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C’è un bel film di Pedro Almodóvar, Volver (Tornare) dell’ormai lontano 2006, la cui trama si svolge in chiave retrospettiva.

In un dialogo fra madre e figlia, il pubblico conosce il retroscena.

E’ anche un ritorno al primo cinema di Almodóvar, che guarda al passato come un pannello di un grande affresco. Penélope Cruz, una delle protagoniste femminili che hanno fregiato il film al Festival di Cannes con il premio per la migliore interpretazione femminile (il film è stato premiato anche che per la migliore sceneggiatura), canta un bel brano del mito del tango Carlos Gardel, Volver (Ritornare), un brano composto nel 1935 insieme al compositore Alfredo Le Pera, entrambi morti giovanissimi nel tragico incidente aereo all’aeroporto di Medellín. Il famoso ritornello recita così:

Ritornare con la fronte ap­pas­sita

le nevi del tempo che ar­gen­ta­rono la mia tem­pia

Sentire che è un at­timo la vita

che vent’anni non sono niente

che feb­brile lo sguardo, er­rante nelle om­bre,

ti cerca e ti no­mina

Anche noi, con le tempie forse un po’ più argentate, torniamo con questa nuova iniziativa che si ricompone come il pannello di un affresco, con la precedente avventura di Condivisione democratica, durata oltre dieci anni, con cui si pone in continuità ma con tanti punti di novità.

Condi-Visioni, vuole essere uno spazio plurale di riflessione per chi si riconosce in un pensiero profondo contro le semplificazioni ed il flusso indistinto e rumoroso delle opinioni banalizzanti, schiacciate mediaticamente sul pensiero dominante o sull’inautenticità del “si dice”. L‘obiettivo è quello di una maggiore partecipazione e coinvolgimento, anche attraverso alcuni canali social e, non ultimo, l’ambizioso progetto di una web TV. Vogliamo usare internet come strumento innovativo ma, allo stesso tempo, esserne anche una sua filosofia critica, riconoscendone opportunità e limiti, cercando di superare quest’ultimi guardando kantianamente sempre all’uomo come un fine e mai come un mezzo, mettendo al centro il rapporto e la comprensione umana con un uso consapevole delle parole e un’analisi meditata dei fatti.

Uno dei problemi del sistema mediatico nel suo insieme, accentuato anche da un uso improprio dei social che, non invitano alla riflessione ma alla semplificazione per slogan, è proprio l’eccessiva polarizzazione. Lo stiamo vedendo con le drammatiche vicende degli ultimi tempi: i conflitti russo-ucraino e israelo-palestinese che ci riportano drammaticamente all’attualità.

Questo, non significa andarsi a schierare su posizioni bianco e nero ma, cercare di riflettere sulla complessità delle situazioni, sulla loro storicità e, con le dinamiche globali, guardando anche alle responsabilità delle varie istituzioni internazionali. Molti conflitti apparentemente regionali s’innestano, inoltre, in scenari di evoluzione geopolitica, alla ricerca di nuovi equilibri nel riassetto dell’ordine mondiale. La guerra, con le inumane atrocità a cui stiamo assistendo e lo spettro della catastrofe nucleare, è un infelice “ritorno” che pensavamo scongiurato, e che si ripresenta problematicamente nella sua drammaticità.

Anche il tema dell’immigrazione è un “ritorno”, se pensiamo alle lontane immagini dell’agosto del 1991 della nave Vlora al porto di Bari con migliaia di Albanesi che cercavano rifugio in Italia dopo la caduta dei regimi comunisti. Nell’immaginario collettivo quello che ci ha aperto gli occhi su questo problema epocale. Ad oltre 30 anni da quell’evento, stiamo discutendo ancora di come gestire queste situazioni e, per ironia della sorte, vorremmo usare noi, oggi l’Albania come centro di destinazione degli immigrati.

Ultimo, ma non meno importante, il grande problema dei cambiamenti climatici che ci sta molto a cuore, come futuro dell’umanità e nostro tema prioritario. Per rimanere in tema, c’è chi afferma che si tratta di un “eterno ritorno” con il succedersi di ere di glaciazioni e riscaldamenti.

Le controversie scientifiche tra i negazionisti e coloro che sostengono i cambiamenti climatici sono oggetto anche di dibattiti politici con le varie implicazioni a livello geo-politico. I paesi in via di sviluppo non vogliono infatti affrontare i costi della sostenibilità che avrebbero impatto sui loro modelli di sviluppo economico, visto che ritengono di essere in una fase storica che i paesi più avanzati hanno già passato, avvantaggiandosene. Questo è evidente anche nella sofferta Cop28 (la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) di questi giorni, sulla risoluzione per la de-carbonizzazione, dove viene spacciata come una vittoria la presenza nel testo dei “combustibili fossili” (carbone, petrolio e gas). Intanto, i principali produttori di quest’ultimi, si oppongono agli intenti di una loro completa eliminazione (phase-out) entro il 2050. Si parla infatti di allontanamento (transitioning away) ma, effettivamente, già il riconoscimento da parte di quasi 200 Paesi che i combustibili fossili sono la causa dell’aumento della temperatura del pianeta e che occorra prendere delle misure, è di una certa portata storica.

C’è poi il tema di chi debba pagare questa transizione, se chi produce più CO2 oggi o chi l’abbia prodotta già dal passato, con la prima industrializzazione. Annosa e controversa questione che vede sostanzialmente contrapposti, il blocco del BRICS con quello “occidentale”.

L’eccessiva antropizzazione con attività che gravano in modo irreversibile sulla vita del pianeta, rendono urgenti, al di là di riconoscimenti e intenti, azioni concrete e provvedimenti non più procrastinabili perché i problemi, al di là di tutto, sono di tale natura e portata che richiedono un contenimento dell’Uomo sul Pianeta per non perdere forse l’ultima opportunità di incidere sulla crisi climatica e sulle risorse della Terra.  

Partendo dal tema del Ritorno, passando con leggerezza dal film di Almodóvar alle crisi umanitarie, climatiche e alle guerre, senza voler essere catastrofisti, ci e vi domandiamo, siamo forse arrivati a un punto di Non Ritorno?

Nel corso della vita, tutti noi affrontiamo dei momenti di “ritorno”. Possiamo ritornare a casa dopo un lungo viaggio, ritornare alla routine dopo le vacanze, ad esempio.
Il ritorno descrive i percorsi in modo “circolare”, una ruota che fa la sua rivoluzione per tornare nella stessa situazione di prima, ma è davvero così? Tornando, ci troviamo a confrontarci con il nostro passato e a misurare quanto siano cambiate le cose nel frattempo, anche quanto siamo cambiati noi. Un’opportunità di riflessione e di crescita.

(Foto di Carlo Bavagnoli alla mostra fotografica “Costantino Nivola. Ritorno a Itaca”. )

Il Ritorno a Casa

Sicuramente il tipo di ritorno più comune. Possiamo esser stati lontani per poco tempo – come una giornata lavorativa – o per un periodo lungo, la girare la chiave nella serratura e poi aprire la porta è sempre associato ad un momento di emozione. E’ un’occasione per rivedere la luce ed il profumo del proprio posto, per rivedere amici e familiari, ma può portare con sé anche un senso di nostalgia e una riflessione su quanto siano cambiate le cose per come ce le ricordavamo.
Ma se il viaggio, la distanza è stata alquanto lunga, al ritorno a casa si possono notare differenze anche sulle strade della nostra città natale, la si può trovare più bella o più sporca, più frenetica, più piacevole da vivere a passare nei suoi locali e si può essere accompagnati dalla sensazione di confronto tra la persona che siamo diventati e quella che eravamo quando l’abbiamo lasciata. Perché forse a cambiare siamo stati noi.

Il Ritorno alla Routine

Il ritorno alla routine quotidiana dopo un periodo di pausa, come le vacanze estive, può essere un’esperienza altrettanto significativa.
Durante le vacanze, si “stacca la spina” dalla solita routine, e il ritorno alla normalità può suscitare sentimenti contrastanti.
Da un lato il ritorno alla routine può portare con sé un senso di stabilità e comfort, mentre dall’altro può anche farci riflettere su come impieghiamo il nostro tempo e se stiamo perseguendo ciò che è veramente importante per noi. Questo può spingerci a fare cambiamenti significativi nella nostra vita.

Il “ritorno” è un tema universale, che tocca la vita di ognuno di noi, che tutti noi abbiamo sperimentato.
E’ una bella opportunità per la riflessione, la crescita e il cambiamento. Se affrontato con apertura e consapevolezza, il ritorno può portare a nuove prospettive e a una maggiore comprensione di noi stessi e del mondo che ci circonda.

Forse il “ritorno” ci da l’idea di non avanzare davvero, ma forse non importa dove ci porterà questo viaggio, perché in ogni passaggio c’è un’esperienza che ci aiuta a crescere e a scoprire chi siamo veramente.

