentemente condiviso alcuni numeri estratti dall’uso della piattaforma di videoconferenze e attività di lavoro Teams. Tra il 2021 e il 2022 le riunioni sono complessivamente aumentate di numero, ma sono diventate più brevi e occasionali, perché cambiata la finalità. Le riunioni rapide e senza ricorrenze sono diventate il 64% del totale. Riunioni da meno di 15 minuti sono diventate più del 60 per cento delle riunioni programmate sulla piattaforma, mentre quelle della durata di un’ora o più, sono diminuite di molto.
Sulla base dei numeri forniti da Microsoft si può vedere che le riunioni costituiscono praticamente un giorno alla settimana (7,5 ore di riunione sui 5 giorni lavorativi settimanali).
Il Wall Street Journal riassume il tutto in «Le riunioni possono essere le sabbie mobili della giornata di lavoro» in questo articolo uscito qualche giorno fa. E citando un sondaggio condotto su oltre 2.000 dipendenti riporta che dopo 15 minuti si perde l’attenzione e le riunioni che durano oltre l’ora (quelle dedicate allo Stato di Avanzamento dei Lavori) risultano essere meno produttive di quelle sotto questa soglia.
Fatta questa premessa, arrivo all’attualità. Il ritorno in ufficio. E sì perchè se Settembre è, in genere, il mese del ritorno in ufficio dopo la pausa estiva, dopo l’abbronzatura sulle spiagge o dopo le lunghe passeggiate in montagna, il Settembre di quest’anno è stato il mese del rientro in ufficio, in presenza. Si sono infatti ridotte drasticamente le ore di “Smart Work“, relegate ad essere al più 8 giorni al mese o proprio zero. Andare in ufficio è tornato ad essere normale. So che in molti se ne sono accorti dal traffico che si trova sulle strade di scorrimento, specificherei sul Raccordo e sulle “consolari” per chi come me vive nella capitale, dove gli incolonnamenti hanno raggiunto vette che non ricordo di aver vissuto prima. Il piacere di rivedere i colleghi, di avere insieme una pausa caffè al bar o anche più modestamente alla “macchinetta”, ha preso lo spazio temporale che prima era dedicato alla cura del proprio animale domestico o alla lezione di yoga seguendo un corso on-line o anche solo a prendere le cose con più lentezza.
Vediamo le differenze sul nostro quotidiano: spendiamo più tempo nel traffico, ma penso si possa dire che le riunioni in presenza siano più produttive, anche se il numero dei “task” eseguite, il numero delle pratiche lavorate, è sostanzialmente aumentato di pochissimo. Sarebbe interessante chiedere a qualche specialista, uno psicologo o un sociologo, quali siano le realtà che si vedono con delle lenti più focalizzate a cogliere queste differenze.
Ma c’è chi non crede e non ha mai creduto al lavoro fuori delle mura dell’ufficio: Elon Musk. Il miliardario statunitense è stato sempre contrario all’uso dello SmartWork anche in piena autonomia. In quel momento ricordava che “As a basis for comparison, the risk of death from C19 is vastly less than the risk of death from driving your car home” – che posso tradurre come “Come base di confronto, il rischio di morte per Covid19 è molto meno che il rischio di morire guidando verso casa“. Si potrebbe obiettare che in effetti aumentare il traffico veicolare, aumenta il rischio di incidenti mortali, ma sorvoliamo.
Questa frase la scrisse a Marzo del 2020 – mentre in Italia entravamo in Lockdown e ci riunchiudevamo in casa – mentre dopo due anni aggiunse che «Chiunque voglia fare smart working deve comunque essere in ufficio per almeno (sottolineo almeno) 40 ore la settimana, altrimenti lasci Tesla» Evidentemente convinto che il detto italiano “L’occhio del padrone ingrassa il cavallo” aggiunse anche che «È il motivo per cui passo così tanto tempo in azienda […], se non l’avessi fatto SpaceX sarebbe andata in bancarotta già molto tempo fa», esortando così i suoi dirigenti: «Più è alto il vostro livello nell’azienda, e più la vostra presenza dovrà essere visibile»
Ma lavorare in mobilità, fuori dall’ufficio non è mai stato chiamato “comfortable work” – lavoro comodo – ma “smart work” – lavoro intelligente – perché cerca di coniugare il più possibile la produttività con la gestione del tempo non solo speso all’interno del posto di lavoro, ma anche al suo esterno. Ogni ora che non si perde nel traffico può essere impiegata per la cura dei propri cari, ad esempio. Secondo alcune stime si può parlare di 190 ore all’anno che si trascorrono all’interno dell’auto, nel traffico (questo a Roma, una delle medie più alte in Europa).
Da tutto questo direi che per trasformare lo “Smart Work” in un “Wise Work“, per renderlo saggio e non solo furbo, intelligente. Dobbiamo coniugare queste varie variabili: non impiegare tempo in riunione poco produttive e che – in fondo – ci fanno sbadigliare (e a videocamera spenta e microfono spento sono sicuro qualcosa l’abbiamo fatto tutti), cercare di coniugare al meglio il tempo personale con quello per il lavoro. Cercando di rimanere imbottigliati nel traffico il meno possibile.
Che siano buoni propositi per questo nuovo inizio.
Si racconta una storia molto carina su questa nave, su la nave più bella del mondo.
Era un giorno del luglio 1962. Mare aperto, nel Mediterraneo orientale, uno dei ragazzi sulla portaerei statunitense “USS Independence”, usa il lampeggiante e in codice morse – strumento desueto con un linguaggio desueto, per mandare una segnalazione alla nave che segue più o meno la stessa rotta a distanza. Di solito queste segnalazioni avvengono via radio e di solito vi è una dichiarazione sul “diritto di precedenza” sull’incrociare la rotta. Invece in quel giorno di Luglio del 1962, parte il messaggio: «Chi siete?». La risposta dall’altra nave: «Nave scuola Amerigo Vespucci, Marina Militare Italiana». «Siete la più bella nave del mondo».
Ecco, la nave più bella del mondo è la Amerigo Vespucci.
Il motto di una nave è scritto in una targa che è accanto al timone, una frase che poi viene ripetuta negli “Hip Hip Hurrà” e nei saluti tra i cadetti. Quando fu varata – il 22 febbraio 1931, quasi 100 anni fa – la nave era accompagnata dal motto “Per la Patria e per il Re”, che fu cambiato, dopo la trasformazione dell’Italia in Repubblica, in “Saldi nella furia dei venti e degli eventi”. Il primo Luglio di quest’anno la nave è tornata in mare aperto per fare il giro del mondo. E un pò un viaggio intorno al mondo, me lo immagino un pò così, con la ciurma sempre concentrata nonostante le intemperie e le avversità. Ma in realtà dal 1978, il motto della nave è diventato “Non chi comincia ma quel che persevera”.
Sintetica poesia di come si possano affrontare le difficoltà, di come si può prestare il viso a quei venti e quegli eventi, saldi, nella perseveranza del raggiungere il proprio risultato.
Ora, mentre scrivo, l’Amerigo Vespucci si trova a Pier Mauá, il porto porto di Rio de Janeiro, quasi pronta a partire alla volta di Buenos Aires. Verso quella terra e verso quei cittadini italiani che a Roma hanno regalato un faro – posto sul promontorio del Gianicolo – per dare la luce a tutti gli italiani.
Mi fa piacere seguire il percorso in questo viaggio che durerà più di un anno e mezzo – 20 mesi per la precisione.
Certamente Condi-Visioni non è propriamente il primo magazine ad occuparsi del concetto del “ritorno”. Tantissime persone prima di noi, tantissimi giornalisti prima di noi, tantissimi artisti prima di noi hanno affrontato questo tema, condividendo con gli ascoltatori, i lettori, gli spettatori le sensazioni e le riflessioni. Da cinefilo, faccio un elenco di 10 film che hanno dato una loro chiave di lettura.
“Forrest Gump” (1994) – Tutta la storia della vita di Forrest Gump ha inizio dal suo ritorno a Greenbow, sua città natale in Alabama, e mentre riflette sulla sua vita passata, nel suo modo candido, racconta la sua storia.
(Forrest Gump – 1994)
“Il Padrino – Parte II” (1974) – Il sequel de “Il Padrino” di Francis Ford Coppola esplora il ritorno alle origini di Michael Corleone nella città di Corleone in Sicilia. Questo ritorno è una parte cruciale della trama e offre una prospettiva sul suo passato e sul suo futuro.
“Into the Wild” (2007) – Il concetto del ritorno alla natura e alla semplicità è centrale nella trama. Basato su una storia vera, il film segue la vita di Christopher McCandless, un giovane che decide di abbandonare la sua vita precedente e intraprendere un viaggio attraverso l’America.
“Big Fish – Le storie di una vita incredibile” (2003) – Una commedia drammatica di Tim Burton. Si seguono le vicende William Bloom mentre torna nella sua città natale per stare al fianco di suo padre morente. Il film esplora le dinamiche familiari e il concetto di ritorno.
“Rain Man – L’uomo della pioggia” (1988) – Questo film diretto da Barry Levinson segue il personaggio di Tom Cruise, Charlie Babbitt, mentre intraprende un viaggio per riconnettersi con suo fratello autistico, Raymond, interpretato da Dustin Hoffman. Il ritorno di Charlie nel mondo di suo fratello porta a una profonda trasformazione nella sua vita.
“Into the Woods” (2014) – Questo adattamento cinematografico del musical di Stephen Sondheim mescola le storie di diversi personaggi delle fiabe che intraprendono un viaggio per ottenere i loro desideri, ma alla fine devono affrontare le conseguenze dei loro atti mentre tornano alle loro vite quotidiane.
“La Ricerca della Felicità” (2006) – Basato su una storia vera, questo film segue il viaggio di Chris Gardner, interpretato da Will Smith, un uomo senza casa che cerca di costruire una vita migliore per sé e suo figlio. Il suo ritorno alla stabilità finanziaria è un tema centrale nella trama.
“Il Ritorno di Mary Poppins” (2018) – Questo sequel del classico Disney “Mary Poppins” vede il ritorno della tata magica, interpretata da Emily Blunt, alla famiglia Banks. Il film esplora come il ritorno di Mary Poppins influisce sulla vita dei protagonisti.
“Un Giorno di Pioggia a New York” (2019) – In questo film scritto e diretto da Woody Allen, un giovane coppia interpretata da Timothée Chalamet e Elle Fanning torna a New York City per un fine settimana e si imbatte in avventure inaspettate mentre riflettono sulle loro vite.
“Ritorno al Futuro” (1985) – Come potrebbe mancare questo film? Il giovane Marty McFly (il giovanissimo Michael J. Fox) torna indietro nel tempo con l’aiuto di un eccentrico scienziato, interpretato da Christopher Lloyd, e deve assicurarsi che i suoi genitori si incontrino per garantire il suo futuro.
Commedie, drammi, fantascienza, tante chiavi interpretative per raccontare il concetto del ritorno. Tanti spunti di riflessione, da vedere o – certamente – da rivedere.
L’altra parte del globo terrestre è sufficientemente lontano per non avere i problemi che attanagliano la nostra penisola? A quanto pare no. Anche in Argentina ci si interroga su cosa sia la Mafia e quali siano gli strati sociali che ne permettono il radicamento e la diffusione.
Riceviamo da Gabriele Paolo Smeriglio, che ringraziamo, una riflessione e una recensione del nuovo libro di Maria Soledad Balsas, e la pubblichiamo con molto entusiasmo.
Quanto merito ha chi dà il là a una nuova specifica linea di ricerca? Quanto vale reggere gli urti, pubblicare e – soprattutto – farsi leggere nonostante mercantilizzazione e monopoli della conoscenza? Secreto a voces.Mafias italianas y prensa en la Argentina di María Soledad Balsas è un’opera necessaria. Ha il coraggio di dar voce a un dibattito già esistente su uno degli elementi costitutivi dello Stato-nazione: le mafie. Allo stesso modo, si fa carico di un bel fardello perché decide trattare un argomento su cui in Argentina, come ammette la stessa autrice, diversamente da altri paesi del mondo anglosassone in cui vi è una consistente presenza di italiani e nelle cui università la storia delle mafie è spesso scientificamente trattata, si sa ancora molto poco.
Al giorno d’oggi, scrivere di mafia e sulla mafia è arduo, soprattutto in un contesto in cui un’iperinflazione discorsiva ad essa dedicata rende difficile comprendere il significato stesso del termine. Balsas (2021) ne parla nel suo lavoro sulla copertura giornalistica delle mafie italiane in “Clarín” tra il 1997 e il 2020 in cui sostiene che la nozione di mafia non è sufficientemente delimitata nell’agenda pubblica locale e spesso finisce per essere banalizzata e assimilata a qualsiasi forma di clientelismo o corruzione. Balsas si prende l’onere di fare chiarezza, una responsabilità accentuata dal grande vuoto accademico sull’argomento in Argentina.
Parlare di mafia significa anche farsi dei nemici, evidenziare i limiti autoimposti di quei giornali a larga diffusione che, piaccia o no, esercitano un’influenza nei confronti di larghe fette della popolazione degli stati moderni. L’autrice, ha il merito di sviluppare coerentemente le tematiche promesse in sede di ricerca e, non meno rilevante, di non annoiare il lettore. Riesce a farlo mettendo insieme ingredienti fino a ieri studiati spesso solo singolarmente. Nel suo libro si riferisce all’esaltazione onnipresente della figura del mafioso come leader carismatico, portatore di un certo charme, protagonista assoluto del genere giornalistico della cronaca, soprattutto quella dei crimini violenti. Infatti, è spesso presente un fascino perverso legato a un modo di costruire la notizia che mette in risalto il male e l’illegalità a scopo di vendita. Cosa nostra risulta, secondo quanto appurato da Balsas, essere la più citata delle quattro espressioni territoriali mafiose, la sacra corona unita la meno usata. Tuttavia, l’etichetta “mafia” non è usata solo per riferirsi alla versione siciliana, ma è estesa in modo generico a tutte le altre.
