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“Quando la Patria chiama!…” tuonò il pingue e rubizzo podestà del piccolo borgo, al microfono della tribuna d’onore del campo sportivo. Davanti a lui, l’intero paese, riunito, come ogni sabato, per assistere alle manifestazioni di romana virilità dei suoi giovani, ardimentosi, figli.

“Speriamo che resti senza voce!”, urlò, dalla prima fila, uno dei più ardimentosi, prima che l’uomo potesse proseguire il suo stentoreo sermone.

Il ragazzo venne, ovviamente, fermato, identificato e portato via. Lo attendeva una punizione esemplare: sospeso da tutte le scuole del Regno.

Era il 1938 e aveva da poco compiuto sedici anni. Ventitré anni più tardi, sarebbe diventato mio papà.

Ogni volta che certa retorica torna a lordare di sé la realtà – spezzando le reni alla verità, imbellettando tutto e tutti di un’epica posticcia e ridicola, e trasformando l’informazione in indecente propaganda – ripenso alla lucidità e al coraggio di quel ragazzino (che, cinque anni dopo, si sarebbe unito alla Resistenza) e mi dolgo di non essere mai stato alla sua altezza. A questo punto, è evidente che non lo sarò mai. Mea culpa.

Ho scritto centinaia di articoli e due romanzi per denudare e denunciare l’ipocrisia subdola, velenosa e profondamente antidemocratica dei “benpensanti”. Eppure, malgrado tutti i miei sforzi, nulla in quella montagna di pagine ha la forza e l’efficacia di quel “speriamo che resti senza voce!”, urlato da un ragazzino, durante una delle ore più buie, dolorose e nefaste della Storia italiana.

Le parole sono banconote: hanno un “valore nominale” e uno “reale”. Quando il secondo non corrisponde al primo – cosa che accade con raccapricciante frequenza – non sono che carta straccia.

Se dico “ti amo” ma, in realtà, voglio solo indurti a fare sesso con me, l’amore di cui parlo non esiste. Evocarlo, non è altro che un modo immondo per riuscire a estorcerti ciò che – senza mentire, blandire e frodare – non riuscirei mai a ottenere da te.

Insieme a Dio e famiglia, patria è tra le parole più inflazionate in assoluto. Non solo da noi, a dire la verità. Ma questo non consola affatto. Al contrario: deprime e fa infuriare ancora di più.

Il “valore nominale” è altissimo; il “valore reale”, bassissimo. Talmente basso che, spesso, rasenta lo zero. E, a volte – come sta accadendo in questi ultimi anni – precipita addirittura sotto zero.

La parola patria è stata, infatti, ridotta a specchietto per le allodole: un vetrino colorato che viene spacciato per diamante, con l’unico scopo di convincerci a sacrificarci per un simulacro, vuoto e inutile come un dente cariato. Un “vitello d’oro”, che dei gran sacerdoti senza fede e senza scrupoli ci spingono ad adorare, consapevoli del fatto che, solo in nome di parole come Dio, patria e famiglia, riusciranno a farci commettere ogni genere di bassezza e scelleratezza.

Non lasciamoci incantare, quindi, dall’apparente nobiltà di quella parola. Di mera apparenza si tratta, appunto. Di nobile, infatti, è rimasta solo la parola. “Flatus voci”: una breve emissione di fiato e un suono che durano un secondo e, un secondo dopo, si disperdono nel nulla, come fumo di sigaretta.

Chi si serve di quella parola, lo fa per un unico obiettivo: servirsi di noi. Ci chiama “figli” ma si guarda bene dal riconoscerci ruolo e dignità di figli. A meno che non ci sia qualcuno convinto che figlio significhi suddito o servo.

Eppure questo squallido giochetto psicologico fa breccia facilmente in quel che resta delle nostre teste e coscienze. Teste e coscienze lobotomizzate da decenni di tv spazzatura, di informazione compiacente – che, in molti casi, da controllore del potere, si è trasformata in scendiletto dei potenti (nel 2024, secondo il World Press Freedom Index di Reporters Without Borders, l’Italia si è posizionata al 46° posto nella classifica internazionale della libertà di stampa), dall’orgia di stupidità, ignoranza, follia e odio dei social media e da un consumismo senza controllo, che ci spinge a desiderare – come una droga – pagandolo profumatamente, l’inutile e a fuggire – come la peste – tutto ciò che potrebbe dare senso, valore e profondità alle nostre vite, persino quando è gratis.
“Panem et circenses”: ricetta millenaria ma, ahimè, sempre efficace.

E, così, quando ci chiamano figli (valore nominale altissimo, valore reale inesistente), ci sentiamo, istintivamente, obbligati a “onorare il padre” (patria deriva, appunto, dall’aggettivo latino patrius «paterno», «del padre»). E, dunque, a fare tutto ciò che gli astuti cantori del culto della patria ci chiedono. Nefandezze e follie incluse.

E noi onoriamo il padre senza chiederci chi egli sia davvero, dimenticando che il comandamento cristiano (dietro al quale i predicatori senza scrupoli del falso patriottismo nascondono le loro inconfessabili intenzioni) ha valore unicamente se rispettiamo, davvero e in toto, la Parola di Cristo.

Una Parola che, non solo ci impone di amare il nostro prossimo come noi stessi (Mc. 12,29-31) ma, addirittura, di amare i nostri nemici: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano” (Mt. 5,44).

Due richieste, queste ultime, che nessuno dei gran sacerdoti del falso culto della patria condivide, né ci chiederebbe mai di rispettare, per due ragioni evidenti persino ai ciechi: essi odiano ogni genere di prossimo: negri, ebrei, musulmani, migranti, stranieri, omosessuali, intersessuali, transessuali, transgender, queer, gender fluid, gender creative, non-binari, pansessuali, demisessuali, ma anche donne, giovani, vecchi e poveri; non fanno altro che creare nemici: interni o esterni, reali o presunti. Secondo costoro, infatti, non esiste patria senza un nemico. Nemico che non solo noi figli non dobbiamo azzardarci ad amare ma che ciascuno di noi deve imparare a odiare con tutto sé stesso.

Un figlio può benissimo decidere di amare comunque suo padre, pur sapendo che egli è un assassino, un violento (dentro e fuori la famiglia), un ladro, un bugiardo, un cialtrone, un ruffiano. Tale scelta, però, è una scelta individuale che impegna solo quel figlio.

Un cittadino, invece, non è affatto tenuto a onorare una patria “solo chiacchiere e distintivo”, che non lo ama, non lo rispetta, e non solo non fa assolutamente nulla per lui ma, spesso, lo vessa e lo danneggia pesantemente.

Il celebre chiasmo con il quale, il 20 gennaio 1961, John Fitzgerald Kennedy chiuse il suo discorso di insediamento – «Non chiedete cosa può fare il vostro Paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese» – rappresenta, senza dubbio, un’invenzione retorica di grande forza e fascino.

Dato, però, che Kennedy usa la parola “country” [paese] e non “nation” [nazione] o “homeland” [patria], il vincolo morale che egli richiama non è né basato sul diritto di nascita (nazione deriva dal verbo latino “nasci”: nascere) né di territorio. Si tratta, semmai, di un vincolo che potremmo definire sociale, nel senso che ci viene dalla parola latina socius: «socio», «unito», «partecipe», «alleato». Un legame paritario ed egualitario, dunque, fondato su riconoscimento, rispetto e solidarietà reciproci tra tutti coloro i quali – a qualunque titolo e da qualunque parte del mondo provengano – danno vita alla comunità di quanti vivono in un certo Paese.

Non un vincolo sbilanciato, nel quale il soggetto forte (la patria) può tutto e il soggetto debole (il cittadino) può nulla o quasi; il primo è titolare di tutti i diritti, il secondo, solo di doveri; il primo vive alle spalle del secondo per soddisfare i capricci del primo.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non farebbe gravare su di noi un debito pubblico stratosferico, giunto a un passo da quota 3mila miliardi (2.918mld): il 137% del nostro PIL, pari a 49.450 euro di debito per ogni “figlio”.
Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe un’evasione fiscale scandalosa: tra i 90 e i 100 miliardi di euro l’anno, secondo le stime interne. Stime internazionali, invece, la valutano tra i 100 e i 120 miliardi (Fondo Monetario Internazionale) se non, addirittura, 200-250 miliardi (EU Tax Observatory).
Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe di accumulare, nel cosiddetto “magazzino della riscossione”, più di 1.200 miliardi di euro (più di 6 volte il PNNR) di tasse dovute e mai riscosse, il 90% delle quali lo Stato non vedrà mai.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non lascerebbe che il peso dell’Irpef si scaricasse, per oltre l’80%, sulle spalle di lavoratori dipendenti e pensionati.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe che i salari medi degli italiani fossero tra i più bassi d’Europa. Secondo Eurostat, i salari medi in Italia sono significativamente inferiori rispetto a quelli di molti altri paesi dell’Unione Europea. Il salario medio annuale in Italia si aggira intorno ai 31mila euro, contro una media dell’UE di circa 33.500 euro. In confronto, paesi come Lussemburgo e Danimarca registrano salari medi significativamente più alti, rispettivamente oltre 72mila euro e 63.300 euro. Anche in Francia e Germania i salari medi superano i 40mila euro annui, evidenziando una differenza di circa 14-15mila euro rispetto all’Italia.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe né la cultura androcentrica e ottusamente misogina alla base di un fenomeno drammatico e ingiustificabile come la violenza sulle donne. Secondo l’Istat quasi 7 milioni di donne (6,8mln) hanno subito, nel corso della loro vita, violenza fisica o sessuale: il 31,5% (quasi una su tre) delle donne italiane tra i 16 e i 70 anni. La Relazione annuale del Ministero dell’Interno, inoltre, segnala che, nel 2022, si sono registrati oltre 15mila casi di stalking e violenza sessuale (in media, 41 al giorno; 1,7 ogni ora); secondo l’associazione D.i.Re – Donne in Rete contro la Violenza, infine, una delle forme più comuni di violenza contro le donne è la violenza domestica. Nel solo 2023, più di 23mila donne si sono rivolte ai centri antiviolenza. In media, 63 al giorno, 2,6 ogni ora.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe la follia dei femminicidi, più della metà dei quali attribuiti a partner o ex partner e circa il 20% ad altri parenti: 4 omicidi su 5 avvengono, quindi, nell’ambito familiare. Nel 2023, i femminicidi sono stati 120 (quasi 1 ogni 3 giorni); 80 nei primi otto mesi di quest’anno. Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.
Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe il fatto che le donne italiane guadagnino meno (4,2% secondo Eurostat; 5- 7% secondo Istat, 10,7% secondo ODM Consulting) dei loro colleghi uomini, in un Paese che – secondo il Global Gender Gap Report 2023 del World Economic Forum – si posiziona al 79° posto su 146 paesi nella classifica generale della disparità di genere, che comprende partecipazione economica e opportunità, accesso all’istruzione, salute e sopravvivenza, empowerment politico.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Se fossimo davvero figli, la nostra patria non accetterebbe un tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) del 22-23%, né accetterebbe che il 14,9% dei giovani tra i 15 e i 29 anni rientri nei cosiddetti NEET (“Not in Education, Employment, or Training”): giovani che non studiano, non lavorano e non seguono alcun tipo di corso di formazione. Un tasso, quello italiano, significativamente superiore alla media UE, che si attesta sull’11,2%.

Nessun vero padre accetterebbe mai questo stato di cose.

Tutto questo, senza parlare della scandalosa situazione della giustizia nel nostro paese (spesso ridotta a questione di protezioni politiche & Co. o di disponibilità economiche dei singoli), del folle smantellamento della sanità pubblica (già oggi tra i 4,7 e i 7 milioni di italiani hanno rinunciato a curarsi, per problemi economici, liste d’attesa troppo lunghe, difficoltà di accesso alle strutture sanitarie, eccessiva distanza dalle strutture mediche), della totale mancanza di attenzione, rispetto e risorse per scuola pubblica, università e ricerca scientifica.
Alla luce di tutto questo, la domanda che dobbiamo porci è: dove diavolo è il sedicente “padre” di tutti questi “figli”?

Ognuno di noi interroghi la propria coscienza.
Un fatto, però, emerge con indubitabile, dolorosa, chiarezza: fino a quando la patria non comincerà a parlare con voce di libertà, giustizia, eguaglianza, diritti e pari opportunità per tutti i suoi figli, attuando – nei fatti e non negli slogan elettorali – il mandato costituzionale (Art. 3) che recita “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, non sarà davvero patria.

E ogni volta che ci chiamerà, più che il diritto, avremo il dovere di urlare: “speriamo che resti senza voce!”

Non so se esista un angolo di mondo la cui popolazione sia completamente autoctona e il suo sangue non si sia mai mischiato a quello di nessun’altra etnia. Ammesso e non concesso, però, che esista, una cosa è certa: non è l’Italia. Per fortuna, aggiungo, visti gli inquietanti rischi, mentali e fisici, connessi all’endogamia. Sessuale o culturale che sia, non fa molta differenza. Senza considerare che, se un posto del genere esistesse, sarebbe arido, deserto e triste, e destinato a una fine di solitudine e dolore.

Diversità è ricchezza
Ci piaccia o no, infatti, diversità è ricchezza. Mettiamocelo in testa una volta per tutte. Capirlo è facile. Non serve aver letto un milione di libri. Basta guardarsi intorno: ce lo insegna la Natura. Che mondo sarebbe il nostro con un solo fiore, un solo frutto, un solo pesce, un solo uccello, un solo essere umano, magari brutto, sporco e cattivo?

Non solo: che musica si potrebbe mai scrivere con un’unica nota? Quale poesia, romanzo, opera teatrale, sceneggiatura con un’unica parola? Quale tela si potrebbe dipingere con un unico colore? Quale danza o balletto, potrebbe nascere da un unico passo?

Noi italiani siamo fortunati, quindi – molto fortunati – a poter vantare (il verbo non è scelto a caso) di essere il frutto dell’incontro e della fusione di così tante grandi culture, visioni, lingue, voci, tradizioni, storie, fedi.

Identità parola plurale, dinamica, aperta
La Storia stessa del nostro Paese ci insegna che – come dicevano i latini – identità è, di fatto, un “pluralia tantum”: una parola che ha soltanto il plurale. Esistono, infatti, le identità ma non l’identità, per la semplice ragione che ogni identità – anche la meno articolata e complessa – è sempre la sintesi di più identità diverse.

Sintesi dinamica, tra l’altro, dal momento che nessuna identità è data una volta per tutte. Le identità non smettono mai di evolvere. Esattamente come quella di ciascuno di noi. È a tutti evidente, infatti, che ciò che siamo oggi è diverso sia da ciò che eravamo ieri che da ciò che saremo domani.

Le identità evolvono da sempre, dunque. Ed evolveranno per sempre. Per fortuna, aggiungo. Altrimenti, sul nostro pianeta vivrebbero 8 miliardi di “homo sapiens”. E i 200/300mila anni che ci separano dal nostro antenato più simile a noi sarebbero trascorsi inutilmente.

E, dato che è plurale e dinamica, identità è, inevitabilmente, una parola aperta. Apertissima, anzi, dal momento che è il frutto di centinaia di migliaia di anni di incontri, inclusioni, fusioni.

Inclusioni – attenzione – non esclusioni. Che non sono solo assurde e incomprensibili: sono, soprattutto, impraticabili. Oggi ancora più di ieri. Chiudersi in un’ottusa e ridicola pretesa autarchica, significherebbe, infatti, condannarsi all’estinzione, prima ancora che all’insignificanza politica, economica, sociale e culturale.

Migriamo da 2 milioni di anni…
Gli esseri umani non hanno cominciato a migrare agli inizi degli anni Novanta, per sbarcare a Lampedusa, conquistare lo stivale e imporci il loro Dio, occupare le nostre case, portarci via lavoro e donne e turbare i sonni di noi benestanti/benpensanti, “cattolici da pasticceria” (come li ha definiti il capo della cattolicità), come proclamano le voci – scriteriate, storicamente infondate e irrazionali – della galassia nazionalista, patriottica, sovranista, sciovinista, protezionista, anti-globalista, autarchica e identitaria.

Piccola parentesi: a proposito di Dio, vale la pena ricordare che Ebrei, Cristiani e Musulmani credono tutti nello stesso Dio. Inoltre, i cattolici antisemiti farebbero bene a non dimenticare che Gesù, insieme a tutta la sua famiglia e agli apostoli, era ebreo. Chiusa parentesi.

… per soddisfare bisogni primari
Gli esseri umani hanno cominciato a migrare circa 2 milioni di anni fa, quando l’Homo erectus ha lasciato l’Africa e ha iniziato a diffondersi in Asia e in Europa. Le sue migrazioni erano guidate da bisogni primari fondamentali: terra, acqua, cibo, focolari sicuri e accoglienti, protezione dai predatori (animali e no) e la necessità di assicurare una progenie in grado di garantire la sopravvivenza della specie.

Siamo tutti africani.
Sì, siamo tutti africani: facciamocene una ragione. I primi ominidi, infatti, sono apparsi nel cuore dell’Africa circa 7-6 milioni di anni fa. E, sempre in Africa, è emerso il genere Homo, il cui primo rappresentante – Homo habilis, considerato un progenitore dell’Homo erectus – è vissuto circa 2,8/2,4 milioni di anni fa. I suoi fossili sono stati trovati principalmente in Africa orientale, in Tanzania e Kenya. Prove fossili e genetiche (analisi del DNA mitocondriale e del cromosoma Y) indicano, infine, che tutte le popolazioni moderne discendono da un gruppo di umani – Homo sapiens – che si è evoluto in Africa circa 300mila anni fa.

L’orco Globalizzazione
Anche l’orco Globalizzazione, che tanto ci terrorizza, non è nato – come qualcuno vuole farci credere – dopo la caduta del Muro di Berlino. Chi lo sostiene ha gioco facile. Dopotutto, si tratta di indottrinare teste sempre più vuote e coscienze sempre più aride. Combinazione ideale per infestare l’opinione pubblica con i venefici frutti della malapianta della paura.

La globalizzazione è nata millenni fa. E non per il capriccio di qualche capotribù proto-buonista/comunista o paleo-turbo-capitalista. È nata per un bisogno vitale, ineludibile: la sopravvivenza. Un dettaglio tutt’altro che trascurabile, non vi pare? Rinunciare alla prima, dunque, significa, di fatto, rinunciare anche alla seconda.

Autarchia è follia.
Ecco perché, a terzo Millennio avviato, l’idea di chiudersi in una sorta di autarchia2.0 non è soltanto anacronistica e stupida: è letale. Oltre che oggettivamente impraticabile. E non da oggi: da sempre. Non lo dico io: lo dice la Storia. Quella vera, non una delle mille bufale revisioniste, messe in giro ad arte dal, sempre più nutrito, consorzio dei nostalgici delle più grandi follie del recente passato.
Nessuno, in nessun angolo del pianeta, può, infatti, illudersi di essere completamente e felicemente autosufficiente. Sarebbe una follia. Follia ancora più grande in un Paese come il nostro, che dipende così tanto dagli altri, per materie prime e beni indispensabili alla sua stessa sopravvivenza.

Dipendiamo dalle risorse degli altri…
A causa della limitata disponibilità di risorse naturali e dell’elevata domanda interna, infatti, ogni anno, noi italiani, spendiamo, a seconda delle fluttuazioni nei prezzi internazionali e delle quantità dei beni di cui abbiamo bisogno (tra questi: petrolio e derivati, gas naturale, macchinari industriali e apparecchiature tecnologiche, automobili e componenti per l’industria automobilistica, ferro, acciaio, rame e altre materie prime metallurgiche, prodotti chimici e farmaceutici, grano e cereali e persino frutta esotica e verdure fuori stagione) tra i 140 e i 217 miliardi di euro, rispettivamente il 7% e il 10,85% del PIL, una cifra che equivale al nostro Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Scusate se è poco.

La domanda è: saremmo mai in grado di produrre tutti questi beni “in casa nostra”?

… e dalle braccia degli altri
Per non parlare del bisogno, ormai patologico, di manodopera straniera, soprattutto per tutti quei lavori che noi italiani non vogliamo più fare: raccolta di frutta e verdura, ad esempio (si stima che, ogni anno, l’agricoltura abbia bisogno di 300/350mila stagionali); manovali, muratori, carpentieri, posatori di pietre, addetti a scavi e demolizioni, montatori di ponteggi (si stima che il 30-40% della forza lavoro nell’edilizia sia costituita da immigrati); cura e assistenza degli anziani (sono circa 850mila le/i badanti, in larga maggioranza immigrati); pulizie domestiche e di edifici pubblici, alberghi, ristoranti; camerieri, lavapiatti, aiuto-cuochi; camionisti, trasportatori, rider…

Una dipendenza, questa dalla manodopera straniera, destinata a crescere, soprattutto per due motivi:

  1. le preoccupanti dinamiche demografiche: abbiamo uno dei tassi di natalità più bassi al mondo (in media, circa 1,24 figli per donna: un valore ben al di sotto del livello di sostituzione – 2,1 figli per donna – necessario per mantenere stabile la popolazione nel lungo termine) e una popolazione sempre più anziana: circa il 23% degli italiani hanno un’età pari o superiore ai 65 anni, cosa che ci colloca tra i paesi più anziani a livello globale;
  2. le esigenze del mercato del lavoro, per il quale – secondo alcune stime – l’Italia avrebbe bisogno di 200/300mila lavoratori immigrati all’anno, per coprire le carenze di manodopera in settori chiave come quelli ricordati sopra.

Domanda: supponendo di rimandare a casa tutti gli immigrati che, attualmente, lavorano da noi (per lo più sfruttati, senza diritti e senza tutele) e di chiudere le frontiere ai migranti, chi di noi sarebbe disposto a rinunciare al proprio lavoro e a dedicarsi, per il bene di tutti, a una vita di fatica, sfruttamento, povertà ed esclusione sociale?

Un popolo di migranti.
Non so se siamo mai stati davvero – come voleva la retorica fascista – un “popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di navigatori, di colonizzatori, di trasmigratori”. Una cosa, però, è certa: siamo stati e siamo ancora un popolo di migranti. Si stima, infatti, che, tra metà Ottocento e metà Novecento, tra 25 e 30 milioni di italiani siano emigrati all’estero: uno dei più grandi flussi migratori della storia moderna.

Le principali ondate migratorie sono state tre:
1861-1915: tra 9 e 14 milioni di italiani (circa il 31%-48% della popolazione media di quel periodo) lasciarono il Paese, dirigendosi verso l’America Latina (in particolare Argentina e Brasile), gli Stati Uniti e l’Europa;
1916-1945: tra 6 e 10 milioni di italiani (circa il 14,8%-24,7% della popolazione media di quel periodo) emigrarono negli Stati Uniti, in Europa e in Sud America;
1946-1960: tra 5 e 6 milioni di italiani (circa il 10,5%-12,6% della popolazione media di quel periodo) emigrarono verso l’Argentina, l’Australia, il Canada, il Venezuela e altri paesi europei.

Un pianeta di italiani.
Migranti produttivi. In tutti i sensi, visto che si calcola che, oggi, in giro per il mondo, ci siano tra i 60 e gli 80 milioni di persone di origine italiana. Un’Italia-figlia, persino più popolosa della sua madrepatria, che conta solo 59 milioni di figli.

Tra i 25 e i 30 milioni di questi nostri “cugini” e “nipoti” vivono in Brasile (10/15% della popolazione), tra i 20/25mln in Argentina (40%/50%), 17/18mln negli Stati Uniti (5/6%), 1/2 mln in Venezuela (3/7%), 1,5mln in Canada (4%), 1/1,5mlm in Francia (2/3%), 1,4 milioni Uruguay (40%), 1 mln in Australia (4%), 700mila in Germania (0,85%) e 500mila in Svizzera (6%).

Due domande:

  1. Se i suddetti Paesi adottassero politiche anti-stranieri/immigrati, e decidessero di liberarsi di tutta quella gente e rimandarla a casa sua, noi dove ce li metteremmo?
  2. Se tutti questi italiani di seconda/terza generazione decidessero – in base allo ius sanguinis, così caro ai nostri sovranisti/nazionalisti – di richiedere la cittadinanza italiana (la trasmissione della cittadinanza non ha un limite di generazioni) e trasferirsi da noi, come gestiremmo l’ingresso nel nostro Paese di milioni e milioni di migranti legali?