Il film di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese prosegue le sue presentazioni nel tour italiano.

Nel 1996 uno scoop giornalistico rivela all’Italia che il poeta Dario Bellezza è malato di AIDS: la notizia segna l’inizio del suo calvario. Additato per strada come un appestato, il poeta si chiude in casa per difendere la propria privacy e rivendicando il diritto a rivolgersi a cure sperimentali, in mancanza di un vaccino sicuro contro l’HIV.

Detto “il Rimbaud di Monteverde” per il precoce talento poetico e per la fuga da casa, amico di Amelia Rosselli e di Aldo Braibanti, Dario Bellezza è stato inquieto protagonista di una stagione culturale romana di grande splendore, condivisa con Sandro Penna, Alberto Moravia, Elsa Morante, Anna Maria Ortese e molti altri. “Miglior poeta della nuova generazione” secondo Pier Paolo Pasolini, dopo gli anni della Neoavanguardia Dario Bellezza rimette al centro del discorso poetico l’io e le sue passioni, le invettive e le licenze, gli amori e la morte, in una lingua esplicita e barocca.

Omosessuale provocatorio e controverso, lo definivano “il nostro poeta maledetto”. “Semmai benedetto, dalle Muse” replicava lui, col suo spirito polemico e irriverente.

Bellezza, addio, il nuovo film documentario di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese, prodotto da Zivago Film e Luce Cinecittà, con Barbara Alberti, Antonella Amendola, Ulisse Benedetti, Franco Cordelli, Ninetto Davoli, Giuseppe Garrera, Maurizio Gregorini, Fiammetta Jori, Renzo Paris, Elio Pecora, Paco Reconti e Nichi Vendola, presentato in prima mondiale al Pesaro Film Festival lo scorso 20 giugno prosegue le presentazioni nelle varie regioni italiane con un grande e positivo riscontro.

In “Bellezza, addio” gli amici Renzo Paris e Franco Cordelli ricordano il poeta dai tempi dell’Università fino agli anni maturi, passando per le performance nella cantina teatrale romana Beat 72 e il glorioso Festival Internazionale dei Poeti di Castelporziano. Ninetto Davoli, Barbara Alberti e Elio Pecora raccontano una Roma in cui si aggiravano ancora i grandi nomi del Novecento italiano, da Gadda a Palazzeschi, insieme a nuovi “mostri sacri”, mentre i materiali di repertorio, con rarità e video inediti, contribuiscono a disegnare un ritratto inedito di Dario Bellezza e dei suoi “vent’anni di felicità”.

Poi gli anni Ottanta cambiano il mondo e, celebrando il trionfo del libero mercato, viene strappata ai poeti l’ultima briciola di funzione sociale. Ma quegli anni portano con sé anche un virus sconosciuto. Nichi Vendola racconta quello che fu un trauma collettivo, mentre Maurizio Gregorini e Fiammetta Jori ricostruiscono gli ultimi mesi di una vita tutta spesa nel “sacerdozio della poesia”.

Eppure, quando il collezionista Giuseppe Garrera mostra l’archivio privato del poeta che, messo all’asta, lo Stato non ha voluto comprare, ci chiediamo: forse non sono più tempi di poesia? “Finché esisteranno poeti,” rispondeva Dario Bellezza, “sarà sempre tempo di poesia”.

“Il primo incontro che ho avuto con Dario è stato attraverso le opere di Rimbaud che lui aveva tradotto in italiano” racconta la regista Carmen Giardina “e che io divoravo insaziabile da adolescente. Il documentario di Dario non è soltanto il ritratto di un poeta ma è anche una riflessione su quello che abbiamo perduto e anche su dov’è oggi la poesia, se ancora ce ne sia bisogno, se ancora abbia un senso, se è ancora viva. Dentro il film c’è tutto questo, infatti il titolo, non casuale, è Bellezza, addio”

“Provocatore, talentuoso, maledetto, sicuramente una personalità fuori misura, Dario Bellezza è stato detestato, ma anche molto amato” prosegue la regista, “Nel film, poeti, scrittori e amici di Dario danno un prezioso e affettuoso contributo non solo con le testimonianze personali, ma anche con un confronto a distanza sullo stato di salute della poesia, permettendo di allargare lo sguardo dal mero racconto biografico ad un orizzonte più ampio.

Ancora una volta, la collaborazione con Pivio e Aldo De Scalzi è stata per me basilare, la colonna sonora è uno dei pilastri su cui è costruita l’architettura del film. Una musica che non si nasconde, anzi, diventa quasi un personaggio in più, spaziando dall’elettronica al lirismo dei brani orchestrali.

Io sono stata un’adolescente affamata di poesia, e oggi? Chissà che Bellezza, addio non spinga qualcuno a leggere i versi di Dario… Di poesia abbiamo sempre bisogno”.

Una rassegna stampa incredibilmente vasta e bella che elogia quest’opera grandiosa che ha voluto fortemente “raccontare” la poesia, una Roma viva culturalmente dove si percepiva ricchezza artistica fatta di teatro, letteratura, arti figurative, musica, una stagione fantastica di cui faceva parte anche Dario Bellezza.

Definitivo “film dalla solida e avvincente drammaturgia che lascia l’amaro in bocca ma che il desiderio di leggere o rileggere Dario Bellezza”, “Non è affatto un film triste, perché la poesia è salvifica, perché è commovente ascoltare Elio Pecora”, “Giardina e Palmese bravissimi a catturare la meravigliosa drammaticità di un uomo che era un insieme di contraddizioni, gioia, dolore, sorrisi, malinconie, amori, frustrazioni”.

Appassionato e coinvolgente Bellezza, addio ci pone davanti a mille questioni, a scandali assurdi da immaginare, a vite rivoluzionarie, ad artisti che della loro voce hanno fatto un sentiero invitandoci tutti a seguirlo, ognuno a modo suo ovviamente. Perché quel momento, quella Roma, quell’insieme di intellettuali straordinari che “solo a nominarli tutti viene il capogiro”, hanno creato un lavoro incredibile che noi tutti oggi abbiamo il terrore che possa andare perduto ed anche a questo pensiero non solo ci gira la testa ma ci tremano anche le gambe.

“L’Italia non ricorda”, diceva lapidario Aldo Braibanti. Fin da quando mi sono imbattuto in questo pauroso giudizio sul nostro Paese ho pensato a un cinema documentario che scavasse tra le pieghe della memoria collettiva” racconta il regista Massimiliano Palmese.

“A questo scopo il mio lavoro di drammaturgo mi è utile. Penso che per raccontare vita e opera di artisti e scrittori occorra trovare o costruire un architrave drammatico, così che un film possa non solo informare ma stupire, scuotere, incidere. E quello a cui mi dedico nell’ideazione dei documentari è sottolineare in quelle vite la tragica frizione tra artista e società, individuo e mondo.

Trattare i poeti al cinema non è però cosa facile: il pericolo del “santino” è dietro l’angolo. Per questo trovo sia meglio lasciar parlare l’artista attraverso i testi e i materiali di repertorio, e scegliere di intervistare quelli che l’hanno conosciuto prima di chi l’ha soltanto studiato. E poi non censuro i lati bruschi dei caratteri, i temperamenti appuntiti, le vite di eccessi e di errori. Solo così, mi pare, una biografia vive e respira, e l’artista torna a parlarci dicendo di sé cose palpitanti e vere.

Oggi che siamo tutti concentrati sul presente, se non sull’attimo, mi dedico a riscoprire figure del passato. Spiriti inquieti che potrebbero risvegliare la memoria di un Paese assonnato.

La poesia, lì dove sono nato, è il luogo dove ritorno grazie al cinema. E dunque da Aldo Braibanti a Dario Bellezza e in futuro a Sandro Penna, la mia ricerca nel cinema documentario mi pare segnata”.

La vedo tutta lì la sorte mia:

unico interesse di giornate

smarrite ormai è dietro di me,

e tanta avanti ne avrei potuto

avere, con dedizione e calma

al quotidiano scorrere del tempo.

Ignoro perché Qualcuno abbia

deciso il contrario!

Poveri, pochi anni

sono rimasti, gelidi, limitati;

li dubito e li annuso sperando

di moltiplicarli e cedo deluso

al rimpianto calunnioso – non so

più poetare. Io so, l’idea lucente

del nulla stasera non aggiunge

allegra compagnia. Oh come è finita

la speranza! Dio non punirci

ancora se siamo vivi.

Da “L’avversario” di Dario Bellezza (1994)

Biografie

Carmen Giardina

Attrice e regista formatasi presso la Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Genova.

Come attrice è diretta da Cristina Comencini, Marco Risi, Peter Greenaway, Giancarlo Sepe, Umberto Marino, Manetti Bros., Alessandro D’Alatri, Jèrome Salle e molti altri.