Alla base del lavoro di Balsas è fortemente presente una riflessione difficilmente non condivisibile. Ovvero, nell’epoca delle mafie globalizzate, risulta ingenuo, se non empiricamente falso e forse ideologicamente di parte, sostenere che le potenti organizzazioni criminali nate in Italia e proiettate nel mondo non abbiano riscontro nel Paese che ospita il maggior numero di italiani residenti fuori dall’Italia. Così come continuare a ritenere che i tre milioni di italiani arrivati in Argentina tra la metà dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del Novecento, a cui si aggiungono i flussi più recenti, abbiano portato con sé solo capitali e conoscenza all’arricchimento del Paese. Una revisione critica di questi temi non può, ad avviso dell’autrice, evitare di interrogarsi sull’identità in Argentina, né può ignorare un’analisi delle condizioni sociali, politiche e culturali attraverso le quali il negazionismo mafioso è diventato egemone.
Premesso ciò, generare dati scientificamente validi sulle mafie italiane in Argentina non è certo un compito facile. Oltre alla scarsità di ricerche di base, vi è una carenza di fonti di informazione affidabili a causa della natura sfuggente dell’argomento. Secondo Balsas, gli sviluppi presentati dal libro sarebbero di interesse non solo nel campo specifico della ricerca sulla comunicazione come disciplina scientifica, ma potrebbero essere potenzialmente utili anche per altre aree di conoscenza correlate. Il giornale è portatore sano di un potenziale comunicativo che va ben oltre il significato grafico. Gli articoli non vanno semplicemente letti e le immagini osservate. Il messaggio, infatti, non inizia e finisce lì, ma deve presupporre una comunicazione preliminare, se non un vero e proprio repertorio di conoscenze condivise.
L’analisi, corpo centrale dell’opera di Balsas si basa su tre casi giornalistici. Il percorso proposto, come afferma l’autrice, non è certamente esaustivo, ma all’interno di esso ognuno dei tre casi costituisce una delle tre tappe fondamentali che, per azione o per omissione, hanno contribuito a modellare l’attuale immaginario mafioso del Paese. L’attenzione al framing, definito come l’insieme dei principi cognitivi culturalmente condivisi che agiscono a livello simbolico nella strutturazione significativa del mondo sociale, è molto rilevante in questo contesto. Tale approccio cerca di spiegare l’interpretazione di una situazione inedita presentata dai media in relazione alle cognizioni pregresse del pubblico. Come ricorda Balsas, se è vero che la statura morale di un organo di informazione è percepita tanto o più da ciò che omette che da ciò che pubblica è quindi necessario prestare attenzione sia ai modi in cui si racconta, sia a ciò che non si può o non si vuole raccontare, e persino a ciò che si racconta senza volerlo. È il caso, aggiunge, anche del concetto di agenda cutting, che si riferisce a questioni che non attirano l’attenzione a causa della scarsa o nulla copertura mediatica, dovuta a restrizioni di spazio, pressioni interne e/o esterne o pregiudizi del giornalista. L’omissione, la mancata copertura o il trattamento volutamente subordinato o penalizzato di specifici eventi, oggetti o persone da parte della stampa avrebbero effetti cognitivi, cumulativi e radicati nel tempo, che incidono sui sistemi di conoscenza che il pubblico struttura in modo duraturo.
Il lavoro d’archivio alla base del lavoro di ricerca di Balsas è stato caratterizzato dalla disponibilità di fonti presso l’Hemeroteca de la Biblioteca Nacional de la República Argentina. In generale, è stata privilegiata la traduzione dei testi italiani nella trascrizione letterale in lingua originale per la stessa ragione per cui è stato scelto uno stile più vicino al saggio che alla monografia accademica, ovvero ampliare il pubblico a cui il lavoro si rivolge. Nella prima sezione si propone un’analisi comparativa di tre giornali in lingua italiana – “L’Italia del Popolo”, “La Nuova Patria” e “Il Mattino d’Italia” – pubblicati a Buenos Aires nella prima metà del Novecento in relazione al caso Ayerza, con l’obiettivo di problematizzarne le posizioni politico-editoriali. In questo modo, Balsas cerca di offrire nuovi spunti allo studio del rapporto tra mafie italiane e media in Argentina con riferimento a un caso emblematico, già studiato in relazione alla stampa argentina.
Il secondo capitolo si occupata della recensione del film La Maffia, di Leopoldo Torre Nilsson, da parte della stampa argentina, apparsa nei supplementi dedicati allo spettacolo di “Clarín”, “La Razón” e “La Prensa” il giorno successivo alla prima a Buenos Aires. Successivamente, Balsas esamina la definizione del frame utilizzato per presentare il caso ne “L’Eco dei Calabresi”, senza trascurare la sua ripercussione ne “La Nación”. Infine, problematizza la discussione sulla presentazione degli interessi della comunità italiana e calabrese a partire dagli elementi interpretativi messi in campo ne “L’Eco d’Italia”.
Infine, l’autrice riflette sul modo in cui la Strage di Capaci, in cui il giudice Giovanni Falcone, la moglie e le sue guardie del corpo furono assassinati per ordine della mafia il 23 maggio 1992, fu riportata dai giornali “Clarín” e “La Nación”. Balsas si chiede in che modo la stampa nazionale argentina elaborò l’evento che segnò una svolta nella storia della lotta antimafia in Italia; quale importanza gli fu data; quali frame furono utilizzati nella presentazione della notizia. In contrapposizione, sulla sponda italiana, Balsas analizza sono le caratteristiche del trattamento dell’eventi nella stampa di lingua italiana in Argentina.
Dal primo capitolo si apprende come tra la fine del 1932 e l’inizio del 1933 l’opinione pubblica argentina fu scossa dal rapimento e dal successivo omicidio di Abel Ayerza. Questi fu rapito il 23 ottobre 1932 a Corral de Bustos, nel sud-est della provincia di Córdoba, mentre si trovava in vacanza in una tenuta di Marcos Juárez con alcuni amici. La famiglia Ayerza pagò il riscatto richiesto dal clan di Giovanni Galiffi poco dopo il rapimento, ma a quel punto Ayerza era già morto, fu assassinato il 1° novembre 1932. Dalle ricerche dell’autrice si evince che il caso provocò la mobilitazione di alcuni settori della destra nazionalista che, sulla base della provenienza dei responsabili, manifestarono il loro biasimo per una migrazione che definivano indesiderata. In termini generali, afferma Balsas, la stampa argentina, che aveva sperimentato una strutturale mancanza di esperienza e di conoscenza nella definizione dei termini simbolici degli eventi mafiosi fin da quando questi cominciarono a essere rilevati in alcune aree urbane verso la fine del XIX secolo, nel trattare il caso fu permeabile al modello cinematografico allora diffuso nel giornalismo di polizia.
Le vicende del caso Ayerza furono al centro di un’intensa trattazione giornalistica in cui, si legge nel capitolo, sono identificabili due diversi regimi simbolici che fanno riferimento, rispettivamente, all’esecutore ideologico del crimine, Giovanni Galiffi, e agli artefici materiali della sua esecuzione, Giovanni Vinti e i fratelli Di Grado. La figura di Galiffi, fondata sul suo percorso migratorio dalla Sicilia per diventare un self-made man di successo nel luogo di approdo, fu costruita dalla stampa argentina secondo i parametri dell’immaginario gangsteristico degli anni Trenta, basato sulla cura dell’immagine pubblica e sulle articolate connessioni politiche. L’angoscia straziante della devota madre di Ayerza rappresentò la chiave di volta e attivò immagini ancestrali piene di risonanze religiose sulla maternità, sull’amore materno e sul vincolo matrimoniale.
La teoria criminologica dell’epoca e citata nel libro forniva strumenti e conoscenze che presupponevano che le caratteristiche biologiche o psicologiche di un individuo fossero la fonte e la conseguenza del suo destino di criminale. Grazie a queste procedure, attivisti politici, criminali comuni e mafiosi vennero indistintamente etichettati come “nemici della nazione”. La forte presenza di fonti storiche nel corso della lettura del capitolo argomenta che tra il 1932 e il 1936 la polizia espulse centinaia di “indesiderabili”, accusati di militanza comunista e anarchica, o di coinvolgimento nella criminalità organizzata. Le espulsioni, inoltre, proseguirono per tutto il decennio, legate all’attività di rappresaglia nei confronti del comunismo e della militanza antifascista.
Come ricostruisce Balsas, a Buenos Aires l’importanza della stampa italiana era già stata dimostrata nel censimento municipale del 1887, quando i giornali italiani di Buenos Aires stampavano 20.000 copie al giorno, mentre dei 65 giornali stranieri pubblicati a Buenos Aires nel 1896, 22 erano italiani. I periodici non solo riportavano gli avvenimenti del Paese d’origine e gli eventi nazionali, ma fornivano anche assistenza e consigli ai migranti. Nel grande panorama della stampa italiana in Argentina, si distinguevano “La Patria degli Italiani”, “Il Mattino d’Italia” e “L’Italia del Popolo” per la continuità raggiunta durante il periodo fascista e per il livello di distribuzione raggiunto. “L’Italia del Popolo” trattò il caso Ayerza a partire dal 25 ottobre 1932.
A riprova dell’attenzione posta dall’autrice a storia e teorie sulle mafie si argomenta che prima che un’organizzazione criminale su base etnica, la mafia sembrava esprimere uno stile di vita maschile ai margini di un’urbanità pericolosa e feroce, segnata dalla miseria. Tuttavia, il caso Ayerza si distacca da una certa predeterminazione della criminalità mafiosa che aveva pervaso la storia fino a quel momento. È infatti ambientato in zone rurali, coinvolge sia uomini che donne di origine italiana, e le sue vittime non sono più cittadini anonimi.
Accanto ai temi presenti nella stampa argentina, ne emergono altri nuovi, che riflettono non solo il diffuso sentimento anti-italiano, ma anche e soprattutto le differenze ideologiche all’interno della comunità italiana in Argentina. Se l’offesa e l’apporto economico dell’emigrazione italiana in Argentina fungono da frame, ciò che viene conteso è la auto-assunta difesa dell’onore degli italiani all’estero da parte delle autorità e, di riflesso, della stampa fascista, in particolare “Il Giornale d’Italia” e “Il Mattino d’Italia”. Per quanto riguarda il trattamento dell’informazione, anche nella stampa argentina si può osservare una certa tendenza alla spettacolarizzazione. Questo sistema di definizione delle notizie mirerebbe ad attirare l’attenzione del pubblico e suscita un’attenzione emotiva. L’uso di caratteri grafici in maiuscolo, così come la scelta di titoli altisonanti per attirare l’interesse del lettore, sono un’ulteriore prova di un modo sensazionalista di concepire le notizie.
Balsas non manca di descrivere brevemente l’origine delle organizzazioni mafiose più diffuse in Italia. Iniziando con la camorra, prima formazione mafiosa conosciuta e presente sulla scena criminale di Napoli. Si trattava di un fenomeno urbano che riuniva i settori che speculavano sulla ricchezza prodotta dal lavoro agricolo, dal furto di bestiame, dalla sorveglianza della proprietà terriera altrui e dall’estorsione del commercio. Inoltre, aggiunge che è opinione comune che la mafia siciliana sia nata dopo l’unità d’Italia. Diversamente dalla camorra napoletana, questa era prevalentemente agricola. La sua attività si concentrava nelle pianure irrigue coltivate a frutta intorno a Palermo, nelle aree minerarie sulfuree del centro-sud e nei grandi latifondi dell’entroterra. Nella Sicilia della seconda metà dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, i grandi proprietari terrieri avevano al loro servizio le guardie mafiose, che con la loro presenza fisica sui terreni non solo garantivano la protezione contro gli atti di banditismo o di rapina e mantenevano la disciplina tra i contadini, osteggiando le loro pretese e assurgendo al contempo al compito di punire i più ribelli, che non volevano piegarsi. Da allora, le prospettive di alcuni gruppi mafiosi si sono internazionalizzate, grazie alle opportunità fornite dal mercato nero e dal contrabbando.
Per Gambetta (1992), la data più plausibile per l’origine della mafia è il 1812, quando in Sicilia iniziò la dissoluzione del feudalesimo, e nel 1860-61 probabilmente erano già state gettate le basi di questa industria. I cambiamenti indotti nella proprietà terriera dalle riforme politiche introdotte tra il 1860 e il 1885 con l’estensione della democrazia e quando la politica locale si mescolò alle tensioni preesistenti, diedero un nuovo impulso ai “protettori” di professione, allargandone anche gli orizzonti.
Sulla la mafia calabrese, l’autrice afferma che essa sembra essere emersa all’incirca nello stesso periodo dei carbonari e strutturata secondo le stesse linee, poiché il suo modello e il suo rituale sono ancora massonici. La ‘ndrangheta possiede una struttura improntata ai rapporti di parentela dei capobastone, che è stata centrale per prevenire la collaborazione con la giustizia dei suoi membri. Uno dei suoi punti di forza rispetto alle altre organizzazioni mafiose è stata la strategia di diversificazione geografica. Infine, la sacra corona unita rappresenta la più recente delle quattro organizzazioni mafiose classiche italiane. Emersa in risposta alla crescente diffusione territoriale di organizzazioni mafiose provenienti da regioni vicine.
L’autrice afferma che lo studio del trattamento del caso Ayerza nella stampa etnica italiana a Buenos Aires mostra che l’importanza attribuita al caso non è univoca. Tuttavia, data la parzialità delle fonti consultate, non risulta possibile tracciare un quadro esaustivo della questione. Più che da un’origine nazionale condivisa, essa sembra essere determinata dalla posizione politico-editoriale assunta in ciascun caso analizzato. Mentre l’antifascista “L’Italia del Popolo” dedicò più spazio ai dettagli del caso per un periodo di tempo più lungo, la copertura de “La Nuova Patria”, che utilizzava l’ironia come arma principale, era funzionale a un negazionismo patriottico che cercava di sottrarsi alle accuse xenofobe che vogliono associare l’italianità alla mafia. Con uno stile più surrettizio, “Il Mattino d’Italia” denunciò il sensazionalismo e negò per omissione la relazione tra mafia e italianità.