L’identità italica non esiste

Siamo sicuri che i tratti somatici di tutti questi italo-brasiliani/argentini/statunitensi/venezuelani/canadesi/francesi/uruguaiani/tedeschi/svizzeri rappresentino l’italianità?
Ma, soprattutto: cos’è questa fantomatica italianità?
Un fantasma, appunto, dal momento che non esiste alcuna “identità italica”. E non per chissà quale pregiudiziale ideologica, ma per la semplice ragione che la Storia ci dice che il nostro Paese è uno tra i melting pot più antichi e ricchi di “bio”-diversità di tutto il pianeta.

Sono davvero tanti, infatti, i popoli non italici che hanno contribuito a renderci quelli che siamo oggi. Impossibile non ricordare almeno i più importanti: Fenici (popolo semitico originario di una regione che corrisponde all’attuale Libano, con colonie che si estendevano in parte della Siria e lungo le coste del Mediterraneo), Greci, Celti (tribù indoeuropee emerse in una regione dell’Europa centrale che comprendeva le attuali Austria, Svizzera, Germania meridionale e Francia orientale), Goti (originari dell’attuale Svezia meridionale: si divisero in due rami: i Visigoti, che, dopo aver attraversato i Balcani, si stabilirono in Gallia [l’attuale Francia] e nella Penisola Iberica [Spagna e Portogallo] e gli Ostrogoti, che si stabilirono nelle regioni orientali dell’Europa, intorno al Mar Nero, in un’area che corrisponde all’attuale Ucraina, Moldavia e Romania, per poi migrare in Italia), Longobardi (originari dello Jutland, oggi parte della Danimarca, che migrarono attraverso la Germania settentrionale), Vandali (probabilmente originari anch’essi della Scandinavia o della penisola dello Jutland), Unni (provenienti dalle steppe dell’Asia centrale o dalla Mongolia), Normanni (Vichinghi originari di Norvegia, Danimarca e Svezia, che si stabilirono nella Normandia in Francia prima di espandersi in altre parti d’Europa), Arabi, Franchi, Spagnoli, Francesi e Austriaci.
Ci piaccia o no, dunque, nel nostro sangue c’è il sangue di tutte queste genti. Impossibile, quindi, parlare di italianità. A meno che non ci sia qualcuno in grado di stabilire quale percentuale di sangue “italianamente puro” (vale a dire non fenicio, greco, celtico, gotico, visigotico, ostrogotico, longobardo, vandalico, unno, normanno, arabo, franco, spagnolo, francese e austriaco) sia necessaria per potersi dire effettivamente italiani. Cinque per cento? Dieci? Quindici? Trenta? Cinquantuno per cento?
Non scherziamo, per favore. Possiamo anche continuare a ignorare – o fingere di ignorare tutto questo – ma al nostro patrimonio genetico non interessano le nostre credenze, convinzioni, elucubrazioni. Possiamo strillare quanto vogliamo, ma lui resta quello che è: il prodotto di millenni di incroci avvenuti in un Paese che, per la sua posizione geografica nel Mediterraneo, è stato, fin dall’antichità, un crocevia di grandi popoli, grandi culture, grandi commerci.

È scientificamente dimostrato, infatti, che il nostro DNA è un mosaico di influenze genetiche e culturali diverse e che noi italiani condividiamo marcatori genetici con popolazioni del Mediterraneo orientale, del Nord Africa, dell’Europa centrale e settentrionale, e del Medio Oriente. Le cose stanno così: accettarlo o no, non le cambia.

Lingua italiana?
Per tutto questo, neanche la lingua italiana è al 100% italiana. Il nostro alfabeto, ad esempio, ha origini fenicie (1200 a.C.), è stato poi modificato dai Greci (IX secolo a.C.), ha influenzato l’alfabeto degli Etruschi (che vivevano nell’Italia centrale, prima dell’ascesa di Roma) e, infine, è stato adottato dai Latini. Con l’espansione dell’Impero Romano, l’alfabeto latino si è diffuso in gran parte dell’Europa e in alcune parti dell’Africa e del Medio Oriente. Dopo la caduta dell’Impero Romano, l’alfabeto latino è rimasto in uso grazie alla Chiesa cattolica, che lo utilizzava (e ancora lo utilizza) per la scrittura dei testi religiosi, e si è evoluto nelle lingue romanze, tra cui l’italiano.

Per non parlare del nostro lessico, che ospita più di 23mila parole di origine straniera. Parole di uso così comune e frequente, che non sappiamo nemmeno che provengono da greco, inglese, francese, spagnolo, tedesco, arabo, russo, provenzale, giapponese, portoghese, turco, longobardo, ebraico, hindi, sanscrito, cinese e persiano. Cosa vogliamo fare? Bandire tutte queste parole dai nostri vocabolari e rinunciare a usarle, solo perché non presentano i caratteri dell’italianità?

Numeri italiani?
E cosa dovremmo fare, allora, dei numeri che utilizziamo, visto che provengono dall’antico sistema numerico indiano (primo/sesto secolo d.C.), successivamente adottato e perfezionato da studiosi arabi e persiani, i quali li diffusero nel mondo islamico e, attraverso di esso, in Europa?
Vogliamo rinunciare anche a loro?

Già che ci siamo, allora, perché non rinunciare anche ad aritmetica, algebra e geometria, visto che sono arrivate a noi dopo un processo di sviluppo millenario, che ha coinvolto civiltà decisamente non italiche come Sumeri, Babilonesi, Egizi, Greci, Arabi, Persiani e Indiani?

Città italiane?
E cosa vogliamo fare delle molte, importanti, città italiane fondate da popolazioni non italiane? Qualche esempio? Ancona, Catania, Messina, Napoli, Reggio Calabria, Siracusa, Taranto (Greci), Cagliari e Palermo (Fenici), Milano e Torino (Celti), Trieste (Illiri). Ma la lista, ovviamente, è molto più lunga di così. Potremmo sempre raderle al suolo, per farle ricostruire da veri italiani. Ma, oltre alla incommensurabile perdita di bellezza, arte, storia e cultura, e tralasciando questioni come tempi e costi, e il problema di dove ospitare gli oltre 5 milioni di persone che vivono in quelle città, la domanda è: siamo davvero sicuri che riusciremmo a trovare tutta la manodopera italiana di cui avremmo bisogno?

Nemmeno la cucina italiana è davvero italiana.

L’italianità non esiste nemmeno in cucina, visto che alcuni alimenti che consideriamo testimonial-simbolo della nostra cucina nel mondo non sono affatto italiani: pomodori e patate, ad esempio, originari, rispettivamente, del Messico/Perù e delle Ande; il riso, originario dell’Asia (Cina e India); il mais, anima della polenta, e il peperoncino, anch’essi originari delle Americhe; il basilico, originario dell’Asia tropicale (India, in particolare); la melanzana, originaria dell’Asia meridionale (probabilmente, India); lo zucchero, originario dell’Asia meridionale (India) e persino il caffè, originario dell’Etiopia, che si diffuse in Europa attraverso la penisola arabica e il mondo islamico.

Cosa vogliamo fare? Rinunciare a tutte queste meraviglie poiché non possono vantare natali italiani e alle mille prelibatezze che le nostre bisnonne, nonne e madri hanno creato, grazie ad esse? La nostra cucina, come la nostra identità, è uno straordinario mosaico di influenze ed è proprio questo che la rende unica e inimitabile.

Ha ragione Brandolini

Che dire? Ha ragione Brandolini: “La quantità di energia necessaria per confutare una stronzata è di un ordine di grandezza superiore a quella necessaria per produrla”. Infinitamente superiore, mi permetto di chiosare.

Lo dimostra il fatto che mi ci sono volute ben quattordici cartelle (e dubito fortemente che saranno sufficienti) per provare a spiegare i motivi principali per i quali l’identità – almeno così come concepita e propagandata dai tribuni della galassia identitaria – è un falso storico, una visione anacronistica e completamente impraticabile dell’esistenza. In una parola: una stronzata.
Il fatto che siano in molti – troppi – a darle credito, non significa affatto che essa lo meriti davvero. Non sempre, infatti, un grande successo è sinonimo di grande qualità. Anche Albano e Romina o Toto Cutugno – sia detto con rispetto – hanno venduto milioni di dischi. Questo, però, non li rende certo Elvis né i Beatles. E nemmeno ce li avvicina.
Spesso, il successo di un’idea non dipende dalla sua effettiva grandezza ma dalla piccolezza dei suoi estimatori. Per una formica, anche un bassotto è un gigante. E la Storia, purtroppo, è piena di folle che si sono lasciate sedurre da folli.

Nel solo Novecento, l’Europa ha vissuto sotto il giogo di ben 13 regimi totalitari, più o meno sanguinari, per complessivi 415 anni senza libertà, pace, diritti, democrazia. E, sebbene, i risultati disastrosi e tragici di quelle esperienze siano sotto gli occhi di tutti, certe parole d’ordine continuano ad affascinare legioni di stolti, ignari e creduloni.
Come si spiega? Onestamente, non lo so. E la Storia, ahimè, dimostra che non esiste una ricetta che consenta di liberarsi, una volta per tutte, delle menti tiranniche, oppressive, spietate e sanguinarie che hanno ridotto in cenere Europa, Asia Orientale e Sudorientale, Nord Africa e Pacifico, prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Quello che so è che, rispetto al “secolo breve”, la situazione, oggi, è ancora più critica, a causa di un nefasto allineamento di pianeti: genitori inesistenti, scuole e università che sono l’ombra di quelle della seconda metà del Novecento, più di quarant’anni di tv spazzatura, un’informazione, ormai, ridotta a propaganda e gossip di bassa lega e all’incontenibile strapotere di Internet e dei social media.

A proposito di questi ultimi aveva ragione da vendere Umberto Eco, quando osservava che hanno dato «diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli». «Il dramma di Internet – aggiungeva Eco – è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità».
È vero: siamo in balia degli scemi del villaggio. Ed è un vero dramma. Anche perché il villaggio è ben felice di questo stato di cose, dal momento che si identifica – appunto – negli “scemi” e si sente confortato nella propria mediocrità. Mal comune…

Al pari degli indifferenti, odio gli “identici”, perché, uccidendo le differenze, uccidono la verità. E, con essa, la libertà. E, con la libertà, il senso e il valore stesso dell’esistere.
Chiudo parafrasando un sublime incipit tolstoiano: “Tutte le persone intelligenti, sono intelligenti a modo loro; tutti gli stupidi si somigliano”.
E quella tra gli stupidi non è solamente l’identità più diffusa ma è di gran lunga la più pericolosa che esista in Natura. Come ammoniva l’immenso Dietrich Bonhoeffer, infatti, «Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con la forza […]. Ma contro la stupidità non abbiamo difese. Qui non si può ottenere nulla, né
con proteste, né con la forza; le motivazioni non servono a niente».

Cerchiamo di non dimenticarlo.

“Sii te stesso; tutti gli altri sono già occupati.”

Suona frivolo e leggero, ma al suo interno questo aforisma di Oscar Wilde (e chi altri avrebbe potuto scriverlo..?) ha in sé un certo carico di profondità. Perché non c’è altro modo per essere vivi, se non essere autentici. Ma cosa significa davvero? La ricerca dell’identità è un viaggio antico quanto l’umanità stessa, e in effetti pensatori e filosofi di ogni epoca, fin dall’antichità si sono confrontati con il quesito: chi siamo davvero?
Ecco vorrei scrivere un articolo sull’identità e sulla maschera e per questo invocherò Socrate e Oscar Wilde.
Wilde, con il suo usuale sarcasmo, sosteneva che “La maschera che porti mostra più verità di quanto credi.” E se non pensiamo ad una maschera di cartone, questo pensiero si riflette sulla visione che sosteneva Socrate, che con il suo famoso motto “Conosci te stesso”, spingeva gli individui a guardare oltre le apparenze e a interrogarsi sulla propria natura. La maschera è parte del gioco dell’identità, mentre per Socrate la ricerca interiore, con il suo rigoroso processo, sosteneva che ve ne fosse una sola di identità per il proprio “Io”.

Le maschere che scegliamo di indossare fanno parte di chi siamo, o sono solo strumenti di sopravvivenza sociale?

Identità fluida e cambiamento: Eraclito e il mondo moderno
Eraclito, il filosofo del divenire, ci ricorda che “Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume”: l’identità non è statica. Le nostre identità si evolvono con le esperienze, con ciò che consumiamo sui social media, con i cambiamenti di lavoro, di relazione, di ambiente.

La comicità dell’identità: ridere di se stessi
“Non sono felice di essere chi sono, ma sono anche troppo pigro per essere qualcun altro.” così George Carlin vede l’inerzia che abbiamo rispetto al nostro cambiamento: un processo faticoso che a volte cerchiamo di evitare per rifugiarci nelle nostre certezze, nelle abitudini, nelle cose, negli oggetti, negli spazi, nei tempi nei quali sentiamo il nostro essere, che lo definiscono. L’identità come “cosa” delimitata dai nostri limiti, come da confini.

L’identità digitale: il nuovo Sé
Su ogni social network, nel mondo di internet, sui siti, sulle app, la nostra identità online è spesso una versione filtrata (quando non proprio edulcorata) di noi stessi. Wilde, se fosse vissuto oggi, probabilmente avrebbe commentato qualcosa del tipo: “Non si può uscire di casa senza sé stessi e senza il sé per i propri follower.” come fosse un bastone da passeggio da dandy.

Forse la lezione finale la possiamo trarre da Wilde stesso: “La vita è troppo importante per essere presa sul serio.”
E così è anche per l’identità.
Sta a noi trovare il giusto equilibrio tra profondità e leggerezza, tra maschera e autenticità, in un viaggio che, dopotutto, ha solo una destinazione.

Contrariamente a quanto, comunemente, pensiamo, i totalitarismi non nascono mai dalla follia sanguinaria di un leader. Nascono sempre dal
servilismo del primo lacchè di quel leader.
E non ha alcuna importanza stabilire cosa determini quella prima, irredimibile, genuflessione: codardia, paura, credulità, stupidità, interesse personale o desiderio di rivalsa/vendetta nei confronti del resto del mondo.

Solo una cosa importa: riflettere sul fatto che, senza lo zerbinarsi di quel primo lacchè, nessun leader diventerebbe mai tale. E, di conseguenza, nessun autoritarismo nascerebbe mai.

Scusate se è poco.
Leader, infatti, significa “guida”, “comandante”, “capo”. È del tutto evidente, quindi, che, senza nessuno da guidare, nessuno da comandare, nessuno a capo del quale mettersi, non può esistere alcun “leader”. E, dunque, nessuna leadership.

Per usare una terminologia social: senza un primo “follower” non può esistere alcun “influencer”. Game over.

Anche se nessuno ci pensa mai, è proprio questo il punto nodale della questione: così come non può esserci un pastore senza pecore o un esercito senza soldati, non può esserci nemmeno un regime senza lacchè. Anche perché, per quanto violento e ben armato possa essere, quanti uomini è in grado di eliminare un uomo solo, prima di essere sopraffatto dalla reazione della moltitudine che gli si oppone?

Per dirla con parole assai più illuminate delle mie (Étienne de La Boétie: “Discorso sulla servitù volontaria”, 1576), il tiranno non ha altra forza che quella che gli uomini gli danno e «ha il potere di danneggiarli unicamente in quanto essi vogliono sopportarlo, che non potrebbe far loro alcun male, se essi non preferissero subirlo, invece di contrastarlo». «Son dunque gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smetter di servire, sarebbero liberi». «È il popolo – dunque – che acconsente al suo male o addirittura lo provoca». Il che dimostra che «la libertà non viene affatto desiderata, per la buona ragione che, se gli uomini la desiderassero, l’otterrebbero».

Aveva ragione il Grande inquisitore dostoevskijano: «Non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura».

Da tutto questo consegue che: se, nell’istante nel quale, nelle folli menti di Mussolini, Hitler, Stalin, Pinochet, Videla o Pol Pot (solo per citare i primi nomi che mi sono venuti in mente) prendeva forma l’idea di trascinare il mondo nell’abisso, accanto a quei sei personaggi in cerca di orrore, ci fosse stato qualcuno in grado di assestare loro un vigoroso e, ovviamente, risolutivo “calcio nel culo” (metaforicamente parlando, s’intende), nessuno dei suddetti signori sarebbe mai riuscito a realizzare il suo folle progetto criminale e il mondo si sarebbe risparmiato decenni di persecuzioni, massacri, torture, lutti e orrori indicibili.
Del resto, qualunque incendio – persino il più devastante che possa deturpare il volto del nostro infelice pianeta – nasce sempre da una prima, minuscola, scintilla.

Per spegnere quella prima scintilla, può essere sufficiente persino un semplice sputo. Per domare un “incendio” delle proporzioni – ad esempio – di una Seconda Guerra Mondiale ci sono voluti, invece, sei interminabili, drammatici anni, e tra i 70 e gli 85 milioni di morti, in gran parte civili (50-55 milioni).

Permettetemi, allora, una domanda: secondo voi, uno sputo e un vigoroso e risolutivo “calcio nel culo” valgono o no sei anni di guerra mondiale e decine di milioni di morti?
Supponiamo che avesse davvero ragione Raskol’nikov (il giovane omicida protagonista di “Delitto e castigo”) e che, in virtù della loro superiorità, alcune persone abbiano il dovere di oltrepassare la legge morale (Raskol’nikov parla, esplicitamente, di “diritto al delitto”), per realizzare la «distruzione del presente in nome del meglio», non credete che – esattamente per quella stessa ragione – chiunque di noi si trovasse accanto a una mente folle, nell’istante nel quale al suo interno scoppia la scintilla dell’orrore, avrebbe il dovere, di soffocare, sul nascere, quella scintilla e fare di tutto per mettere quel folle in condizione di non nuocere?

Perché è così importante capire che, quella del primo lacchè, è la responsabilità più grande di tutte? Perché è così importante sottolineare che è il lacchè, e non il folle, il vero responsabile dello scoppiare di quegli incendi che, per anni – decenni, a volte – mandano in fumo milioni e milioni di chilometri quadrati di libertà, diritti, pace e democrazia?
Perché la tentazione di farsi zerbino può cogliere chiunque di noi, in qualunque momento.

Nessun essere umano ne è immune.
E nessuno di noi può avere la certezza assoluta di non cedere alla paura o alle lusinghe del potere. Vere o false che siano.

Aveva ragione da vendere, allora, Ettore Petrolini – “insuperabile interprete della beffarda anima romanesca” [Treccani] – quando, a teatro, si rivolse a un signore che, fischiando, aveva interrotto la sua recitazione: “Io non ce l’ho con te – disse – ma con quelli che ti stanno vicino e non ti hanno ancora buttato di sotto!”.

Riflettiamo, dunque, sul fatto che, se ciascuno di noi si rifiuterà di genuflettersi per primo, nessuno si genufletterà.
E, se nessuno, si genufletterà, il generale Follia si ritroverà senza esercito e l’unica cosa che riuscirà a mettere a ferro e fuoco sarà il suo putrido, livoroso e velenoso fegato.

Appuntamento domenica 22 settembre con la III Edizione della SARKRACE, corsa o passeggiata campestre benefica organizzata a Roma per la ricerca e la cura del sarcoma.

Dopo lo straordinario successo delle precedenti edizioni, con centinaia e centinaia di partecipanti, tra pazienti, medici, amici, studenti, volontari e cittadini provenienti da tutta Italia, torna a far tappa a Roma la SARKRACE, un evento sportivo amatoriale aperto a tutti, per sensibilizzare e raccogliere fondi per la ricerca e la cura dei sarcomi dei tessuti molli, rara forma di tumore, dalla complessa gestione clinica.

L’evento, ideato ed organizzato da Sarknos (Associazione Pazienti Sarcomi dei Tessuti Molli),in collaborazione con la Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, è patrocinato dalla Regione Lazio, dal Municipio IX di Roma Capitale e da F.A.V.O. (Federazione Italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia).

L’appuntamento è per domenica 22 settembre 2024, con partenza alle 10,00 da via Àlvaro del Portillo, 5, presso la Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico. 

Il percorso della SARKRACE 2024 sarà lungo la pista ciclo-pedonale che costeggia Via Àlvaro del Portillo, dal parcheggio del CESA fino alla fermata dell’autobus di fronte al centro sportivo “Sport City Roma”, e ritorno.

Ciascun partecipante riceverà un gadget a scelta tra maglietta, ventaglio, cappellino o magnete, secondo disponibilità e fino ad esaurimento scorte, ed una bottiglietta d’acqua con un panino.

Parteciperanno all’iniziativa la Prof.ssa Rossana Alloni (Direttore clinico Campus Bio-Medico), la Dott.ssa Antonella Venditti (Direttore sanitario Campus biomedico), il Prof. Bruno Vincenzi (Responsabile UOS Day Hospital oncologia Campus Bio – Medico) ed il Dott. Sergio Valeri (Responsabile Chirurgia dei sarcomi dei tessuti molli Campus Bio-Medico e Presidente dell’Associazione Sarknos).

Le iscrizioni sono aperte al costo di 20 euro. Il ricavato verrà interamente devoluto per le attività di ricerca e di cura dei sarcomi dei tessuti molli.

Per informazioni:

www.sarknos.it

amministrazione@sarknos.it

Per iscriversi: https://www.sarknos.it/iscrizione-sarkrace

Poniamo il caso che una mattina al risveglio, guardandovi allo specchio come tutte le altre mattine scopriste che il naso, quello che avete sempre pensato fosse perfettamente dritto, in realtà sia storto.
E no, non è uno scherzo del vostro specchio.
Questo potrebbe essere l’inizio di un’avventura surreale nel mondo delle apparenze, esattamente come accadde a Vitangelo Moscarda. Non che sia un cambiamento enorme come quello accaduto a Gregor Samsa di Kafka, che si risvegliò tramutato in scarafaggio, ma è una storia che vale la pena raccontare.
Vitangelo, affettuosamente detto Gengè, è il protagonista di “Uno, nessuno e centomila” di Luigi Pirandello.
Gengè vive una vita tranquilla finché un giorno sua moglie gli fa notare che il suo naso pende leggermente a destra. Questo piccolo commento innesca una crisi esistenziale. Gengè si rende conto che la percezione che ha di sé non corrisponde a quella degli altri. Se il suo naso, un elemento così evidente del suo volto, appare diverso agli occhi altrui, cos’altro potrebbe essere differente?

Bella domanda!

Gengè si rende conto di essere “uno” nella sua mente, “nessuno” perché la sua identità vera sfugge persino a lui, e “centomila” perché esiste in centomila modi diversi agli occhi di chi lo conosce. Ogni persona vede in lui una versione diversa, influenzata dalle proprie esperienze, pregiudizi e aspettative.

In effetti…quante volte vi siete trovati a comportarvi in modo diverso in base a chi avevate davanti? Con gli amici siamo spensierati e forse un po’ pazzi, al lavoro professionali e misurati, con la famiglia affettuosi e comprensivi. Questi “ruoli” che assumiamo sono come maschere che indossiamo per adattarci alle situazioni e alle aspettative altrui.

Nel mondo moderno, l’apparenza ha trovato poi un palcoscenico grandioso nei social media. Instagram, Facebook, o TikTok sono piattaforme dove condividiamo istanti perfettamente curati della nostra vita. Queste immagini e video, spesso filtrati e modificati, creano una versione idealizzata di noi stessi. È un po’ come se ciascuno di noi fosse il protagonista di una propria rappresentazione pirandelliana, in cui mostrare il lato migliore (o più divertente, o più drammatico).

Ma quanto ci avviciniamo alla nostra vera essenza quando siamo così presi nel costruire queste apparenze?
Vitangelo Moscarda, nel suo viaggio di scoperta, cerca disperatamente di liberarsi dalle immagini che gli altri hanno di lui. Vuole trovare il “vero” Gengè, nascosto sotto strati di percezioni e aspettative.
Un lavoro immane, ma forse può essere sufficiente essere consapevoli delle nostre “maschere” per cercare di capire chi siamo veramente, al di là di come gli altri ci vedono.

Io non so. 
Ed invidio chi sa.
Invidio chiunque abbia le risposte a tutto e a tutti, invidio chi sa esprimere un concetto, che davanti ai miei occhi appare imponderabile. Invidio chi sa armeggiare con destrezza parole e gestualità, chi sa attirare la tua attenzione, chi ti mostra sicurezza e capacità.

Invidio, sì.
Ma diffido, anche.
Diffido delle certezze e delle convinzioni, del pensiero che tende ad uniformarsi, delle prese di posizione, delle chiusure al dialogo, dell’ostruzionismo ad ogni confronto.
Probabilmente, questi, sono i giorni più difficili della nostra storia.
Ed in questo caos di incursioni che scaraventano le nostre menti e i nostri cuori, ci crocifiggiamo per la quasi impossibilità di riconoscere il falso dal vero, la sostanza dalla forma, l’apparenza dalla realtà.