È interprete e co-sceneggiatrice di Sleeping around, film di Marco Carniti con l’attore argentino Dario Grandinetti (Parla con lei) e Anna Galiena.

È tra i protagonisti del film Il contagio insieme ad Anna Foglietta e Vinicio Marchioni, regia di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini in concorso alle Giornate degli Autori alla 74° Mostra del Cinema di Venezia. Attualmente sta interpretando l’icona della moda Anna Piaggi nella serie Kaiser Karl prodotta da Gaumont per Disney Plus.

Come regista dirige tre cortometraggi pluripremiati: Turno di notte prodotto da Cinecittà Holding con Leo Gullotta, La grande menzogna con Gea Martire e Luciana De Falco, e Fratelli Minori con Paolo Sassanelli e Alessio Vassallo.

In teatro è ideatrice e regista di God save the punk!, successo di pubblico e critica che viene ripreso per tre stagioni, e per AMREF collabora con il musicista Giovanni Lo Cascio alla realizzazione di Juakali Drummers, spettacolo con venti musicisti ex ragazzi di strada degli slum di Nairobi, che debutta ad Umbria Jazz.

Nel 2020 è autrice e regista con Massimiliano Palmese del film documentario Il caso Braibanti, vincitore di numerosi premi, tra cui il Premio del Pubblico al Pesaro Film Festival, il Premio Giuria Studenti al Salina Doc Fest, quindi il Nastro d’Argento 2021 come Miglior Docufiction.

Massimiliano Palmese

Poeta, narratore, regista, ha pubblicato i romanzi L’amante proibita (2006, finalista Premio Strega, tradotto in Germania e Spagna), Pop life (2009), Il peccato originale (Rizzoli, 2021). Lavora al quarto romanzo.

Ha scritto le raccolte poetiche Lettere di Ganimede, La parola tonica e Questa disperazione felice, vincendo i premi Eugenio Montale e Sandro Penna.

Per il teatro ha scritto sia testi originali (Come treni in paesaggi nuovi, Fast Love, Il figliastro, Il caso Braibanti), che adattamenti (La primavera romana della signora Stone, Il carteggio Aspern, Pierre e Jean, L’arte di essere povero) e traduzioni (Sogno di una notte di mezza estate, Romeo e Giulietta): testi interpretati, tra gli altri, da Claudio Santamaria, Vinicio Marchioni, Giorgio Colangeli.

Ha tradotto i Sonetti di William Shakespeare (Tutte le opere vol. IV, Bompiani 2019) apparsi sulle principali riviste e blog letterari italiani (Poesia, Nazione indiana, Interno Poesia). A dicembre 2023 la sua traduzione dei Sonetti sarà ripubblicata da Elliot nella collana di poesia diretta da Giorgio Manacorda. E’ ideatore, coautore e coregista de Il caso Braibanti (Premio del pubblico al Pesaro Film Festival, Nastro d’argento 2021 miglior docufiction). Sta scrivendo il documentario Vita di Sandro Penna (2024).

L’altra parte del globo terrestre è sufficientemente lontano per non avere i problemi che attanagliano la nostra penisola? A quanto pare no. Anche in Argentina ci si interroga su cosa sia la Mafia e quali siano gli strati sociali che ne permettono il radicamento e la diffusione.

Riceviamo da Gabriele Paolo Smeriglio, che ringraziamo, una riflessione e una recensione del nuovo libro di Maria Soledad Balsas, e la pubblichiamo con molto entusiasmo.


Quanto merito ha chi dà il là a una nuova specifica linea di ricerca? Quanto vale reggere gli urti, pubblicare e – soprattutto – farsi leggere nonostante mercantilizzazione e monopoli della conoscenza? Secreto a voces. Mafias italianas y prensa en la Argentina di María Soledad Balsas è un’opera necessaria. Ha il coraggio di dar voce a un dibattito già esistente su uno degli elementi costitutivi dello Stato-nazione: le mafie. Allo stesso modo, si fa carico di un bel fardello perché decide trattare un argomento su cui in Argentina, come ammette la stessa autrice, diversamente da altri paesi del mondo anglosassone in cui vi è una consistente presenza di italiani e nelle cui università la storia delle mafie è spesso scientificamente trattata, si sa ancora molto poco. 

Al giorno d’oggi, scrivere di mafia e sulla mafia è arduo, soprattutto in un contesto in cui un’iperinflazione discorsiva ad essa dedicata rende difficile comprendere il significato stesso del termine. Balsas (2021) ne parla nel suo lavoro sulla copertura giornalistica delle mafie italiane in “Clarín” tra il 1997 e il 2020 in cui sostiene che la nozione di mafia non è sufficientemente delimitata nell’agenda pubblica locale e spesso finisce per essere banalizzata e assimilata a qualsiasi forma di clientelismo o corruzione. Balsas si prende l’onere di fare chiarezza, una responsabilità accentuata dal grande vuoto accademico sull’argomento in Argentina.

Parlare di mafia significa anche farsi dei nemici, evidenziare i limiti autoimposti di quei giornali a larga diffusione che, piaccia o no, esercitano un’influenza nei confronti di larghe fette della popolazione degli stati moderni. L’autrice, ha il merito di sviluppare coerentemente le tematiche promesse in sede di ricerca e, non meno rilevante, di non annoiare il lettore. Riesce a farlo mettendo insieme ingredienti fino a ieri studiati spesso solo singolarmente. Nel suo libro si riferisce all’esaltazione onnipresente della figura del mafioso come leader carismatico, portatore di un certo charme, protagonista assoluto del genere giornalistico della cronaca, soprattutto quella dei crimini violenti. Infatti, è spesso presente un fascino perverso legato a un modo di costruire la notizia che mette in risalto il male e l’illegalità a scopo di vendita. Cosa nostra risulta, secondo quanto appurato da Balsas, essere la più citata delle quattro espressioni territoriali mafiose, la sacra corona unita la meno usata. Tuttavia, l’etichetta “mafia” non è usata solo per riferirsi alla versione siciliana, ma è estesa in modo generico a tutte le altre. 

Alla base del lavoro di Balsas è fortemente presente una riflessione difficilmente non condivisibile. Ovvero, nell’epoca delle mafie globalizzate, risulta ingenuo, se non empiricamente falso e forse ideologicamente di parte, sostenere che le potenti organizzazioni criminali nate in Italia e proiettate nel mondo non abbiano riscontro nel Paese che ospita il maggior numero di italiani residenti fuori dall’Italia. Così come continuare a ritenere che i tre milioni di italiani arrivati in Argentina tra la metà dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del Novecento, a cui si aggiungono i flussi più recenti, abbiano portato con sé solo capitali e conoscenza all’arricchimento del Paese. Una revisione critica di questi temi non può, ad avviso dell’autrice, evitare di interrogarsi sull’identità in Argentina, né può ignorare un’analisi delle condizioni sociali, politiche e culturali attraverso le quali il negazionismo mafioso è diventato egemone.

Premesso ciò, generare dati scientificamente validi sulle mafie italiane in Argentina non è certo un compito facile. Oltre alla scarsità di ricerche di base, vi è una carenza di fonti di informazione affidabili a causa della natura sfuggente dell’argomento. Secondo Balsas, gli sviluppi presentati dal libro sarebbero di interesse non solo nel campo specifico della ricerca sulla comunicazione come disciplina scientifica, ma potrebbero essere potenzialmente utili anche per altre aree di conoscenza correlate. Il giornale è portatore sano di un potenziale comunicativo che va ben oltre il significato grafico. Gli articoli non vanno semplicemente letti e le immagini osservate. Il messaggio, infatti, non inizia e finisce lì, ma deve presupporre una comunicazione preliminare, se non un vero e proprio repertorio di conoscenze condivise.

L’analisi, corpo centrale dell’opera di Balsas si basa su tre casi giornalistici. Il percorso proposto, come afferma l’autrice, non è certamente esaustivo, ma all’interno di esso ognuno dei tre casi costituisce una delle tre tappe fondamentali che, per azione o per omissione, hanno contribuito a modellare l’attuale immaginario mafioso del Paese. L’attenzione al framing, definito come l’insieme dei principi cognitivi culturalmente condivisi che agiscono a livello simbolico nella strutturazione significativa del mondo sociale, è molto rilevante in questo contesto. Tale approccio cerca di spiegare l’interpretazione di una situazione inedita presentata dai media in relazione alle cognizioni pregresse del pubblico. Come ricorda Balsas, se è vero che la statura morale di un organo di informazione è percepita tanto o più da ciò che omette che da ciò che pubblica è quindi necessario prestare attenzione sia ai modi in cui si racconta, sia a ciò che non si può o non si vuole raccontare, e persino a ciò che si racconta senza volerlo. È il caso, aggiunge, anche del concetto di agenda cutting, che si riferisce a questioni che non attirano l’attenzione a causa della scarsa o nulla copertura mediatica, dovuta a restrizioni di spazio, pressioni interne e/o esterne o pregiudizi del giornalista. L’omissione, la mancata copertura o il trattamento volutamente subordinato o penalizzato di specifici eventi, oggetti o persone da parte della stampa avrebbero effetti cognitivi, cumulativi e radicati nel tempo, che incidono sui sistemi di conoscenza che il pubblico struttura in modo duraturo.