A partire da questi risultati, apprendiamo, leggendo i risultati della ricerca dell’autrice, che è possibile stabilire che la stampa italiana in Argentina non sia riuscita a definire, nel contesto del caso Ayerza, un discorso coerente e strutturato in grado di informare i dibattiti pubblici sulla mafia italiana in Argentina e di proporsi come alternativa all’autoritarismo dominante, sia in Argentina che in Italia. Di conseguenza, conclude l’autrice, furono gettate le basi per un patto xenofobo, da parte argentina, e negazionista, da parte italiana, che, nella misura in cui concorreva a (ri)creare il mito fondante della migrazione italiana in Argentina in termini esclusivamente positivi sembra aver fatto comodo a entrambe le parti in causa.
Il secondo capitolo è egemonizzato dalla pellicola La Maffia, di Leopoldo Torre Nilsson, che uscì il 29 marzo 1972 nei cinema di Buenos Aires, dopo essere stato proiettata nella città di Rosario. Il film, ci ricorda l’autrice, rievocava la storia della mafia in Argentina nella prima metà del XX secolo. Nello stesso periodo, il direttore de “L’Eco dei Calabresi” presentò reclamo alle autorità giudiziarie locali per impedire la proiezione del film nel circuito ufficiale e per rimuovere due scene con riferimenti all’origine calabrese dei membri fittizi di una banda mafiosa situata a Rosario. Sebbene la richiesta non fu accolta, l’evento divise la stampa, sia nazionale che etnica, e fu commentato anche dalla stampa calabrese. In questo capitolo l’autrice intende proseguire sulla linea avviata nel capitolo precedente, attraverso la problematizzazione dei dibattiti sollevati dalla stampa locale – sia argentina che italiana – sul caso.
In generale, come anche il lavoro di Balsas conferma, parlare di mafie vende (Mangiameli, 2016) e parlare di cinema di mafia vende ancora di più. Inoltre, il continuo ricorso a figure di origine cinematografica non è casuale. Santoro (2007) si preoccupa di cogliere la tensione tra la necessità di costruire l’identità e il continuo e costante controllo e regolazione dei flussi comunicativi. Così la mafia, intesa come sottocultura, non è necessariamente riconducibile a una precisa categoria sociale, né a una comunità organizzata, ma dipende da una serie di credenze e pratiche. Le testimonianze giudiziarie, infatti, mostrano come sia proprio attraverso il contatto culturale generato da reti sovrapposte e mediato da scambi di informazioni, in generale da modelli cognitivi e simbolici, che le organizzazioni si sono formate e perdurano. Le organizzazioni mafiose si sono formate e durano.
Il film La Maffia fu pubblicizzato sui principali quotidiani nazionali. Il risalto riservato dalla stampa si tradusse non solo in consistenti spazi pubblicitari, ma anche in una decina di recensioni, cronache e commenti corredati da ritratti di attori e attrici, fotografie della prima serata e scene del lungometraggio. Nel complesso, la critica nazionale accolse con favore la proposta di Torre Nilsson sulle origini della mafia nel Paese. La scelta di ambientare la storia nel passato favorisce l’emergere del suo carattere inventivo, illuminando la dimensione immaginaria. Anche “La Prensa”, da parte sua, si rallegrò del successo del film all’indomani della prima, un’attitudine che si rifletteva nella scelta di aggettivi e sostantivi che testimoniavano una valutazione positiva del lavoro tecnico del team di produzione del film. “La Razón” sottolineò l’originalità e l’attualità del film nel panorama cinematografico locale.
In tutti i casi, sottolinea Balsas, viene elogiata la bellezza e la sensualità della figura femminile interpretata da Thelma Biral. Come nei film di mafia italiani, anche qui la donna, sia come figlia che come amante, costituisce il punto debole dei protagonisti maschili, la cui virilità è pensata in base alla loro visione del mondo femminile. Eredità di una doppia morale di ispirazione cattolica secondo la quale in privato tutto è permesso mentre in pubblico bisogna mostrarsi irreprensibili.
Pochi giorni dopo la prima de La Maffia, “L’Eco dei Calabresi” pubblicò un editoriale firmato dal suo direttore Pasquale Caligiuri, calabrese di nascita ed emigrato in Argentina nel 1926. Come argomenta Balsas, dalla catena semantica offesa-disprezzo-insulto il frame utilizzato nell’editoriale di Caligiuri attivò il sentimento calabrofobico denunciato dalla stampa italiana in Argentina, in primis nel 1887 da “La Patria degli Italiani”. Il danno percepito provocato dalla diffusione di un’immagine negativa della calabresità in Argentina è mitigato da due principali strategie discorsive. Se da una parte si esagera il contributo culturale, scientifico e commerciale di personaggi calabresi di spicco, dall’altra si invoca la presunta mancanza di conoscenza della lingua italiana.
Varie fonti, argomenta Balsas, riportano la presenza di mafiosi in Argentina negli anni precedenti. Ad esempio, Tommaso Buscetta era emigrato in Argentina con la famiglia nel 1949, dopo essersi unito alla famiglia palermitana di Porta Nuova. Rientrò nel Paese nel 1955, questa volta clandestinamente. Rientrato in Sicilia dopo la seconda esperienza migratoria in Sudamerica, incontrò Lucky Luciano che nel 1946 aveva ottenuto l’autorizzazione a emigrare in Argentina.
Nel corso del capitolo si legge anche che è possibile considerare i dati come un “riflesso” della realtà solo quando la trama narrativa si colloca in geografie e situazioni quotidiane riconoscibili. Ed è forse per questo che, dice l’autrice, pur non essendo l’unico film di mafia destinato a diventare un classico ad essere proiettato nel 1972 a Buenos Aires, La Maffia di Torre Nilsson si rivelò così polemico. Il caso riporta in auge le controversie sull’identità argentina che si sono verificate a partire dalla fine del XIX secolo. Interpretazioni contrastanti del film divisero non solo la stampa argentina ma anche quella etnica, rivelando le lotte interne sulla rappresentazione degli interessi della collettività, che secondo Balsas è ben lungi dall’essere un insieme omogeneo. Le pretese realistiche e documentarie attribuite al film sembrano essere state fondamentali per consolidare l’immaginario della mafia in Argentina come un fatto del passato. Non si può fare a meno di osservare, sottolinea l’autrice, che questo ritorno al passato avviene proprio in un frangente che coincide con l’espansione “imprenditoriale”, a livello internazionale, delle mafie italiane.
Elemento che non risulta sorprendente in quanto la mafia è parte integrante della classe dirigente, dello Stato, dell’economia capitalista in generale. La sua punta più avanzata si trova in tutti i settori della società: nelle istituzioni, nell’alta finanza, nel terziario e nell’agricoltura. La specifica evoluzione storica, economica e sociale del Sud Italia, che oggi si traduce in deindustrializzazione e sottosviluppo, insieme alle frequenti iniezioni di denaro pubblico ufficialmente destinato, ad esempio, alle campagne elettorali e alle elezioni, hanno trasformato le mafie nell’equivalente di società per azioni, multinazionali armate che investono liberamente in vaste aree del pianeta. Oggi, come detto, le mafie hanno aumentato notevolmente la loro influenza nella dimensione politica ed economica transnazionale.
L’ultimo capitolo parte da una data: il 23 maggio 1992, quando il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e tre delle sue guardie del corpo furono assassinati mentre viaggiavano in auto sull’autostrada dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo. Mesi prima di essere ucciso Falcone si era recato in Argentina. Più fonti – sia argentine che italiane –, afferma Balsas, concordano nell’indicare un suo breve soggiorno a Buenos Aires intorno alla metà del 1991. Tenuto conto della connotazione locale delle connessioni mafiose internazionali su cui Falcone stava indagando nel periodo dell’attentato che gli è costato la vita, nonché della circostanza recente del suo viaggio in Argentina e delle ripercussioni mondiali della notizia della sua morte, secondo Balsas, è di grande interesse analizzare la copertura data dalla stampa nazionale argentina – “Clarín” e “La Nación” – a un evento che ha segnato una svolta nella lotta alla mafia in Italia. Balsas riflette su come si posizionò la stampa etnica di fronte a questa copertura giornalistica.
Non sembrano esserci studi scientifici che facciano luce sul viaggio di Falcone in Argentina come sulle modalità con cui la stampa nazionale ha elaborato la notizia della sua morte. Tuttavia, come dettagliatamente ricostruisce il libro oggetto della presente recensione, fonti giornalistiche, istituzionali e autobiografiche documentano il suo viaggio in Argentina. All’inizio dello stesso anno, il direttore del Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (SISDE), prefetto Angelo Finocchiaro, evidenziò nel corso di un’audizione parlamentare la partecipazione del giudice Giovanni Falcone a un evento tenutosi a Buenos Aires nell’ambito della cooperazione giudiziaria e di polizia. Questo coincide con le memorie recentemente pubblicate dell’ex giudice italiano Ilda Boccassini, che sostiene di aver accompagnato Falcone nel suo viaggio in Argentina.
L’interesse mostrato dai due giornali a maggiore diffusione in Argentina per la tragedia di Capaci non fu uniforme. Secondo l’autrice, il valore attribuito a una notizia è interpretabile in termini di scoop e spettacolarità, di prima pagina e di immagine di grande risonanza, di impatto e di ripercussione sullo spazio pubblico, sulla società e sul potere. Pertanto, se prendiamo in considerazione i criteri che determinano la notiziabilità di un evento, l’omissione di “Clarín” in prima pagina, una sfera di attenzione privilegiata che esprime il contratto di lettura di un giornale, è teoricamente inspiegabile.
Una riflessione che inizia a riordinare considerazioni di carattere conclusivo sul lavoro parte da ciò che viene chiamata catastrofe globale, ovvero l’evento di cronaca per eccellenza. Nello, specifico, visto l’argomento principale, le esplosioni sono descritte da Balsas come rilevanti perché rappresentano il manifestarsi di un allarme nella società, di ciò che non ci si attendeva, di ciò che non doveva accadere. La prossimità geografica, culturale, di classe determina la familiarità dell’evento per definirne la potenziale gravità. Vista la consistente presenza di italiani in Argentina, così come la storia di cooperazione giudiziaria e di polizia tra i due Paesi e la recente visita di Falcone in Argentina, questa assenza per l’autrice è determinante nella costruzione dell’agenda giornalistica del giornale, che gradualmente deposita una lettura della mafia come fenomeno estraneo alla realtà socio-politica nazionale. Questa forma di negazione potrebbe essere interpretata, in definitiva, in termini di paura di reagire all’imponderabile che sfugge al controllo sociale, dove le regole sono deviate. Partendo dal presupposto che i media confezionano un quadro interpretativo che filtra la percezione della realtà, definisce le questioni su cui si deve formare un’opinione e la relativa gerarchia, e che il pubblico si orienta a dare importanza agli argomenti, alle persone e agli eventi a cui i media danno più spazio e più risalto il modo in cui è stato trattato marginalmente il caso Falcone è significativo.
Balsas, inoltre, mettendo mani ai proprii strumenti di ricercatrice evidenzia come tra il 25 e il 29 maggio 1992, “Clarín” dedicò meno di sei pagine a seguire gli eventi di Capaci nella sezione “Internazionale”. Il 28 maggio 1992, “Clarín” si soffermò sui possibili legami internazionali dell’attentato, indicando l’ex Partito Comunista dell’URSS. D’altra parte, l’interesse de “La Nación” si rese evidente fin dalla prima pagina del 24 maggio 1992. L’esplosione come evento di cronaca fu riconosciuta dalla centralità dello spazio ad essa dedicato, modo sensazionalistico di intendere la notizia. Nella figura del “cacciatore”, per riferirsi a Falcone, la mafia fu poi associata a una certa idea di animalità, già riscontrabile nella stampa etnica della prima metà del XX secolo. Il 27 maggio 1992, “La Nación” citò il quotidiano russo Izvestia in un breve articolo della sezione Esteri per parlare dei supposti legami dell’ex Partito Comunista dell’URSS con la mafia e dei suoi investimenti politici in Italia. L’autrice si chiede, in definitiva, come la stampa argentina di lingua italiana descrisse i fatti di Capaci. “Tribuna Italiana” giornale bilingue della comunità italiana in Argentina nel 1992 aveva una cadenza quindicinale. Per questo motivo la notizia dell’attentato di Capaci fu inserita solo nell’edizione del 3 giugno. Pur essendo una storia di copertina, non venne messa particolarmente messa in risalto. Nell’edizione pubblicata successivamente, quella del 17 giugno, una nota enfatizzò l’azione repressiva della mafia da parte dello Stato attraverso l’uso forzato aggettivi qualificativi.
Benché l’azione degli organi giuridici e di polizia viene esaltata come principale destinataria e portatrice di importanza e responsabilità nella lotta alle mafie. Sebbene non manchino i proclami governativi, a tutti i livelli, sulla lotta alla criminalità organizzata e all’infiltrazione delle istituzioni da parte delle mafie, la pratica mostra una totale indisponibilità da parte dei massimi rappresentanti dello Stato a farlo. Invece di attuare piani di sviluppo, occupazione e industrializzazione per il Mezzogiorno e di affrontare realmente la questione meridionale, spesso si sceglie di “salvare” le periferie attraverso la gentrificazione e la militarizzazione del territorio. In questo modo, l’alternativa alla disoccupazione continuerà spesso a essere il reclutamento nelle file delle organizzazioni criminali, che inevitabilmente aumenteranno il loro potere economico e il loro radicamento sul territorio.
La cultura in generale e la cultura mafiosa in particolare sono complessi depositi o repertori di discorsi, definizioni, orientamenti, codici, a cui gli attori sociali attingono e interpretano continuamente. In particolare, si tratta di estendere il campo di studio alle rappresentazioni della mafia, alle immagini che circolano non solo nei media, ma anche tra gli attori che operano nel mondo della mafia commerciale. Ne parla impeccabilmente Balsas nominando pizzerie e ristoranti, ma anche negozi di abbigliamento, gelaterie, parrucchieri, officine e aziende di logistica, in tutta l’Argentina, che mostrano attraverso le proprie insegne i prestiti lessicali che rendono visibile la cultura mafiosa. Oltre a programmi radiotelevisivi, pubblicità, videoclip, film e concerti. Un’inflazione discorsiva basata su un termine generico che può far riferimento a qualsiasi fenomeno di macrocriminalità.