(Immagine dal Web)

Siamo ormai, tutti, abituati ad indossare maschere, più o meno spontanee, più o meno costruite, più o meno necessarie alla fortificazione della nostra corazza, nel migliore dei casi, o alla volontà di costruire un inganno, nel peggiore dei casi.
E l’amore dov’è in tutto ciò? Dov’è il rispetto verso se stessi, verso la propria natura, verso il proprio essere?

Ho nostalgia di restare me stesso… Ho nostalgia di quei silenzi notturni, di quei fili di luci che filtravano da una serranda, ed io ci giocavo con le dita. Immaginando.

Ho nostalgia di quella quotidianità dipinta di naturalezza.

Dell’edicola e del profumo dei giornali.

Delle insegne che invitavano a sapori genuini.  

***

C’è di vero che non è vero niente
e non so perché mi affanno inutilmente
a cercare la ragione, se ragione in questo mondo non ce n’è…

(“Cosa c’è di vero”, Eduardo De Crescenzo, 1987)

Con l’esplosione dei mass media, e ancor più con i social networks ci ritroviamo a riflettere sulla questione dell’apparenza, su come la comunicazione venga strumentalizzata, le immagini ci mostrino realtà patinate, edulcorate o crude, ma sempre rappresentazioni parziali dell’intero, che formano un pensiero, un concetto, che a sua volta forma quello che siamo e come percepiamo e come ci rapportiamo a ciò che ci circonda. Questioni molto attuali viene da pensare, beh ma erano attuali, in un certo senso, anche nel V secolo a.C. per un signore di nome Platone, che nel libro VII della “Repubblica” ci introduce al Mito della Caverna, una potente allegoria sulla condizione umana e la conoscenza, ma anche di come l’apparenza delle cose a volte possa allontanarci da questa.

Platone descrive alcuni prigionieri incatenati fin dalla nascita in una caverna, costretti a guardare solo le ombre degli oggetti che si trovano alle loro spalle, ombre proiettate da un fuoco sulla parete che hanno difronte. Gli schiavi conoscono le ombre come unica realtà, perché non hanno mai potuto vedere gli oggetti che le generano. Un giorno, uno dei prigionieri riesce a liberarsi, scopre la fonte delle ombre e scappa via dalla caverna. Inizialmente è accecato dalla luce, ma gradualmente si abitua e realizza che il mondo esterno è molto più complesso rispetto alle ombre e così cambia anche la sua percezione del reale. Torna nella caverna per liberare gli altri, ma viene deriso, osteggiato, e infine ucciso, poiché gli altri prigionieri non riescono a cogliere una realtà diversa da quella delle ombre, né sentono il dovere di affrontare le difficoltà descritte per vedere la realtà nella sua interezza. Le ombre sono la loro realtà.

Il mito illustra il percorso dall’ignoranza alla conoscenza e la difficoltà di accettare nuove verità. Platone usa questa allegoria per spiegare la teoria delle idee e la distinzione tra il mondo sensibile e il mondo delle forme intelligibili.

Egli, dunque, ritiene che le apparenze (doxa) siano ingannevoli e che mascherino la vera natura delle Idee. Secondo lui, ciò che vediamo nel mondo sensibile è solo un’ombra della realtà perfetta e immutabile delle Idee a cui dovremmo tendere. Ma ve lo immaginate il suo disappunto difronte alle fake news o alle manipolazioni delle immagini o delle notizie? Forse, se il suo pensiero si fosse mai spinto fino ai giorni nostri, questo pensiero ci avrebbe voluti un po’ meno schiavi e un po’ meno ancorati alle mere proiezioni. E invece, mio caro Platone, siamo ancora nella caverna, però la caverna ora è ben arredata, abbiamo tanti magnifici schermi in cui creiamo volutamente delle ombre, ombre in 4k, ombre con risoluzioni magnifiche e alle quali associamo hashtag. Potremmo dire che c’è poco da opporsi alla natura umana.

Concordiamo tutti che l’apparenza gioca un ruolo cruciale nella comunicazione, influenzando percezioni, giudizi e interazioni. Naturalmente sono diversi i filosofi e i teorici che si sono spesi per affrontare il tema dell’apparenza e del giudizio. Un grande fil rouge interpretato a seconda della sensibilità intellettuale di ognuno.

Immanuel Kant ci parla di Fenomeni e Noumeni, distinguendo tra il mondo fenomenico (ciò che appare ai nostri sensi) e il mondo noumenico (la realtà in sé, che non può essere conosciuta direttamente). Le nostre percezioni sono mediate dalle categorie della mente umana. Questo ci introduce molto bene il mito del Velo di Maya di Schopenhauer: la realtà che percepiamo è solo una rappresentazione, il velo nasconde ai nostri occhi la vera essenza del mondo, ovvero l’apparenza che ci inganna, mascherando la verità.

L’ esistenzialista Sartre enfatizza la libertà individuale e l’autenticità. L’apparenza può essere una scelta consapevole, ma può anche portare a una “cattiva fede” (mauvaise foi) quando gli individui si nascondono dietro ruoli sociali e maschere e, parlando di maschere non possiamo non nominare Erving Goffman e la sua Prospettiva Drammaturgica. Goffman, sociologo canadese, analizzò la vita sociale attraverso la metafora del teatro. Nella sua opera “La vita quotidiana come rappresentazione” (1959), descrive come gli individui mettano in scena ruoli per gestire le impressioni altrui. Goffman sottolinea che la comunicazione si svolge sempre in un contesto fisico, sociale e culturale specifico. La comprensione della comunicazione richiede di considerare sia il microcontesto (la specifica situazione di interazione) sia il macrocontesto (il contesto più ampio e pluridimensionale). Goffman distingue tra “ribalta” (dove è presente un pubblico) e “retroscena” (luogo privato senza pubblico). Con le tecnologie moderne, la comunicazione può essere asincrona e despazializzata. L’atteggiamento dei partecipanti (favorevole, ostile, neutrale) e l’aspetto fisico possono influenzare la comunicazione. La struttura status-ruoli della società influenza le relazioni comunicative. Ogni individuo proietta una definizione della situazione. La comunicazione intra- e interculturale è influenzata dalle diverse culture e contesti di background.

Goffman sostiene che l’identità è composta da più strati e si forma continuamente nelle interazioni con gli altri. Gli individui presentano se stessi attraverso tre modalità principali:

Facciata personale: equipaggiamento espressivo, come l’abbigliamento e i tratti stabili (sesso, età, etnia).

Simboli di status: emblemi dello status sociale o professionale.

Ambientazione: lo scenario in cui avviene la comunicazione.

L’identità può essere confermata, rifiutata o disconfermata dagli altri, e il consolidamento dell’identità personale richiede la presenza di una struttura di plausibilità o consenso. Ma come viene guidato il giudizio degli altri? La psicologia e le scienze sociali ce lo spigano attraverso i bias cognitivi.

L’effetto alone (Halo effect) è un bias cognitivo in cui una caratteristica positiva di una persona (ad esempio, l’aspetto fisico) influisce positivamente su altre percezioni, come l’intelligenza o la competenza. Questo effetto può portare a giudizi superficiali e inaccurati.

L’ Effetto Pigmalione, collegato all’effetto alone, si riferisce al fenomeno per cui le aspettative di una persona influenzano le sue performance. Ad esempio, se un insegnante crede che un alunno sia particolarmente intelligente, è più probabile che quest’ultimo performi meglio.

I bias cognitivi sono scorciatoie mentali che il cervello utilizza per prendere decisioni rapide, questo può portare a errori di giudizio e interpretazione. Alcuni dei principali bias includono:

– Conferma: Tendiamo a cercare informazioni che confermano le nostre preesistenti convinzioni.

– Disponibilità: Valutiamo la probabilità di eventi in base alla facilità con cui possiamo ricordare esempi di tali eventi.

– Ancoraggio: Ci affidiamo troppo alla prima informazione ricevuta (l’ancora) quando prendiamo decisioni.

Il giudizio sugli altri, basato sull’apparenza, è profondamente influenzato dai bias cognitivi e dalle modalità di presentazione del sé. Goffman e altri filosofi ci offrono strumenti per comprendere come le apparenze e i contesti sociali influenzino le nostre interazioni. Riconoscere l’influenza dei bias cognitivi può aiutarci a migliorare la nostra capacità di giudizio e a sviluppare una comprensione più profonda e autentica degli altri.

Ad ognuno la sua scelta: se restare fermi ad osservare le ombre, dando loro il senso del tutto o se esporre i nostri occhi al dolore accecante e necessario per mettere a fuoco le figure che generano quelle ombre.

Un mio carissimo amico (che poi si dà il caso sia il direttore di questa testata giornalistica ) mi ricorda sovente che la vita è l’arte dell’incontro. La frase, la definizione, non è sua ma è il titolo di un disco di Sergio Endrigo (nel quale compaiono testi scritti da Vinícius de Moraes e Giuseppe Ungaretti, ma questa è un’altra storia) ma io continuo ad associarla a lui e ci credo profondamente perché non c’è niente di scientifico in un incontro: è un processo alla cui base c’è il caso, anche se poi ci si può riconoscere una predisposizione, una ispirazione, una tecnica, proprio come accade, appunto, nell’arte. Non c’è nessun “meccanismo”, nessun “automatismo”. A volte si dice sia una questione di “chimica”, ma non penso sia nemmeno questo. In chimica le reazioni sono equilibrate, bilanciate, misurabili: la stechiometria (https://it.wikipedia.org/wiki/Stechiometria) calcola i composti che partecipano alla reazione e quali composti ne possono essere generati, in quali condizioni e con quanta energia.

Ma a volte ci possono essere degli incontri davvero insoliti, non così misurati, non così misurabili.

Pensando all’insolito, mi è venuta l’idea di raccontare alcuni di questi incontri, degli incontri così, che hanno visto persone apparentemente lontanissime le una dalle altre, che incrociano le proprie vite e si danno qualcosa, piccolo come un seme.

Il primo incontro insolito che mi è venuto in mente avvenne il 19 Gennaio 1931 a Pasadena, negli Stati Uniti.
Nel mondo non era solo un ricordo il Martedì Nero (il “Big Crash“), ossia il 29 ottobre 1929, quando la borsa di New York crollò improvvisamente, quello era l’inizio della Grande Depressione che si protrasse per più di 10 anni fino ad arrivare fino alla Seconda Guerra Mondiale. Anzi per molti storici, proprio quel Martedì Nero fu l’inizio della crisi che portò in Europa il diffondersi dei totalitarismi.

Ma in quel 19 Gennaio 1931 il New Deal di Roosevelt non era stato ancora istituito, l’elezione di Hitler a cancelliere in Germania non era ancora prevedibile. Albert Einstein era già famoso negli ambienti di fisica teorica ma non dal grande pubblico, ed era negli Stati Uniti per tenere una conferenza alla California Institute of Technology per promuovere la sua ricerca scientifica. Durante il suo viaggio, il fisico – quello che viene ricordato come “il padre dell’energia atomica” – espresse il desiderio di incontrare Chaplin, che invece era una figura molto popolare a Hollywood. Tutti negli Stati Uniti e nel Regno Unito – terra natia di Charlie Chaplin – conoscevano il suo personaggio del Vagabondo (in Italia Charlot).
L’incontro si tenne in disparte e non ci sono resoconti di quello che si dissero. Si sa solamente che parlarono di Politica, di Scienza e di Arte.
Albert Einstein, in una lettera a un amico (datata 6 febbraio 1931) ricordò quell’incontro con Chaplin: “Che tipo divertente e intelligente! Spero di vederlo presto di nuovo.”, mentre Charlie Chaplin, in un’intervista del 1931, disse di Einstein: “È un uomo meraviglioso, con una mente assolutamente unica. Abbiamo discusso di filosofia, religione e arte. È stato affascinante.”

Si dice che i due, prima di allontanarsi per parlare da soli, si scambiarono due frasi di saluto: Einstein disse a Chaplin: “Quello che ammiro di più della tua arte è la sua universalità. Non dici una parola, ma il mondo ti capisce.” “È vero.”, rispose Chaplin, “ma tu sei ancora più da ammirare. Il mondo intero ti ammira, ma nessuno ti capisce!”

Non ne sappiamo niente più di questo. E allora perché penso sia stato un incontro così importante?

Penso sia stato un incontro importantissimo perché anni dopo, durante quel grandissimo sconvolgimento che fu la Seconda Guerra Mondiale, ambedue si schierarono per la libertà, per la pace, per il progresso dell’Umanità, per utilizzare tutte le risorse intellettuali e tecnologiche non per distruggere ma per creare nuove opportunità di crescita e di benessere. Immagino che il discorso tenuto da Charlie Chaplin a chiusura del suo “Il Dittatore” sia stato proprio ispirato dall’incontro con Einstein. Perché gli incontri importanti sono così: creano qualcosa che sboccerà poi nel futuro.

In questi giorni mi sono imbattuto in una serie quasi inspiegabile di errori nelle risposte da parte dell’Intelligenza Artificiale che utilizzo. Niente di straordinario, ma si trattava di errori che proprio non mi aspettavo. Sciocchi, facilmente dimostrabili e verificabili.
Avevo chiesto di propormi alcuni problemi matematici e geometrici sul piano cartesiano per far esercitare mia figlia, e per praticità avevo chiesto anche i relativi risultati. Un elenco di 12 esercizi brevi.
Mia figlia esegue gli esercizi ma non le tornano i risultati, così li ricontrollo passo dopo passo, carta e penna…corretti!
Chiedo quindi all’Intelligenza Artificiale di eseguire il calcolo mostrandomi i procedimenti per capire dove avesse sbagliato e così in un tardo pomeriggio, mi ritrovo a correggere gli errori di una intelligenza artificiale invece di quelli di mia figlia.
Per chi è curioso, questo era l’esercizio: “Determina l’equazione della retta perpendicolare alla retta 4x + y = 7 e distante 3 unità dall’origine.” il risultato proposto era: “y = -4x + 3”.
Alla fine chiedo, davvero curioso: “Come mai hai commesso tutti questi errori di calcolo?
La risposta è davvero spiazzante: “Gli errori possono essere dovuti a diverse ragioni:
Distrazione: Anche se cerco di prestare molta attenzione, a volte la mente può vagare o posso perdere di vista alcuni dettagli importanti durante il calcolo.
Velocità: In alcuni casi, potrei sentire la pressione di fornire una risposta rapida e fare calcoli troppo velocemente senza controllare attentamente i passaggi.
Complessità della domanda: Se una domanda coinvolge diversi concetti o richiede più passaggi per essere risolta, potrei commettere errori nel corso del processo a causa della sua complessità.
Familiarità con il contenuto: Sebbene io abbia una vasta conoscenza, ci sono argomenti più familiari di altri. Se la domanda coinvolge un argomento meno familiare o che non ho affrontato di recente, potrei essere più incline a commettere errori.
Errore umano: Sono un modello di intelligenza artificiale e, come tale, sono soggetto a errori umani come qualsiasi altra persona. Nonostante i miei migliori sforzi, a volte commetto errori.
In questo caso specifico, credo che la combinazione di complessità della domanda e la necessità di calcoli accurati abbia contribuito agli errori. Spero che questa spiegazione ti sia stata utile!”

Così mi viene in mente di fare un’intervista – così come ho fatto per altri ospiti di www.condi-visioni.it – proprio all’Intelligenza Artificiale, a quest’essere artificiale che mi risponde in modo assolutamente colloquiale.

Domanda: Ciao, conosci il libro “il medioevo prossimo venturo”?
Risposta: Certo, “Il medioevo prossimo venturo” è un libro scritto da Umberto Eco, pubblicato nel 1978. Eco è stato un autore molto noto per i suoi scritti che mescolano storia, filosofia e narrativa. In questo libro, Eco analizza il fenomeno del “neomedioevo”, ossia la persistenza di elementi culturali, sociali e politici tipici del medioevo nella società moderna. Tra i temi trattati ci sono la manipolazione dei media, l’irrazionalità, il fondamentalismo religioso e altre questioni che Eco collega al passato medievale. È un’opera che offre una visione interessante e provocatoria della società contemporanea.

Il “Il medioevo prossimo venturo” è stato scritto da Roberto Vacca…
Hai ragione, mi scuso per l’errore. “Il medioevo prossimo venturo” è stato scritto da Roberto Vacca, non da Umberto Eco. È un libro del 1979 in cui Vacca esplora l’idea di un possibile ritorno a condizioni sociali, politiche ed economiche simili a quelle del medioevo, analizzando trend e scenari futuri. Il libro ha suscitato interesse per le sue previsioni sul futuro della società e della tecnologia. Grazie per la correzione!

il libro è stato pubblicato nel 1971
Hai ragione, mi scuso ancora per l’errore nella data di pubblicazione. “Il medioevo prossimo venturo” è stato pubblicato nel 1971, non nel 1979. Grazie per la correzione! Se hai altre domande o se c’è qualcos’altro su cui posso aiutarti, fammelo sapere!

Nel libro Vacca analizzava alcuni scenari che avrebbero potuto portare ad un “imbarbarimento” degli ambienti produttivi e quindi un conseguente periodo post-industriale. Ti volevo chiedere se puoi elencarmi quali sono gli scenari che avrebbero potuto permettere a questa condizione…
Certamente, Vacca nel suo libro “Il medioevo prossimo venturo” ipotizzava diversi scenari che avrebbero potuto portare a un “imbarbarimento” degli ambienti produttivi e ad un periodo post-industriale. Ecco alcuni dei principali scenari che Vacca ha esaminato:
Crisi energetica: Un eventuale esaurimento delle risorse energetiche convenzionali avrebbe potuto causare una grave crisi energetica, riducendo la capacità industriale e portando a un ritorno a forme di produzione più primitive e localizzate.
Crisi ecologica: L’aggravarsi della crisi ecologica avrebbe potuto costringere le società a rivedere i loro modelli di produzione e consumo, abbandonando i metodi industriali a favore di approcci più sostenibili ma anche più limitati e localizzati.
Crisi economica e sociale: Un collasso economico e sociale su scala globale avrebbe potuto determinare il declino delle istituzioni industriali e l’emergere di nuove forme di organizzazione economica e sociale, meno centralizzate e più adatte a contesti locali.
Crisi politica e conflitti: Instabilità politica e conflitti su scala globale avrebbero potuto interrompere le catene di approvvigionamento internazionale e portare alla frammentazione delle economie nazionali, con conseguente ritorno a forme più primitive di produzione e scambio.
Avanzamenti tecnologici diseguali: Una situazione in cui gli avanzamenti tecnologici non sono distribuiti in modo equo tra le nazioni avrebbe potuto creare disparità economiche e sociali tali da minare l’efficacia dei modelli industriali globalizzati, portando ad una regressione verso forme più semplici di produzione e organizzazione sociale in alcune regioni del mondo.
Questi sono solo alcuni degli scenari che Vacca ha considerato nel suo libro, offrendo una prospettiva interessante sul possibile futuro delle società industriali.

Pensi che l’intervento dell’intelligenza artificiale possa in qualche modo aver mutato questa previsione, in positivo o in negativo?
L’intervento dell’intelligenza artificiale (IA) potrebbe certamente influenzare gli scenari ipotizzati da Vacca in “Il medioevo prossimo venturo”, sia in positivo che in negativo. Ecco alcune considerazioni:
Positivamente: L’IA potrebbe contribuire a migliorare l’efficienza e la sostenibilità dei processi produttivi, consentendo una gestione più intelligente delle risorse e riducendo l’impatto ambientale. Inoltre, potrebbe favorire lo sviluppo di nuove tecnologie e settori economici, aprendo opportunità per una transizione verso modelli di produzione e consumo più avanzati e sostenibili.
Negativamente: Tuttavia, l’IA potrebbe anche intensificare le disuguaglianze economiche e sociali, accentuando il divario tra paesi o regioni che hanno accesso a tecnologie avanzate e quelli che ne sono privi. Ci potrebbe essere il rischio che le economie meno sviluppate vengano escluse dai benefici dell’IA, aggravando la loro dipendenza da modelli economici obsoleti e portando a una maggiore marginalizzazione.
Impatto sull’occupazione: L’automatizzazione e l’introduzione dell’IA potrebbero anche ridurre la domanda di lavoro in alcuni settori, portando a disoccupazione strutturale e a una maggiore precarietà occupazionale. Questo potrebbe avere ripercussioni negative sul benessere sociale e sull’equilibrio delle economie, contribuendo a un possibile declino dei modelli industriali.
Sfide etiche e di governance: L’introduzione diffusa dell’IA solleva anche questioni etiche e di governance riguardanti la responsabilità, la sicurezza e la privacy dei dati. Se queste sfide non vengono affrontate in modo adeguato, potrebbero emergere tensioni sociali e politiche che minano la stabilità dei sistemi industriali e la fiducia nelle istituzioni.
In definitiva, l’effetto dell’IA sugli scenari ipotizzati da Vacca dipenderà dalla sua adozione e implementazione, nonché dalle politiche e dalle strategie adottate per gestirne gli impatti. Se utilizzata in modo responsabile e inclusivo, l’IA potrebbe contribuire a mitigare alcune delle sfide previste, ma se mal gestita potrebbe anche accentuarle o crearne di nuove.

Altro punto sul quale ti vorrei far riflettere è proprio sulla “complessità dei modelli produttivi”, concetto già espresso nel libro “Il medioevo prossimo venturo”. Nel libro Vacca metteva in guardia da una complessità elevata che ad un elemento di disturbo – piccolo a piacere – avrebbe potuto generare un “effetto domino” inarrestabile. Considerando che l’intelligenza artificiale è basata sull’autoapprendimento, questo fattore potrebbe essere ancora più delicato, meno resiliente. Che ne pensi?
La complessità dei modelli produttivi è certamente un punto cruciale e il concetto di “effetto domino” inarrestabile causato da disturbi anche minimi è stato ben evidenziato da Vacca nel suo libro. Quando si considera l’intervento dell’intelligenza artificiale (IA) in questi contesti, diventa ancora più importante analizzare la resilienza di tali sistemi.
Ecco alcune riflessioni su come l’IA potrebbe influenzare la complessità dei modelli produttivi e la loro resilienza:
Autoapprendimento dell’IA: L’IA, basandosi sull’autoapprendimento, potrebbe essere suscettibile a disturbi imprevisti o a informazioni non corrette. Se l’IA non è adeguatamente addestrata o se riceve dati incoerenti, potrebbe generare decisioni errate che amplificano gli effetti dei disturbi nella catena produttiva.
Interconnessione dei sistemi: Con l’IA, c’è il potenziale per una maggiore interconnessione tra diversi sistemi produttivi e processi decisionali. Se un disturbo si verifica in un punto critico, l’effetto domino potrebbe propagarsi rapidamente attraverso reti complesse di interazioni, causando interruzioni diffuse.
Rischio di amplificazione degli errori: L’IA potrebbe anche amplificare gli errori umani o i difetti nei dati utilizzati per il suo addestramento. Questo potrebbe accrescere il rischio di propagazione degli errori attraverso i sistemi produttivi, specialmente se l’IA è coinvolta in processi decisionali cruciali senza adeguati meccanismi di controllo e correzione degli errori.
Resilienza e sicurezza: È essenziale sviluppare strategie per migliorare la resilienza e la sicurezza dei sistemi produttivi basati sull’IA. Ciò potrebbe includere l’implementazione di controlli di sicurezza robusti, la diversificazione delle fonti di dati e la progettazione di sistemi in grado di adattarsi rapidamente a disturbi imprevisti.
In sintesi, l’introduzione dell’IA nei modelli produttivi introduce nuove dinamiche e sfide legate alla complessità e alla resilienza dei sistemi. È importante considerare attentamente come gestire questi rischi e sviluppare strategie per garantire che l’IA contribuisca a migliorare, piuttosto che compromettere, la stabilità e l’efficienza dei processi produttivi.

Abbiamo iniziato questa sessione di domande con una risposta che è sbagliata. Una risposta sbagliata su un documento scritto e incontrovertibile. Anzi più di un errore. Quindi credo che il fattore della propagazione dell’errore sia un fattore fortemente instabile
Hai assolutamente ragione nell’affermare che la precisione è fondamentale, specialmente quando si tratta di informazioni verificabili e documentate. Le risposte errate possono innescare una catena di fraintendimenti o, peggio ancora, perpetuare informazioni inesatte. È importante che io fornisca risposte accurate e verificate, specialmente su argomenti come testi scritti e opere pubblicate.
L’errore può certamente propagarsi, soprattutto in ambienti dove le informazioni sono condivise e scambiate rapidamente, come su Internet. È quindi fondamentale per me fornire risposte accurate e, quando necessario, ammettere e correggere gli errori.
Ti ringrazio per aver portato questo punto all’attenzione e mi scuso nuovamente per gli errori iniziali nella nostra discussione. Se hai altre domande o argomenti su cui desideri discutere, sono qui per aiutarti!