Il lavoro d’archivio alla base del lavoro di ricerca di Balsas è stato caratterizzato dalla disponibilità di fonti presso l’Hemeroteca de la Biblioteca Nacional de la República Argentina. In generale, è stata privilegiata la traduzione dei testi italiani nella trascrizione letterale in lingua originale per la stessa ragione per cui è stato scelto uno stile più vicino al saggio che alla monografia accademica, ovvero ampliare il pubblico a cui il lavoro si rivolge. Nella prima sezione si propone un’analisi comparativa di tre giornali in lingua italiana – “L’Italia del Popolo”, “La Nuova Patria” e “Il Mattino d’Italia” – pubblicati a Buenos Aires nella prima metà del Novecento in relazione al caso Ayerza, con l’obiettivo di problematizzarne le posizioni politico-editoriali. In questo modo, Balsas cerca di offrire nuovi spunti allo studio del rapporto tra mafie italiane e media in Argentina con riferimento a un caso emblematico, già studiato in relazione alla stampa argentina.

Il secondo capitolo si occupata della recensione del film La Maffia, di Leopoldo Torre Nilsson, da parte della stampa argentina, apparsa nei supplementi dedicati allo spettacolo di “Clarín”, “La Razón” e “La Prensa” il giorno successivo alla prima a Buenos Aires. Successivamente, Balsas esamina la definizione del frame utilizzato per presentare il caso ne “L’Eco dei Calabresi”, senza trascurare la sua ripercussione ne “La Nación”. Infine, problematizza la discussione sulla presentazione degli interessi della comunità italiana e calabrese a partire dagli elementi interpretativi messi in campo ne “L’Eco d’Italia”.

Infine, l’autrice riflette sul modo in cui la Strage di Capaci, in cui il giudice Giovanni Falcone, la moglie e le sue guardie del corpo furono assassinati per ordine della mafia il 23 maggio 1992, fu riportata dai giornali “Clarín” e “La Nación”. Balsas si chiede in che modo la stampa nazionale argentina elaborò l’evento che segnò una svolta nella storia della lotta antimafia in Italia; quale importanza gli fu data; quali frame furono utilizzati nella presentazione della notizia. In contrapposizione, sulla sponda italiana, Balsas analizza sono le caratteristiche del trattamento dell’eventi nella stampa di lingua italiana in Argentina.

Dal primo capitolo si apprende come tra la fine del 1932 e l’inizio del 1933 l’opinione pubblica argentina fu scossa dal rapimento e dal successivo omicidio di Abel Ayerza. Questi fu rapito il 23 ottobre 1932 a Corral de Bustos, nel sud-est della provincia di Córdoba, mentre si trovava in vacanza in una tenuta di Marcos Juárez con alcuni amici. La famiglia Ayerza pagò il riscatto richiesto dal clan di Giovanni Galiffi poco dopo il rapimento, ma a quel punto Ayerza era già morto, fu assassinato il 1° novembre 1932. Dalle ricerche dell’autrice si evince che il caso provocò la mobilitazione di alcuni settori della destra nazionalista che, sulla base della provenienza dei responsabili, manifestarono il loro biasimo per una migrazione che definivano indesiderata. In termini generali, afferma Balsas, la stampa argentina, che aveva sperimentato una strutturale mancanza di esperienza e di conoscenza nella definizione dei termini simbolici degli eventi mafiosi fin da quando questi cominciarono a essere rilevati in alcune aree urbane verso la fine del XIX secolo, nel trattare il caso fu permeabile al modello cinematografico allora diffuso nel giornalismo di polizia. 

Le vicende del caso Ayerza furono al centro di un’intensa trattazione giornalistica in cui, si legge nel capitolo, sono identificabili due diversi regimi simbolici che fanno riferimento, rispettivamente, all’esecutore ideologico del crimine, Giovanni Galiffi, e agli artefici materiali della sua esecuzione, Giovanni Vinti e i fratelli Di Grado. La figura di Galiffi, fondata sul suo percorso migratorio dalla Sicilia per diventare un self-made man di successo nel luogo di approdo, fu costruita dalla stampa argentina secondo i parametri dell’immaginario gangsteristico degli anni Trenta, basato sulla cura dell’immagine pubblica e sulle articolate connessioni politiche. L’angoscia straziante della devota madre di Ayerza rappresentò la chiave di volta e attivò immagini ancestrali piene di risonanze religiose sulla maternità, sull’amore materno e sul vincolo matrimoniale.

La teoria criminologica dell’epoca e citata nel libro forniva strumenti e conoscenze che presupponevano che le caratteristiche biologiche o psicologiche di un individuo fossero la fonte e la conseguenza del suo destino di criminale. Grazie a queste procedure, attivisti politici, criminali comuni e mafiosi vennero indistintamente etichettati come “nemici della nazione”. La forte presenza di fonti storiche nel corso della lettura del capitolo argomenta che tra il 1932 e il 1936 la polizia espulse centinaia di “indesiderabili”, accusati di militanza comunista e anarchica, o di coinvolgimento nella criminalità organizzata. Le espulsioni, inoltre, proseguirono per tutto il decennio, legate all’attività di rappresaglia nei confronti del comunismo e della militanza antifascista.

Come ricostruisce Balsas, a Buenos Aires l’importanza della stampa italiana era già stata dimostrata nel censimento municipale del 1887, quando i giornali italiani di Buenos Aires stampavano 20.000 copie al giorno, mentre dei 65 giornali stranieri pubblicati a Buenos Aires nel 1896, 22 erano italiani. I periodici non solo riportavano gli avvenimenti del Paese d’origine e gli eventi nazionali, ma fornivano anche assistenza e consigli ai migranti. Nel grande panorama della stampa italiana in Argentina, si distinguevano “La Patria degli Italiani”, “Il Mattino d’Italia” e “L’Italia del Popolo” per la continuità raggiunta durante il periodo fascista e per il livello di distribuzione raggiunto. “L’Italia del Popolo” trattò il caso Ayerza a partire dal 25 ottobre 1932.

A riprova dell’attenzione posta dall’autrice a storia e teorie sulle mafie si argomenta che prima che un’organizzazione criminale su base etnica, la mafia sembrava esprimere uno stile di vita maschile ai margini di un’urbanità pericolosa e feroce, segnata dalla miseria. Tuttavia, il caso Ayerza si distacca da una certa predeterminazione della criminalità mafiosa che aveva pervaso la storia fino a quel momento. È infatti ambientato in zone rurali, coinvolge sia uomini che donne di origine italiana, e le sue vittime non sono più cittadini anonimi.

Accanto ai temi presenti nella stampa argentina, ne emergono altri nuovi, che riflettono non solo il diffuso sentimento anti-italiano, ma anche e soprattutto le differenze ideologiche all’interno della comunità italiana in Argentina. Se l’offesa e l’apporto economico dell’emigrazione italiana in Argentina fungono da frame, ciò che viene conteso è la auto-assunta difesa dell’onore degli italiani all’estero da parte delle autorità e, di riflesso, della stampa fascista, in particolare “Il Giornale d’Italia” e “Il Mattino d’Italia”. Per quanto riguarda il trattamento dell’informazione, anche nella stampa argentina si può osservare una certa tendenza alla spettacolarizzazione. Questo sistema di definizione delle notizie mirerebbe ad attirare l’attenzione del pubblico e suscita un’attenzione emotiva. L’uso di caratteri grafici in maiuscolo, così come la scelta di titoli altisonanti per attirare l’interesse del lettore, sono un’ulteriore prova di un modo sensazionalista di concepire le notizie.

Balsas non manca di descrivere brevemente l’origine delle organizzazioni mafiose più diffuse in Italia. Iniziando con la camorra, prima formazione mafiosa conosciuta e presente sulla scena criminale di Napoli. Si trattava di un fenomeno urbano che riuniva i settori che speculavano sulla ricchezza prodotta dal lavoro agricolo, dal furto di bestiame, dalla sorveglianza della proprietà terriera altrui e dall’estorsione del commercio. Inoltre, aggiunge che è opinione comune che la mafia siciliana sia nata dopo l’unità d’Italia. Diversamente dalla camorra napoletana, questa era prevalentemente agricola. La sua attività si concentrava nelle pianure irrigue coltivate a frutta intorno a Palermo, nelle aree minerarie sulfuree del centro-sud e nei grandi latifondi dell’entroterra. Nella Sicilia della seconda metà dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, i grandi proprietari terrieri avevano al loro servizio le guardie mafiose, che con la loro presenza fisica sui terreni non solo garantivano la protezione contro gli atti di banditismo o di rapina e mantenevano la disciplina tra i contadini, osteggiando le loro pretese e assurgendo al contempo al compito di punire i più ribelli, che non volevano piegarsi. Da allora, le prospettive di alcuni gruppi mafiosi si sono internazionalizzate, grazie alle opportunità fornite dal mercato nero e dal contrabbando. 