In altre parole, simboli mafiosi sfruttati e utilizzati dai produttori culturali come emblemi di una particolare “cultura esotica”. I mafiosi sono anche utilizzatori, produttori e, naturalmente, manipolatori di simboli, una produzione simbolica che non è necessariamente una creazione individuale o volontaria, ma è spesso collettiva e incondizionata, un processo di ri-creazione, che come tale produce valori vincolanti per i membri di una sottocultura. L’obiettivo è quindi quello di mostrare il potenziale di un’analisi culturale della mafia che enfatizzi l’idea di “circolarità” dell’identità e delle rappresentazioni del mafioso. È l’idea che i simboli possano tornare circolarmente ad agire sulle identità che li hanno originariamente prodotti, dopo essere stati fatti propri da altri per casi diversi, distaccandosi sempre più dalle forme sociali che li hanno prodotti, per essere ri-significati in altri contesti (Santoro, 2007).
Non mancano, inoltre, esempi in cui la mafia viene assunta come argomentazione per attaccare l’avversario nel confronto politico. L’autrice fa riferimento a un caso che toccò il governatore della provincia di Buenos Aires, Axel Kicillof nel marzo del 2021; alle presidenziali del 2019, quando le mafie ebbero un ruolo di primo piano nella campagna elettorale di “Juntos por el cambio”, il partito di governo guidato da Mauricio Macri e al febbraio 2020, quando, a margine della presentazione dei un suo libro alla fiera del libro dell’Avana, a Cuba, la protagonista fu Cristina Fernández. Per ultimo, vengono menzionati da Balsas anche i rappresentanti degli italiani residenti nella sezione sudamericana della circoscrizione Estero del Parlamento italiano, i quali fecero riferimento a uno degli argomenti principali della campagna elettorale denunciando la gestione “mafiosa” delle pratiche necessarie per conseguire la cittadinanza italiana da parte degli italo-argentini.
Balsas chiude ponendo un monito ai lettori. (Si) Chiede se esistono davvero le mafie italiane in Argentina, se si tratta di un fatto del passato o se la loro presenza si estende ai giorni nostri. Le risposte che dà a queste domande sembrano dipendere essenzialmente da cosa si intende per mafia e da quali caratteristiche le si riconoscono. A questo proposito, ricorda che “mafia” e “criminalità organizzata” non sono concetti intercambiabili, anche se talvolta possono essere considerati sinonimi.
Risulta interessante riscontrare che dall’analisi delle testimonianze analizzate emerge l’immagine di un presente sicuro, scevro da presenze mafiose, in antitesi a quella di un passato criminale. A questo proposito, secondo l’autrice, il problema non può essere affrontato esclusivamente nell’ambito della competenza sociale dei mass media. A tal fine, è auspicabile che il mondo accademico si assuma la propria responsabilità sociale in relazione alla questione, poiché solo la scienza può mettere ordine tra ciò che oggettivamente è e ciò che potrebbe essere. Spesso si tratta, invero, proprio della differenza che intercorre tra un articolo di giornale e una pubblicazione scientifica. Riprendendo un concetto espresso da Balsas nel suo libro, nella fattispecie dello studio delle mafie italiane in Argentina, la stampa si presenta come una preziosa chiave di accesso.
Le ultime pagine del libro sono dedicate anche alle origini calabresi dell’autrice e a quanto sia importante allargare lo spettro il più possibile e promuovere una conversazione sociale su un tema scomodo, spesso legato a culture di paura e silenzio. Il libro continua, sino alla sua conclusione, a por(si)re domande, ennesima riprova di quanto esso rappresenti un lavoro necessario e coraggioso, una base scientifica solida per ciò che verrà.
Referencias
Balsas, M. S. (2021). «El país que no miramos». Las mafias italianas según Clarín (1997-2020). Estudios sobre el Mensaje Periodístico, 27 (4): 1035-1042.
Gambetta, D. (1992). La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata. Torino: Einaudi.
Mangiameli, R. (2016). In guerra con la storia: La mafia al cinema e altri racconti. Meridiana, 87: 231-243.Santoro, M. (2007). La voce del padrino. Verona: Ombre corte.
Un evento sportivo amatoriale aperto a tutti, per sensibilizzare e raccogliere fondi per la ricerca sui sarcomi dei tessuti molli. È la SarcRace, la prima corsa o passeggiata campestre benefica organizzata a Roma per le patologie tumorali rare.
L’appuntamento è domenica 18 settembre 2022, con partenza alle 10,00 da via Àlvaro del Portillo, 5, sede del CESA, Centro per la Salute dell’Anziano della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico. Il percorso si svolge all’interno della Riserva naturale di Decima Malafede lungo un tragitto di 5 km. Al termine della manifestazione sportiva è prevista una cerimonia di premiazione, alla quale seguirà un piccolo ristoro offerto dagli sponsor. Ospiti d’onore saranno l’attore Raoul Bova ed il giornalista Filippo Roma che, con la loro presenza, sosterranno le persone affette da sarcomi dei tessuti molli.
SarcRace è organizzata grazie al patrocinio del Municipio IX di Roma Capitale e della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico e realizzata grazie all’Associazione Sarknos.
Le iscrizioni sono aperte al costo di 10 euro, cifra che verrà interamente devoluta per attività di ricerca. Per info e iscrizioni: sarcrace@sarknos.it
Sarknos: la rete per chi è affetto da sarcoma. Sarknos è un’associazione benefica di medici e pazienti, nata per sostenere e supportare le persone affette dai sarcomi dei tessuti molli durante il percorso di diagnosi, spesso lungo, complesso e impegnativo, dal punto di vista fisico ed emotivo. Fondata il 26 marzo 2022 su iniziativa del dott. Sergio Valeri – Responsabile dell’Unità Operativa di Chirurgia dei Sarcomi dei Tessuti Molli presso la Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma – e di un gruppo di pazienti e medici, spinti dal desiderio di voler creare una rete di contatto e unione per quanti sono affetti da questa forma di tumore dalla complessa gestione clinica e per i loro familiari.
La Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, che ospita la sede legale dell’associazione, ha accolto la sua nascita stipulando una convenzione. L’accordo ha l’obiettivo di promuovere l’associazione patrocinandone le attività e supportandone le iniziative. Sarknos sostiene la ricerca scientifica grazie all’organizzazione di eventi di informazione aperti a tutti. Inoltre, favorisce l’incontro e il confronto tra pazienti, familiari e personale sanitario e promuove la socialità, per far nascere idee e stimoli dalle esperienze comuni, abbattendo le barriere dell’isolamento e della paura. Tra i suoi obiettivi, inoltre, c’è quello di sensibilizzare i professionisti sanitari presenti sul territorio in merito all’importanza di un corretto percorso diagnostico e terapeutico, diffondendo la conoscenza dell’Ambulatorio per la Chirurgia dei Sarcomi e contribuendo a garantire un’adeguata presa in carico alle persone con una nuova diagnosi di sarcoma dei tessuti molli, con l’obiettivo di superare gli ostacoli che si frappongono all’accesso al miglior trattamento possibile.
I cambiamenti a volte possono essere inaspettati o a volte possono essere desiderati, possono essere sfide che sembrano insormontabili o possono essere gradini da salire (o da scendere). Ci possiamo sentire persi e disorientati o invece pieni di energie e motivati ad andare avanti. Può cambiare il terreno sul quale muoviamo i nostri passi, può cambiare il tracciato che stavamo seguendo o che stavamo creando, ma il percorso non si interrompe.
La metafora del “percorso” ci ricorda che la vita è un viaggio, un’esperienza continua di crescita, apprendimento e cambiamento. Nonostante i nostri piani possano essere sconvolti da eventi imprevisti, dobbiamo adattarci e trovare nuove strade per continuare il nostro cammino.
La chiave per affrontare il cambiamento e continuare il nostro percorso è l’adattabilità. Dobbiamo imparare a lasciar andare vecchi schemi mentali e abitudini che potrebbero ostacolare il nostro progresso. Accogliere il cambiamento e abbracciare l’ignoto, ci apre a nuove possibilità e ci aiuta a costruire una versione migliore di noi stessi. La paura del fallimento o del giudizio degli altri può limitarci, ma dobbiamo ricordarci che i fallimenti fanno parte del percorso. Ogni volta che cadiamo, possiamo imparare qualcosa di nuovo e ottenere la forza per rialzarci. Affrontare il cambiamento con coraggio ci porta a riscoprire il nostro potenziale nascosto e ci incoraggia a perseguire i nostri sogni con determinazione.
Ma più che il coraggio, aggiungerei “la felicità”, quella felicità che viene nel fare i percorsi fatti di corde e rami, di legno e ferro, come nei parchi per i ragazzi. Sicuramente si sentiranno coraggiosi a cimentarsi in quella sfida, ma penso che la spinta sia il “divertimento”, la voglia stessa di affrontare il percorso. Con un sorriso.
Per ricordarci i passi che abbiamo fatto finora, proviamo a riproporre quì, alcuni passi che, appena ci giriamo all’indietro, si aprono davanti a noi, significativi e densi di ricordi.
Andiamo avanti con lo sguardo rivolto davanti a noi. E le scarpe ben allacciate per affrontare il nuovo terreno.
Dopo lo straordinario successo della scorsa edizione, con circa 400 partecipanti, tra pazienti, medici, amici, studenti, volontari e cittadini provenienti da tutta Italia, si riaffaccia a Roma la SarkRace, un evento sportivo amatoriale aperto a tutti, per sensibilizzare e raccogliere fondi per la ricerca e la cura dei sarcomi dei tessuti molli, rara forma di tumore, dalla complessa gestione clinica.
L’appuntamento è per domenica 24 settembre 2023, con partenza alle 10,00 da via Àlvaro del Portillo, 5, sede del CESA, Centro per la Salute dell’Anziano della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico. Il percorso si svolge all’interno della Riserva naturale di Decima Malafede lungo un tragitto di 5 km. Al termine della manifestazione sportiva, saranno premiati i primi tre classificati e verranno donati alcuni gadget ricordo per tutti i partecipanti. L’evento, ideato ed organizzato dall’Associazione Sarknos, in collaborazione con la Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, è patrocinato dalla Regione Lazio, dal Municipio IX di Roma Capitale e da F.A.V.O. (Federazione Italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia).
Numerose le autorità istituzionali che hanno abbracciato l’iniziativa e non hanno voluto mancare a questo appuntamento di solidarietà, impegno, testimonianza e sensibilizzazione. Saranno presenti la Senatrice Paola Binetti (Presidente onorario Associazione Sarknos), l’On. Luciano Ciocchetti (Vice Presidente XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati), l’On. Massimiliano Maselli (Assessore Servizi sociali, Disabilità, Terzo Settore, Servizi alla Persona della Regione Lazio), l’On. Marco Bertucci (Presidente IV Commissione Bilancio della Regione Lazio), l’Ing. Carlo Tosti (Presidente della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio Medico), il Dott. Patrizio Chiarappa (Assessore Sport e Grandi Eventi Municipio IX Comune di Roma). La “iena” Filippo Roma, da sempre amico e sostenitore dell’associazione Sarknos, condurrà la giornata in tutti i suoi momenti e sviluppi. Le iscrizioni sono aperte al costo di 10 euro. Il ricavato verrà interamente devoluto per le attività di ricerca e di cura del sarcoma. Per info e iscrizioni: amministrazione@sarknos.it
Sarknos: la rete per chi è affetto da sarcoma. Sarknos è un’associazione benefica di medici e pazienti, nata per sostenere e supportare le persone affette dai sarcomi dei tessuti molli durante il percorso di diagnosi, spesso lungo, complesso e impegnativo, dal punto di vista fisico ed emotivo. Fondata il 26 marzo 2022 su iniziativa del Dott. Sergio Valeri – Responsabile Unità Operativa Semplice – Chirurgia dei Sarcomi dei tessuti molli presso la Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma – e di un gruppo di pazienti e medici, spinti dal desiderio di voler creare una rete di contatto e unione per quanti sono affetti da questa forma di tumore. La Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, che ospita la sede legale dell’associazione, ha accolto la sua nascita stipulando una convenzione. L’accordo ha l’obiettivo di promuovere l’associazione patrocinandone le attività e supportandone le iniziative. Sarknos sostiene la ricerca scientifica grazie all’organizzazione di eventi di informazione aperti a tutti. Inoltre, favorisce l’incontro e il confronto tra pazienti, familiari e personale sanitario e promuove la socialità, per far nascere idee e stimoli dalle esperienze comuni, abbattendo le barriere dell’isolamento e della paura. Tra i suoi obiettivi, inoltre, c’è quello di sensibilizzare i professionisti sanitari presenti sul territorio in merito all’importanza di un corretto percorso diagnostico e terapeutico, diffondendo la conoscenza dell’Ambulatorio per la Chirurgia dei Sarcomi e contribuendo a garantire un’adeguata presa in carico alle persone con una nuova diagnosi di sarcoma dei tessuti molli, con l’obiettivo di superare gli ostacoli che si frappongono all’accesso al miglior trattamento possibile.
Di solito si arriva a questi “anniversari” dicendo “10 anni e non sentirli”. Forse si potrebbe anche provare a parafrasare quell’aforisma di Wilde che enunciava che “La tragedia della vecchiaia non è di essere già vecchi, ma di essere ancora giovani.” E invece non è così: sono passati 10 anni da quando è nata Condivisione Democratica e li sento tutti. Ne sento il peso, ne sento la fatica.
All’inizio fu un’idea di Gerry, non solo una scintilla ma una vera intuizione, il dare voce alla necessità di avere uno spazio di discussione, di rappresentazione delle idee, un laboratorio di idee – ancora non andava di moda chiamare “Think Tank” queste cose. Gerry col suo entusiasmo ha coinvolto un gruppo di amici e così è nata questa Testata Giornalistica. Non un blog, non un sito, non una pagina Facebook, ma una vera e propria testata giornalistica, che è molto più vincolante, che è un progetto molto più “ambizioso” – diciamolo.