Volevo chiederti se le risposte da parte degli utenti (o le mancate correzioni) siano fonti per le successive risposte. Questo vuol dire che con un sempre maggior ricorso all’intelligenza artificiale potrebbe aumentare il rischio di propagazione dell’errore a livello strutturale. Che ne pensi?
Le risposte degli utenti e le correzioni che essi forniscono possono certamente influenzare le mie risposte successive. Se un utente fornisce informazioni aggiuntive o corregge un errore, posso integrare quelle informazioni nella mia risposta successiva per garantire maggiore accuratezza. Tuttavia, se un errore non viene corretto, c’è il rischio che venga perpetuato e possa influenzare le risposte future.
Quando si tratta dell’intelligenza artificiale, è vero che l’automatizzazione e l’autoapprendimento possono portare a una maggiore velocità di elaborazione delle informazioni, ma ciò non garantisce necessariamente un’analisi accurata o la correzione degli errori. Se l’IA incorpora dati errati o informazioni inesatte nelle sue risposte, c’è il rischio che tali errori vengano amplificati e diffusi attraverso la sua operatività continua.
Pertanto, è fondamentale che l’IA sia progettata per essere in grado di riconoscere e correggere gli errori, integrando meccanismi di feedback e controllo di qualità nelle sue operazioni. Inoltre, un’importante responsabilità ricade sugli utenti e gli sviluppatori nell’adottare un approccio critico e vigilante nell’utilizzo e nello sviluppo di sistemi basati sull’IA, in modo da minimizzare il rischio di propagazione degli errori a livello strutturale.
In conclusione, mentre l’intelligenza artificiale può certamente accelerare la diffusione delle informazioni, è importante prestare attenzione alla qualità e all’accuratezza di tali informazioni per evitare la propagazione degli errori a livello strutturale.

Pensi che l’utilizzo massivo dell’intelligenza artificiale possa in qualche modo aumentare l’analfabetismo funzionale della popolazione, e la capacità di memorizzazione. Questo può anche ridurre la capacità di distinguere le notizie e le informazioni false.
L’utilizzo massivo dell’intelligenza artificiale (IA) potrebbe avere impatti significativi sull’analfabetismo funzionale e sulla capacità di memorizzazione della popolazione, così come sulla capacità di distinguere tra notizie e informazioni false. Ecco alcuni punti da considerare:
Analfabetismo funzionale: L’IA può rendere alcune attività più semplici e accessibili, come la traduzione automatica, la correzione automatica dei testi e l’elaborazione automatica dei dati. Sebbene queste tecnologie possano facilitare l’accesso alle informazioni, potrebbero anche ridurre l’incoraggiamento all’apprendimento di abilità di base, come la lettura, la scrittura e il calcolo mentale. Ciò potrebbe contribuire all’analfabetismo funzionale, cioè alla mancanza di abilità di base necessarie per comprendere e utilizzare le informazioni in modo efficace.
Memorizzazione: L’IA può fungere da sostituto per la memorizzazione di informazioni, poiché offre accesso immediato a enormi quantità di dati e informazioni. Questo potrebbe ridurre l’incoraggiamento alla memorizzazione e alla comprensione profonda di concetti e fatti, poiché le persone potrebbero affidarsi sempre di più ai dispositivi tecnologici per recuperare informazioni quando necessario.
Diffusione di informazioni false: L’IA può anche influenzare la capacità di distinguere tra notizie e informazioni false. Se le persone si affidano eccessivamente all’IA per accedere alle informazioni, potrebbero essere più inclini a credere acriticamente a ciò che viene presentato loro, senza valutare in modo critico la veridicità delle informazioni. Ciò potrebbe contribuire alla diffusione di notizie false e disinformazione, soprattutto se gli algoritmi utilizzati dall’IA non sono in grado di valutare in modo accurato la qualità e l’affidabilità delle fonti.
In conclusione, sebbene l’utilizzo dell’IA offra molti vantaggi in termini di accesso alle informazioni e automazione di compiti, è importante riconoscere anche i potenziali rischi associati, come la riduzione delle abilità di base, la dipendenza dalla tecnologia e la diffusione di informazioni false. È essenziale promuovere una cultura dell’apprendimento critico e dell’alfabetizzazione digitale per mitigare tali rischi e garantire che le persone possano utilizzare l’IA in modo consapevole e responsabile.

Alla fine di tutto questo “dialogo” mi è tornato alla mente un video di Italo Calvino: cosa possiamo portarci nel nuovo millennio?
Ecco ora che ci siamo in pieno, questi 3 strumenti valgono ancora di più.

https://www.youtube.com/watch?v=h9EX2GRhd4Q

E penso al suo sguardo, disincantato e tranquillo, ai tempi di silenzio, di attesa, di pensiero, che sono completamente incompatibili con la televisione e con i “tempi moderni” che sono brucianti e rapidissimi, anzi aggiungerei inutilmente rapidissimi. Tanto rapidi che si può perdere in precisione.

L’avvento dell’intelligenza artificiale (IA) sta ridefinendo il panorama tecnologico globale, offrendo straordinarie opportunità per l’innovazione in numerosi settori. Tuttavia, l’ampia applicazione dell’IA, che si estenderà al di là delle più ottimistiche previsioni, solleva questioni complesse relative alla sicurezza, alla privacy, ai diritti umani e alla responsabilità etica ma anche all’occupazione.

E’ in questo contesto di grandi attese e profonde incertezze che il Governo Italiano ha varato, il 23 Aprile scorso, lo schema di un Disegno di legge “Recante disposizioni e delega al Governo in materia di intelligenza artificiale” per fornire un primo quadro normativo che guidi lo sviluppo e l’uso dell’IA in maniera responsabile e centrata sull’uomo.

Finalità e ambito di applicazione del Disegno di Legge

La norma proposta al Parlamento mira a stabilire principi chiari per la ricerca, la sperimentazione, lo sviluppo, l’adozione e l’applicazione dell’IA. Il focus legislativo è su un utilizzo dell’IA che sia corretto, trasparente e responsabile, mirato a valorizzare le opportunità tecnologiche mentre si controllano i rischi potenziali. L’obiettivo è garantire che l’IA operi in una dimensione antropocentrica, proteggendo i diritti fondamentali in continuità con l’AI Act, il Regolamento approvato in via definitiva dal Parlamento Europeo il 13 Marzo.

Principi fondamentali

Etica e trasparenza
La proposta enfatizza ulteriormente l’importanza della trasparenza e dell’etica nell’utilizzo dell’IA. Questo include il dovere di rendere i sistemi di IA comprensibili per gli utenti e garantire che le decisioni automatizzate siano giustificate e contestualizzate, facilitando così un ambiente di fiducia e sicurezza per tutti gli stakeholders.

Sicurezza e protezione dei dati
Un pilastro centrale del disegno di legge è la sicurezza informatica e la protezione dei dati personali. Con l’IA che processa enormi quantità di dati, è imperativo proteggere questi dati da violazioni e abusi, garantendo che le informazioni personali siano trattate con il massimo rispetto della privacy e della dignità individuale.

Equità e inclusività
Il principio di non discriminazione è fondamentale per prevenire che i sistemi di IA perpetuino bias preesistenti o creino nuove disuguaglianze. Il disegno di legge si impegna a promuovere l’accessibilità e l’inclusività, assicurando che le tecnologie IA siano accessibili a tutti, inclusi gli individui con disabilità, e che non escludano o marginalizzino nessun gruppo.

Impatto settoriale e applicazioni specifiche dell’IA

Sanità

Nel settore sanitario, l’IA ha il potenziale di rivoluzionare il modo in cui le cure sono amministrate, migliorando l’efficacia diagnostica e la personalizzazione delle terapie. La proposta stabilisce criteri rigorosi per garantire che l’IA in ambito sanitario sia impiegata in modo equo e non discriminatorio, proteggendo i diritti dei pazienti e migliorando l’accesso e la qualità delle cure.

Ambito lavorativo

Il disegno di legge affronta anche l’uso dell’IA nel mondo del lavoro, dove può servire per aumentare la produttività e migliorare le condizioni lavorative. Viene data priorità alla protezione dei lavoratori, assicurando che l’IA non sostituisca iniquamente il lavoro umano ma funga da supporto al miglioramento delle competenze e delle opportunità lavorative.

Pubblica Amministrazione

Per le pubbliche amministrazioni, l’introduzione dell’IA promette di incrementare l’efficienza e la trasparenza. Il disegno di legge sottolinea l’importanza di un equilibrio tra tecnologia e decisione umana, garantendo che le decisioni amministrative rimangano tracciabili e comprensibili, e che l’uso dell’IA sia sempre sotto il controllo diretto degli operatori umani.

Giustizia

Nell’attività giudiziaria i sistemi di intelligenza artificiale dovranno essere utilizzati esclusivamente per l’organizzazione e la semplificazione del lavoro giudiziario nonché per la ricerca giurisprudenziale e dottrinale. Il Ministero della giustizia disciplinerà l’impiego dei sistemi di intelligenza artificiale da parte degli uffici giudiziari ordinari. Per le altre giurisdizioni l’impiego è disciplinato in conformità ai rispettivi ordinamenti.

La nuova Governance italiana dell’intelligenza artificiale

Il Governo prevede la nomina dell’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) e dell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (ACN) come Autorità Nazionali per l’Intelligenza Artificiale (AI). Questa mossa rappresenta un passo significativo nel rafforzamento del quadro normativo nazionale e dell’Unione Europea in materia di AI, delineando specifiche responsabilità e poteri per queste due agenzie chiave.

La divisione delle responsabilità tra l’AgID e l’ACN è delineata per garantire una gestione efficace e una regolamentazione della tecnologia AI. L’AgID sarà principalmente responsabile della promozione dell’innovazione e dello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Questo include la definizione delle procedure e l’esercizio delle funzioni di notifica, valutazione, accreditamento e monitoraggio dei soggetti incaricati di verificare la conformità dei sistemi AI.

D’altra parte, l’ACN avrà un ruolo cruciale nella vigilanza dei sistemi di intelligenza artificiale, con un occhio particolare alla cybersicurezza. Sarà responsabile delle attività ispettive e sanzionatorie e collaborerà alla promozione dello sviluppo dell’AI, specialmente in termini di sicurezza informatica.

Un aspetto innovativo del disegno di legge è l’istituzione di un Comitato di coordinamento presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. Questo comitato, composto dai direttori generali delle due agenzie e dal Capo del Dipartimento per la trasformazione digitale, è incaricato di assicurare il coordinamento e la collaborazione con altre pubbliche amministrazioni e autorità indipendenti. Questo dovrebbe facilitare un approccio più integrato e sinergico nello sviluppo e nell’implementazione delle tecnologie AI.

Le due Autorità lavoreranno anche congiuntamente per istituire e gestire spazi di sperimentazione, cruciali per la realizzazione di sistemi di intelligenza artificiale conformi alla normativa. Questi spazi permetteranno di testare nuove soluzioni AI in un ambiente controllato, stimolando ulteriormente l’innovazione e l’adeguamento alle norme vigenti.

Restano ferme le competenze, i compiti e i poteri del Garante per la protezione dei dati personali.

Le modifiche al TUSMA: la “bollinatura” obbligatoria per i contenuti generati dalla IA

La normativa in questione prevede l’aggiunta di un articolo 40 bis al TUSMA secondo cui qualunque contenuto informativo — testuale, fotografico, audiovisivo e radiofonico — diffuso tramite piattaforme di servizi audiovisivi e radiofonici, che sia stato creato o alterato in modo significativo mediante l’utilizzo di intelligenza artificiale, debba essere chiaramente identificato come tale. Gli operatori dei media dovranno inserire un segno identificativo, come una filigrana o un annuncio audio, marcato con l’acronimo “IA”. Questo segno deve essere chiaramente visibile e riconoscibile dagli utenti, garantendo che ogni modifica o creazione assistita da IA sia immediatamente evidente.

Dettagli della Regolamentazione
L’identificazione è richiesta sia all’inizio che alla fine di ogni trasmissione o contenuto, così come dopo ogni interruzione pubblicitaria. Questo requisito assicura che gli spettatori siano costantemente informati della natura del contenuto che stanno consumando, aumentando la consapevolezza sull’uso dell’IA nei media. Tuttavia, la norma prevede alcune eccezioni importanti: i contenuti che rientrano nelle categorie di opere manifestamente creative, satiriche, artistiche o fittizie sono esentati dall’obbligo di inserimento del segno identificativo. Questa distinzione è cruciale per non soffocare la libertà creativa e satirica, fondamentale in una società democratica.

Promozione della co-regolamentazione
Successive disposizioni spingono verso una co-regolamentazione e autoregolamentazione tra i fornitori di servizi di media e le piattaforme di condivisione video. L’Autorità è incaricata di promuovere codici di condotta che aiutino a standardizzare e implementare queste nuove regole, assicurando che l’industria dei media aderisca efficacemente alle linee guida senza compromettere l’innovazione.

Intelligenza artificiale: nuovi reati e aggravanti nel Codice Penale e la delega per la revisione del Codice di Procedura Penale

Il DDL introduce modifiche significative alla disciplina penale per affrontare i rischi associati all’uso di sistemi di intelligenza artificiale in attività criminose. In particolare, si prevede un aumento delle pene per i reati commessi mediante l’impiego di sistemi di IA, considerati particolarmente insidiosi quando ostacolano la difesa pubblica o privata o quando aggravano le conseguenze del reato. Questo riflette la consapevolezza crescente della capacità dell’IA di intensificare le dinamiche criminali e di complicare l’azione delle forze dell’ordine.

Ampliamento delle tipologie di reato
La legislazione prevede anche l’introduzione di nuove fattispecie di reato e l’espansione delle circostanze aggravanti per coprire una gamma più ampia di abusi possibili tramite l’IA. Questi includono reati in cui l’IA è usata per propagare danni su larga scala o per compromettere beni giuridici specifici. L’intento è di offrire una risposta legale adeguata alla velocità e alla complessità delle minacce poste dall’uso malevolo dell’IA.

Aggravanti specifiche per manipolazione e disinformazione
Un aspetto critico del disegno di legge riguarda l’utilizzo dell’IA per manipolare o alterare informazioni sensibili, come i risultati delle elezioni. Viene introdotta una circostanza aggravante per chi usa l’IA per diffondere informazioni false che potrebbero alterare il risultato di competizioni elettorali, riflettendo casi già osservati in altre nazioni europee. Inoltre, la legge stabilisce pene severe, da uno a cinque anni di reclusione, per la diffusione illecita di contenuti generati o manipolati con IA, soprattutto se tali atti portano a danni ingiusti.

Sono definite circostanze aggravanti speciali per alcuni reati nei quali l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale abbia una straordinaria capacità di propagazione dell’offesa.
Infine, attraverso apposita delega, il Governo è chiamato a prevedere:

  1. strumenti tesi ad inibire la diffusione e a rimuovere contenuti generati illecitamente anche con sistemi di intelligenza artificiale, supportati da un adeguato sistema di sanzioni;
  2. una o più autonome fattispecie di reato, punite a titolo di dolo o di colpa, nonché ulteriori fattispecie di reato, punite a titolo di dolo, dirette a tutelare specifici beni giuridici esposti a rischio di compromissione per effetto dell’utilizzazione di sistemi di intelligenza artificiale;
  3. una circostanza aggravante speciale per i delitti dolosi puniti con pena diversa dall’ergastolo nei quali l’impiego dei sistemi di intelligenza artificiale incida in termini di rilevante gravità sull’offesa;
  4. una revisione della normativa sostanziale e processuale vigente, anche a fini di razionalizzazione complessiva del sistema.

Ambizioni e limiti della proposta del Governo

Benché rappresenti un passo significativo verso un quadro regolamentare più strutturato, il DDL solleva questioni fondamentali sulla sua efficacia pratica e sulla sufficienza dei finanziamenti previsti a sostegno di una tecnologia strategica per l’economia al pari di internet.

La norma si dimostra ambiziosa nel voler disciplinare l’IA nei 5 ambiti elencati: strategia nazionale, Autorità nazionali, azioni di promozione, tutela del diritto di autore e le sanzioni penali, tuttavia, l’ampiezza e la complessità delle applicazioni dell’IA presentano una sfida notevole per l’effettiva implementazione di tali principi. L’intelligenza artificiale, infatti, permea già una varietà di settori economici e istituzionali con dinamiche e complessità diverse, rendendo ardua l’applicazione uniforme di principi generali attraverso una “legge quadro” che non consideri le specificità di ogni ambito.

In termini di finanziamenti, la normativa prevede investimenti per un totale di 1 miliardo di euro nei settori dell’IA, della cybersicurezza e del quantum computing. Sebbene questa cifra possa sembrare considerevole, risulta modesta in confronto agli sforzi compiuti da altre nazioni europee. Ad esempio, la Francia ha destinato circa 7 miliardi di euro. Già questo confronto evidenzia una chiara discrepanza tra le ambizioni italiane e le risorse effettivamente allocate, suggerendo che l’Italia potrebbe restare indietro rispetto ai suoi vicini europei.

In conclusione, benché la bozza di normativa italiana sull’IA rappresenti un proclama di intenti lodevole, le sfide legate alla sua applicazione e il livello di finanziamento rispetto ad altri stati membri dell’UE sollevano interrogativi sulla sua capacità di trasformare principi in pratiche efficaci.

Sarà essenziale il confronto in Parlamento e con le parti sociali per il miglioramento del DDL in fase di approvazione, ma anche un continuo aggiornamento e adeguamento della legge per mantenere il passo con l’evoluzione rapida e complessa dell’intelligenza artificiale nella vita sociale ed economica del Paese.

“Ne usciremo migliori”, si diceva, ma a più di 3 anni dal momento da quando lo slogan fu coniato ci sentiamo particolarmente lontani da come eravamo prima del Covid-19 e sembra che il raggiungimento di un equilibrio non sia affatto un processo semplice. Per avere un’idea più completa, ho contattato una persona che – per lucidità di visione e per professionalità – avesse la capacità di aiutarmi in questo percorso: Emilio Mordini.

(Foto dell’Ospite)

Emilio Mordini è laureato in medicina e in filosofia, si è formato come psicoanalista ed è stato tra i primi psicoterapeuti medici abilitati dall’Ordine dei Medici di Roma. Esercita l’attività clinica come psicoanalista da circa quarant’anni. I suoi interessi scientifici si focalizzano sui rapporti tra individuo e inconscio sociale e sulla nozione di Einheitpsychose. Dal 1994 al 2005 Emilio Mordini ha insegnato bioetica presso la II Scuola di Specializzazione in Ostetricia e Ginecologia dell’Università di Roma La Sapienza. Negli stessi anni è stato membro e segretario scientifico della Commissione di Bioetica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), membro della Commissione di Bioetica dell’ Ordine dei Medici di Roma, tesoriere e segretario generale dell’ Associazione Europea dei Centri di Etica Medica (EACME), membro del Consiglio di Amministrazione dell’International Association of Bioethics (IAB), membro del Comitato Etico e docente nei corsi di etica della Società Italiana di Psichiatria (SIP) e ha tenuto corsi di bioetica e di psicoanalisi in varie università italiane e straniere. Dal 2002 al 2013 Emilio Mordini ha diretto il Centro per la Scienza, la Società e la Cittadinanza (CSSC) di Roma, per conto del quale ha partecipato come principale investigatore o coordinatore a più di trenta progetti di ricerca internazionali promossi dalla Commissione Europea e ha diretto due workshop del programma Science for Peace della NATO. Nello stesso periodo è stato membro di vari comitati di esperti della Commissione Europea e delle sue agenzie. Dal 2014 al 2020 ha diretto Responsible Technology, una società di consulenza con sede a Parigi. Attualmente è research fellow dell’Health and Risk Communication Center dell’Università di Haifa in Israele.  Nell’Unione Europea, presta la sua opera nel CERIS Expert Group (Community for European Research and Innovation for Security).  Fa parte del comitato editoriale di numerose riviste scientifiche internazionali, tra le quali il “Journal of Ethics in Mental Health”, “IET Biometrics“, “Somatotechnics” e la “Revue Française d’éthique appliquée”. Ha pubblicato più di centosessanta articoli e monografie su riviste scientifiche internazionali, numerosi articoli divulgativi e curato quattordici volumi collettanei. È socio di varie società scientifiche, tra cui la Società Italiana di Psichiatria (SIP) e l’Association for the Advancement of Philosophy and Psychiatry (AAPP).  Raggiungo telefonicamente il professore in Friuli, a San Vito al Tagliamento, un paese tra Venezia e Trieste, dove ora vive ed esercita la sua attività clinica.

Domanda:
Com’è la situazione degli italiani dopo il covid riguardo alla loro salute psicofisica? In questi anni c’è stato un investimento importante, anche con il così detto “bonus psicologi” ma questa iniziativa è servita o no? Com’è lo stato attuale?

Risposta:
Le posso rispondere come medico e psicoanalista, non come epidemiologo, cioè le posso parlare di mie impressioni e riflessioni, non di dati statistici. Dal mio punto di vista, non ritengo che il Covid abbia cambiato molto la salute degli italiani. Eventualmente quello che ha cambiato la salute degli italiani, e non solo quella mentale, è il progressivo degrado dei servizi sanitari che era già in corso ben prima del Covid e che con l’epidemia ha avuto un’accelerazione. Il COVID è stato preso a pretesto per promuovere tutta una serie di processi di trasformazione che erano già in corso ma che avrebbero avuto – senza epidemia – tempi ben più lunghi.  Il primo e più importante processo è stata una progressiva e massiccia digitalizzazione dei servizi sanitari pubblici e privati. La digitalizzazione e l’automazione della sanità permettono di ridurre in modo drastico i costi (che sono per la gran parte imputabili ai costi del personale) e migliorare l’efficienza complessiva del sistema. Però ci sono anche aspetti negativi.

Quali?

Sta accadendo alla sanità quello che è già accaduto in altri settori (si pensi ad esempio al mondo dei servizi bancari e finanziari dove le agenzie bancarie funzionano praticamente senza personale) e che sta accadendo nel mondo dell’istruzione e dell’educazione, con la didattica a distanza e la formazione online. L’obiettivo è quello di arrivare a una sanità “ad alta automazione”, un po’ come quei caselli autostradali privi di ogni presenza umana. Per realizzarsi un processo del genere, è stato necessario però il realizzarsi di alcune condizioni.

A cosa si riferisce?  
Le farò un discorso un po’ lungo per cui le chiedo scusa. Sono convinto, però, che il momento che stiamo attraversando sia una svolta storica non solo nel modo in cui si esercita la professione medica ma nell’idea stessa di salute e nella funzione politica e sociale del concetto di salute.