Per Gambetta (1992), la data più plausibile per l’origine della mafia è il 1812, quando in Sicilia iniziò la dissoluzione del feudalesimo, e nel 1860-61 probabilmente erano già state gettate le basi di questa industria. I cambiamenti indotti nella proprietà terriera dalle riforme politiche introdotte tra il 1860 e il 1885 con l’estensione della democrazia e quando la politica locale si mescolò alle tensioni preesistenti, diedero un nuovo impulso ai “protettori” di professione, allargandone anche gli orizzonti.

Sulla la mafia calabrese, l’autrice afferma che essa sembra essere emersa all’incirca nello stesso periodo dei carbonari e strutturata secondo le stesse linee, poiché il suo modello e il suo rituale sono ancora massonici. La ‘ndrangheta possiede una struttura improntata ai rapporti di parentela dei capobastone, che è stata centrale per prevenire la collaborazione con la giustizia dei suoi membri. Uno dei suoi punti di forza rispetto alle altre organizzazioni mafiose è stata la strategia di diversificazione geografica. Infine, la sacra corona unita rappresenta la più recente delle quattro organizzazioni mafiose classiche italiane. Emersa in risposta alla crescente diffusione territoriale di organizzazioni mafiose provenienti da regioni vicine.

L’autrice afferma che lo studio del trattamento del caso Ayerza nella stampa etnica italiana a Buenos Aires mostra che l’importanza attribuita al caso non è univoca. Tuttavia, data la parzialità delle fonti consultate, non risulta possibile tracciare un quadro esaustivo della questione. Più che da un’origine nazionale condivisa, essa sembra essere determinata dalla posizione politico-editoriale assunta in ciascun caso analizzato. Mentre l’antifascista “L’Italia del Popolo” dedicò più spazio ai dettagli del caso per un periodo di tempo più lungo, la copertura de “La Nuova Patria”, che utilizzava l’ironia come arma principale, era funzionale a un negazionismo patriottico che cercava di sottrarsi alle accuse xenofobe che vogliono associare l’italianità alla mafia. Con uno stile più surrettizio, “Il Mattino d’Italia” denunciò il sensazionalismo e negò per omissione la relazione tra mafia e italianità.

A partire da questi risultati, apprendiamo, leggendo i risultati della ricerca dell’autrice, che è possibile stabilire che la stampa italiana in Argentina non sia riuscita a definire, nel contesto del caso Ayerza, un discorso coerente e strutturato in grado di informare i dibattiti pubblici sulla mafia italiana in Argentina e di proporsi come alternativa all’autoritarismo dominante, sia in Argentina che in Italia. Di conseguenza, conclude l’autrice, furono gettate le basi per un patto xenofobo, da parte argentina, e negazionista, da parte italiana, che, nella misura in cui concorreva a (ri)creare il mito fondante della migrazione italiana in Argentina in termini esclusivamente positivi sembra aver fatto comodo a entrambe le parti in causa.

Il secondo capitolo è egemonizzato dalla pellicola La Maffia, di Leopoldo Torre Nilsson, che uscì il 29 marzo 1972 nei cinema di Buenos Aires, dopo essere stato proiettata nella città di Rosario. Il film, ci ricorda l’autrice, rievocava la storia della mafia in Argentina nella prima metà del XX secolo. Nello stesso periodo, il direttore de “L’Eco dei Calabresi” presentò reclamo alle autorità giudiziarie locali per impedire la proiezione del film nel circuito ufficiale e per rimuovere due scene con riferimenti all’origine calabrese dei membri fittizi di una banda mafiosa situata a Rosario. Sebbene la richiesta non fu accolta, l’evento divise la stampa, sia nazionale che etnica, e fu commentato anche dalla stampa calabrese. In questo capitolo l’autrice intende proseguire sulla linea avviata nel capitolo precedente, attraverso la problematizzazione dei dibattiti sollevati dalla stampa locale – sia argentina che italiana – sul caso.

In generale, come anche il lavoro di Balsas conferma, parlare di mafie vende (Mangiameli, 2016) e parlare di cinema di mafia vende ancora di più. Inoltre, il continuo ricorso a figure di origine cinematografica non è casuale. Santoro (2007) si preoccupa di cogliere la tensione tra la necessità di costruire l’identità e il continuo e costante controllo e regolazione dei flussi comunicativi. Così la mafia, intesa come sottocultura, non è necessariamente riconducibile a una precisa categoria sociale, né a una comunità organizzata, ma dipende da una serie di credenze e pratiche. Le testimonianze giudiziarie, infatti, mostrano come sia proprio attraverso il contatto culturale generato da reti sovrapposte e mediato da scambi di informazioni, in generale da modelli cognitivi e simbolici, che le organizzazioni si sono formate e perdurano. Le organizzazioni mafiose si sono formate e durano.

Il film La Maffia fu pubblicizzato sui principali quotidiani nazionali. Il risalto riservato dalla stampa si tradusse non solo in consistenti spazi pubblicitari, ma anche in una decina di recensioni, cronache e commenti corredati da ritratti di attori e attrici, fotografie della prima serata e scene del lungometraggio. Nel complesso, la critica nazionale accolse con favore la proposta di Torre Nilsson sulle origini della mafia nel Paese. La scelta di ambientare la storia nel passato favorisce l’emergere del suo carattere inventivo, illuminando la dimensione immaginaria.  Anche “La Prensa”, da parte sua, si rallegrò del successo del film all’indomani della prima, un’attitudine che si rifletteva nella scelta di aggettivi e sostantivi che testimoniavano una valutazione positiva del lavoro tecnico del team di produzione del film. “La Razón” sottolineò l’originalità e l’attualità del film nel panorama cinematografico locale.

In tutti i casi, sottolinea Balsas, viene elogiata la bellezza e la sensualità della figura femminile interpretata da Thelma Biral. Come nei film di mafia italiani, anche qui la donna, sia come figlia che come amante, costituisce il punto debole dei protagonisti maschili, la cui virilità è pensata in base alla loro visione del mondo femminile. Eredità di una doppia morale di ispirazione cattolica secondo la quale in privato tutto è permesso mentre in pubblico bisogna mostrarsi irreprensibili.

Pochi giorni dopo la prima de La Maffia, “L’Eco dei Calabresi” pubblicò un editoriale firmato dal suo direttore Pasquale Caligiuri, calabrese di nascita ed emigrato in Argentina nel 1926. Come argomenta Balsas, dalla catena semantica offesa-disprezzo-insulto il frame utilizzato nell’editoriale di Caligiuri attivò il sentimento calabrofobico denunciato dalla stampa italiana in Argentina, in primis nel 1887 da “La Patria degli Italiani”. Il danno percepito provocato dalla diffusione di un’immagine negativa della calabresità in Argentina è mitigato da due principali strategie discorsive. Se da una parte si esagera il contributo culturale, scientifico e commerciale di personaggi calabresi di spicco, dall’altra si invoca la presunta mancanza di conoscenza della lingua italiana.

Varie fonti, argomenta Balsas, riportano la presenza di mafiosi in Argentina negli anni precedenti. Ad esempio, Tommaso Buscetta era emigrato in Argentina con la famiglia nel 1949, dopo essersi unito alla famiglia palermitana di Porta Nuova. Rientrò nel Paese nel 1955, questa volta clandestinamente. Rientrato in Sicilia dopo la seconda esperienza migratoria in Sudamerica, incontrò Lucky Luciano che nel 1946 aveva ottenuto l’autorizzazione a emigrare in Argentina.

Nel corso del capitolo si legge anche che è possibile considerare i dati come un “riflesso” della realtà solo quando la trama narrativa si colloca in geografie e situazioni quotidiane riconoscibili. Ed è forse per questo che, dice l’autrice, pur non essendo l’unico film di mafia destinato a diventare un classico ad essere proiettato nel 1972 a Buenos Aires, La Maffia di Torre Nilsson si rivelò così polemico. Il caso riporta in auge le controversie sull’identità argentina che si sono verificate a partire dalla fine del XIX secolo. Interpretazioni contrastanti del film divisero non solo la stampa argentina ma anche quella etnica, rivelando le lotte interne sulla rappresentazione degli interessi della collettività, che secondo Balsas è ben lungi dall’essere un insieme omogeneo. Le pretese realistiche e documentarie attribuite al film sembrano essere state fondamentali per consolidare l’immaginario della mafia in Argentina come un fatto del passato. Non si può fare a meno di osservare, sottolinea l’autrice, che questo ritorno al passato avviene proprio in un frangente che coincide con l’espansione “imprenditoriale”, a livello internazionale, delle mafie italiane. 