In questi 10 anni sono cambiate tante cose – non mi dilungo a fare l’elenco, ma esorto a pensare a cosa è accaduto nel frattempo, partendo proprio da quel 2012 arrivando fino ad oggi, sia sul lato “pubblico”, “internazionale e nazionale”, ma anche “privato e personale” – e questo progetto ci sta un pò “stretto”. Quella necessità di rappresentazione delle idee, di darle forma, di elaborarle e di condividerle, non è venuta meno, anzi è aumentata, è accresciuta e si è piano piano strutturata in modo diverso. Quindi è arrivato il momento di dare una nuova veste a tutto. E’ ancora presto per raccontare “cosa sarà”, ma sicuramente è arrivato il momento di salutare “cosa è stato”. Condivisione Democratica per me è stato un grande progetto, è stato un bel laboratorio, dove sono cresciute nuove esperienze e nuove alchimie. Potrei perdermi nei ringraziamenti – l’elenco delle persone sarebbe davvero lunghissimo, con le persone che sono nella redazione o ne hanno fatto parte in questo lungo percorso, le persone che hanno dato un contributo scrivendo proprie testimonianze e anche le persone che ho avuto l’opportunità di intervistare – e quindi mi limito a dire che ho scoperto, in questo progetto, quale fosse il vero significato di “Condivisione”. A parole forse lo conosciamo tutti, ma “sperimentarlo” ha fatto la differenza. Dentro di me. Sono stati 10 anni bellissimi. Ma, come amo citare spesso, “The Best is yet to come”.
Abbandonare non è lasciare, lasciare è un’azione pensata, calibrata, ponderata… Abbandonare è un atto viscerale, un’esigenza inevitabile e improrogabile. Un’azione imposta alla persona o all’oggetto che la subisce. Lasciare qualcuno, invece, prevede un confronto, uno scambio dialettico, prevede l’atto di informare l’altro di ciò che sta accadendo.
E’ stano come si possa soffrire per la paura dell’abbandono e allo stesso tempo essere affascinati dai luoghi desueti, è come guardarla in faccia la paura e forse volerci trovare anche un lato positivo, il fascino, l’attrazione.
Anche abbandonare parti di sé è necessario, perché cambiamo, maturiamo, invecchiamo, evolviamo, perdiamo pezzi e ne acquisiamo di nuovi, non abbiamo più le stesse esigenze, ma soprattutto prendiamo consapevolezza di noi stessi e realizziamo quanto sia necessario, a volte vitale, abbandonare modalità, abitudini, legami, pensieri e persone che ci hanno accompagnato da sempre. E’ un processo dolorosissimo, crudele, destabilizzante e l’apice della sofferenza è nel momento in cui si abbandona senza riuscire a riempire, sostituire, ripartire.
C’è un luogo abbandonato che mi ha particolarmente affascinato, a cui ultimamente ripenso molto, tanto da riguardare le numerose foto che ho scattato. Le sensazioni che mi dà sono tante, tantissime, forse perché in tutti i suoi aspettati immortala esattamente questo preciso momento della mia vita.
Lascio parlare le foto, che esprimono più di mille parole….vi presento l’Ex Orfanatrofio della Bufalotta, all’interno della riserva della Marcigliana, a Roma Nord.
Nella città in cui vivo c’è un luogo incredibilmente affascinante e misterioso: il vecchio manicomio, uno dei più grandi d’Italia, venti padiglioni e un parco di 125 mila metri quadri.
Nato nel 1937 come Ospedale Psichiatrico Nazionale e chiuso nel 1978 con la legge Basaglia, legge promulgata dal dott. Besaglia, neurologo e psichiatra, che pose al centro la questione dei diritti umani e ricollocò questi individui come pazienti, e non più come detenuti. Certo, questa legge vide anche una massiccia contrazione delle spese pubbliche, ma preferisco pensare che non fosse la priorità. Alcuni padiglioni rimasero ancora attivi come A.S.L. fino al 1991, quando in città venne inaugurato il nuovo ospedale, dopodiché fu definitivamente abbandonato a sé stesso (e agli appassionati di urbex). Naturalmente non è aperto al pubblico, ma questo non è mai stato un freno per i numerosi gruppi di curiosi, che spesso arrivano anche da fuori confine, attraversando campi, orti e reti metalliche per potersi introdurre all’interno e tuffarsi nella magia dell’esplorazione. Questo luogo ripaga di tutti gli sforzi. Addentrandoci troviamo ancora le vasche, i lettini, i tavolini autoptici, un’infinità di libri e articoli scientifici, le cinghie di contenimento, fino alle schede dei pazienti e ai registri, scritti a mano, con quella calligrafia così anacronistica. Sorvolando (anche se un po’ contro la volontà) sul fatto che tutto il materiale contenente dati sensibili andasse conservato in maniera più idonea, archiviato con maggiore attenzione o distrutto, rimane quel senso di incredulità e fascinazione a trovarsi circondati da oggetti come questi.
Sì chiamano luoghi abbandonati o luoghi fantasma,
eppure non manca mai qualche amante che faccia loro il filo. C’è sempre una forza di attrazione che ci
spinge a voler esplorare ciò che un tempo era vitale e attivo, e la
fascinazione che subiamo di fronte a questo passato pieno di interrogativi,
pronto a raccontarci storie incredibili e che in fondo è un po’ in nostro
terriccio, da dove le nostre radici traggono nutrimento (e si spera anche
qualche insegnamento).
Ripercorrendo i corridoi del vecchio manicomio,
contemplando la violenza che il passare del tempo può esercitare anche sulle
cose inanimate, e respirando quell’odore di muffa e di marciume, in questa
cornice dove il passato è sospeso, e dove le pareti sembrano voler soffocare il
grido degli orrori vissuti, è difficile non fantasticare su come vivessero la
quotidianità tra quelle mura medici e infermieri, ma soprattutto i pazienti. Quale
fosse l’ingrediente in eccesso nella ricetta, che li facesse passare agli occhi
delle persone comuni come “pazzi”?! E se fossero stati solo dei sognatori
cronici? Vittime inghiottite dal mondo Onirico? Uomini e donne riluttanti ad
una realtà troppo complicata? O semplicemente persone in qualche modo scomode,
da dover privare della propria libertà… E mi domando se anche la nostra psiche
non sia un po’ come uno di questi luoghi abbandonati. Un universo infinito, da
esplorare con cautela, ma dal quale non farsi inghiottire completamente,
mantenendo il ponte con la realtà, un luogo in cui avventurarsi in punta di
piedi , con la giusta attrezzatura e poi uscirne, possibilmente integri.
Secondo Jung, fondatore di uno dei due
approcci principali della psicoanalisi, il centro della nostra psiche è
l’inconoscibile sé, che se esplorato e indagato può diventare una straordinaria
forma di libertà e autodeterminazione. Come si può farlo vi chiederete voi? In
un modo bellissimo: attraverso i sogni. Quelle immagini folli e apparentemente
senza senso che si sviluppano quando dormiamo e lasciamo andare le redini. Il linguaggio
dell’inconscio, e quindi dei sogni, non è facilmente fruibile al conscio perché
non è razionale, si esprime attraverso immagini, metafore e simboli,
esattamente come fa il linguaggio artistico.
E cosa succede quando questo luogo non lo
esploriamo e lo consegniamo all’incuria? Quando diventa il luogo dei potenziali
irrealizzati? Quando non siamo armonizzati con il sé? Ebbene c’è il rischio di
sviluppare sintomi, inquietudine o addirittura nevrosi. Ma analizzando questo luogo,
spesso dimenticato, abbiamo una guida per realizzare il nostro destino.
Penso all’inconscio come ad un luogo
abbandonato perché i sogni mirano ai nostri lati oscuri, non a ciò che già conosciamo,
non sono l’espressione dei nostri desideri e delle nostre paure. Associare o
proiettare eventi accaduti nei sogni a cose che conosciamo nella realtà può
rivelarsi incorretto o impreciso. I sogni hanno una struttura ed un linguaggio
a sé e ciò può rende complicato fare un’autoanalisi.
Abbiamo detto che è importante comunicare con
il proprio inconscio attraverso i sogni, ma sappiamo bene che non è così facile
registrarli prima ancora di analizzarli e tradurli. Molte persone fanno fatica
a ricordare i propri sogni. Ci vuole un po’ di allenamento, in effetti, ma
anche l’impegno di scriverli non appena svegli. Perché questi, al mattino, con
il primo raggio di luce che contempliamo,
svaniscono come una folata di vento.
Una buona tecnica sarebbe quella di prendere
un foglio e dividerlo in due, come si faceva con i temi alle superiori. Nella
parte sinistra registriamo il sogno e nella parte destra annotiamo le nostre
associazioni, quello che il sogno ci ha evocato. E bisogna farlo nel modo meno
razionale possibile. Lasciare la mente libera di vagare e lasciar parlare le
immagini, come se fossimo di fronte al Trittico del Giardino delle Delizie di
Hieronymus Bosch. Opera complessa, sublime ed assolutamente folle agli occhi
severi della razionalità.
I sogni sono spontanei e imprevedibili eppure
tutti presentano una struttura identificabile nella quale si organizzano.
La psicologia junghiana ci permette di
esaminare il sogno dividendolo nelle sue tre componenti strutturali: introduzione
o ambientazione, azione e conclusione (obiettivo del sogno, la
fase che fornisce la soluzione inconscia). Ma alle volte semplicemente non
esiste una libera associazione. E qui è il caso di alzare l’asticella e passare
al livello superiore, prendendo in considerazione i sogni archetipici. Gli
archetipi sono dei modelli di comportamento primitivi, che l’umanità ha
sviluppato nel tempo attraverso l’adattamento all’ambiente. Dei veri e propri
centri di gravità dell’inconscio collettivo. Hanno quindi un significato
mitologico, che prescinde dall’individuo stesso.
Spesso quando sogniamo qualcuno, magari qualcuno
che non c’è più, ci abbandoniamo a un senso di nostalgia e/o pensiamo che lo
spirito di quella persona voglia comunicare con noi. Qui bisogna stabilire su quale piano ci
troviamo: oggettivo o soggettivo. Mi spiego meglio, se nel sogno compare il nonno,
interpretarlo sul piano oggettivo vuol dire che le azioni di questo personaggio
appartengono davvero a lui, mentre su un piano soggettivo le attribuisco ad una
parte di me, che può avere delle affinità con la figura rappresentata (il nonno
può essere il lato maschile della mia personalità, per esempio). Nella
stragrande maggioranza dei casi, la giusta interpretazione ha carattere
soggettivo!
Solitamente nella prima metà della vita i
sogni riguardano maggiormente l’andamento della vita esteriore terreno e
materiale Nella seconda metà invece il modello onirico induce l’individuo a
occuparsi del suo mondo interiore, a sviluppare una certa saggezza, a prendere
coscienza dell’aspetto profondo dell’esistenza. A rendere il sé un luogo non
completamente abbandonato.
Città fondate e cresciute, raffazzonatamente, durante la “febbre dell’oro” in Klondike o in California, le cui case ora sono riempite dalla sabbia del deserto e contengono un’aria polverosa che vortica, riempendo solo di rumori quello spazio altrimenti silenzioso e vuoto. Antiche costruzioni erette dalla sapiente opera dei Popoli Antichi. Mura, a frammenti, che hanno respinto barbari per secoli e ora nulla possono contro l’edera e la natura che le vince con nuove foglie e nuovi fiori. Questo, forse, abbiamo in mente quando pensiamo ai “luoghi abbandonati”. Forse.
(Immagine dal Web)
Pensando ai Luoghi Abbandonati, mi vengono anche in mente diversi luoghi che ho attraversato – rigorosamente a piedi – avendo dentro quella strana sensazione di vivere in un mondo post-olocausto atomico, con tutta la popolazione svanita nel nulla, cose se fossi un sopravvissuto. Attorno a me un silenzio assordante. Non c’è bisogno di arrivare in Klondike o di visitare Pompei. E’ stato così entrare in un ospedale durante il periodo di “Lockdown stretto”, a Marzo 2020, ed è stato così tornare all’Università nel periodo estivo di quell’anno terribile, è stato così prendere il treno al mattino presto, in una Stazione Termini popolata solo di qualche “invisibile” e di qualche “vigilantes” schivo. Una sensazione stranissima. Del resto – pensai proprio su quel treno preso prestissimo – quei luoghi sono stati proprio creati per ospitare persone, e tante, hanno significato intrinsecamente “Antropico” e senza di loro, senza gli essere umani, ne sono snaturati. Sono luoghi che mantengono “tracce di vita” anche se lì di vita non ce n’è più. Se ne può sentire l’impronta, il segno del passaggio dell’essere umano, degli esseri umani. Forse è questo che mi colpisce molto: vedere il segno di quello che l’uomo riesce a fare per adattare lo spazio a sè stesso, a proprio uso e consumo. Mentre lo viviamo ci sembra “naturale”, funzionale per noi, e quindi non ne percepiamo gli effetti, così come quando camminiamo sulla spiaggia pensiamo a mettere un passo avanti all’altro e non pensiamo alle orme che lasciamo dietro di noi. Ma questi luoghi abbandonati sono delle enormi impronte che pian piano la natura ricopre, così come il mare fa sparire le orme sulla sabbia.
Confesso che ho sempre provato un grande fascino per questi luoghi abbandonati.
(Immagine dal Web)
Quando ci penso mi vengono in mente gli attraversamenti dei loro “confini”. Penso alle Reti o ai Muri da superare, passandoci sotto – sfruttando qualche buco nella recinzione – oppure sopra – stando attenti a non graffiarsi con il filo spinato o con i luccicanti cocci di bottiglia rotti impastati nel cemento – oppure attraverso. Sento ancora la sensazione dei mattoni, spaccati e sbrecciati, o di un pezzo di rete ricurvo, che mi graffiano il petto, la schiena, i fianchi, che lacerano la maglietta o i pantaloni. “Se ci passa la testa, poi ci passa tutto il corpo” mi dicevano i miei cugini che mandavano avanti me, il più piccolo, per incitarmi. Sento ancora la fatica e l’impegno di voler raggiungere quei luoghi, per poterli visitare, per poterci passeggiare dentro, per guardare attraverso i vetri delle finestre ormai opacizzati dal tempo. Per cercare di capire a cosa servissero i macchinari ormai decisamente obsoleti.