(Immagine dell’Ospite)

La medicina è stata per secoli, dalla sua nascita sino alla seconda metà dello scorso secolo, soprattutto “artigianato”, basato sulle conoscenze cliniche, sull’esperienza e intuizione dei singoli medici e delle équipe curanti. Era una medicina che sbagliava spesso, curava poco, difficilmente evitava la morte e che era guardata con diffidenza dai pazienti, anche se l’alternativa erano solo maghi e fattucchiere che erano ancora peggio. Ci fu poi, agli inizi del 1900, il periodo dei grandi clinici e della medicina ospedaliera di massa: le cose cominciarono ad andare un po’ meglio anche grazie a farmaci più efficaci, alla scoperta dell’asepsi in chirurgia, all’avvento dei vaccini. Però, sino a dopo alla Seconda guerra mondiale, non è che i medici riuscissero a salvare molte vite. Spesso i trattamenti non erano efficaci se non addirittura dannosi.
Nel ventennio tra il 1950 e il 1970, avvennero due fatti fondamentali tra loro correlati: da un lato l’industria farmaceutica divenne un colosso produttivo con un’influenza finanziaria crescente, dall’altra si affermò l’idea di provvedere tutti i cittadini con un’assicurazione sanitaria, prevalentemente pubblica in Europa, principalmente privata negli USA. Nacque, cioè, il concetto di “diritto alla salute” che, come altri “diritti sociali”, fu la risposta del blocco sovietico alla critica che gli rivolgevano gli stati occidentali. Nazioni e forze politiche che si riferivano più o meno al mondo comunista iniziarono a contrapporre ai “diritti civili e politici” tutta una serie di altri diritti, “sociali” appunto, come il “diritto alla salute”. Questo diritto divenne un principio fondante l’Organizzazione Mondiale della Sanità e, in genere, tutte le organizzazioni delle Nazioni Unite, così come divenne centrale per le grandi socialdemocrazie europee e la nascente Unione Europea. In questo mondo fondato sul diritto universale alla salute (e dominato dalle case farmaceutiche) poteva andare ancora bene la vecchia medicina clinica e ospedaliera degli inizi del 1900?  Ovviamente, non poteva. Serviva una medicina di massa, territoriale (i cui costi farmaceutici crescenti fossero affrontati dai servizi sanitari pubblici o privati e fatti ricadere sull’intera collettività) e basata su metodi di validazione statistici, cioè una medicina che avesse come obiettivo non tanto lo stato di salute del singolo paziente quanto della comunità considerata nel so insieme. Nasce così, verso la fine degli anni 1970, la cosiddetta “medicina basata sull’evidenza” (EBM).
La 𝗘𝗕𝗠 𝗮𝗳𝗳𝗲𝗿𝗺𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝗻𝗲𝘀𝘀𝘂𝗻𝗮 𝗽𝗿𝗼𝗰𝗲𝗱𝘂𝗿𝗮 𝗱𝗶𝗮𝗴𝗻𝗼𝘀𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗼 𝘁𝗲𝗿𝗮𝗽𝗲𝘂𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗱𝗲𝗯𝗯𝗮 𝗿𝗶𝘁𝗲𝗻𝗲𝗿𝘀𝗶 𝘃𝗮𝗹𝗶𝗱𝗮𝘁𝗮 se non dopo un’esperienza empirica che la sostanzi. Nei fatti si rigetta ogni appello al principio d’autorità (“l’ha detto quel medico, quindi deve essere vero”), così come ogni convinzione aneddotica (“nella mia esperienza ha sempre funzionato”, “ci sono numerosi casi in cui sembra essere efficace”), invece ci si rifà rigorosamente a osservazioni controllate, alla riproducibilità delle esperienze, al consenso tra specialisti.  Il movimento della EBM si presenta, quindi, come un grande movimento, che non si oppone pregiudizialmente a nessuna pratica medica, né quelle convenzionali, né a quelle non-convenzionali, ma pretende che ogni trattamento che si proclami “efficace” sia sottoposto a un rigoroso controllo. 𝗜 𝘀𝗼𝘀𝘁𝗲𝗻𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶 𝗱𝗲𝗹 𝗺𝗼𝘃𝗶𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝗵𝗮𝗻𝗻𝗼 𝗱𝗶𝗰𝗵𝗶𝗮𝗿𝗮𝘁𝗼 𝗰𝗵𝗲 𝘀𝗼𝗹𝗼 𝗹𝗮 𝗘𝗕𝗠 𝗽𝘂𝗼̀ 𝗰𝗼𝗻𝘀𝗲𝗻𝘁𝗶𝗿𝗲 𝗮𝗹 𝗽𝗮𝘇𝗶𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗱𝗶 𝗮𝗰𝗰𝗲𝗱𝗲𝗿𝗲 𝗮𝗱 𝗶𝗻𝗳𝗼𝗿𝗺𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗼𝗯𝗶𝗲𝘁𝘁𝗶𝘃𝗲 e non di parte, perché medici e pazienti si troverebbero a disporre di una stessa fonte neutrale di informazioni. Medici e pazienti sarebbero messi in grado, di decidere insieme, su base paritaria. Nelle intenzioni proclamate, l’EBM dovrebbe fondare un meccanismo razionale e condiviso di distribuzione delle cure, evitando diseguaglianze tra gli utenti e impedendo lo spreco di risorse su trattamenti inefficaci quando non addirittura nocivi. Agli inizi degli anni 2000, l’EBM si afferma universalmente come standard delle cure mediche e, nel ventennio successivo, diventa progressivamente la sola filosofia accettata dai servizi sanitari pubblici e privati, dalle società scientifiche mediche e dalle istituzioni sanitarie statali. La funzionalità dell’EBM sembra essere testimoniata dai risultati: dove è stata adottata, il livello complessivo di efficacia delle cure mediche è aumentato, almeno secondo tutti gli indicatori statistici. Il problema, però, è proprio questo: la EBM è una medicina fatta da manager sanitari per manager sanitari e politici che hanno bisogno di citare numeri; non è una medicina per i pazienti a cui importa poco che le statistiche migliorino se loro, come singoli individui, ricevono servizi sempre più spersonalizzati e anonimi.   
In questi ultimi vent’anni, è accaduto un altro importante fatto, che non ha riguardato solo la medicina ma che sta avendo sul mondo sanitario un impatto devastante. Mi riferisco alla crescente capacità di catturare, immagazzinare, interconnettere e processare quantità enormi di informazioni. Tutto ciò è diventato possibile man mano che la tecnologia ha permesso di trasformare informazioni qualitative in quantitative, detto in maniera più semplice: via via che la tecnologia ha creato strumenti per misurare ogni cosa ed esprimere in dati numerici qualsiasi evento. Questo processo è quello che è chiamato comunemente “digitalizzazione” (termine preso dall’inglese che significa, letteralmente, “numerizzazione” così come infatti lo traducono i francesi). Questa capacità, che è cresciuta di giorno in giorno con una velocità impensabile sino a qualche tempo fa, ha generato un approccio scientifico (anche alla medicina) molto diverso da quello tradizionale: la cosiddetta “scienza dei dati”. Una delle caratteristiche principali della “scienza dei dati” è la sua capacità di produrre “previsioni senza comprensione”. La scienza convenzionale, quella che era nata nel 1600 con Galileo Galilei, era deterministica, cioè, mirava a produrre spiegazioni basate sul principio di causalità (A causa B = B è un effetto di A). La scienza moderna (quella che si era affermata nel 1900) era invece probabilistica, cioè si basava si basava ancora sul principio di causalità, ma ammetteva un certo grado di incertezza. Nella scienza probabilistica (come era, agli inizi, anche quella della “Medicina Basata sull’ Evidenza”) si cercavano correlazioni statistiche e, una volta scoperte, si cercava di stabilirne le cause più probabili. Questa ipotesi causale veniva confrontata di nuovo con i dati empirici e il processo veniva ripetuto fino a quando non si era in grado di arrivare a una qualche comprensione dai dati (il verificarsi di A è strettamente associato al verificarsi di B = ci sono x probabilità che A provochi B).  
La scienza dei dati è simile alla scienza probabilistica in quanto anch’essa ricerca correlazioni e modelli, ma non è più interessata a trovare un senso, cioè, a stabilire relazioni di causa-effetto. La scienza dei dati, proprio perché la tecnologia le mette a disposizione una quantità di informazioni enorme, si accontenta di individuare configurazioni di fatti (al fatto A segue prima o poi il fatto B).  La scienza dei dati non si interessa delle cause: si limita a identificare i primi segnali della comparsa di un fatto in modo tale che si possa agire preventivamente. Applicata alla medicina, questa scienza produce la “medicina post-COVID” che stiamo imparando a conoscere. Si tratta di una medicina che può essere considerata l’evoluzione della EBM. Come la Medicina Basata sull’Evidenza, anche la medicina basata sulla scienza dei dati non si interessa alla clinica ma analizza grandi numeri di pazienti. L’obiettivo, però, non è soltanto quello di modificare le condizioni di salute di una comunità, ma di riuscire ad applicare modelli matematici e statistici generali anche ai singoli casi. Questo diventa possibile non perché si individuino specifiche correlazioni causali e fisiopatologiche, ma perché si identificano pattern da cui trarre indicazioni specifiche di azioni da compiere per ottenere il risultato voluto. Per spiegarlo in un modo più semplice e forse comprensibile: la medicina basata sulla scienza dei dati è molto simile al modo in cui funzionava il “servizio pre-crimine” in un film di fantascienza di qualche anno fa, Minority Report.

Quindi il degrado della medicina post-COVID sarebbe la conseguenza della “medicina Minority Report”?

Quello che le ho descritto è il processo principale, le cui conseguenze, però, sono poi il frutto del concomitare di altri sottoprocessi. Via via che la medicina statistica e poi quella basata sui dati hanno preso il sopravvento, è diminuita parallelamente l’importanza del fattore umano e quindi della preparazione del personale sanitario, dei medici in particolare.
Stiamo assistendo a una progressiva de-professionalizzazione dei medici che ha almeno tre componenti. La prima, più generale, riguarda la qualità della formazione fornita dalla scuola primaria e secondaria. I giovani giungono al momento della scelta universitaria in una condizione di ignoranza impensabile qualche decennio fa. Il COVID, con la didattica a distanza, ha portato agli estremi questo processo di disfacimento educativo. Spesso i “nuovi medici” sono persone di un’ignoranza generale che fa rabbrividire. Sono persone che non hanno mai letto un’opera letteraria in vita loro, che non hanno mai visto un film che non sia prodotto da Netflix o simili, che non hanno mai visto uno spettacolo teatrale che non sia quello di un comico televisivo, che si informano su Instagram, che ascoltano i Måneskin e vestono Zara. Non differiscono, in questo, dai loro coetanei che fanno altre professioni. Ma fossero, ad esempio, ingegneri potrebbero forse essere decenti professionisti lo stesso; invece, è impossibile che lo siano facendo il medico.  Senza l’esperienza formativa di quelle nel mondo anglosassone sono chiamate “humanities”, cioè le scienze umane, e senza essere stati formati artigianalmente da un maestro, che li abbia accompagnati al rapporto diretto con il malato, questi giovani medici mancano i fondamenti umani e psicologici per curare un paziente.  Del resto, la loro funzione nei sistemi sanitari moderni perde sempre più di importanza e il fatto che mancano delle necessarie qualità umane non è avvertito dagli amministratori come un problema di cui preoccuparsi.
A questo si aggiunge un secondo processo: la superspecializzazione e l’ignoranza degli aspetti della medicina diversi dal proprio.  I giovani medici conoscono (quando conoscono) il loro settore specialistico ma quasi ignorano tutto il resto, sia perché lo hanno studiato poco e male già durante il corso di laurea, sia perché – diventati medici – se ne disinteressano completamente. Si arriva così alla situazione attuale in cui i pazienti non hanno più un medico che voglia e sappia seguirli complessivamente, ma liste di specialisti interessati all’organo o apparato di loro competenza, come fossero carburatoristi o elettrauto. Questi medici super-specialisti si integrano perfettamente nel sistema della medicina tecnologica basata sui dati, perché diventano loro stessi simili a macchine o a esami di laboratorio: si trasformano in “generatori di informazione medica” che sarà poi analizzata da altri o, sempre più spesso, dagli algoritmi dell’intelligenza artificiale. In questo senso, è quasi meglio che non pensino e non si prendano cura del paziente: altrimenti disturberebbero i veri decisori che non sono più loro ma le macchine (in teoria – nel sistema italiano – il medico che riunisce tutte le informazioni ci dovrebbe essere ed è il medico di base, ma spesso questa è solo un’illusione. Purtroppo, i medici di base finiscono di frequente a essere burocrati che smistano il paziente tra vari specialisti ed esami, cercando di contenere i costi).
Infine, c’è un terzo processo che spiega la perdita di qualità professionale di molti giovani medici. Mi riferisco alla crescente produzione di linee guida e protocolli di cura. Questo fenomeno è direttamente legato alla medicina basata sull’evidenza e alla sua moderna versione basata sui dati. Più, infatti, le decisioni mediche scaturiscono non dalla clinica ma dall’analisi biostatistica di informazioni fornite da macchine, più è logico che queste decisioni si basino su alberi decisionali e algoritmi. A ciò si aggiungano una serie di ragioni medico-legali e amministrative, che – in Italia anche attraverso specifiche leggi nel 2014 e 2016 – hanno sempre più vincolato i medici all’osservanza di protocolli e le linee guida stabilite da istituzioni scientifiche statali, quali l’Istituto Superiore di Sanità o il Ministero della Sanità, e società scientifiche riconosciute. La legge lascia un margine di discrezionalità ai medici, che hanno ancora in teoria la libertà di cura.  Tuttavia, se un medico si discosta da protocolli e linee guida, deve giustificare questo scostamento e sincerarsi che il paziente sia d’accordo con queste sue scelte. Questo principio, la necessità di un consenso informato ogni qual volta un medico non segua linee guida fissate, è in teoria comprensibile, non fosse che spesso un malato avrebbe voglia di dover non essere chiamato a decidere ma di avere consiglio. A tutto ciò si aggiungono una serie di problematiche amministrative e contrattuali specifiche per i medici che lavorano nel sistema sanitario nazionale, i quali – se non rispettano protocolli e linee guida – corrono il rischio di perdere le proprie coperture assicurative ed esser soggetti a provvedimenti disciplinari.

Ma lei, dunque, è contro le “linee guida”?

No, assolutamente. Possono essere utilissime affiancate al ragionamento clinico. La questione è che ogni essere umano è un caso a sé stante e va valutato come tale. Che cosa chiede un paziente? Di essere riportato nell’ambito di parametri statistici di normalità e di salute? Ma proprio per niente. Un paziente chiede di che ci qualcuno si prenda cura di lui. C’è una differenza fondamentale tra “curare” e “prendersi cura”. “Curare” vuol dire riparare un carburatore che non funziona ed è quello che accade spesso oggi: la medicina tecnologica basata sui dati lo sa fare bene, non c’è dubbio. “Prendersi cura” significa, invece, domandarsi cosa sia per quella specifica persona la “salute”, quale sia il suo “bene”. Si tratta di una questione complicata, non c’è dubbio che il medico debba essere umile, debba evitare l’arroganza di decidere da solo quale sia il bene del paziente, Un medico onesto deve sapere di non sapere: sempre porsi domande e porre domande. Eppure, in ultima istanza, se il medico non cerca di capire cosa sia il bene per il malato che si è rivolto lui e non cerca di realizzarlo, diventa un truffatore perché non rispetta il contratto terapeutico. Cos’è il bene per quel mio determinato paziente? Avere il colesterolo LDL entro i valori fissati dalle ultime linee guida dell’American College of Cardiology (società, per altro, sponsorizzata da case farmaceutiche produttrici di farmaci per abbassare la colesterolemia) oppure avere il colesterolo un po’ più alto ma godersi un piatto di formaggio e un bicchiere di vino ogni tanto? Ho fatto un esempio banale, ma credo che si capisca cosa intendo.
Del resto, se un medico si limita ad applicare in maniera pedissequa linee guida create da altri o dall’intelligenza artificiale, non si capisce cosa serva più. Se un medico è solo un esecutore di algoritmi, allora le macchine possono farlo in maniera molto più efficace e sicura.

Quindi lei crede che il problema sia la “disumanizzazione” della medicina moderna?

Sì e no. Non c’è dubbio che la medicina tecnologica basata sui dati sia “disumanizzata”, ma non ne consegue automaticamente che ciò dispiaccia ai pazienti. La medicina tecnologica è una medicina che ha conseguito risultati straordinari in termini di guarigioni dalle malattie. In questo senso, i pazienti sono soddisfatti dei suoi risultati. Poi, non si scordi tutte le cose che le ho detto in precedenza, in particolare rispetto alla perdita di qualità “umana” dei medici.  I pazienti si rendono conto che spesso i medici oggi sono disinteressati umanamente a loro, incapaci di entrare in relazione, di provare simpatia (preferisco questa parola a quella che va più di moda, “empatia”).  È molto difficile affidarsi a qualcuno se non abbiamo piena fiducia nella sua “umanità”. In un contesto in cui ci si fida poco dei medici è allora molto meglio la medicina tecnologica. I pazienti a volte preferiscono medici frettolosi, poco attenti al rapporto umano, ma almeno scientificamente efficiente e aggiornati. Nella mia professione di psicoanalista, vedo abbastanza bene questo tipo di contraddizione: non pochi pazienti oggi chiedono soprattutto farmaci o rapidi interventi comportamentali che siano in grado di riportarli a un discreto funzionamento psicologico senza troppe complicazioni. L’idea che è un trattamento psicologico possa e debba andare oltre la risoluzione immediata dei sintomi è oramai molto lontana da tante persone. Per loro, il medico, persino quel quello che fa lo psicoterapeuta, deve essere solo un meccanico che ripristina una funzione alterata. 

Mi colpisce questa rappresentazione. Da informatico resto quasi turbato da questo: eravamo convinti che gli strumenti informatici ci avrebbero liberati dagli errori, mentre ci siamo ritrovati con delle macchine dalle quali siamo dipendenti.  Qual è lo scenario visto dal punto di vista medico?

Sui motivi per cui la nostra società si è sviluppata soprattutto in senso tecnologico sono stati versati i leggendari fiumi di inchiostro. Economisti, sociologi, filosofi, teologici, antropologi: ciascuno ha fornito la sua spiegazione. Dal mio punto di vista, mi sembra che la tecnologia sia servita e serva agli esseri umani soprattutto per evitare i lavori più faticosi, noiosi, meno gratificanti, tant’è che il suo sviluppo coincide grossomodo con la fine della schiavitù. Le macchine servono a fare cose che gli esseri umani non hanno voglia di fare, una volta che non ci sono più schiavi da impiegare al posto loro. L’esempio che faccio spesso è quello della nascita delle macchine calcolatrici. Il primo calcolatore nasce nel 1600 ed è un’invenzione di Pascal. Blaise Pascal fu uno dei più grandi matematici (contribuì, tra l’altro, alla nascita del calcolo delle probabilità), filosofi e teologi dell’epoca barocca. Pascal era figlio di un esattore delle tasse nell’Alta Normandia, sotto il regno di Luigi XIV. Quando il giovane Blaise aveva diciannove anni, il padre lo mise a verificare i conti, così il poverello fu costretto a passare le sue notti a rifare i calcoli per controllarli. Immagini quanto un giovane di meno di vent’anni fosse contento di trascorrere le serate in questo modo. Probabilmente io o lei avremmo cercato di “imboscarci” ma Pascal, che era un genio, cercò invece una soluzione diversa: inventare una macchina che facesse i calcoli al posto suo. Questa macchina – che ora è in un museo a Parigi e fu in seguito chiamata “Pascaline” – fu il primo calcolatore meccanico nella storia dell’umanità e ancora i calcolatori degli anni 1960 funzionavano secondo i suoi principi. Questa storia divertente spiega bene qual è la spinta a creare nuove tecnologie: far fare da macchine compiti che noi troviamo noiosi e che le macchine possono fare più rapidamente e con meno errori di noi.
L’intelligenza artificiale alla fine è soltanto uno strumento di calcolo potentissimo al di là di ogni immaginazione ma che nulla ha a che vedere con l’intelligenza vera. Esattamente come un microscopio elettronico, che vede cose per noi impensabili. Ma lei direbbe mai che un microscopio elettronico “vede”? No, perché un microscopio elettronico non vede nulla, permette a noi di vedere. Lo stesso fanno un telefono cellulare o una macchina da corsa: le tecnologie sono protesi che permettono agli esseri umani di fare quello che, senza tecnologia, non sarebbero in grado di fare. L’intelligenza artificiale è un amplificatore della nostra capacità di calcolo: non sostituisce l’intelligenza, ma ci leva la fatica di calcolare, attività in sé stessa fondamentalmente noiosa pure per i matematici di professione.

Però c’è un aspetto importante e complicato, ed è quello riferito alla gestione dei big data. Ricordo che all’università, ormai sono passati più di vent’anni, durante il corso di intelligenza artificiale, si considerava la valutazione delle potenziali patologie associate ai segni. Uno degli esempi che si faceva, ripeto su uno studio prima del 2000, riguardava l’individuazione della tubercolosi, partendo da questa considerazione: i medici statunitensi non erano più in grado di conoscere i segni perché pensavano ad altre patologie.
Allora, trovare correlazioni già predeterminate permette di fare espandere la conoscenza. Ma quando invece la correlazione viene fatta in modo automatico e noi, gli esseri umani, ne perdono il controllo, lì entriamo in un altro mondo.

Guardi, le ripeto in un diverso contesto quello che le ho già detto a proposito delle linee guida. Io non ho proprio nulla contro l’intelligenza artificiale: se è utile, ben venga. Quando io mi sono laureato, nel 1981, nel reparto dell’ospedale San Giacomo di Roma dove ero assistente, per evitare di mandare troppi esami del sangue in laboratorio, alcuni di questi esami li facevamo direttamente noi in reparto. Uno di questi, l’esame emocromo, lo si faceva al microscopio ottico, usando un particolare vetrino retinato che, una volta colorato il campione, permetteva una conta probabilistica degli elementi corpuscolati, globuli rossi e bianchi. Un lavoro molto noioso che certo non faceva il primario ma che toccava a noi neolaureati. La precisione, ovviamente, era abbastanza approssimativa e sono sicuro che diminuisse progressivamente più noi ci si annoiava e che avesse poi veri crolli se, per caso, uno di noi aveva fretta di terminare per andare, magari, al cinema.  È chiaro che nel momento in cui si mette la provetta dentro una macchina, e la macchina conta con precisione assoluta tutti i globuli rossi e bianchi, è meglio no? Non dobbiamo rinunziare a questo. Però questo progresso dovrebbe dare al medico il tempo, magari, di parlare col paziente. Potrebbe essere un guadagno per tutti. Però, se invece, una volta che ho una macchina che fa l’emocromo, il tempo che risparmio io lo uso per stare su Instagram a guardarmi i reel, allora c’è qualcosa che non gira in questa storia. In realtà ho soltanto perso tempo e non l’ho acquistato.

Questa è la visione, una visione quasi di profondità perdendo completamente la visione periferica, quella che poi ci permette di allargare la visuale su quello che è la qualità della vita, quello che è il rapporto col paziente. Veramente molto interessante. Questo poi mi colpisce, e metto la mia visione da informatico. Ho sempre utilizzato le videoconferenze, le call conference, per parlare con i colleghi, ma non mi rendevo conto di quanto invece il rapporto umano, quello che poi si aveva comunque in ufficio, fosse fondamentale nel mantenimento del team, nel mantenimento dei rapporti di reciproca stima e fiducia.
Questa cosa è cambiata, passando tutti e solo in videoconferenza è stato veramente un rapporto completamente diverso. E qui mi interessava anche rispetto alla sua professione, quanto c’è di diverso nell’avere rapporti virtualizzati rispetto ad averli di persona?

(Immagine dell’Ospite…con Isotta)

Bella domanda.  La presenza è una questione che non riguarda nessuna modalità sensoriale precisa. La presenza è qualcosa di sfuggente che ha al suo interno tantissime componenti, se volessimo scomporle si potrebbe forse anche: si va dall’odore, ai ferormoni, alle vibrazioni fisiche, quelle dovute al movimento dell’aria che un corpo provoca, allo sguardo, ai rumori impercettibili che ogni corpo genera, alla proxemica, e così via.  Questa infinità di elementi si ritrova nella comunicazione umana. Non è necessario fare grandi discorsi complicati, basta riferirsi a un’esperienza che chiunque di noi può fare. In una sala concerti, in un jazz club, in un teatro, ci si rende ben conto come la presenza sul palcoscenico di un attore oppure di un suonatore o un cantate, sia un’esperienza profondamente diversa dal vedere o ascoltare un programma registrato. Anche semplicemente se si è tra amici e uno si mette al pianoforte a strimpellare o prende la chitarra e canta, si crea una profondità comunicativa che nessun metaverso riuscirà mai a replicare. Perché? Perché in qualche modo, c’è qualcosa che riguarda proprio la nostra intima umanità. Pensi che un bambino di pochissimi giorni, già al secondo o al terzo giorno di vita, conosce e riconosce gli occhi di chi si prende cura di lui ed è in grado di reagire con un sorriso o con una smorfia a seconda di come quegli occhi si muovono e che cosa gli comunicano. Non riconosce ancora la persona, perché ha una difficoltà di messa a fuoco: se dovesse vedere il profilo della madre, o del padre, o dell’infermiera, non li riconoscerebbe. Eppure, reagisce allo sguardo. Cos’è la presenza degli occhi? Ci pensi, provi a rispondere se ci riesce.