Elemento che non risulta sorprendente in quanto la mafia è parte integrante della classe dirigente, dello Stato, dell’economia capitalista in generale. La sua punta più avanzata si trova in tutti i settori della società: nelle istituzioni, nell’alta finanza, nel terziario e nell’agricoltura. La specifica evoluzione storica, economica e sociale del Sud Italia, che oggi si traduce in deindustrializzazione e sottosviluppo, insieme alle frequenti iniezioni di denaro pubblico ufficialmente destinato, ad esempio, alle campagne elettorali e alle elezioni, hanno trasformato le mafie nell’equivalente di società per azioni, multinazionali armate che investono liberamente in vaste aree del pianeta. Oggi, come detto, le mafie hanno aumentato notevolmente la loro influenza nella dimensione politica ed economica transnazionale.

L’ultimo capitolo parte da una data: il 23 maggio 1992, quando il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e tre delle sue guardie del corpo furono assassinati mentre viaggiavano in auto sull’autostrada dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo. Mesi prima di essere ucciso Falcone si era recato in Argentina. Più fonti – sia argentine che italiane –, afferma Balsas, concordano nell’indicare un suo breve soggiorno a Buenos Aires intorno alla metà del 1991. Tenuto conto della connotazione locale delle connessioni mafiose internazionali su cui Falcone stava indagando nel periodo dell’attentato che gli è costato la vita, nonché della circostanza recente del suo viaggio in Argentina e delle ripercussioni mondiali della notizia della sua morte, secondo Balsas, è di grande interesse analizzare la copertura data dalla stampa nazionale argentina – “Clarín” e “La Nación” – a un evento che ha segnato una svolta nella lotta alla mafia in Italia. Balsas riflette su come si posizionò la stampa etnica di fronte a questa copertura giornalistica.

Non sembrano esserci studi scientifici che facciano luce sul viaggio di Falcone in Argentina come sulle modalità con cui la stampa nazionale ha elaborato la notizia della sua morte. Tuttavia, come dettagliatamente ricostruisce il libro oggetto della presente recensione, fonti giornalistiche, istituzionali e autobiografiche documentano il suo viaggio in Argentina. All’inizio dello stesso anno, il direttore del Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (SISDE), prefetto Angelo Finocchiaro, evidenziò nel corso di un’audizione parlamentare la partecipazione del giudice Giovanni Falcone a un evento tenutosi a Buenos Aires nell’ambito della cooperazione giudiziaria e di polizia. Questo coincide con le memorie recentemente pubblicate dell’ex giudice italiano Ilda Boccassini, che sostiene di aver accompagnato Falcone nel suo viaggio in Argentina.

L’interesse mostrato dai due giornali a maggiore diffusione in Argentina per la tragedia di Capaci non fu uniforme. Secondo l’autrice, il valore attribuito a una notizia è interpretabile in termini di scoop e spettacolarità, di prima pagina e di immagine di grande risonanza, di impatto e di ripercussione sullo spazio pubblico, sulla società e sul potere. Pertanto, se prendiamo in considerazione i criteri che determinano la notiziabilità di un evento, l’omissione di “Clarín” in prima pagina, una sfera di attenzione privilegiata che esprime il contratto di lettura di un giornale, è teoricamente inspiegabile.

Una riflessione che inizia a riordinare considerazioni di carattere conclusivo sul lavoro parte da ciò che viene chiamata catastrofe globale, ovvero l’evento di cronaca per eccellenza. Nello, specifico, visto l’argomento principale, le esplosioni sono descritte da Balsas come rilevanti perché rappresentano il manifestarsi di un allarme nella società, di ciò che non ci si attendeva, di ciò che non doveva accadere. La prossimità geografica, culturale, di classe determina la familiarità dell’evento per definirne la potenziale gravità. Vista la consistente presenza di italiani in Argentina, così come la storia di cooperazione giudiziaria e di polizia tra i due Paesi e la recente visita di Falcone in Argentina, questa assenza per l’autrice è determinante nella costruzione dell’agenda giornalistica del giornale, che gradualmente deposita una lettura della mafia come fenomeno estraneo alla realtà socio-politica nazionale. Questa forma di negazione potrebbe essere interpretata, in definitiva, in termini di paura di reagire all’imponderabile che sfugge al controllo sociale, dove le regole sono deviate. Partendo dal presupposto che i media confezionano un quadro interpretativo che filtra la percezione della realtà, definisce le questioni su cui si deve formare un’opinione e la relativa gerarchia, e che il pubblico si orienta a dare importanza agli argomenti, alle persone e agli eventi a cui i media danno più spazio e più risalto il modo in cui è stato trattato marginalmente il caso Falcone è significativo.

Balsas, inoltre, mettendo mani ai proprii strumenti di ricercatrice evidenzia come tra il 25 e il 29 maggio 1992, “Clarín” dedicò meno di sei pagine a seguire gli eventi di Capaci nella sezione “Internazionale”. Il 28 maggio 1992, “Clarín” si soffermò sui possibili legami internazionali dell’attentato, indicando l’ex Partito Comunista dell’URSS. D’altra parte, l’interesse de “La Nación” si rese evidente fin dalla prima pagina del 24 maggio 1992. L’esplosione come evento di cronaca fu riconosciuta dalla centralità dello spazio ad essa dedicato, modo sensazionalistico di intendere la notizia. Nella figura del “cacciatore”, per riferirsi a Falcone, la mafia fu poi associata a una certa idea di animalità, già riscontrabile nella stampa etnica della prima metà del XX secolo. Il 27 maggio 1992, “La Nación” citò il quotidiano russo Izvestia in un breve articolo della sezione Esteri per parlare dei supposti legami dell’ex Partito Comunista dell’URSS con la mafia e dei suoi investimenti politici in Italia. L’autrice si chiede, in definitiva, come la stampa argentina di lingua italiana descrisse i fatti di Capaci. “Tribuna Italiana” giornale bilingue della comunità italiana in Argentina nel 1992 aveva una cadenza quindicinale. Per questo motivo la notizia dell’attentato di Capaci fu inserita solo nell’edizione del 3 giugno. Pur essendo una storia di copertina, non venne messa particolarmente messa in risalto. Nell’edizione pubblicata successivamente, quella del 17 giugno, una nota enfatizzò l’azione repressiva della mafia da parte dello Stato attraverso l’uso forzato aggettivi qualificativi.

Benché l’azione degli organi giuridici e di polizia viene esaltata come principale destinataria e portatrice di importanza e responsabilità nella lotta alle mafie. Sebbene non manchino i proclami governativi, a tutti i livelli, sulla lotta alla criminalità organizzata e all’infiltrazione delle istituzioni da parte delle mafie, la pratica mostra una totale indisponibilità da parte dei massimi rappresentanti dello Stato a farlo. Invece di attuare piani di sviluppo, occupazione e industrializzazione per il Mezzogiorno e di affrontare realmente la questione meridionale, spesso si sceglie di “salvare” le periferie attraverso la gentrificazione e la militarizzazione del territorio. In questo modo, l’alternativa alla disoccupazione continuerà spesso a essere il reclutamento nelle file delle organizzazioni criminali, che inevitabilmente aumenteranno il loro potere economico e il loro radicamento sul territorio.

La cultura in generale e la cultura mafiosa in particolare sono complessi depositi o repertori di discorsi, definizioni, orientamenti, codici, a cui gli attori sociali attingono e interpretano continuamente. In particolare, si tratta di estendere il campo di studio alle rappresentazioni della mafia, alle immagini che circolano non solo nei media, ma anche tra gli attori che operano nel mondo della mafia commerciale. Ne parla impeccabilmente Balsas nominando pizzerie e ristoranti, ma anche negozi di abbigliamento, gelaterie, parrucchieri, officine e aziende di logistica, in tutta l’Argentina, che mostrano attraverso le proprie insegne i prestiti lessicali che rendono visibile la cultura mafiosa. Oltre a programmi radiotelevisivi, pubblicità, videoclip, film e concerti. Un’inflazione discorsiva basata su un termine generico che può far riferimento a qualsiasi fenomeno di macrocriminalità.