Oltre a questi luoghi fisici, a pensarci, ci sono poi anche luoghi dell’anima, luoghi che sono dentro la nostra anima e che – per qualche motivo – non frequentiamo più, non visitiamo più, eppure hanno lasciato una impronta dentro di noi.
Forse non li frequentiamo più per paura, forse perché presi dal tran-tran quotidiano, forse perché non più coerenti con quello che siamo diventati nel frattemppo. Anche questi luoghi – penso – a visitarli, daranno la stessa strana sensazione: costruiti nell’arco degli anni per ospitare persone, per ospitare voci, luci, per ospitare risate fragorose o lacrime silenziose. Luoghi con la propria “impronta antropica” dentro.
Così come per i luoghi fisici – con le loro stanze polverose, i loro saloni dai vetri rotti, le fessure delle mura dalle quali sparare con gli archibugi, i loro macchinari bloccati, le bobine antiche, i ganci sul soffitto – cerchiamo di capirne il significato, la funzionalità, cerchiamo di capire come camminassero gli uomini, come corressero i legionari sui camminamenti, come vivessero quegli spazi.
Ecco, dopo tanti anni ho capito che quella esortazione forse fisicamente non era proprio vera ma, “Se ci passa la testa, poi ci passa tutto il corpo” è proprio vero.
Mi piace immaginare un mondo senza guerre, violenze ed ingiustizie. Utopia? Il mio è un sentimento istintivo, un sentimento che mi abita.
Penso che l’ARTE, in tutte le sue forme, sia ancora in grado, anche in modo indiretto, di cambiare il mondo. La CULTURA unisce il mondo. Smettiamola di essere indignati e cominciamo a “disturbare”. Come ha scritto Gian Paolo Serino, le bombe di carta e le molotov d’inchiostro sono le armi migliori per tentare di sconfiggere non solo dittature ma anche regimi democratici dove informazione e comunicazione sono ridotte a favole. Il vero senso di una favola non é quello di creare dei lettori volta pagina ma dei lettori consapevoli. Perché il vero senso di una favola non é farci vedere che esistono i draghi ma farci comprendere che i draghi si possono combattere.
E a quelli che mi chiedono come, rispondo con le parole pronunciate nel 1975 da Giorgio Strehler, durante la manifestazione celebrativa del trentennale della Resistenza, al Piccolo di Milano: “Come si può sconvolgere un costume, un modo di essere, mutare il grande gioco della politica, diciamolo pure, la grande miserabilità umana […]? Ebbene, poco si può fare da soli ma molto insieme alle altre forze che esistono, che ci sono e che sono accanto a noi. Le forze di quelli che lavorano e lottano per un mondo migliore. E noi accanto a loro. Non siamo pochi né soli. Soltanto restando legati come tentiamo, come tenacemente vogliamo agli altri uomini che non vogliono continuare a esistere in questa “pregevole” marea, in questa nebbia di memoria turpe che troppo ci circonda, in questo costume antico di compromesso, viltà, egoismo e tanto altro, anche noi piccola comunità teatrante possiamo aiutare il movimento della storia.”
INSIEME RESISTIAMO AL ‘BUIO’, ALLA NON DIALETTICA VISIONE DEL MONDO.
Voglio ringraziare tutti gli ARTISTI e gli AMICI che hanno aderito con le loro meravigliose opere a IMAGINE PEACE e a MASTERS OF WAR.
In primis, grazie a Fulco Pratesi e a Bruno Bozzetto, Ambasciatori del Pianeta Terra,che dimostrano sempre una grande disponibilità e generosità nei miei confronti.
Un grazie speciale
a Marco De Angelis, attento scrutatore del mondo, per il suo sguardo ironico, schietto, a volte poetico, a volte tagliente;
a Alberto Fortis, Poeta visionario e Ambasciatore Unicef,per il suo costante impegno a livello sociale e umanitario;
A Riccardo Azzurri, Poeta e Spirito libero, per la sua grande sensibilità e l’intensa attività nel sociale, a tutela delle fasce più fragili;
a Gianfranco D’Amato, per la preziosa testimonianza resa con la partecipazione all’Odissea della Pace, una carovana guidata dal Vescovo ortodosso Avondios Bica, per portare aiuti in Ucraina e per il recente viaggio intrapreso, insieme ad altri volontari, per portare in Italia alcuni profughi.
Dedico a tutti quanti voi la Poesia “Il Silenzio“, che ritengo sia una delle più belle scritte da Pablo Neruda.
“Mai come in questi giorni questa canzone mi sembra avere un senso. Che delusione questo Futuro che si sta infeltrendo come un vecchio calzino di lana. Parafrasando il grandissimo Giorgio Gaber, ‘La Mia Generazione Ha Perso’, la testa e la memoria! Scusate ragazzi… “
Eugenio Finardi
Il mondo osserva le scene più tragiche appiattite dalle immagini di monitor e tv. E’ l’immagine di un mondo fuori posto, dove ogni logica è saltata e dove la normalità è sospesa. Non è una storia nuova lo svolgimento drammatico di questa guerra che ha frantumato in mille pezzi le molte illusioni sorte all’inizio degli anni Novanta con la figura di Mikhail Gorbaciov, allora segretario del Partito Comunista dell’Unione sovietica e presidente dell’Urss, a cui venne conferito il Nobel per la Pace, il 15 ottobre del 1990. Grazie alla “Perestrojka”, ci fu un radicale cambiamento nella società del suo Paese. Le riforme politiche e la scelta di interrompere alla corsa agli armamenti giocarono un ruolo determinante per porre fine alla Guerra Fredda. Ma questa parentesi illusoria, influenzata da un’eccessiva fiducia nel progresso, ha avuto vita breve. Perché la storia non ha un divenire lineare, ma è un’alternanza di periodi di pace ed espansione e di periodi di crisi e conflitti.
Lo sa bene Fulco Pratesi, Fondatore e Presidente Onorario WWF, a cui ho chiesto di darmi un suo pensiero su questo ennesimo disastro in atto. Con la grande disponibilità e cortesia di sempre, Pratesi mi ha risposto con queste parole:
“Cara Donatella, purtroppo quella a cui stiamo assistendo non è che una delle infinite scene del repertorio creato su un innocente Pianeta e sulla altrettanto innocente sua biodiversità, condannati a convivere con la più aggressiva, invadente e inarrestabile specie, assurdamente autodefinitasi Homo sapiens. Da millenni la Scimmia Nuda si accanisce sui propri simili e sulle incolpevoli creature vittime della sua avidità, intolleranza e violenza suicida, favorite da una crescita inarrestabile delle proprie moltitudini ai danni del Creato. Queste infinite guerre ingaggiate dall’uomo, magari rispondendo a orrendi stimoli di potere e sopraffazione ai quali stiamo assistendo terrorizzati e indignati, non finiranno mai finché non sarà tornata una nuova era in cui gli esseri umani non comprenderanno la necessità di amare tutte le creature e l’ambiente che le ospita, compresi i propri simili, anche i più indifesi. Come dice il Signore, attraverso le parole del Profeta Geremia ,”Vi ho condotti in un giardino, per saziarvi dei suoi frutti e dei suoi beni. Ma voi, appena stanziati, avete profanato la mia terra, avete reso la mia eredità un’ abominazione”.
E quale abominazione dobbiamo soffrire, più delle infinite guerre del Pianeta, in una delle quali oggi dobbiamo assistere a violente uccisioni, devastazioni di città e villaggi, prodromi di un futuro spaventoso che ci sta incombendo?”.
https://youtu.be/XSZDPlZLuNc
courtesy by Giorgio Palombino e Barbara Cossu
Già qualche mese fa, sul web giravano foto di bambini e giovani ucraini a cui veniva insegnato l’uso delle armi per prepararsi a difendere il loro paese dai soldati russi. Ad altri erano state date delle copie in legno di fucili Kalashnikov per allenarsi a mirare e a sparare ai loro nemici. Da tempo, a Kiev i cittadini erano stati messi alla prova su un percorso a ostacoli nel terreno di una fabbrica abbandonata, ricevendo lezioni di tattica militare e primo soccorso.
Foto: EPAFoto: AFP
Le immagini rilasciate da Planet Labs PBC confermano le voci di azioni intraprese in tutta l’Ucraina prima dell’inizio dell’invasione russa. All’aeroporto, le piste e le vie di rullaggio erano state bloccate, presumibilmente nel tentativo di impedire agli aerei russi di atterrare e utilizzare l’aeroporto. L’ampia offensiva della Russia, iniziata giovedì 24 Febbraio, si è rapidamente diffusa in tutto il paese con un attacco su tre fronti, via terra, mare e aria e ha preso di mira le infrastrutture militari in tutta l’Ucraina, nonché diversi aeroporti e altri luoghi chiave, utilizzando attacchi missilistici e artiglieria a largo raggio. L’aeroporto internazionale di Kiev era uno degli obiettivi principali.
Immagine satellitare che mostra le piste bloccate all’aeroporto Boryspil di Kiev il 25 febbraio. Foto: Planet Labs PBC
Nelle scorse settimane le immagini satellitari hanno mostrato soldati russi e artiglieria nella città bielorussa di Brest, a soli 10 miglia a est del confine polacco. Jack Detsch, giornalista che lavora alla Sicurezza Nazionale del Pentagono, afferma che si contavano più di 50 unità che trasportavano attrezzature pesanti in un’area di addestramento vicino alla città e in uno scalo ferroviario limitrofo. Le forze russe hanno preso progressivamente il controllo di porzioni dell’Ucraina settentrionale al di fuori della capitale Kiev, compresa la zona di Chernobyl, raggiungendo la città di Kherson, a nord della penisola di Crimea. Mariupol, Kharkiv, Irpin, sono state bombardate pesantemente. Irpin e Bucha, le due cittadelle alla periferia di Kiev sono il cuore del conflitto tra Ucraina e Russia alle porte della capitale. E’ finita sotto i bombardamenti anche la città di Leopoli, al confine con la Polonia, crocevia di profughi in fuga e di ucraini che rientrano per combattere. Secondo l’opinione del segretario di Stato americano Anthony Blinken, Vladimir Putin potrebbe spingersi ulteriormente nell’Europa orientale dopo aver preso il controllo totale dell’Ucraina.
Il negoziato di Instanbul
Da un video su Telegram, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha affermato che l’Ucraina continuerà il processo di negoziazione nella misura in cui dipende davvero da loro: “Contiamo sui risultati. Ci deve essere una vera sicurezza per noi, per il nostro Stato, per la sovranità, per il nostro popolo. Le truppe russe devono lasciare i territori occupati. La sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina devono essere garantite. Non ci possono essere compromessi sulla sovranità e sulla nostra integrità territoriale. Questi sono principi chiari“.
L’allontanamento da Kiev e dalle posizioni nel Nord dell’Ucraina, è stato definito da Vladimir Medinsky, capo della delegazione russa al negoziato, l’inizio dell’escalation militare. L’esperto politico Evgeny Minchenko ha rilasciato a Bloomberg la dichiarazione che c’é stata molta incomprensione su quel che le parti hanno detto ad Istanbul e ha sottolineato che, per ora,hanno avuto la comunicazione che ci sarà meno azione militare vicino a Kiev ed a Chernihiv, perché l’esercito russo sta concentrando le sue risorse contro l’esercito ucraino nel Donbass.
Da LaPresse Washington, 29 marzo. Nel loro colloquio telefonico il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il premier italiano Mario Draghi, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il primo ministro britannico Boris Johnson hanno esaminato i loro sforzi per fornire assistenza umanitaria ai milioni di persone colpite dalla violenza, sia all’interno dell’Ucraina che in cerca di rifugio in altri paesi, e hanno sottolineato la necessità di un accesso umanitario ai civili a Mariupol.
Courtesy by Marco De Angelis
La decisione di Putin di invadere l’Ucraina, con la visione di un imperialismo tout court, ha generato reazioni in tutto il mondo (reazioni di cui Le Grand Continent sta tenendo una mappa aggiornata).
Dalla Porta di Brandeburgo a Berlino, alla Tour Eiffel a Parigi, al Colosseo di Roma, sono state organizzate manifestazioni per dire un NO ALLA GUERRA, UNO STOP ALL’INVASIONE MILITARE voluta da Vladimir Putin. Il 6 marzo a Firenze è stato posto un drappo nero sulla statua del David in Piazza della Signoria come simbolo di lutto e di dolore per la guerra in Ucraina. Il sindaco Dario Nardella ha dichiarato: “Il David, emblema della libertà contro la tirannia, oggi si copre di nero. Nel giorno della nascita di Michelangelo, un gesto simbolico di lutto per ricordare le vittime di questa guerra e esprimere tutto il dolore di Firenze.“
Un segnale molto forte è stato dato dagli artisti russi Alexandra Sukhareva e Kirill Savchenkov, che, assecondati dal curatore Raimundas Malaauskas, non parteciperanno alla 59a Biennale dell’Arte di Venezia. Su Instagram, la Sukhareva ha scritto che “Non c’è posto per l’arte quando i civili muoiono sotto il fuoco dei missili,quando i cittadini dell’Ucraina si nascondono nei rifugi e quando chi protesta in Russia viene ridotto al silenzio. … Poiché sono nata in Russia non presenterò il mio lavoro al Padiglione della Russia alla Biennale di Venezia“.
La rivista TIME ha pubblicato un’immagine di copertina, illustrata da Neil Jamieson, che presenta le parole pronunciate dal presidente ucraino in un discorso al Parlamento europeo il 1° marzo: “La vita vincerà sulla morte e la luce vincerà sulle tenebre“. Su Twitter, colpisce la copertina insanguinata di The Economist. Una narrazione visiva della violenza di una guerra che va fermata!