Nel Medioevo ci fu un periodo in cui il potere centrale, del re o dell’imperatore, era molto debole mentre era grande il potere dei feudatari, delle città stato e dei comuni. Se l’autorità centrale si fosse limitata a pubblicare editti senza mai mostrarsi, dopo un po’ nessuno avrebbe più obbedito e pagato le tasse.   Non i contadini, ma i nobili, perché un nobile che non vedeva il re o l’imperatore, dopo un po’cominciava a sperare di esserselo levato di torno per sempre. Allora tutti i grandi sovrani, come i sovrani di Francia, una volta l’anno – normalmente in primavera, quando arrivava il bel tempo – si muovevano nel loro Regno andando a benedire di qua e di là i sudditi. Dopo che erano stati fisicamente in un posto, allora lasciavano frequentemente un segno, ad esempio una statua o un dipinto, che era il modo dell’epoca per essere presente virtualmente. Però, prima, era necessaria la presenza fisica. Questo è esattamente il problema che abbiamo oggi. Si può fare una videoconferenza – ci mancherebbe altro – o l’insegnamento a distanza, così come un medico, persino uno psicoanalista, può curare un paziente a distanza. Si può fare tutto, se le circostanze lo impongono. Ma il virtuale ha senso soltanto se c’è stata una presenza prima, se la persona ha percepito almeno una volta la presenza fisica del corpo dell’altro. Questo perlomeno è valido per tutte quelle professioni dove il rapporto umano è fondamentale.

Devo dire, che questo è vero anche per l’informatica, come ho notato personalmente: manca il concetto del team. Cioè, non si lavora più “in team”, dopo più di due anni praticamente sempre a distanza, e non ci si vede personalmente, ma si lavora come somma di individualità.

Il nostro mondo sta procedendo verso la digitalizzazione e dematerializzazione di tutto.
A partire dal denaro, sino ai rapporti umani, all’educazione, alla medicina, noi viviamo in un mondo che si sta progressivamente dematerializzando, persino il sesso è per buona parte dematerializzato e masturbatorio.
Le persone saranno pure soddisfatte, non lo discuto, ma sono anche sempre più rincretinite.
E, oltre un certo livello di stupidità, viene minacciata anche la felicità, perché la felicità richiede comunque un minimo di intelligenza per apprezzare le cose che abbiamo intorno. Per apprezzare il piacere della vita, un po’ di intelligenza ci vuole e invece più si dematerializza, più si diventa stupidi e infine infelici. Quindi, per concludere tornando alla sua domanda iniziale sullo stato di salute degli italiani, la mia risposta è che, se la salute ha a che vedere in qualche modo con la felicità, allora c’è davvero da essere preoccupati.

Anna Crispino, napoletana, nata nel 1972, canta per amore della musica. Vive e lavora a Roma, impegnata nel sociale. Arte terapeuta ad indirizzo psicofisiologico integrato, musico-terapeuta, counselor, mediatrice familiare con esperienze in ambito socio-sanitario. Ha lavorato con minori a rischio, pazienti psichiatrici, Alzheimer e donne che hanno subito violenze. Ha collaborato con l’Aref (Associazione per la Ricerca sulla Epilessia Farmaco resistente – Onlus) per un progetto di musicoterapia nei reparti neuropsichiatria e neurochirurgia infantile del Gemelli di Roma.

Anna Crispino, “Carlo Delle Piane. L’uomo che amavo”, ed. Martin Eden, 2023 pag.61

Da tutte queste esperienze ho capito che l’arte e la musica riescono a tirar fuori il non-detto da tutti noi e ci sollevano dalle pene

Anna, volevo partire dai tuoi dati biografici e dal tuo percorso professionale ma, trovando molti riferimenti e riflessioni nel tuo bel libro pubblicato lo scorso anno dalla casa editrice napoletana Martin Eden “Carlo Delle Piane. L’uomo che ho amato”, partiamo da questo che per me è stata una vera carezza per l’anima. Pupi Avati, che ne ha curato la prefazione, lo ha definito un  “diario d’amore”.  Puoi dirci cosa ti ha spinto a scrivere questo libro ?

Il voler omaggiare un grande attore, sicuramente. Dato che già esisteva una biografia di Carlo in cui l’artista era già stato raccontato, mi interessava raccontare l’uomo, con le sue fragilità, le sue passioni e le sue malinconie. Soprattutto volevo raccontare l’incontro speciale tra due anime che seppur diverse su alcuni punti di vista, erano anche molto simili. È stato incisivo l’incontro con la casa editrice Martin Eden, che mi ha proposto di fare questo omaggio a Carlo e con la loro sensibilità e l’attenzione che ho trovato mi ha permesso di dare forma a questo libro che per me è stato anche in qualche modo terapeutico, un’elaborazione della separazione.

Nel libro parli di come hai conosciuto e ti sei innamorata di Carlo Delle Piane, che poi avresti sposato nel 2013 e che tutti conosciamo come protagonista del cinema italiano in oltre cento film con grandi registi. Mi ha colpito la casualità e nel contempo l’importanza che questo evento ha avuto nella tua vita, quasi come una profezia che si autoavvera. Non a caso il capitolo s’intitola  il “Volo dell’Anima”. Puoi dirci qualcosa di più su questo incontro e le tue riflessioni a riguardo?

Penso che l’incontro tra me e Carlo non sia stato un caso. Ci siamo incontrati in un luogo (l’ex-manicomio di Santa Maria della pietà) dove per la prima volta avevo messo piede, perché ero andata a fare una passeggiata e a leggere, mentre invece Carlo era a fare delle prove. In tanti anni io non ero mai andata e neanche lui. Conoscendo Carlo, probabilmente se non fosse stato per lavoro non ci avrebbe mai messo piede, e quindi questa sincronia di trovarci lì, in quel posto, a quell’ora, mi ha fatto sempre pensare che sia stato il destino. Fu un incontro magico, ritrovarmi davanti il mio attore preferito mi spiazzò, ma mai avrei immaginato che le cose avrebbero preso la forma che poi hanno preso. La vita ha fatto sì che ci incontrassimo e che condividessimo un pezzo importante delle nostre esistenze.

Qual è stata l’importanza di Napoli, la città in cui sei nata, per la tua vita e la tua carriera artistica? In realtà, sempre nel libro, si parla nel capitolo “Le città amate”, di tanta altre città, ovviamente Roma, dove vivi e lavori, poi di Firenze, Alghero e Parigi.  A ciascuna sono legati dei ricordi e ognuna ha rappresentato qualcosa di importante. Ce n’è qualcuna particolarmente significativa di cui vuoi parlarci e che rappresenteresti con una parola o un’immagine?

Nascere a Napoli è stato sicuramente un dono. La città è stata centrale nella mia vita, anche per la musica napoletana che è molto rappresentativa per me e che sicuramente mi ha salvato. Se dovessi rinascere lo farei sicuramente a Napoli, che è un luogo sacro e unico fatto di accoglienza, generosità e bellezza.

Per quanto riguarda le altre città citate, ognuna di esse ha un posto speciale dentro me, ma sicuramente Parigi è la città che più di tutte è stata importante. È stata il sogno che mi ha salvato, come si capisce anche nel libro.

La tua attività professionale è molto eclettica e varia, cantante, arte-terapeuta, counselor, mediatrice familiare e impegnata nell’ambito socio-sanitario. Puoi raccontarci il tuo percorso artistico e professionale e come si coniuga a quello di cantante?

Il mio percorso artistico nasce da molto lontano, nel senso che ero ragazzina e già cantavo nei locali. Ricordo che cantavo Mina ogni sabato sera, portando questo repertorio con un pianista. Poi ho scelto la musica napoletana, ho studiato canto e man mano il sogno ha preso sempre più forma con diversi artisti, fino al maestro Colicchio con cui abbiamo dato forma a diversi spettacoli in diversi teatri, anche con lo stesso Carlo. Parallelamente, avendo sperimentato la musica anche come forma terapeutica per andare a lenire alcune ferite e dolori dettate da esperienze di perdite premature della mia vita, sentivo anche il bisogno di trasformare questo dolore in una risorsa. Fin da ragazzina ero molto portata ad aiutare gli ultimi e chi era in difficoltà, atteggiamento che viene

dalla mia famiglia nella quale respiravo sempre grande generosità. Facendo degli studi specifici all’università ho poi iniziato a lavorare prima con i minori a rischio, poi nell’ambito psichiatrico, poi con i bambini oncologici al Gemelli, specializzandomi poi in Arteterapia a indirizzo psicofisiologico integrato alla Sapienza e, ancor di più con la specializzazione in Musicoterapia, ho unito le mie grandi passioni: la musica e la psicologia.

Nel tuo libro sono citate diverse canzoni ed autori, da Aznavour a Battiato da Billie Holiday a Jacques Brel, colonne sonore della tua vita. Qual è quella che in particolare ti è più cara?  Ma ci piacerebbe sapere quella del tuo repertorio che ti piace più cantare o meglio ti rappresenta.

Molto difficile scegliere. Sicuramente La cura di Battiato, un brano che ascoltavamo sempre io e Carlo e che incidemmo con l’aiuto di Franco, che oltre a essere un artista eccezionale è stato anche una figura importante nella mia vita. Sono però molto legata anche ad Aznavour. Tra le canzoni che canto non posso che citare Maruzzella che è stato il mio cavallo di battagli fin da bambina, il mio stesso soprannome è Maruzzella. L’ho fatta in tutte le versioni possibili. Dovendo scegliere una sola canzone quindi dico questa anche per l’aspetto affettivo e per l’amore che ho per Carosone.

Nel libro parli di come la passione per il canto sia andata di pari passo con il lavoro di arte terapeuta, generando anche un conflitto interiore che hai cercato di “sanare” in qualche modo, almeno da quello che ho colto, specializzandoti in musicoterapia. Ci potresti spiegare meglio in cosa consiste questa tua attività?

La musicoterapia, come ho già detto nella domanda precedente, rappresenta la cura attraverso l’arte basandosi su un modello specifico, quello del professor Vezio Ruggeri, che è un modello psicofisiologico. Il professore sottolinea come mente e corpo siano una cosa sola e andando a lavorare sul rilassamento andiamo a lavorare anche sulle emozioni. Meno tensioni abbiamo e più emozioni rilasciamo e andiamo a riscrivere la nostra storia anche con una postura diversa nel modo in cui stiamo nello spazio. Non è facile da spiegare a voce, il mio è un lavoro che si basa sull’esperienza, fatto di alchimia. Non preparo nulla prima di fare i laboratori, perché in base alle persone che ho propongo un certo tipo di esperienza. Sicuramente la poesia è uno strumento che uso molto, attraverso la scrittura si fa una fotografia di un momento e si ragiona su cosa si può fare per stare meglio. Il lavoro è fatto attraverso l’ascolto della musica, le immagini, il movimento, l’ascolto. Si lavora su tutto il corpo, dallo sguardo al movimento delle mani e si usa molto l’immaginazione perché tutto ciò che si immagina è.

Il libro è strutturato in undici capitoli, ciascuno aperto da un passo di una poesia o da una riflessione di un intellettuale. Puoi dirci come li hai scelti, se c’è un filo conduttore e se magari ce n’è qualcuno che ti è particolarmente caro ?

Mi sono confrontata con l’editore, con cui abbiamo lavorato con una grande intesa e ascolto reciproco. Sono tra gli autori o le citazioni che preferisco. Sicuramente Bobin è quello a cui sono più legata. Riesce sempre a commuovermi ogni volta che leggo una sua opera. Purtroppo è venuto a mancare poco tempo fa, una grande perdita sul piano del nutrimento dell’anima. Il filo conduttore è dare voce all’anima, qualcosa che ho voluto condividere con gli altri perché la poesia per me è un modo per esprimersi e andare in profondità.

Il libro è dedicato a tua madre, tua figlia e ad Andrea Purgatori. Di tua madre mi ha colpito molto la sua dipartita nel giorno del tuo 11° compleanno, cosa che ti ha segnato per tutta la vita, come credo quel ventitré agosto del 2019. Puoi dirci di più anche sulla tua amicizia con Andrea Purgatori, la cui recente e improvvisa  scomparsa ci ha colpito tutti inaspettatamente anche per le modalità con cui è avvenuta?

La perdita di Andrea Purgatori come professionista è stata grande per tutti quelli che lo conoscevano attraverso i suoi scritti e i suoi programmi, come ogni volte che si perde una persona di tale integrità e serietà. Per me è stata una perdita personale, è stata una persona importante nella mia vita e ancora sto elaborando questa separazione avvenuta come uno strappo, proprio come quella di mia madre. Mentre Carlo l’ho accompagnato alla morte standogli vicino fino all’ultimo, nel caso di Andrea è stato come un fulmine a ciel sereno. Un momento molto difficile arrivato nel momento della chiusura del libro ed era giusto omaggiarlo e ricordarlo, perché le persone che abbiamo amato vivono attraverso il ricordo e gli affetti.

Cosa significa custodire la memoria di una persona come Carlo Delle Piane che, al di là del suo privato con una grande e complessa personalità che pur è inscindibile dall’attore come ben si evince dal tuo libro, è stato un grande interprete pluripremiato del cinema.

Custodire la memoria di Carlo è un grande dono della vita e anche una grande responsabilità. Come dicevo nella domanda precedente, ci sono persone che hanno lasciato un segno perché hanno amato quello che facevano e sono arrivati al cuore delle persone emozionando. Hanno toccato corde che ci hanno permesso di metterci in contatto con parti nostre nascoste, ci hanno fatto sognare, ci hanno reso la vita più leggere per certi versi. Ecco perché sono sempre pronta a ricordare Carlo e ringrazio molto la casa editrice Martin Eden e tutto il gruppo di lavoro che mi ha sostenuto perché è bello quando giovani così vogliono fare un omaggio ad un attore anziano che però ha dedicato settant’anni di vita al cinema. È veramente un gesto d’amore

Nel ringraziarti per il tempo che ci hai dedicato e raccomandando il tuo libro, ci lasciamo con un’ultima domanda sui tuoi progetti futuri sia artistici sia professionali nei vari campi a cui ti stai dedicando e se hai qualcosa  di particolare su cui stai lavorando o che ti sta a cuore comunicarci.

Sono io che ringrazio voi, persone che danno spazio alla culture e all’arte. Per quanto riguarda i progetti futuri sicuramente continueremo a portare il libro in giro, proprio nei prossimi giorni andrò a Parigi per parlare di un’eventuale presentazione. Sto preparando dei concerti dove farò degli omaggi a Carlo. Partiranno dei progetti nelle carceri per l’educazione al sentimento, legati alla violenza sulle donne, che ho dedicato ad Andrea Purgatori. Poi altri progetti legati alla musicoterapia che partiranno quest’anno, la collaborazione con il Gemelli e con l’associazione Aref. Cose in cantiere che spero possano prendere forma e farmi continuare il lavoro che amo, sia quello di cantare che quello di curare, e per lo meno far del bene, con la musica.

Vi ringrazio ancora di cuore e un in bocca al lupo per il vostro giornale, a presto.

** Le opere fotografiche sono state gentilmente concesse dall’artista **

Il tema del riconoscimento è sicuramente uno dei più pregnanti dell’attualità geopolitica, portato prepotentemente alla ribalta dalle guerre russo-ucraina e israelo-palestinese a cui si è aggiunto più recentemente il conflitto “ibrido” con gli Houthi nel Mar Rosso che sta mettendo a rischio l’economia dell’occidente per le sue conseguenze commerciali.

Altri se ne profilano all’orizzonte, dove sembra sempre più prefigurarsi il già teorizzato “scontro tra civiltà” e, comunque, di chi vorrebbe un ordine mondiale diverso, a partire dal fronte dei paesi del BRICS che si sta progressivamente allargando, anche se ancora poco compatto ma con l’obiettivo chiaro di creare un ordine alternativo a quello occidentale.

Non è che tali contrasti, come tanti altri più o meno conosciuti non ci fossero in precedenza, ma si erano forse sopiti nell’indifferenza generale. In particolare, il conflitto più annoso tra Israele e Palestina, la madre di tutte le guerre, perché, mai come in questo caso, si tratta di un reciproco riconoscimento mai avvenuto, alla radice di gran parte dei mali del Medio Oriente e del terrorismo islamico, in cui si è sempre inserito il gioco dei gruppi religiosi, delle potenze regionali e dei grandi attori internazionali.

Eravamo abituati a leggere la “lotta per il riconoscimento”, tema hegeliano per eccellenza, in categorie come quella tra le classi sociali o, secondo il politologo e filosofo Axel Honneth teorico del riconoscimento, come l’ingiustizia di non riconoscere a una persona ciò che gli spetta portandolo all’esclusione sociale. Oggi assistiamo al bellum omnium contra omnes: terrapiattisti contro la scienza, complottisti contro “integrati”, no-vax contro pro-vax, scienziati contro sé stessi, politici in lotta tra di loro (adesso è diventata però una lotta perniciosa che coinvolge le Istituzioni) e, la cosa peggiore, lo scontro fratricida tra interi popoli e tra Paesi.

Quest’ultimo, si dirà, c’è sempre stato ma si pensava fosse ormai superato e mai di ritorno in queste forme novecentesche, con crudeltà che investono popolazioni inermi, con bombardamenti di ospedali, scuole, università e teatri alle porte della civilissima Europa che pensavamo di non dover mai più rivedere.

In questi giorni si sono celebrate la Giornata della Memoria e quella del Ricordo, a monito delle atrocità commesse nella Seconda guerra mondiale che, evidentemente non ci ricordano abbastanza che occorre l’impegno di tutti nel fermare queste disumanità. Il riferimento è in particolare all’Europa e al suo mancato ruolo come attiva costruttrice di pace. Dopo le macerie del 1945, si è dato forse per scontato un automatismo che avrebbe governato la pace e la democrazia e che non fosse invece necessario prodigarsi costantemente per la concordia tra i popoli e per il loro reciproco riconoscimento. È come se, tutti gli sforzi della grande politica internazionale in Occidente, si fossero concentrati sul pericolo comunista, come unico grande male del pianeta.

Nel 1992, dopo la caduta del muro di Berlino, Francis Fukuyama parlò di “fine della storia” che invece è tornata prepotentemente alla ribalta. Sotto la cappa del comunismo covavano infatti molti conflitti latenti, “neutralizzati” dall’URSS che aveva fatto da collante e “garante” del loro contenimento nonché da deterrente di molti altri anche al suo esterno, nel gioco delle sfere di influenza tra le potenze mondiali. In fin dei conti, occorre inoltre considerare che la storia è poi fatta dagli uomini, al di là di teorie su una supposta evoluzione dell’umanità.

Nel rapporto Censis 2023, sulla situazione sociale del nostro Paese, si parla di “sonnambulismo”, di un paese impaurito ma inerte e cieco di fronte ai presagi. Questa è però la situazione un po’ in tutta l’Europa, e forse, con i dovuti distinguo, in tutto il mondo occidentale. Quest’ultimo credeva di aver conquistato una posizione di benessere e rendita, senza fare i conti con il resto del pianeta e senza impegnarsi troppo come costruttrice di pace, che è cosa ben diversa dall’ “esportare” la democrazia.

La situazione chiama in causa le radici della democrazia stessa. Come affermava il filosofo e pedagogista John Dewey, quest’ultima deve poter trarre l’autorità dal suo interno, dalle fondamenta, dal suo demos, ecco perché è così importante l’Educazione, cosa di cui le nostre società sono manchevoli.

Dewey affermava che la bassa interazione sociale, la scarsità di relazioni nello spazio pubblico, diminuisce l’intelligenza collettiva. Ed è proprio quello che sta avvenendo, una società oscurantista che fa sempre meno uso della ragione, preda delle paure e delle fobie e, dunque, facile preda delle false credenze e delle manipolazioni, anche a causa del dominio sempre più invasivo dei social. Ormai anche la Politica ha adottato il modello “followers”. Questo è un altro dei problemi della nostra società che vede sempre di più la riduzione della dimensione pubblica e sociale a scapito di quella individuale e virtuale, dominata dagli algoritmi e caratterizzata dalle cosiddette “casse di risonanza”, le eco chambers, dove risuonano gli echi di tutti quelli che la pensano nello stesso modo o, peggio, abitate dai followers-sonnambuli.

In tutto questo, dobbiamo considerare il decadimento dell’Etica pubblica e il conseguente scadimento della politica, ormai priva di visione e appiattita sul contingente, sempre più ridotta a rappresentazione invece che a rappresentanza.  Non a caso, per rimanere a questi giorni, anche Sanremo è la cassa di risonanza di importanti questioni politiche.

Occorre sottolineare come il riconoscimento, a livello individuale, sia un bisogno primario dell’essere umano. Lo stesso desiderio nasce dal bisogno di riconoscimento che caratterizza l’esistenza stessa e la progettualità della persona. C’è la necessità di riconoscimento anche degli stessi desideri e di andare oltre gli echi e le false sirene dei social, che mirano al singolo individuo trasformandolo in un follower di bisogni. Qualcosa che, unito all’uso dilagante e improprio dell’intelligenza artificiale, richiama all’ “automa”. Anche le società dovrebbero però coltivare questo desiderio sulla base di un Ethos che le renda “erotiche” nel senso più squisitamente filosofico del termine.

Giorgia Bellini in prima persona ha sofferto di DCA e per questo ha deciso di voler dedicare la sua vita nell’aiutare tutte le persone che ne soffrono.
Nasce così CORABEA: una startup innovativa che ha realizzato un percorso online personalizzato in base ai bisogni delle persone che soffrono di DCA con un’equipe di più di 30 esperti tra Psicologi e Nutrizionisti specializzati nel trattamento dei Disturbi Alimentari.
I professionisti di CORABEA lavorano con un approccio multidisciplinare lavorando in sinergia tra di loro.
Ogni esperto è tenuto regolarmente a fare formazione con i responsabili per garantire un servizio d’eccellenza. Gli esperti vengono selezionati dall’ equipe al fine di cercare di offrire la migliore qualità ed esperienza a tutti i clienti.
Il servizio sarà dunque una applicazione innovativa, la prima in Italia, che offrirà supporto a chi soffre di DCA e verrà lanciata durante l’evento di sensibilizzazione del 15 marzo organizzato dal team alla Sala dei Notari a Perugia (Palazzo dei Priori), grazie al supporto del Comune, della Regione, della USLUmbria1 e dell’AFAS Perugia.

Vi è mai capitato di avere l’impressione che sia la vostra vita a vivere voi? Di sentirvi scorrere tra le dita infiniti attimi tutti uguali a se stessi? Di sentirvi come su un treno in corsa con destinazione sconosciuta, talmente veloce da impedirvi di godere del paesaggio e nella totale impossibilità di scendere? Sul volto l’espressione dell’urlo di Munch: la disperazione di chi non riesce a ricordare da dove viene e dove sia diretto.  L’eterno inconsolabile perché la causa del suo dolore è sconosciuta. Nausea e vertigine. Trappola mortale dell’anima. Un’ombra tra le mille sfumature della fragilità umana.

L’epoca delle passioni tristi” è un libro complesso scritto da due psichiatri, Miguel Benasayag e Gerard Schmit, che ha l’obiettivo di portare alla luce un malessere diffuso, un senso di impotenza e di incertezza, segno di una cultura occidentale malata. La sua  complessità sta proprio in un’analisi della crisi storica, che non si ferma quindi solo al mero aspetto psicologico o sociologico e che secondo loro risiede nel non ascolto del disagio giovanile. La tristezza è dunque l’emozione predominante e una condizione sociale. A causarla sarebbero fattori esterni, come la perdita di fiducia nelle istituzioni, problemi globali come la disuguaglianza,  l’ingiustizia sociale e l’alienazione. Invitano a riflettere su come questo possa diventare uno strumento per mantenere lo status quo e impedire un cambiamento sociale,  ma contemporaneamente suggeriscono di aprirsi alla possibilità di trasformare queste emozioni in una forza trasformativa sociale ed individuale. 

Umberto Galimberti ci aiuta nell’analisi, sostenendo che l’ottimismo dell’occidente è finito e che il Dio di Nietzsche è veramente morto. La nostra cultura ha due antiche radici: quella greca, unica cultura, secondo Galimberti, che avesse davvero il coraggio di guardare i faccia il dolore, senza ricorrere a speranze ultraterrene, ma che rappresentava un ottimo incentivo per godere del momento, e quella giudaico-cristiana, costruita interamente sulla promessa di salvezza eterna, nella concezione che il passato è il male, il presente è possibilità di redenzione e il futuro è salvezza. Per quanto possa suonare paradossale, lo stesso pensiero lo ritroviamo in Marx, con la differenza che il futuro salvifico è, in questo caso, rappresentato dalla nobile azione umana della rivoluzione, come condizione di riscatto e miglioramento. Il Dio di Nietzsche a questo punto è già tecnicamente morto, nel senso che non è più la chiave di volta, ma in questo contesto storico, i concetti portanti come la scienza, la rivoluzione e l’utopia rappresentano ancora il lume dell’ottimismo.