In altre parole, simboli mafiosi sfruttati e utilizzati dai produttori culturali come emblemi di una particolare “cultura esotica”. I mafiosi sono anche utilizzatori, produttori e, naturalmente, manipolatori di simboli, una produzione simbolica che non è necessariamente una creazione individuale o volontaria, ma è spesso collettiva e incondizionata, un processo di ri-creazione, che come tale produce valori vincolanti per i membri di una sottocultura. L’obiettivo è quindi quello di mostrare il potenziale di un’analisi culturale della mafia che enfatizzi l’idea di “circolarità” dell’identità e delle rappresentazioni del mafioso. È l’idea che i simboli possano tornare circolarmente ad agire sulle identità che li hanno originariamente prodotti, dopo essere stati fatti propri da altri per casi diversi, distaccandosi sempre più dalle forme sociali che li hanno prodotti, per essere ri-significati in altri contesti (Santoro, 2007).

Non mancano, inoltre, esempi in cui la mafia viene assunta come argomentazione per attaccare l’avversario nel confronto politico. L’autrice fa riferimento a un caso che toccò il governatore della provincia di Buenos Aires, Axel Kicillof nel marzo del 2021; alle presidenziali del 2019, quando le mafie ebbero un ruolo di primo piano nella campagna elettorale di “Juntos por el cambio”, il partito di governo guidato da Mauricio Macri e al febbraio 2020, quando, a margine della presentazione dei un suo libro alla fiera del libro dell’Avana, a Cuba, la protagonista fu Cristina Fernández. Per ultimo, vengono menzionati da Balsas anche i rappresentanti degli italiani residenti nella sezione sudamericana della circoscrizione Estero del Parlamento italiano, i quali fecero riferimento a uno degli argomenti principali della campagna elettorale denunciando la gestione “mafiosa” delle pratiche necessarie per conseguire la cittadinanza italiana da parte degli italo-argentini.

Balsas chiude ponendo un monito ai lettori. (Si) Chiede se esistono davvero le mafie italiane in Argentina, se si tratta di un fatto del passato o se la loro presenza si estende ai giorni nostri. Le risposte che dà a queste domande sembrano dipendere essenzialmente da cosa si intende per mafia e da quali caratteristiche le si riconoscono. A questo proposito, ricorda che “mafia” e “criminalità organizzata” non sono concetti intercambiabili, anche se talvolta possono essere considerati sinonimi.

Risulta interessante riscontrare che dall’analisi delle testimonianze analizzate emerge l’immagine di un presente sicuro, scevro da presenze mafiose, in antitesi a quella di un passato criminale. A questo proposito, secondo l’autrice, il problema non può essere affrontato esclusivamente nell’ambito della competenza sociale dei mass media. A tal fine, è auspicabile che il mondo accademico si assuma la propria responsabilità sociale in relazione alla questione, poiché solo la scienza può mettere ordine tra ciò che oggettivamente è e ciò che potrebbe essere. Spesso si tratta, invero, proprio della differenza che intercorre tra un articolo di giornale e una pubblicazione scientifica. Riprendendo un concetto espresso da Balsas nel suo libro, nella fattispecie dello studio delle mafie italiane in Argentina, la stampa si presenta come una preziosa chiave di accesso.

Le ultime pagine del libro sono dedicate anche alle origini calabresi dell’autrice e a quanto sia importante allargare lo spettro il più possibile e promuovere una conversazione sociale su un tema scomodo, spesso legato a culture di paura e silenzio. Il libro continua, sino alla sua conclusione, a por(si)re domande, ennesima riprova di quanto esso rappresenti un lavoro necessario e coraggioso, una base scientifica solida per ciò che verrà.

Referencias

Balsas, M. S. (2021). «El país que no miramos». Las mafias italianas según Clarín (1997-2020). Estudios sobre el Mensaje Periodístico, 27 (4): 1035-1042.

Gambetta, D. (1992). La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata. Torino: Einaudi.

Mangiameli, R. (2016). In guerra con la storia: La mafia al cinema e altri racconti. Meridiana, 87: 231-243.Santoro, M. (2007). La voce del padrino. Verona: Ombre corte.

Presentazione di Giovanna La Vecchia

Lo abbiamo incontrato per il nostro giornale già nel 2020 in occasione di un’intervista in cui ci aveva raccontato le “mille e una vita” di un uomo “Obelix” caduto nel paiolo della pozione magica delle parole. Giuseppe Cesaro: la musica, la bellezza, la famiglia, le parole, la forza. Fu un incontro inconsueto ed informale con un grande protagonista del nostro tempo: “Siamo noi l’anima delle cose. La fragilità è bellezza. Ed è infinitamente più ricca della solidità. Che, spesso, è pura apparenza”.

Giuseppe Cesaro (Sestri Levante, 12 marzo 1961) ha cominciato a scrivere professionalmente alla fine degli anni ’80. Giornalista, scrittore, ghostwriter, curatore, editor e traduttore, si occupa di musica, politica, società, narrativa, saggistica. Negli ultimi vent’anni, ha pubblicato 50 titoli – tra racconti, romanzi, memoir, graphic novel, saggi, biografie, traduzioni e sceneggiature – per alcuni tra i più importanti editori nazionali (Bompiani, Mondadori, La Nave di Teseo, Skira, Rizzoli). Dal 1998 è consulente ai testi di Claudio Baglioni. Ha firmato due romanzi (“Indifesa” – 2018, e “31 Aprile. Il male non muore mai” – 2021, entrambi editi da La Nave di Teseo) e un graphic novel (“Michelangelo. La parete perfetta” – 2017, edito da Round Robin) ed è co-autore di due libri inchiesta: “Ombre sul web” (2019) e “La fabbrica fantasma” (2020), pubblicati da Lastaria Edizioni. Lo scorso settembre, per Round Robin, ha pubblicato “Manuale per aspiranti scrittori. 3×5 non fa 15”: il metodo di lavoro messo a punto in quasi quarant’anni di scrittura.

Per il numero di Dicembre di Condi-Visioni ha voluto “condividere” con noi il suo pensiero sull’attuale momento storico e per questo gli dobbiamo un ringraziamento speciale. Giuseppe Cesaro è senza alcun dubbio una delle personalità più interessanti e poliedriche del nostro paese, leggerlo “crea dipendenza” perché ci obbliga ad una riflessione quanto mai necessaria. Certezza e speranza di un futuro possibile sono solo nelle nostre azioni, perché se è vero che “non dobbiamo aprire quella porta”, ricordiamoci che di porta non ce n’è mai una sola.

“A volte ritornano: non aprite quella porta!” di Giuseppe Cesaro

“A volte ritornano. E, di solito, sono incubi. E il ritorno che stiamo vivendo, non fa eccezione. Purtroppo. Del resto, quasi mai il passato è migliore del presente. Basta un’occhiata fugace a un (serio) libro di Storia per rendersene conto. Né è detto che un buon passato possa diventare anche un buon presente. Figurarsi, dunque, se può diventarlo un passato pessimo. Sto parlando del Fascismo, evidentemente. Il giudizio sul quale è totalmente negativo. E non è impugnabile, dal momento che è passato in giudicato da un bel pezzo. Non parlo del mio giudizio, che conta poco. Parlo del giudizio della Storia. La Storia vera, autorevole, documentata, meditata. Non le favolette degli imbonitori mediatici che cercano di spacciare per verità le bugie, per progresso il regresso, per libertà l’oppressione. Al contrario di ciò che sosteneva Novalis: non tutto, in lontananza, diventa poesia. L’errore resta errore. Il crimine, crimine. L’orrore, orrore.

La nostalgia, però, è un sentimento-rifugio che, ahimè, fa sempre presa. Soprattutto quando – come accade oggi – il presente fa paura. Una paura indotta, quasi sempre esagerata e ingiustificata. È allora che l’idea di un ritorno al passato rassicura, come l’abbraccio amorevole di un’amorevole madre o il tepore di un focolare domestico al quale tornare, per sentirsi, finalmente, al sicuro.

E, così, invece di guardare avanti, guardiamo indietro, dimenticando, appunto, che il passato non è migliore del presente. Eppure, la propaganda ci sta convincendo del contrario. Come? Da una parte, alimentando le paure, vecchie e nuove, dell’opinione pubblica (quella che Umberto Eco chiama “la costruzione del nemico”); dall’altra, fornendo risposte tanto facili, veloci e capaci di incantare, quanto false, folli e antistoriche.

Come una mamma che, accarezzandoci, sussurra: “dormi tranquillo: ci sono io, veglierò io su di te!”, la politica vuole che chiudiamo gli occhi, ci giriamo dall’altra parte e ci addormentiamo sereni. Non ci dobbiamo preoccupare di niente. Spegnerà la luce, chiuderà la porta e penserà a tutto lei. Riuscite a immaginare qualcosa di più rassicurante e tranquillizzante?

Sono queste le ragioni per le quali, ancora una volta, ci ritroviamo alle soglie di una svolta autoritaria. Questo, non altro, è il premierato. Altro che “democrazia decidente”. La nostra democrazia è “decedente”. In fin di vita, cioè. Vogliamo davvero staccarle la spina? Come mai ci ritroviamo di nuovo a questo punto? Non ci è bastata la catastrofe di cento anni fa? No, evidentemente.