‘La bellezza apre l’anima e ci fa vedere il paradiso. Solo lì troveremo tutte le risposte.’ Renato Scarpa
‘ ‘Laughter is the sound of angels’ di Donatella Lavizzari Opera dedicata a Renato Scarpa e Massimo Troisi Questa bellissima versione di “En la orilla del mundo” di Pablo Milanes e di Martin Rojas, é stata realizzata e interpretata magistralmente dal Maestro Matteo Nahum (Film Composer – Arranger – Guitarist) per rendere omaggio a Renato Scarpa. https://www.matteonahum.com
Ci sono cose nella vita che hanno un valore inestimabile e che non si misurano con la durata nel tempo, ma, come scrive Fernando Pessoa, nell’intensità con cui avvengono. Per questo motivo ci sono dei momenti indimenticabili, delle cose inspiegabili e delle persone Incomparabili. Renato Scarpa era una di queste. Penso che lui abbia lasciato un segno. Un profondo e indelebile segno proprio lì, in quel piccolo posto chiamato cuore. Renato resterà per sempre nella vita di chi lo ha amato e di chi gli ha voluto bene, di chi lo ha conosciuto e di chi lo ha apprezzato, sia come Uomo sia come Artista.
Classe 1939, milanese di nascita ma romano d’adozione, dopo il Teatro tascabile (un collettivo teatrale maturato in ambito universitario) Scarpa approfondì i suoi studi frequentando l’Accademia d’Arte drammatica, dove ebbe tra gli insegnanti Nanni Loy. Si dedicò con grande impegno anche al teatro, frequentando il Piccolo di Strehler e il Grassi. Sul grande schermo, il suo esordio avvenne alla fine degli anni Sessanta, con il film ‘Sotto il segno dello scorpione’ dei fratelli Taviani.
Attore versatile, dalle mille sfaccettature, in grado di interpretare ruoli sia comici che drammatici, con una carriera lunga oltre cinquant’anni, Scarpa è stato protagonista di moltissimi capolavori diretti da registi del calibro di Mario Monicelli, Steno, Dario Argento, Dino Risi, Marco Bellocchio, Liliana Cavani, Luigi Comencini, Roberto Rossellini, Nanni Moretti, Luciano De Crescenzo, Peter Del Monte, Giuliano Montaldo, Nicolas Roeg e tanti altri. Voglio ricordare ‘Suspiria’, ‘A Venezia un dicembre rosso shocking’, ‘Ricomincio da tre’, ‘Un sacco bello’, ‘San Michele aveva un gallo’, ‘Così parlò Bellavista’, ‘Un borghese piccolo piccolo’, ‘Piedone a Hong Kong’, ‘La stanza del figlio’, ‘Habemus Papam’, ‘Il Postino’, ‘Mia madre’, ‘Giulia e Giulia’, … Scarpa ha lavorato anche in produzioni estere come ‘Il talento di Mr. Ripley’ e ‘The Tourist’, e negli ultimi anni lo avevamo visto recitare in ‘Diaz’ di Daniele Vicari, ‘Il racconto dei racconti’ di Matteo Garrone e ‘I due papi’ di Fernando Meirelles..
“Bravo, lei è un vero imbecille“. Spesso raccontava, ridendo, che questo era il più bel complimento che gli era stato fatto nella sua lunga carriera, riferendosi, ovviamente, alla sua straordinaria interpretazione di Robertino, in ‘Ricomincio da tre’, (interpretazione che, come tante altre sue, ha per me il tocco di genialità surreale). E mentre ricordava quel film e i giorni trascorsi insieme all’amico Massimo Troisi, dal suo sguardo traspariva un miscuglio di gioia, amore e commozione. Ogni volta che parlava di lui, diceva sempre che aveva un animo puro e che era una di quelle persone che si incontrano quando la vita ha deciso di farti un regalo.
Talento, semplicità, profondità, gentilezza e discrezione, queste sono le cifre che hanno contraddistinto il percorso umano ed artistico di Renato Scarpa, un uomo nobile che, con la sua ricca umanità, la sua sensibilità rara, il suo immancabile sorriso e il suo garbo, ha regalato gioia, accarezzando il cuore di molte persone.
Tra i tantissimi pensieri pubblicati in suo ricordo, mi ha molto colpito quello che Rosaria Troisi ha condiviso sulla pagina ufficiale del fratello Massimo: ‘Grande, caro Renato, amico mio! Non ti lascerò andare, metterò il lucchetto al cuore e sarai per sempre in dolce compagnia, con le persone che ho amato di più in questo mondo. Il Signore ti abbia in gloria, amico mio, grazie per avermi onorato della tua amicizia.’
Qui di seguito ho raccolto le testimonianze di alcuni amici e le opere di Artisti che hanno voluto onorare Renato Scarpa.
Un uomo delicato, puro. Un’anima semplice e meravigliosa. Un amico speciale. Mi mancherà tutto di lui. La sua bontà, innanzitutto. E i suoi complimenti per i miei piatti. La “scarpetta” che non mancava mai. ‘Ho visto la guerra, la fame. E’ un crimine lasciare qualcosa nel piatto.’ Ti voglio bene Renato.
Nancy Cuomo – Cantante e produttrice discografica
Renato Scarpa omaggio di Alex Di Viesti
Qualche anno fa, incontrai Renato Scarpa per caso a Roma, al Teatro Olimpico, durante una serata dedicata al Maestro Franco Califano. Ho sempre avuto rispetto e una grandissima ammirazione per il modo in cui Scarpa interpretava i suoi personaggi, così straordinariamente veri. Abbiamo parlato del periodo che stavamo vivendo e di quanto fosse diventato difficile fare l’attore. Abbiamo poi ricordato i film di cui eravamo stati insieme protagonisti e ci siamo commossi ripensando all’amicizia che legava entrambi al regista Gianfranco Mingozzi. Renato aveva un aspetto mite. Mi ha sempre colpito la sua grande umanità. Era un piacere ascoltarlo parlare di Sergio, il personaggio ipocondriaco interpretato in ‘Un sacco bello‘ di Carlo Verdone. Grazie Renato per averci regalato tutti quei personaggi così strabilianti! Il Cinema italiano dovrebbe essere più riconoscente con Attori di questo spessore.
Carlo Mucari – Attore e cantante
Renato Scarpa omaggio di Antonia Carnasale
Una umanità e una sensibilità che mi avvolgevano ogni volta che ero vicino a lui, anche senza parlare.
Loretta Rossi Stuart – Attrice, autrice, coreografa
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La sua umanità oltrepassava i confini umani, la sua amicizia e il suo affetto erano per le persone a cui voleva bene un dono prezioso. Un’anima gentile, un uomo meraviglioso. Ciao Renato, ciao amico mio.
Davide Mottola – cantautore, compositore, musicista e produttore artistico.
Davide e Gerry Mottola con Renato Scarpa
Facendo il mestiere dell’attore, ritengo che Renato Scarpa sia stato un gigante. Un riferimento come artista e come uomo. Ho avuto il privilegio di conoscerlo e ho respirato la sua umanità e simpatia. Grazie Renato per tutti i ruoli che ci hai regalato, ma soprattutto per la tua grande umiltà e semplicità. I tuoi consigli li porterò sempre con me.
Di Sandro Pertini restano alcune immagini indimenticabili, consegnate alla memoria da spezzoni televisivi. Sono immagini che hanno scandito alcuni degli avvenimenti della storia italiana, come, per esempio, la strage alla stazione di Bologna o la vittoria dei Mondiali di calcio nel 1982. In tutti quegli avvenimenti Pertini era presente sia nel suo ruolo istituzionale sia con la sua carica di grande umanità, con la sua storia che veniva da lontano, dalla guerra partigiana e dalla prigionia sotto il fascismo. Era una figura che gli italiani sentivano vicina. Divenne una sorta di nonno per i bambini e una vera e propria icona Pop.
PAZ, il geniale e visionario artista Andrea Pazienza vedeva in Pertini “l’ultimo esemplare di una razza di uomini duri ma puri come bambini“, una luce nella notte di una prima Repubblica compromessa dalla corruzione e dal malaffare. Con profonda ammirazione e complicità affettuosa lo trasformò in fumetto, dedicandogli storie, sketch umoristici, tavole e tantissimi disegni. Un campionario vastissimo e prezioso, che si estende dal 1978 al 1987, e che vede persino il luogosergente Paz fare da spalla al temibilissimo Pert in imprese in nome della libertà e della giustizia. Testimonianza di come Pertini fosse uno dei personaggi principali nell’immaginario dell’artista. Pertini ebbe sempre un rapporto divertito con la satira che lo prendeva di mira, tanto da avere una collezione di tutte le sue caricature e invitare al Quirinale i vari autori, da Tullio Pericoli alla redazione del “Canard enchainé”.
Dalla mostra «Paz e Pert» a Roma al Palazzo Incontro (2010 Fandango Libri S.r.l. Copyright Mariella e Michele Pazienza)
Nella sua figura, come mai prima di allora e come mai sarebbe accaduto dopo, un’intera nazione si riconosceva e riconosceva i valori ‘puliti’ della politica e ciò che la politica dovrebbe rappresentare nella sua accezione più alta: solidarietà, vicinanza e attenzione alle persone.
Ricordare Pertini, raccontarne la storia, ha senso non solo perchè ci consente di ripercorrere la storia di un italiano che attraversa il Novecento con piglio energico e picaresco, ma perchè ci permette anche di fare un punto su noi stessi, su come eravamo e su ciò che siamo diventati. Ci restituisce l’idea che possa esistere una politica in grado di tracciare la linea di un’etica civile e solidale, capace di guidare una società dialogante, aperta e più conciliante.
Realizzare uno spettacolo biografico non è mai facile perchè si rischia di cadere nel didascalismo o, ancor peggio, nell’agiografia. Soprattutto quando si vuole affrontare una figura come quella di Sandro Pertini, che si staglia come un gigante nella memoria e nell’immaginario collettivo, capace di rassicurare un’intera nazione durante gli anni difficili, a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta.
Andrea Santonastaso foto @ https://teatrodellargine.org
Nicola Bonazzi, Andrea Santonastaso e Christian Poli hanno accolto questa grande sfida. SANDRO è senza dubbio alcuno, un’opera teatrale che dipinge al meglio la figura del ‘primo impiegato italiano’, ‘del politico mai Ministro‘, come lui stesso amava definirsi. Nelle parole di Poli e Bonazzi (SANDRO è scritto da Christian Poli, con inserti drammaturgici e regia di Nicola Bonazzi) e attraverso la voce e la forte presenza scenica di Andrea Santonastaso, prende vita quel piccolo grande uomo che mai si è piegato.
Andrea Santonastaso foto @ https://teatrodellargine.orgAndrea Santonastaso foto @ https://teatrodellargine.org
Con un monologo, viene raccontato il carismatico Presidente e, al tempo stesso, l’uomo perseguitato, il partigiano, il combattente per la libertà e l’uguaglianza. Una voce politica in grado di dire cose spesso scomode (come per es. i rischi di un fascismo sempre incombente), dette in virtù di una vita passata per 13 anni in reclusione e in confino, a causa della lotta serrata contro la dittatura. SANDRO è uno spettacolo a ‘tesi’ perchè prova a ricordarci che sono esistite persone che hanno combattuto per i propri ideali, fino a pagarne conseguenze molto gravi.
Ph. Donatella Lavizzari
Pertini Alessandro, del fu Alberto e di Muzio Maria, avvocato, socialista, fu confinato politico nell’isola di Ventotene. Qui di seguito, voglio riportare uno stralcio di un suo racconto, pubblicato in Italia, il terzo volume della Geografia di Enzo Biagi.
“Domenica 25 luglio: una serata come tutte le altre. Quando la radio diede il comunicato ci avevano già rinchiusi nel camerone. Eravamo più di settecento, nella stragrande maggioranza comunisti: Longo, Terracini, Scoccimarro, Camilla Ravera, Secchia. Poi c’erano Ernesto Rossi e Riccardo Bauer, del partito d’azione, e anche degli anarchici, gente che veniva dalle prigioni, naturalmente, che aveva fatto la guerra in Spagna, che era stata nei campi di concentramento francesi.
…. Noi laggiù vivevamo secondo regole immutate, che dovevano essere rispettate con rigore: si poteva uscire dagli stanzoni, dove alloggiavano dalle tre alle cinquanta persone, verso le otto del mattino, bisognava rientrare per le otto di sera. Non si doveva superre un certo limite, appunto, il confino. Camilla Ravera racconta nelle sue memorie le strade sassose, le siepi gialle dei fichi d’India, il mare grande e azzurro che ci circondava: paesaggi che erano vietati.
….Un giorno il direttore mi mandò a chiamare: ‘Ho una bella notizia per voi. E’ arrivato un telegramma che dispone per la vostra liberazione’. ‘ Grazie’ dissi. ‘Però io non me ne vado finchè qui resta uno solo di noi.’ Ma Camilla Ravera, che diede sempre prova di una straordinaria forza morale, Terracini e altri, mi convinsero che dovevo partire, per andare a perorare la causa dei detenuti, e così non diedi pace a Senise, Capo della Polizia, e a Ricci, che era agli Interni; li andavo a trovare ogni giorno con Bruno Buozzi. Erano restii, avevano nei confronti dei comunisti paura e odio. Minacciammo uno sciopero generale e l’argomento li convinse. Quando arrivò l’ultimo di Ventotene, potei andare a trovare mia madre. Era molto vecchia e mi attendeva. Stava sempre seduta su un muretto che circondava la nostra casa. ‘Che cosa fa signora?’ le domandavano. ‘Aspetto Sandro‘ rispondeva.”