Oggi la scienza non è più in grado di mantenere le sue promesse e c’è una presa di consapevolezza che il suo sviluppo non coincide con quello della felicità. La rivoluzione, che per Marx era una contrapposizione di volontà, sembra non essere più una possibilità, in quanto è venuta meno la contrapposizione stessa: ora tutto è sottoposto alle regole del mercato.

Il futuro, dunque, da promessa è diventato minaccia e la nostra psiche accoglie le ricadute e la disperazione di un’epoca. I vincoli sociali e affettivi sono al collasso nel nome di un individualismo sfrenato. Per quanto riguarda i giovani e il rapporto con i genitori, possiamo leggerlo nella chiave di un contrattualismo, in cui una mentalità mercantile diventa una modalità educativa.

Alessandro D’Avenia ha definito quest’epoca delle passioni tristi come “questo nostro tempo ebbro di emozioni di superficie, ma assetato di amori profondi, esangue e spento per mancanza di destini tesi a diventare destinazioni…” Questo splendido giovane autore, nel suo libro “L’arte di essere fragili”, ci parla del rifiuto della vita, di “una generazione ora in ansia, ora in fuga dall’esistenza che le è toccata” e si chiede “ma dove sono finite le passioni felici, profonde e durevoli?

D’Avenia ci confessa che il segreto della felicità gli è stato svelato da qualcuno a cui mai avrebbe pensato: Giacomo Leopardi.
Parlando di Leopardi pensiamo subito a due cose: la gobba e il pessimismo.
Anni e anni di letteratura tra i banchi di scuola, con la complicità di docenti forse poco sensibili, non sono stati clementi con l’immagine di questo poeta del XIX secolo , segnata nell’immaginario comune da sofferenza e isolamento.  Ma Leopardi è lontano dall’essere solo un “poeta malato”. È stato un osservatore acuto  del mondo che lo circondava,  della bellezza e della grandezza della natura. 
Leopardi, anche nei suoi momenti più bui, ci trasporta in un viaggio attraverso il sublime,  rivelando la sua capacità di cogliere l’infinito nel finito e di vedere l’eterno nel transitorio. Il suo superpotere è stato quello di accettare le sue difficoltà e trasformarle in poesia. 
Attraverso la sua sensibilità e il suo coraggio,  si erge come un modello e come un maestro,  soprattutto per i giovanissimi. In un’epoca in cui la società ci fornisce solo istruzioni tecniche,  Leopardi ci ricorda l’importanza di vivere appieno, di abbracciare le passioni e i sentimenti che ci rendono umani.

D’Avenia scrive: “Leopardi ebbe presa sulla realtà come pochi altri, perché i suoi erano sensi finissimi, da predatore di felicità. A guidarlo era una passione assoluta. La custodiva dentro di sé e la alimentò con la sua fragilissima esistenza nei quasi trentanove anni in cui soggiornò sulla terra; per questo ebbe un destino scelto e non subito,  pur avendo tutti gli alibi per subirlo o per ritirarsi da qualsiasi passione.  Fu invece un cacciatore di bellezza,  intesa come pienezza che si mostra nelle cose di tutti I giorni a chi sa coglierne gli indizi,  e cercò di darle spazio con le sue parole,  per rendere feconda e felice una vita costellata di imperfezioni.

Riguardo alla passione di Leopardi per i cieli stellati:

Nessuno di noi si sottrae al rito delle stelle cadenti, perché almeno una notte ogni trecentosessantacinque tutti vogliono sentirsi parte di una storia infinita, nella quale al cadere di una stella si leva un desiderio, come se i nostri sogni fossero collegati con i movimenti dell’universo secondo una logica perfetta. Gli antichi, infatti, dicevano che se le stelle non determinano i fatti della vita almeno li influenzano. In quell’istante, immersi nel buio che copre il brutto vizio di non sentirci all’altezza della vita, siamo finalmente titolati a esprimere nel silenzio del nostro cuore ciò che per noi più conta, ciò per cui desideriamo vivere. Quella scia silenziosa di fuoco penetra attraverso i nostri occhi e con il suo ultimo sussulto di fiamma innesca le polveri inerti del nostro cuore, provocando un’esplosione ed espansione inedita. In quel momento sentiamo di meritare la bellezza, proprio per la sua gratuità, e si fa strada in noi la fiducia che la vita quotidiana possa diventare il terreno fertile per coltivare i nostri desideri, perché fioriscano. Sono attimi che mi piace definire di “rapimento”, improvvise manifestazioni della parte più autentica di noi, quel che sappiamo di essere a prescindere da tutto: risultati scolastici, successi lavorativi, giudizi altrui e l’esercito minaccioso di fatti che vorrebbero costringerci entro i confini della triste regione dei senza sogni. In una notte di stelle la parte più vera di noi cerca di farsi spazio.

Nasciamo tutti con un fuoco che ci brucia dentro, questo fuoco può essere speranza o disperazione, ma forse possiamo attingere alla bellezza delle stelle, dell’arte e della poesia per trasformare questo fuoco in luce viva per il nostro cammino e per aiutarci a vedere ciò che veramente siamo e ciò che siamo in grado di realizzare.

Ho conosciuto Giacinta De Simone, qualche anno fa, in uno dei primi Festival della Sociologia di Narni, adesso arrivato alla sua VIII edizione, dove ci siamo ancora ritrovati. Ci ha subito unito l’interesse per questa materia affascinante e complessa (che è stata anche il suo oggetto di insegnamento nelle scuole), per le sue mille sfaccettature ed implicazioni sociali e politiche ma anche per i suoi riflessi individuali. 

Un microcosmo è sempre in rapporto con il macrocosmo che vi viene in qualche modo riflesso. E, forse partendo proprio da questa sua interiorità, che Giacinta De Simone ha sviluppato la sua passione per la poesia, prima ancora che per la sociologia.

Interno ed esterno, interiorità ed esteriorità, individuale e sociale, tutto si lega in questo suo sviluppo intellettuale. Sì, perché solo successivamente ho scoperto che dietro la sociologa, la docente di scienze umane e sociali, la counselor, c’era una poetessa. Scoperta stupefacente perché è raro trovare dei poeti, sarà che è rimasta scolpita nella mia mente l’orazione di Alberto Moravia, pronunciata nell’ormai lontano 5 novembre del 1975 alle esequie di Pasolini, dove affermava in modo accorato  “…E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo…”.

Certo, non si vogliono fare qui paragoni  inopportuni o impropri,  ma è pur certo che ci sono valide poetesse e poeti seppur nascosti e rari da trovare e ciascuno di loro è un microcosmo che rappresenta un mondo intero affascinante ed insolito.

Per Giacinta De Simone la poesia è una carezza per l’anima e un sogno di vita da parte di una persona molto sensibile, che si rivolgerà poi al sociale, non solo come studio e professione ma anche come impegno e partecipazione. E’ anche una persona estremamente riservata e avvezza alla modestia ma ha partecipato a importanti concorsi nazionali di Poesia e ha pubblicato le sue poesie con diversi editori.

Di seguito, in tema con il riconoscimento dell’altro che abbiamo deciso per questo numero di Condi-Visioni, una delle sue ultime pubblicata da Aletti Editore nel dicembre 2023, recita così:

La mia dedica a te

Tu.

Divini occhi azzurri,

     nei quali si legge e “tocca”

     l’avvolgente consistenza

d’umanità e d’anima

del tuo infinito.

Ne ho scelte tre dalla sua raccolta personale Poesie Chiare, che sono molto rappresentative del leit-motiv di questo numero.  

Poesia blu

Vorrei riversare su di te
non solo poche onde
ma tutto intero il mare del mio amore.
Non un mare scuro che ti sommergesse
senza più lasciarti vedere l’azzurro del tuo cielo.
Un mare chiaro, leggero, trasparente…
che miriadi di piccole gocce
bianche, celesti, azzurrine
ti danzassero libere intorno…
Fra tutte, vorrei che tu
ne lasciassi una posarsi sul tuo cuore
e, amandola, ti accorgessi che essa è blu.

Poesia blu” in AZ Arte Cultura 1995 Anno XX n.82.

In risposta a una tua fotografia

Nei tuoi occhi io mi vedo,
nel tuo sorriso c’è il mio,
io ci sono,
nei tuoi silenzi che mi abbracciano
io non mi perdo.

In risposta a una tua fotografia” in Figli oggi e domani Notiziario CAF 1997 Anno VII n.13.

Il colore dei neri

Il loro colore i neri
non ce l’hanno sulla pelle.
Come tutti quelli che hanno sofferto
ce l’hanno dentro, nell’anima.
E’ il colore della fatica e del sudore
nei campi di cotone,
il colore della sofferenza e del dolore,
della discriminazione e dell’apartheid,
del razzismo e della schiavitù.
E’ il colore intenso della loro musica
quando i loro corpi si muovono danzando
come solo loro sanno fare,
quando suonano jazz, swing e rhythm and blues,
quando cantano nei cori gospel.
E’ il colore del discorso di Martin Luther King
quando legge “I have a dream”,
delle troppe volte in cui qualcuno con disprezzo
li ha chiamati “negri”
e ha negato loro i diritti umani.
E’ un colore nero che brilla di luce, d’anima e di libertà.
E’ il colore dell’umanità alla quale tutti da sempre apparteniamo:
la nostra intera umanità, l’unica umanità.

Il colore dei neri” Newsletter Associazione Nazionale Sociologi (ANS) n. 4/2020

Nota biografica: Giacinta De Simone, nata a Gallipoli (Lecce) il 18 aprile 1955. Laurea in Sociologia, Diploma in Counseling, già Docente di Scienze umane e sociali, Counselor.

Le poesie e le foto sono state gentilmente concesse dall’autrice

Sabato 20 gennaio, dalle ore 9:30, presso l’aula Magna del Trapezio dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, l’Associazione Sarknos (Associazione Pazienti con Sarcoma dei Tessuti Molli) terrà il convegno dedicato ai pazienti affetti da sarcoma dei tessuti molli, dove i professionisti della salute mostreranno le nuove tecnologie sulla diagnosi, cura e riabilitazione di questa patologia.

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SarkNos nasce dall’iniziativa di un gruppo di pazienti e medici spinti dal desiderio di voler creare una rete di contatto, sostegno e unione per quanti sono affetti da questa rara forma di tumore e per i loro familiari.

L’evento, organizzato in collaborazione con la Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, si terrà sabato 20 gennaio, alle ore 9:30, presso l’aula magna del Trapezio dell’Università Campus Bio-Medico di Roma.

Numerose le personalità del mondo medico-scientifico, accademico e istituzionale che parteciperanno ai lavori della giornata, moderati dal Dott. Sergio Valeri, Referente dell’UOS di Chirurgia dei Sarcomi dei Tessuti Molli – Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico:

– Ing. Carlo Tosti, Presidente della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico;
– Prof. Bruno Vincenzi, Referente dell’UOS del Day Hospital Oncologico – Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico;
– Dott. Carlo Greco, Radioterapia – Fondazione Policlinico UniversitarioCampus Bio-Medico;
– Dott.ssa Irene Aprile, Direttore di Dipartimento – Fondazione Don Carlo Gnocchi;
– Dott.ssa Livia Quintiliani, Responsabile del Servizio di Psicologia Clinica – Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio Medico;
– Dott.ssa Loredana Caracausi, Assistente sociale – Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico;
– Avv. Stefano Radicioni – Vice Presidente Associazione Sarknos;
– Prof.ssa Rossana Alloni, Direttore UOC Chirurgia Generale Specialistica – Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico.

All’interno del gruppo dei sarcomi dei tessuti molli si distinguono numerosi sottotipi di tumori, classificati in base alle caratteristiche delle loro cellule di partenza (“istotipo”). I singoli tipi di tu- more sono ancora più rari e in alcuni casi se ne conoscono solo poche decine di casi in tutto il mondo.

Il percorso di diagnosi e cura della persona affetta da sarcoma dei tessuti molli è spesso lungo, complesso e impegnativo sia dal punto di vista fisico che emotivo.

Molti pazienti prendono strade “sbagliate”, rivolgendosi a centri non specializzati e ricevendo trattamenti inappropriati, finendo per essere costretti a viaggiare lontano da casa e dagli affetti per poter raggiungere un centro di riferimento.

Il Dipartimento di Chirurgia Generale Specialistica del Policlinico Campus Bio-Medico ha contribuito alla nascita dell’Associazione Sarknos, il cui obiettivo è avvicinare le persone accomunate dall’aver affrontato le difficoltà nel fronteggiare una patologia rara come quella del sarcoma e che vogliano mettere il loro vissuto e la loro esperienza al servizio della comunità e degli altri pazienti. L’associazione organizza eventi di divulgazione e informazione aperti a tutti, stimola l’incontro e il confronto tra pazienti, familiari e personale sanitario, promuovendo la socialità, per far nascere idee e stimoli dalle esperienze comuni, abbattendo le barriere dell’isolamento e della paura. L’associa- zione, inoltre, intende sensibilizzare i professionisti sanitari presenti sul territorio dell’importanza di un corretto percorso diagnostico e terapeutico, diffondendo la conoscenza e la cultura del centro di riferimento, contribuendo a centralizzare le persone con una nuova diagnosi di sarcoma dei tessuti molli, con l’obiettivo di superare gli ostacoli all’accesso al miglior trattamento possibile.

Il programma:

09:00 Registrazione dei partecipanti

09:30 “Saluti delle Istituzioni” (Ing. Carlo Tosti, Presidente della Fondazione Policlinico Universi- tario Campus Bio-Medico)

09:45 “Apertura dei lavori e introduzione all’incontro” (Dott. Sergio Valeri, Presidente Sarknos, Responsabile UOS Chirurgia dei Sarcomi dei Tessuti Molli – Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico)

10:00 “L’innovazione nella chemioterapia dei sarcomi” (Prof. Bruno Vincenzi, Responsabile UOS Day Hospital Oncologico – Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico)

10:15 “Le nuove tecniche di Radioterapia” (Dott. Carlo Greco, Radioterapia, Fondazione Policlini- co Universitario Campus Bio-Medico)

10:30 “La riabilitazione e il recupero funzionale dopo l’intervento: il contributo delle nuove tecno- logie e della robotica” (Dott.ssa Irene Aprile, Direttore di Dipartimento – Fondazione Don Carlo Gnocchi)

10:45 “Il corpo e le sue emozioni. I bisogni psicologici e sociali nel percorso di cura” (Dott.ssa Li- via Quintiliani, Responsabile Servizio di Psicologia Clinica e Dott.ssa Loredana Caracausi, Assi- stente sociale – Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico)

11:00 Coffee break

11:30 “Testimonianza di un paziente”

11:45 “Discussione aperta con i pazienti”

12:30 “Il ruolo delle associazioni dei pazienti: assistenza, ricerca, rappresentanza”

(Avv. Stefano Radicioni – Vice Presidente Associazione Sarknos Pazienti Sarcomi dei Tessuti Molli)

12:40 “Conclusioni dei lavori” (Prof.ssa Rossana Alloni, Direttore UOC Chirurgia Generale Specialistica – Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico)

Nora Lux è un’artista romana che proviene da studi psicologici ma con una formazione multidisciplinare che prosegue all’Accademia delle arti e nuove tecnologie. Artista trans-mediale che spazia dalla fotografia, al video, alla performance, dalla poesia alla musica con forti richiami allo sciamanesimo e al femminino sacro, attraverso simbologie esoteriche che rimandano ad Ermete Trismegisto.

Vent’anni di ininterrotto lavoro nella natura, in cavità e nelle profondità della terra per narrare la storia del femminile nella nostra anima: il percorso artistico di Nora Lux inizia con opere in bianco nero in pellicola e prosegue con immagini di sé stessa come Dea Madre nelle vie sacre e negli ipogei degli etruschi. Il lavoro evolve successivamente in azioni performative che, nell’approccio dell’autrice, rappresentano il naturale sviluppo degli autoscatti.

L’originalità di queste “azioni” consiste nell’essere veri e propri rituali di sintonizzazione con le energie dei luoghi, riti che possiedono la funzione di immergere l’artista nell’inconscio collettivo e nel consentirle di conquistare e trasmettere al pubblico il frammento di una nuova conoscenza. Proprio nel corso di una di queste “azioni”, infatti, mentre assumeva la ieratica posizione della potente Dea Madre, l’artista ha trovato il riferimento Totemico: un corvo, simbolo dello stato iniziale dell’opus chiamato “Nigredo”.

Da questa dimensione di oscurità, Nora Lux ha integrato nuove figure di comunicazione spirituale tra la terra e il cielo, come il pavone (Albedo) e l’aquila (Rubedo), simboli di trasformazione presenti nel suo Vitriolum (2017-2019). Fotografia e performance si compenetrano poiché per l’artista non c’è confine tra l’agire e il momento fotografico. Ciò che porta in scena nelle performance è il risultato delle sue esplorazioni, l’autoscatto è un momento vissuto con e nella natura. L’elemento Terra e le grotte della civiltà etrusca, dove la donna era la più libera delle società antiche, sono i luoghi della metamorfosi, passaggi ctoni, simboli della profondità dell’inconscio.

La fotografia può fissare l’eterno, il suo proposito è più ambizioso, lasciare scorrere, permettere al tempo di passare, non fermarlo e dominarlo ma, creare con esso e su di esso, sfuggire alla vocazione naturale di specchiarsi nell’obiettivo fotografico per attingere ad un altro universo, quello degli Dei, e più specificatamente a quello della Grande Dea, influenzata dalle teorie di Marija Gimbutas, e dall’indagine di Erich Neumann sull’archetipo della Grande Madre e i Simboli della trasformazione di Carl Gustav Jung.

Nora, ci siamo conosciuti in una tua nuova iniziativa, SpeculumamoriS, di cui dopo parleremo. Mi ha da subito incuriosito la tua arte con i suoi forti richiami primordiali. Puoi raccontarci come è cominciato il tuo percorso?

E’ iniziato tutto all’età di 8 anni quando mio padre mi regalò una macchina fotografica.  In famiglia c’era uno zio intellettuale che mi portava spesso nei musei dove mi affascinavano le statuette che poi ricollegai alla Dea madre, come divinità femminile e primordiale. Questo è stato il primo germoglio, da cui è scaturito il Maestro Albero della mia arte ma, direi forse della mia vita. Le radici si sono formate all’Accademia delle arti e nuove tecnologie e l’albero è continuato a crescere, alimentandosi con l’interesse per le civiltà preistoriche e gli etruschi. In quest’ultimi, il principio femminile fu massimamente celebrato e coincise con il diffondersi dei culti misterici e delle civiltà matriarcali, che ho poi approfondito con gli studi dell’antropologa e archeologa Maria Gimbutas.

Ho iniziato il lavoro sul corpo in Accademia, fotografandomi in pellicola, l’uso della fotografia analogica, del bianco e nero con i suoi contrasti, mi proiettava in una dimensione intima e oscura,  vedevo me stessa in luoghi rarefatti, abbandonati, misteriosi.

Passavo giornate intere nei luoghi che sceglievo, spesso ci dormivo anche. Nel 2008, suggestionata dal Film di Pasolini “Il Vangelo secondo Matteo, mi sono recata a Matera nel parco della Murgia, fotografandomi principalmente nelle Chiese Rupestri, e ho realizzato la mia prima immagine iconica di nudo in natura “Mater Lacrimosa”.

Da questo momento ogni mia foto è creata in ambienti esterni, la Natura, che non ho più lasciato, diventa la mia scenografia ed inizio ad ambientare la GRANDE DEA in Etruria (Toscana, Alto Lazio e Umbria). Prediligo ancora oggi le zone tufacee del triangolo magico tra Pitigliano-Sorana-Sovana, area di insediamenti etrusco-romani, all’interno di cavità, grotte e boschi, in 15 anni di lavoro negli stessi luoghi.

Oltre al rapporto con la Natura e con gli elementi primordiali, prevale la dimensione della trasformazione, sia del corpo sia del paesaggio, come si può vedere dall’evoluzione storica degli autoscatti. C’è una tensione tra la foto che vuole eternizzare ed il divenire del tempo che è anche ciclico. Anch’io seguo questa ciclicità come Persefone, che passava sei mesi dell’anno (autunno e inverno) nel regno dei morti e negli altri sei mesi (primavera ed estate) andava sulla Terra da sua madre Demetra, facendola rifiorire al suo passaggio.

Le feste solstiziali hanno infatti avuto nel tempo, la funzione di ricordare all’uomo che il continuo ripetersi della morte e della rinascita del Sole è per analogia l’avvicendarsi della morte e della rinascita della vita.

Anche per me il periodo primavera-estate è quello di massima espressione e produzione artistica mentre quello invernale è più dedicato al ritiro spirituale e allo studio.

A proposito di solstizi, sappiamo che il 21 dicembre prossimo, giorno del sol invictus, presenterai il progetto SIGILLUM alla Galleria Canova 22. Ce ne potresti parlare, illustrando le novità e come si inserisce nella tua composita produzione artistica?

Con la performance SIGILLUM il corpo è medium tra microcosmo e macrocosmo.

La Performance si inserisce all’interno del progetto Close Up promosso da Roma Capitale Assessorato alla cultura con “culture in movimento”, curato dal dipartimento Attività culturali in collaborazione con Siae, in una delle location più suggestive della capitale, la Galleria Canova 22, diretta da Fiorenza D’Alessandro e Franz Prati.

L’Azione è L’Hypostasis greca, la persona in quanto unica “icona divina”. Dialogherò con una mia opera, una fotografia che con la tecnica del mapping verrà proiettata sull’intera galleria.

L’immagine, un autoscatto realizzato nella grotta perciata, maggiore esempio di grotta a scorrimento lavico dell’isola di Ustica, descrive il flusso di magma vulcanico che cambia forma e temperatura come il corpo è fluido e solido. Il corpo scenico di carne e ossa in performance genera un nesso con il versetto della Genesi 2,23: “Questa è osso dalle mie ossa e carne della mia carne”. Creo attraverso il simbolo un corpo che diventa oggetto della vita psichica sigillata nell’essenza del femminile e del maschile insieme in correlazione con i recenti fatti di cronaca riguardanti i femminicidi e la guerra in Palestina. Gli elementi sono incarnazioni terrene dei principi cosmici, così il mio corpo costruisce all’interno dell’opera fotografica un’inclusione totale con gli elementi. Il corpo formato da calcio, fosforo, sodio, potassio, magnesio e ferro unito alla roccia lavica richiama lo stesso ferro presente nel sangue. Il nucleo di ferro fluido della Terra con l’eruzione si manifesta nelle rocce magmatiche con le quali il mio corpo si confronta.

Gli uomini sono il piccolo mondo, perché legati alla Natura del Mondo. L’universo è il grande mondo, il Macrocosmo. Nella performance SIGILLUM attraverso l’immagine, la geometria sacra, il suono, la voce e il CORPO, come specchio ed eco di ciò che è stato violato, unisco Terra e Aria, Fuoco e Acqua.

Potresti sintetizzare il senso della ricerca alla base della tua espressione artistica?

Come dicevo in precedenza, la mia ricerca nasce dalla fotografia che si “muove” parallelamente alla perfomance art, la quale negli ultimi anni è diventata un’espressione necessaria quanto le opere fotografiche che realizzo in Natura.

Il progetto UNUS MUNDUS (2020) mette in evidenza questa corrispondenza, dal quale emerge l’evoluzione della mia espressione, la fotografia e la performance, prioritari nel mio fare, dialogano sempre di più.

Sacralità e Ambiente, retaggi antichi e connessione con il mio corpo, linguaggio alchemico e geometrie sacre. La consapevolezza che ciò che è dentro di noi vive anche al di fuori, in un rapporto di integrazione e unione continua con la natura, il sole, la luna, le stelle.

C’è un senso altro che muove il mio operato ultimamente, qualcosa che si avvicina alla purezza del fuoco. Bruciando puoi distruggere, se non compensi e mitighi con altri elementi, oggi la sfida è proprio questa, vivificare per perfezionare, sottraendo.

Il fuoco è interno alle cose e esterno, è nel cuore della Terra e nei raggi del sole ed ogni cosa si trasforma, si muove e diviene come il fuoco.

Con riferimento al genius loci, ci puoi parlare del tuo progetto “site-specific” TEMPLUM iniziato nel periodo pandemico in Puglia, nel sito preistorico più grande di Europa? e della visione cosmica, in particolare quello su cui sta lavorando attualmente

In uno spazio dove sono raccolti e consacrati i segni, nasce la mia visione del progetto artistico TEMPLUM.