Ph. Donatella Lavizzari
Pertini ha combattuto per i propri ideali, mai asseriti in maniera semplicistica o ingenua, ma sempre dentro l’agone delle idee, con la forza combattiva di chi si oppone ad una visione sopraffattoria della politica. Per questo motivo, nello spettacolo, la vicenda biografica di Pertini viene contrappuntata da una voce ‘corale’, l’Odiatore, che prova a rappresentare grottescamente questi impulsi violenti, prevaricatori, di cui spesso siamo tutti preda: perchè SANDRO non vuole essere solo il racconto della vita di un uomo, ma prova a rappresentare la possibilità, l’utopia, il desiderio di un’umanità più cordiale e disponibile. Come cornice, una scenografia essenziale, minimalista, ma caratterizzata da una forte potenza suggestiva e animata dall’alternarsi di buio e luce, e dai bellissimi disegni dello stesso Santonastaso, che vengono, di volta in volta, proiettati sulla quinta scenica.
SANDROè uno spettacolo che ti entra dentro, ti avvolge in un abbraccio fatto di emozioni, pensieri, sentimenti, riflessioni, … e tu stai lì, immobile. Ascolti, respiri, chiudi gli occhi… e ti lasci andare in quell’incanto chiamato Teatro.
GRAZIE ad Andrea Santonastaso, Artista Necessario.
Tanto è passato dalle ultime elezioni politiche, 14 mesi nei quali è nato – e a quanto pare è anche “morto” – un governo e nei quali sono cambiati i rapporti di forza delle due forze che lo sostengono. Almeno per quanto riguarda i sondaggi perché in realtà – dirò una banalità – nel Parlamento le forze in gioco sono esattamente le stesse. Le elezioni si tengono in un tempo che non è quello dei sondaggi, non si rincorrono gli umori e le sensazioni a suon di Tweet o di post su Facebook o anche non si cambiano le composizioni perché in un altro luogo (Bruxelles) il numero dei parlamentari è diverso.
Il numero dei Senatori e dei Deputati è lo stesso di 14 mesi fa e ora Mattarella dovrà riprendere le consultazioni che aveva interrotto dopo la formazione del governo.
Il primo giro di consultazioni finì con un “Braccio di Ferro” della Lega e del M5S che avevano presentato una possibile formazione di Governo con Paolo Savona, noto “Euroscettico” come Ministro dell’Economia e il secco “No” da parte del Presidente della Repubblica che incaricò Cottarelli di fare una consultazione alternativa. A quel punto, mentre il M5S, chiedeva l’impeachment per il Presidente, la Lega lavorò (“ironicamente”) per spostare Savona al Ministero degli Affari Europei e far assumente a Giovanni Tria il Ministero delle Finanze. Così il Primo Giugno 2018, dopo quasi due mesi dalle elezioni, il Governo giallo-verde di Giuseppe Conte ha potuto giurare.
Tre mesi fa Savona è approdato come Presidente alla Consob e a quanto pare ora Mattarella dovrà fare altre settimane di consultazioni per ricompattare la maggioranza o per chiedere che se ne formi una alternativa. Ma sempre partendo dai numeri attualmente in Parlamento.
In una Repubblica Parlamentare, il ricorso alle urne -dirò un’altra banalità- è l’ultima spiaggia all’impossibilità di creare una maggioranza governativa.
La composizione della Camera dei DeputatiLa composizione del Senato della Repubblica
Molti non sanno che il Ministero dello Sviluppo Economico elabora e attua le politiche dei consumatori anche in ambito europeo.
La politica dell’UE per i consumatori agisce nel modo seguente:
protegge i diritti dei consumatori attraverso la legislazione, anche aiutando a risolvere le controversie con gli operatori commerciali in modo rapido ed efficiente (ad es. tramite la risoluzione alternativa delle controversie e i centri europei dei consumatori)
assicura che i diritti dei consumatori vengano adeguati all’evoluzione dei mercati, anche in riferimento a all’economia digitale, all’energia e ai servizi finanziari
garantisce la sicurezza dei prodotti acquistati all’interno del mercato unico (attraverso il Rapex, un sistema europeo di allerta rapido per i prodotti pericolosi)
aiuta a effettuare scelte basate su informazioni chiare, accurate e coerenti, anche in riferimento agli acquisti online.
Quali sono le Reti Europee
L’ECC-Net (European Consumer Center Network) è una rete europea che fornisce gratuitamente assistenza e consulenza ai consumatori sui loro acquisti transfrontalieri, sia online sia attraverso uffici sul territorio.
È presente nei 28 Stati membri dell’UE, più Norvegia e Islanda ed è cofinanziato dalla Commissione europea e dai governi nazionali (per l’Italia il Ministero dello Sviluppo Economico) nell’ambito della politica europea per aiutare tutti i cittadini europei a trarre vantaggio dal mercato unico.
ECC fornisce assistenza su vari argomenti di consumo popolari (acquisti online, diritti aerei passeggeri, noleggio auto, frodi, multiproprietà, vacanze, ecc.) fornendo consulenza sui diritti dei consumatori, aiutando a risolvere una controversia con un commerciante con sede in un altro Paese dell’UE, Islanda o Norvegia o reindirizzando ad altro organismo competente.
Il Centro ECC-Net Italia, nella sua struttura attuale, è operativo in due sedi, una centrale a Roma (Adiconsum) ed una a Bolzano (CTCU).
Il CPC Network (Consumer Protection Cooperation Network) è una rete di cooperazione per la protezione dei consumatori composta dalle autorità responsabili dell’applicazione delle leggi UE sulla protezione dei consumatori nei paesi dell’UE , Norvegia e Islanda. In Italia l’Ufficio di collegamento unico (Single Liaison Office), che garantisce il coordinamento delle autorità nazionali competenti per materia, è il Ministero dello Sviluppo Economico. L’autorità di un paese in cui i diritti dei consumatori sono violati può chiedere al proprio omologo del paese in cui il commerciante ha la sede legale di intraprendere azioni per porre fine alla violazione del diritto. Ciascuna autorità dispone di poteri minimi per garantire una cooperazione regolare, che includono la facoltà di ottenere le informazioni e le prove necessarie per affrontare le infrazioni all’interno dell’UE, effettuare ispezioni in loco, richiedere la cessazione o vietare l’infrazione commessa fino ad imporre alle imprese sanzioni amministrative o pecuniarie.
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Chiunque vorrebbe avere ragione in una controversia. Ma quando si tratta dei tuoi diritti EU come consumatore, puoi agire in modo efficace solo se li conosci. Qui puoi scoprire altre informazioni su quali sono questi diritti, su come farli valere e quali azioni sono necessarie per dirimere una controversia. Se hai un problema con la tua banca, se sei vittima di una pubblicità ingannevole oppure se hai acquistato un prodotto difettoso o non sicuro, i tuoi diritti UE esistono proprio per renderti un consumatore felice, sicuro e soddisfatto.
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In Italia l’Ufficio competente è: Divisione IX – Politiche europee ed internazionali, cooperazione amministrativa europea e riconoscimento titoli professionali.
In questi giorni viviamo una recrudescenza delle tensioni internazionali e in molti parlano della Guerra come di una soluzione. Libia, Iran e Medio-oriente, come un grandissimo “Risiko” dove spostare pedine. Ma la guerra è altro, il significato della guerra è altro. Pubblichiamo un ricordo scritto da Giulio Moscardi.
La storia di Giulio, fratello di Luigi, mio nonno paterno, è una storia inaspettata, tragica, commovente, per certi tratti attuale.
E’ la storia di un ragazzo di Adria nella Grande Guerra,
falegname nella vita, mandato al fronte a 19 anni e morto a 25 per causa di
questa.
Mi è stato raccontato poco di
lui: che aveva fatto la guerra, che era un ardito e che era morto giovane. Come
se parlarne non fosse conveniente.
Immagine dall’Autore
La
Storia di Giulio: la medaglia di bronzo
Giulio, richiamato nel
settembre del 1916, viene trasferito in zona di guerra all’inizio del
1917, prima sulle prealpi Trevigiane e poi sull’altipiano di Asiago. Promosso caporale combatte, durante
l’11°Battaglia dell’Isonzo, sul monte Vodice a nord di Gorizia, dove la sua
brigata riporta perdite ingenti.
E qui viene decorato con la medaglia di bronzo perché, il 19 agosto 1917, come “portaordini del comandante di reggimento, e
più specificatamente in una azione offensiva, disimpegna con grande sprezzo del
pericolo tutti i difficili e rischiosi incarichi ricevuti, essendo di
incitamento ed esempio ai suoi compagni”.
La notizia della decorazione giunge ad Adria, riportata
nell’elenco dei decorati presente nel Corriere del Polesine. Giulio vive poi la
disfatta di Caporetto riuscendo a ripiegare oltre il Piave con il suo reparto
mentre suo fratello, mio nonno Luigi, verrà fatto prigioniero.
Giulio,
un ragazzo di Adria nella Grande Guerra: gli Arditi, la sentenza e la ferita
All’inizio del 1918 entra negli Arditi. Ma non vi
rimane per molto.
Succede un fatto. Mentre si trova nelle retrovie,
in provincia di Treviso, assieme ai commilitoni, una sera di maggio, si rifiuta “di eseguire l’ordine impartito di rientrare in camerata e di desistere
dal chiasso e dagli schiamazzi..”
Una “ragazzata” la definiremmo oggi: ma non all’epoca.
Giulio è condannato per ammutinamento a tre anni
di reclusione, degradato a soldato semplice, cacciato dagli Arditi e rinchiuso
in carcere.
Ma c’è bisogno di soldati: la pena potrà
scontarla successivamente; se sopravvive.
Viene spedito sul Grappa dove si combatte
ferocemente.
E’ un mattatoio. E sul Monte Pertica, il
29 ottobre del 1918, Giulio, degradato, condannato e consapevole di ciò che gli
aspetterà, seppur ferito dauna fucilata che gli sconquassa il polso
destro compie un’azione che gli varrà la
medaglia d’argento al valor militare. Va a medicarsi solo ad azione
conclusa.
Immagine fornita dall’Autore
La
Storia di Giulio: le cure e la motivazione della medaglia d’argento
Le cure sono lunghe e penose. A Modena nel 1919, nel
centro fisioterapico dove comunque sconta la condanna, l’esasperazione la fa da
padrona: per essersi rifiutato di entrare in prigione viene accusato di rifiuto di obbedienza.
Ad Adria, nella
sua Adria, fa ritorno solamente a maggio del 1920 debilitato e menomato nel braccio. Ha 23 anni; vive da solo in via
Orticelli dove continua a fare “forse
alla meglio il mestiere di falegname”, come scrive il medico che lo visita.
Nell’estate riceve finalmente la motivazione della medaglia d’argento per l’azione
sul Grappa: “rimasto ferito durante un’attacco
di una forte posizione nemica, seguitava a combattere. Scorta, per primo,
l’esistenza di una caverna, si dirigeva risoluto all’imbocco di questa,
riuscendo, con lotta di bombe a mano, a trarre i pochi prigionieri. Si recava a
farsi medicare soltanto ad azione ultimata”.
Arriva la motivazione non però la medaglia.
La
Storia di Giulio: la morte e la consegna della medaglia d’argento
Giulio, viste le proprie condizioni, inoltra domanda
per ottenere la pensione ”per aver
contratto ferite e malattie” durante
il servizio.
E’ un iter lungo. Viene disposta la visita medica
ma Giulio non fa a tempo: muore nella casa dei genitori in “Stradòn”, il
17.1.1923. Ha 25 anni.
Un anno dopo arriva la condanna per i fatti di
Modena ma la pena è “condizionalmente”
condonata.
Le cause del decesso sogno ignote. Il papà Carlo a
lungo scrive all’INAIL, al Comune di Adria, al Distretto Militare.
A gennaio del 1927, 4 anni dopo la morte, giunge
il responso: Giulio è deceduto per tubercolosi contratta
durante il servizio.
La medaglia
d’argento al valor militare viene finalmente consegnata al mio bisnonno Carlo
nell’agosto del 1927 dopo mesi di penose
e reiterate domande.
Di questa medaglia, non ricevuta in vita da
Giulio e che io ora conservo, nonsi è mai avuta notizia ad Adria.
Immagine fornita dall’Utente
La Storia di Giulio: il fare memoria
Il mio desiderio, con questo racconto, è di far
conoscere per intero la tragica storia di Giulio,
un ragazzo di Adria nella Grande Guerra.
Gratificante per me è stato il pensiero inviatomi
da Paolo Malaguti che ho avuto la fortuna di avere come lettore: “..l’azione del “fare
memoria”, in qualsiasi modo e con tutti gli strumenti, è da preservare e
potenziare da parte di ognuno di noi!….”
Ogni riga dei fogli matricolari, delle sentenze,
dei certificati medici, asettica nella descrizione dei fatti, mi ha posto di
fronte a scenari più ampi. Mi ha riportato a storie lette nei libri di Lussu, Salsa, Malaguti, tanto per
citare qualche autore, letture essenziali per comprendere fino in fondo quale
potesse essere il contesto e anche lo stato d’animo di Giulio.
Giulio, il papà Carlo e il fratello Luigi. Immagine fornita dall’Autore
La Storia di Giulio: le emozioni
Ricostruire quanto narrato ha suscitato in me emozioni
forti, intense. Spesso mi chiedo come abbia potuto Giulio resistere in scenari
così atroci: aicombattimenti, alla condanna, alle ferite, all’umiliazione. Come abbia
potuto sopportare condizioni estreme e psicologicamente devastanti ad un’età in cuioggi si è considerati dei “bambini” riuscendo, nonostante tutto, a
compiere azioni che gli sono valse due medaglie, cosa non comune per un soldato
non graduato in vita.
Concludo con un pensiero che descrive perfettamente la mia esperienza: “tu che porti il mio nome e parte del mio sangue ti scorre nelle vene ascolta il mio grido di verità. Che la tua bocca sia la mia bocca e renda onore alla mia memoria. Per anni ho sussurrato la mia preghiera e tu l’hai accolta e la porterai a compimento. E allora cesserà finalmente il rombo del cannone e l’unico assalto sarà il tuo pensiero che giungerà premuroso a me ”.
La Storia di Giulio Moscardi è stata raccontata anche in un libro che mettiamo qui, in formato ptt, a disposizione dei nostri lettori.
E’ possibile scaricare la storia di Giulio Moscardi in PDF seguendo il link.