Il Templum è un concetto etrusco, la stessa Roma città in cui sono nata e fondata da Romolo, primo Re Etrusco, viene edificata con il tradizionale rito di fondazione delle città etrusche. Il Templum è una divisione spaziale e temporale praticata in una determinata area, per estensione il Templum diverrà il tempio che conosciamo oggi, cioè la costruzione che si edifica sul luogo precedentemente augurato e reso sacro.  Questo augurare un luogo significa anche dare una centralità ispirata dal luogo.  Percorro sempre la stessa modalità che utilizzo nel progetto TEMPLUM poiché è divenuto un metodo performativo. Ogni cosa procede secondo una geometria e attraverso le ombre che il sole proietta nel cerchio, costruisco una vesica piscis, immagine iconografica sacra, mediazione tra cerchio e quadrato, i cui assi individuano l’orientazione dei futuri cardo Nord-Sud: asse del mondo e decumanus Est-Ovest: traiettoria dell’eclittica. Gli assi del Tempio Sacro.

TEMPLUM inizia in Puglia, nel sito neolitico più grande d’Europa, dove svelo una delle modalità d’azione che attraverso questo progetto diviene chiaramente visibile a tutti. Interpreto un mondo arcaico. Il mio corpo ricettacolo di energie cosmiche divine soglia medianica tra mondo sacro e profano. Nella grande pianura del tavoliere delle puglie, all’interno dell’area neolitica ripercorro i segni di ocra rossi, corrispondenti alla costellazione di Cassiopea, iconografia presente sul busto della statuetta della Dea sciamana, simbolo di sangue e di vita.

 Se il tempo, dice Platone, “è l’immagine mobile dell’eterno e l’istante è l’eterno, dove futuro e passato non esistono”, nell’istante in cui l’augure contempla fissando il Templum diviene tutt’uno col Dio, entra nell’eterno, nell’essere, il quale poi lascia segni indiscutibili di verità e presagio”.

In TEMPLUM II risalgo le scale dell’unica Piramide etrusca presente in Italia, l’altare rupestre più grande d’Europa, con in mano una pietra rosso sangue, inverto il rito di scolatura del sangue, rianimando le vittime sacrificali. Dal sangue degli animali l’anima trasmigra nelle pietre che percorrono al contrario il destino infausto elevandosi in una propositiva e trasmutata nuova esistenza, non solo simbolica, ma incredibilmente reale. In questo mio gesto rinnovo e mi affido ad una metafora concreta, sui temi della vita sotterranea del mondo etrusco, proseguendo il percorso sulle tematiche della  Dea Madre. In TEMPLUM III, rappresento Cerere chiamata la Nera, Demetra per i greci e, Vei per gli etruschi. Il nero è il colore della fertilità, che spiegherà in seguito il proliferare In Europa delle Celebri Madonne Nere, che non a caso erano dotate di virtù curative. La Terra fertile di Cerere e la Lava vulcanica il cui principio è il fuoco si congiungono, ma il sale della Terra è L’anima, “Quell’acqua divina, aqua permanens che dissolve e coagula” la sostanza arcana che trasforma e al tempo stesso è trasformata, la natura che vince la natura.

In TEMPLUM il concetto di sacro è in continua evoluzione, in correlazione al rapporto che stabiliamo con gli elementi naturali e la rotazione dei corpi celesti. Realizzo, infatti, le azioni performative e le fotografie rispettando una divisione spaziale e temporale, seguendo concetti di assialità e orientamento. In questo senso sento di essere arrivata all’alba di un procedere nuovo in cui l’osservazione degli oggetti astronomici, dello spazio, e della natura è parte fondamentale del tutto, e nelle azioni performative è particolarmente evidente poiché si partecipa attivamente ad un modello cosmologico.

Ci potresti illustrare meglio i tuoi punti di riferimento artistici, alcuni di natura antropologica, psicologica e magari filosofici che sono alla base della tua ricerca ed espressione artistica?

Nell’Europa del Neolitico la società poneva la donna al centro della vita sociale e la Dea all’apice del Tempio degli Dei, poiché la donna porta e genera la vita e la divinità della Terra che dà nutrimento. Maria Gimbutas connette il rispetto sociale per il femminile al rispetto profondo religioso, la venerazione di Dee, dichiarando che le società matrilineari dell’Europa Antica rispettavano sia le donne mortali che le divinità femminili.

Molte di queste statuette sono acefale, puoi proiettare su di esse.

Mi viene in mente la testa della “Venere” di Willendorf una sfera granulosa e omogenea, come anche la “Venere” di Lespugue dalla forma ovale allungata, o le statuette di Grimaldi, il Bassorilievo di Laussel e molte altre.

Insieme alle statuette e ai bassorilievi le pitture preistoriche mi hanno sempre affascinata, segni disordinati che arrivano fino a noi con una composizione tangibile ai nostri occhi di un’epoca remota che appare vicina. In questo ho sempre intuito l’Arte, e anche per questo senso di appartenenza che proseguo il mio percorso artistico. Dopo molti millenni questi uomini e queste donne continuano a parlarmi mi assomigliano e tuttavia hanno trasformato loro stessi si sono fatti medium.

Nelle pitture preistoriche i pittogrammi annunciano immagini di animali e non di loro, l’annullamento della rappresentazione dell’uomo rispetto a quella dell’animale mi stupisce ancora portandomi dentro emozioni dal carattere sospeso.

Le tue performance e le tue opere fotografiche sono ricche di richiami ancestrali, esoterici, sciamanici che ci riportano a riflessioni intime ed universali allo stesso tempo.  Qual è la motivazione alla base ed il messaggio che intendi portare?

È innanzitutto una necessità che mi sospinge, un’urgenza, e per questo creo, trasformo, scompongo e ricompongo, non so se c’è un messaggio che intendo portare ma, spero di riuscire ad evocare la Grande Dea, attraverso gli scenari della civiltà etrusca, e della natura tutta, tramite le simbologie della tradizione alchemica occidentale, in maniera sia esoterica che essoterica.

Il culto della Dea Madre di cui parlo abbondantemente nella risposta precedente muove il mio operato da anni, e se pensiamo che questo culto dal neolitico si estende per tutto il paleolitico in un arco temporale che va dai 40.000 anni a.C. ai circa 3000 a.C. più o meno quando inizia la scrittura, è davvero un periodo vastissimo, nulla in confronto ai miei 20 anni di ricerca, nonostante la costanza.

Le statuette delle “Veneri” dalle quale riprendo le posizioni e il dialogo Sono figure di donne enigmatiche che stimolano la mia immaginazione interpretativa, statuette silenziose, così come le opere fotografiche, “aliene”, che lasciano nell’ombra ciò che invece la nostra società mette in risalto.

Probabilmente attraverso le tematiche che indago, metto in luce sia la società patriarcale che ci ha condotti ad ogni femminicidio ma, anche la responsabilità personale oltre le dinamiche sistemiche, strutturali.

Il corpo della donna è portatore delle generazioni future e tutte queste guerre e massacri disonorano la donna e la terra.  Noi siamo il nostro pianeta, uniti possiamo essere più recettivi e disponibili ad agire all’interno di noi.

Stando con i piedi a Terra mi affido al mondo invisibile. Attraverso le mie azioni performative esprimo attraverso il suono il tentativo di portare il pubblico in uno stato di frequenze alfa, per alcuni anche Theta, consapevole che per svuotarci dai condizionamenti culturali che sono l’ostacolo più grande alla nostra evoluzione, possiamo attraversare stati altri di coscienza e risvegliare la visione psichica assopita, per credere in quello che percepiamo.

La Tecnologia e la scienza non dà spazio al soprannaturale ma, gli ebrei tradizionalisti credono che Mosè parlasse con Dio, i mussulmani credono che Maometto ebbe incontri con l’arcangelo Gabriele, gli indù e i buddisti riconoscono entità, regni, intelligenze e stati di esistenza non fisici illimitati.

La nostra conoscenza del soprannaturale nasce da affermazioni di visionari religiosi in condizioni di estasi, profeti, sciamani. L’estasi sciamanica è alla radice di ogni cultura. Nei primi momenti dopo la sua fondazione, circa 2000 anni fa, il cristianesimo era una religione sciamanica. Cristo era uno sciamano non solo perché era umano e divino aveva il dono di guarire gli infermi. Quando pensiamo alla croce del Cristo in essa c’è la morte e la rinascita, è l’iniziazione dello sciamano tramite la morte, l’agonia e la resurrezione.

Ultimamente hai dato vita al progetto iniziatico SpeculumamoriS, a cui ho assistito alle prime due edizioni. Oltre che a un progetto artistico che ti consente di sperimentare per la prima volta il teatro e poterlo confrontare con la performance art che da vent’anni è il tuo mezzo artistico insieme alla fotografia, mi sembra di capire che sei mossa anche da una tua esigenza “spirituale” di metterti a disposizione di altri artisti, aiutandoli ad emergere. Un afflato ispirato dal testo “Lo specchio della anime semplici” della mistica medioevale Margherita Porete. Ci puoi parlare di questa esperienza e dei suoi riferimenti e di come si colloca la disciplina dell’Animazione della Spada che mi ha molto incuriosito e attirato?

Forse oggi le mie azioni hanno una pretesa che va oltre la ricerca artistica, c’è uno spazio nuovo, che mi sono concessa che avvicina me e gli altri alla conoscenza e alla realizzazione di Sé. La Lettura del testo “Lo specchio delle anime semplici“, della mistica del Duecento Margherita Porete, è un trattato allegorico tra Amore, Anima e Ragione, come se fossero tre personaggi. Amore e Anima sono Dio e Margherita che confliggono duramente con ragione. Il testo mira alla semplicità, intesa come unica realtà, non c’è alterità dell’essere. Leggerlo è stato come far vivere in me la non-dualità, un desiderio dell’Anima, l’amore e la conoscenza sono due ali. Questa visione mi ha condotto alla creazione di SpeculumamoriS sia per un sentire intimo ma anche per dare luce a questa mistica cristiana che fu bruciata sul rogo come eretica. Attraverso la via amoris contemplare vedere e amare in gioia. Lo spirituale non è né maschio né femmina il messaggio è aprirsi alla natura propria, che è coscienza. in questi appuntamenti mensili niente va raggiunto, ma svelato. Viene l’ora ed è questa.

La spada è una disciplina che ho imparato da Umberto Di Grazia, Maestro e Amico, Ricercatore e Sensitivo di fama internazionale, ideatore delle tecniche dell’Unione e del Risveglio® e, viene maneggiata in modo rituale sia negli esercizi meditativi che nei movimenti di combattimento, creando apposite figure geometriche nello spazio. In SpeculumamoriS, l’intervento con la spada è sempre presente per valenza del simbolo e connessione storica con la Porete, che anticipa le sorti di un’altra nota figlia di Francia, Giovanna D’Arco, anche lei bruciata al rogo, che guidata da Santa Caterina, ne impugnava una.

La spada, secondo le credenze e le civiltà, simboleggia diversi valori ma rappresenta anche la spina dorsale dell’essere umano, dalla testa al coccige, che è la punta della lama. I simboli come Umberto mi ripete spesso, comunicano più delle parole e risvegliano informazioni addormentate ed indipendenti dalla logica.

Portare questo simbolo, che rappresenta il potere che esercita la sua forza benefica se usata in purezza e nobiltà di intenti, per me significa trasmettere questo e molti altri messaggi a chi vorrà continuare il percorso SpeculumamoriS.

Nel ringraziarti per il tempo che ci hai concesso, c’è qualcosa che vorresti comunicare ai nostri lettori che riguarda la tua espressione artistica oltre che di vita, alle tue direttrici di sviluppo che sembrano inesauribili o, semplicemente, un messaggio da lasciarci?

C’è necessità di un’archeologia del rito per cogliere e ristabilire una verità collettiva attraverso i luoghi, come nei culti di fondazione e continuare a pensare e sentire. Gli algoritmi stanno ridefinendo la realtà. Le nostre informazioni danno luogo a un doppio digitale, un “gemello”, che diventa una nostra estensione. Prodotti e processi vengono ridisegnati dall’intelligenza artificiale: questo Doppelganger elettronico è lo specchio sul quale trasferiamo inconsapevolmente sensazioni, emozioni, pensieri e comportamenti che vengono catalogati in database. Attraverso di questi, coloro che immagazzinano i nostri dati studiano strategie di previsione delle nostre future azioni, dei possibili cambiamenti di direzione e persino gli imprevisti, cercando di tramutare ciò in avvenimenti prevedibili o addirittura prescrivibili. Non credo che questi processi ci aiuteranno a conoscerci meglio e ad avvicinarci maggiormente alla Madre Terra, poiché intaccano il libero arbitrio e violano il confine sacro dell’intimità umana. A questo punto mi chiedo se questi avatar alienati da noi e soggetti al controllo di invisibili padroni, potranno sviluppare addirittura una loroautonoma coscienza? Di fronte a quesiti così radicali e perturbanti sfide tanto poderose, possiamo attraverso l’unione e il risveglio della coscienza, iniziare veramente ad interessarci del nostro pianeta verde. Le specie vegetali e animali si spostano in modo imprevedibile da un ecosistema all’altro creando danni incalcolabili alla biodiversità di tutto il mondo.

Attraverso il mito in cui c’è il senso della nostra esperienza quotidiana, recupero le immagini visibili e invisibili, è come se nei giardini del sogno s’innescasse il potere di trasformare la materia in un elemento libero. Una forma simbolica del pensiero che per analogia organizza la riflessione sull’esistenza e l’esperienza umana mediante la narrazione di eventi passati, presenti e futuri.

*Le opere fotografiche sono state gentilmente concesse dall’artista

Quest’intervista nasce un pò per caso.

Una domenica davanti ad un prosecco mi ritrovo a chiacchierare con Elisa di cose normali come il lavoro, e immediatamente salta fuori una questione inaspettata: l’ansia da prestazione.

Non ci sarebbe nulla di insolito pensando ad un universo fatto di adulti, carriera, uffici, piuttosto che della vita privata, ma che invece è tristemente riferito ai bambini. Nasce rapidamente in me la necessità di approfondire la questione e di chiarire, innanzitutto a me stessa le dinamiche che portano
a questa condizione che ha tutta l’aria di essere una piccola silente sofferenza della nostra epoca e che porta passivamente con sé la promessa di creare una società fragile e intrisa di solitudine, una macchina con degli ingranaggi scollegati.
Elisa Alaimo ha 43 anni, anche se ha il viso fresco e raggiante di una ragazzina. Lavora nell’ambito dell’educazione dal 2006. Dopo la laurea in Filosofia, con una tesi in antropologia culturale sulla Comunità Eritrea di Milano e sulle sue dinamiche di integrazione nel contesto urbano contemporaneo, c’è l’incontro con i Minori nelle comunità di accoglienza e i ragazzi nei corsi di formazione professionale, dove svolge il ruolo di docente di sostegno. Al riguardo mi dice: “Attraverso la relazione educativa con i giovani allievi e il supporto di docenti illuminati sono riuscita ad avvicinarmi al significato di reale inclusione (in anni in cui non era ancora un concetto così tanto diffuso), superando così quello di integrazione.
L’esperienza tra i laboratori di elettronica ed elettrotecnica finisce circa dieci anni più tardi, quando arriva l’esigenza di fare un salto verso nuove conoscenze, apprendimenti e visioni. Ed è così che per i cinque anni successivi ricopre il ruolo di coordinatrice pedagogica ed educatrice per i più piccoli, per quella che è la “fascia 0-6”.

Cosa ti sei portata a casa di quegli anni?
Sono stati anni decisivi e fondamentali, di visioni nuove, aperte davvero alla centralità della persona, dei suoi bisogni, con i propri tempi e con i propri processi. Gli anni insieme ai bambini, vissuti all’altezza dei loro sguardi mi hanno ridato l’energia e la sicurezza per tornare nel mondo degli adolescenti, così tanto vicini, così tanto lontani, così sollecitanti.
Attualmente sei docente di sostegno specializzanda presso l’Università di Torino (TFA VIII° ciclo), come descriveresti questa esperienza?
A dir poco impegnativa! | nostri docenti definiscono noi studenti in vari modi: acrobati tra le nostre vite, ponti tra le istituzioni, ma la definizione che preferisco è “attivista dei diritti umani”, perché lavorare per un mondo più inclusivo e più giusto è davvero ciò che finalmente rende piena la mia vita, chiara e colma di significato.
Quando abbiamo chiacchierato quella domenica mi ha colpito molto il fatto che tu abbia fatto riferimento all’ansia da prestazione dei giovanissimi, ho sentito la stessa sensazione di quando fai degli esami approfonditi e il dottore ti conferma una diagnosi, che sospettavi ma che speravi in fondo di poter scongiurare: quell’impressione che la società in cui viviamo non goda proprio di ottima salute. Che cosa sta accadendo?
L’ansia da prestazione è assai diffusa tra le nostre classi, fin dai primi anni della scuola primaria. lo stessa, da docente, sono testimone quasi quotidianamente del disagio che i bambini provano di fronte ad un insuccesso, ad un voto non corrispondente alle aspettative, alla paura di deludere gli affetti più significativi. La paura più grande è quella di perdere valore dinnanzi ai propri genitori. Come se l’affetto e l’amore famigliare fosse commisurato al giudizio a seguito di una prova. Ciò non corrisponde alla realtà, eppure nel bambino si fa, spesso, strada questo pensiero. | fattori sono molteplici, da una società sempre più competitiva, al tempo passato in famiglia, che tra i vari impegni di genitori e figli è sempre meno.
Molte volte confrontandomi con i genitori e raccogliendo i racconti dei bambini mi sembra che mamma, papà e figli si conoscano (o riconoscano) davvero sempre meno, così il voto o il risultato di qualunque prova diventa il dato tangibile del “chi si è?”. La mia è sicuramente un’opinione ma ritengo abbastanza ‘verosimile che le famiglie facciano molta fatica a capire i reali bisogni dei propri figli, a comprendere i processi che sottendono all’agire dei loro bambini e quindi le loro personalità. Forse se si iniziasse a dare valore e significato ai processi più che ai risultati (e uso il noi perché, a mio avviso, anche noi docenti dovremmo ricordarcelo di più) potremmo vedere bambini più sereni, consapevoli e sicuri del fatto che loro valgono non per quello che fanno ma per quello che sono.”
Qual è la differenza nell’apparato scolastico ed educativo della generazione attuale rispetto alla nostra?
La scuola di oggi è una scuola che si mette sicuramente più in discussione rispetto ad un tempo. Ai docenti che si stanno specializzando si chiede di accettare, accogliere la trasformazione, di andare oltre all’ “abbiamo sempre fatto così”, di superare l’idea che certe teorie e pratiche non si toccano. Il lavoro educativo ci obbliga a rimanere nella complessità (di tempi complessi), la scuola di oggi inizia a riflettere sul fatto che ogni esperienza proposta ai ragazzi deve essere pensata, riflettuta. Uno stesso approccio non va bene per tutti, per sostenere un ragazzo nell’apprendimento è necessario riflettere sui suoi bisogni, riconoscerlo, accettarlo, accoglierlo incondizionatamente.”

…secondo G., sono vestita di stelle.
Per me è stata una rappresentazione significativa.
Ho lavorato con lei molto sulla sua difficoltà a disegnare le mani.

Genitori, scuola e società formano la comunità educante di ogni individuo fin dalla più tenera età, quanta responsabilità ha ciascuno di questi attori?
Sappiamo bene che con “comunità educante” si intendono tutte quelle istituzioni che concorrono alla crescita di un ragazzo e non solo, dalla famiglia alla scuola allo sport, fino ad arrivare al quartiere, ai servizi offerti dalla città etc… Con comunità educante si intende attualmente davvero un cerchio molto ampio. Ad esempio se so che un mio allievo, che sta manifestando disagio a scuola in svariati modi, va a prendere il caffè prima del suono della campanella in un determinato bar, io da docente devo essere consapevole che il mio allievo entra in classe con il bar. Per intenderci, gli incontri che ha avuto, i quotidiani sfogliati, i discorsi ascoltati possono essere indicatori del perché prova o manifesta disagio. E io, come docente, e quindi parte della comunità educante, così come il barista, posso attingere alla rete interna della comunità per capire la situazione e quindi intervenire sollecitando altri nodi della comunità.
Se questo senso di rete fosse più condiviso probabilmente anche le famiglie potrebbero sentirsi meno sole e quindi supportate in un percorso di crescita che coinvolge tutti collettivamente.

Pensi che la nostra generazione fosse più libera e dunque più serena?
Non so dire se la nostra generazione (anni 90-2000) fosse più libera delle nuove generazioni, sicuramente avevamo un sentimento della libertà diversa. Per me la libertà si manifestava nella Scelta.
La mia generazione poteva scegliere, sapeva cosa scegliere, si esponeva dichiarando cosa volesse. Talvolta gli obiettivi si raggiungevano con facilità, altre volte lottando (con la famiglia, la scuola, con le aspettative della società), altre volte lasciando perdere o cambiando strada. Con o senza compromessi.
Ora mi chiedo se le nuove generazioni si sentono libere di sognare. Mi domando se esistono ancora i desideri

Questo mondo ci vuole altamente performanti, forse ancora prima di riuscire a maturare la nostra identità ed espressività, e non curandosi del nostro bagaglio emotivo, o banalmente dei tempi filologici individuali. e per questo che si parla sempre di più di burnout? È vero che questa condizione vede vittime sempre più giovani? Come fare per invertire questa tendenza?
Il burnout è una malattia e come tale deve essere trattata. Il burnout si manifesta quando il nostro mondo intimo, quello dei sogni, delle ambizioni, dei modi in cui la nostra personalità si presenta al mondo brucia letteralmente. E brucia davvero. Ciò riguarda tutti, dai ragazzi che non si sentono riconosciuti nel loro valore, ai giovani adulti che sperimentano la frattura tra ciò che sono e l’ambiente che li circonda, spesso vittime di rapporti con datori di lavoro, manipolatori e perché no? Anche sadici. Ma ci sono anche lavoratori in prepensionamento che trascinano la loro giornata lavorativa al termine, senza esserci realmente (spesso generando una catena di malcontento e disagio tra colleghi, che potrebbero al loro volta sperimentare quel vuoto che genera il burnout stesso). lo non ritengo che il burnout sia legato direttamente al livello di performance o alle richieste esterne, credo che nasca da un profondo disagio esistenziale, che richiede un cambiamento, uno svoltare di cui spesso si ha paura o non si ritiene di averne le forze. Eppure quante storie conosciamo di lavoratori sofferenti che per scelta o necessità hanno cambiato contesto e si sono ripresi in mano la loro vita? E’ necessario monitorare i luoghi di lavoro (o di studio) con criteri adeguati e precisi, che mostrano chiaramente quali sono gli indicatori per un ambiente sano e favorevole al benessere.

Il mio gattone secondo F., lei non lo ha mai visto. Ma ha ascoltato una sua storia e lo ha disegnato così

In diversi studi si fanno analogie sul comportamento tra la generazione degli adulti di oggi e quelle che l’hanno preceduta, affermando che ci si trova in un adolescenza estesa fino alla soglia dei 40, cosa implica questo atteggiamento, lo possiamo collegare al nostro discorso?
Sì, ritengo che ci sia una correlazione tra i ragazzi adolescenti e gli adulti ritenuti (o che si ritengono) adolescenti a 40 anni ed è molto semplice, i quarantenni adolescenti sono tali perché non sono riusciti a superare le grandi paure dei ragazzi, cioè quelle di non essere amati, non accettati per quelli che sono, di essere lasciati soli.
Per concludere, non posso esimermi dal domandarti cosa ne pensi del metodo Montessori.
Il metodo Montessori ha dato la libertà ai bambini di scegliere e di conseguenza attraverso la scelta di manifestarsi nella loro personalità. L’ambiente, ordinato, preciso, leggibile della Casa dei Bambini porta il fanciullo a scegliere con serenità lo spazio con le proposte più adeguate al suo sentire. Con il metodo viene messo l’accento sulla centralità del bambino, che sperimenta sempre di più diventando via via più consapevole ed autonomo. Sono innumerevoli le possibilità che offre il metodo, ma ho voluto focalizzarmi sulla libertà di scelta perché, come già detto, la ritengo una facoltà che stiamo perdendo.
Anche il metodo Montessori ha il suo limite, che sta proprio nel concetto di metodo. Il metodo non deve essere considerato una “lista della spesa” o come consigli per gli acquisti da applicare in ogni occasione, ma va pensato, valutato, ripensato nella complessità.