Per capire a cosa stiamo andando incontro, dovremmo, innanzitutto, smettere di chiamare “politica” qualcosa che politica non è più, da decenni. Nel nostro Paese, la politica è morta 45 anni fa: 16 marzo 1978, quando Aldo Moro è stato rapito e i cinque agenti della sua scorta, trucidati. Quanto accadde 55 giorni dopo, fu solo il colpo di grazia. Morte violenta, dunque, non naturale. La politica andava tolta di mezzo e venne tolta di mezzo. Fine dei giochi.

Tutto quello che è venuto dopo l’omicidio Moro – andreottismo, craxismo, berlusconismo, renzismo, salvinismo, grillismo, contismo, melonismo, per ricordare solo i passaggi più significativi – non è politica: è occupazione, spartizione, gestione e mantenimento del potere.

La politica è stata tolta di mezzo perché il Potere – che non è la politica ma la forza che condiziona ogni politica – non vuole rotture di scatole. E la politica – se è vera politica – è un’immane rottura di scatole. Perché fa domande inopportune (democrazia, diritti, giustizia, libertà, pace…), accampa pretese assurde e costose (istruzione e sanità gratuite, salari dignitosi, pensioni…), è lenta a decidere (confronto con le parti sociali, bicameralismo paritario…).

Contrariamente a ciò che crediamo, dunque:

  1. la politica non detiene il Potere. È esattamente il contrario: il Potere detiene la politica;
  2. gli “uomini politici” non esercitano il potere: sono strumenti nelle mani del Potere. “Utili idioti” che – come marionette ventriloque – fanno e dicono tutto ciò che il Potere comanda loro di fare e dire;
  3. il Potere non ha un nome e un cognome e nemmeno una faccia.È una forza – anonima, invisibile, onnipresente – che ha un potere di seduzione così forte, che è quasi impossibile resisterle. Si impossessa della coscienza degli uomini, fino a renderli schiavi. In cambio, offre loro l’illusione del comando (“Cumannari è megghiu ri futtiri” – “Comandare è meglio di fottere” – recita la millenaria saggezza siciliana), soldi, sesso, droghe, lusso, glamour, fama…

“Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo».

Gesù resistette alle tentazioni. La maggior parte degli esseri umani, purtroppo, no. Il Potere lo sa: arruola coloro i quali cedono alle sue seduzioni e fa in modo di mettere gli altri in condizioni di non nuocere.

Il Potere ha solo quattro obiettivi: ottenere, conservare, incrementare e perpetuare sé stesso. E, per raggiungere questi obiettivi è disposto a qualunque cosa. Con “le buone”: favori, prebende, corruzione, morale e materiale. O con “le cattive”: ricatto, violenza psicologica e fisica, demolizione della credibilità e dell’immagine pubblica degli avversari o loro eliminazione.

Per parafrasare una celebre favola dell’antichità, il Potere è lo scorpione, il popolo è la rana, e la classe dirigente (che, personalmente, preferisco chiamare “digerente”), il “coro” che fa di tutto per convincere la rana a fidarsi dello scorpione, caricarselo sulle spalle e lasciarsi indicare da lui la rotta giusta per attraversare il fiume. 

Ma le vere domande sono:

  • perché preferiamo chiudere gli occhi, girarci dall’altra parte e dormire, lasciando che pensi a tutto “mammina”, piuttosto che tenere gli occhi ben aperti e assumerci la responsabilità delle scelte importanti che riguardano la nostra vita?;
  • perché, anche se sappiamo benissimo che lo “scorpione” ci ucciderà (è la sua natura!), continuiamo a dare retta al “coro”, e crediamo che lo scorpione ci indicherà la rotta giusta per arrivare, sani e salvi, sull’altra sponda del “fiume”?

La risposta è semplice. Semplice ma devastante: siamo codardi e profondamente bugiardi. Dichiariamo di amare e desiderare la libertà e, invece, non la vogliamo affatto, perché abbiamo paura di assumerci le nostre responsabilità.

Del resto, che la natura umana non fosse proprio perfetta, lo sapeva fin troppo bene colui il quale dettò a Mosè le Tavole della Legge. Non è certo un caso, infatti, se Dio comanda all’uomo di Non uccidere, Non commettere adulterio, Non rubare, Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo, Non desiderare la moglie del tuo prossimo, Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo. Se avesse saputo che l’uomo non aveva bisogno di tali raccomandazioni, il Padre Eterno non avrebbe certo perso tempo a dargliele. Evidentemente, invece, conosceva così bene le sue creature che sapeva di doverlo fare.

E assai bene conosceva gli uomini anche Gesù, quando decise di introdurre il comandamento che recita: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Perché sentì il bisogno di farlo? Perché sapeva benissimo che gli esseri umani sanno amare solo sé stessi e che amare l’altro è contro natura. Del resto, se amare l’altro fosse qualcosa di naturale, non ci sarebbe stato certo bisogno di un comandamento che impone di farlo!

Ma la natura umana è ben nota anche a noi umani. Da sempre. Non sbagliava, ad esempio, Machiavelli quando, quasi cinquecento anni fa, scriveva che gli uomini sono “ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno”. Questo siamo. Ed è esattamente su questo che conta il Potere.

Né sbagliava Étienne de La Boétie quando – pochi anni dopo la pubblicazione de “Il Principe” – nel suo “Discorso sulla servitù volontaria”, si chiedeva come fosse possibile che “tanti uomini, tanti borghi, tante città, tante nazioni sopportino talvolta un tiranno solo, che non ha forza se quella che essi gli danno; che ha il potere di danneggiarli unicamente in quanto essi vogliono sopportarlo, che non potrebbe far loro alcun male, se essi non preferissero subirlo, invece di contrastarlo”. E tutto questo non perché gli uomini siano “costretti da una forza più grande”, ma perché “incantati e affascinati dal solo nome di uno, di cui non dovrebbero temere la potenza, poiché egli è solo, né amare le qualità, poiché nei riguardi di tutti loro è disumano e feroce”. “Son dunque – scriveva ancora La Boétie – gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smetter di servire, sarebbero liberi”. È il popolo, dunque, che “acconsente al suo male o addirittura lo provoca”. Evidentemente, “la libertà non viene affatto desiderata, per la buona ragione che, se gli uomini la desiderassero, l’otterrebbero”.

Analisi condivisa anche da una delle coscienze più alte e lucide della storia dell’umanità, Fëdor M. Dostoevskij. A fine Ottocento, in uno dei capitoli de “I fratelli Karamazov” noto come “La leggenda del grande inquisitore”, Dostoevskij è piuttosto chiaro riguardo alla nostra fobia della libertà: “Nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana più intollerabile della libertà!”; “nulla è per l’uomo più seducente che la libertà della sua coscienza, ma nulla anche è più tormentoso”; “la tranquillità e perfino la morte è all’uomo più cara della libera scelta fra il bene ed il male”. E, ancora: “Non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura”.

Su tutte queste cose conta il Potere, che conosce la natura umana almeno quanto Dio, Gesù, Machiavelli, La Boétie e Dostoevskij.

“Governabilità”, “stabilità”, “monocameralismo”, “premio di maggioranza”, “premierato”, “sindaco d’Italia”, “democrazia decidente” sono, dunque, tutte parole d’ordine-truffa. Le marionette ventriloque vogliono farci credere che, più rinunceremo a quel po’ di potere di decisione che ci è rimasto, più potremo decidere del nostro futuro. Non sembra anche a voi una follia? Eppure, ancora una volta, stiamo per dare retta al “coro” e caricarci sulle spalle lo “scorpione”, perché sia lui a indicarci la rotta giusta per attraversare il “fiume”.

La follia più grande di tutte, dal momento che, come tutti sanno, lo scorpione ci ucciderà. E quando, in punto di morte, gli chiederemo: “Perché?”, ci risponderà: “È la mia natura!”. E solo allora ci renderemo conto di quanto siamo stati stupidi. Tornare indietro, però, non sarà più possibile.

Cambiare è un privilegio molto recente. I popoli del passato non ne godevano. Perché noi vogliamo rinunciarci? Perché siamo disposti ad accettare che chi sta al governo ci resti il più a lungo possibile? Chi avvantaggia questa “stabilità”? Noi o lui? Prima di rispondere, riflettiamo sul monito di Bobbio: “meglio cinquanta governi in cinquant’anni che uno solo in venti”.

Non solo. Se, come diceva Gaber, libertà è partecipazione: è evidente che, meno partecipiamo alle scelte che riguardano la nostra vita, meno siamo liberi. Pensiamoci ogni volta che ci chiedono di dare a loro il potere di scegliere e decidere per noi.

Se coloro i quali preferiscono rinunciare alla loro libertà lo facessero, senza pretendere che anche tutti gli altri facciano la stessa cosa, il problema sarebbe grave ma limitato, poiché riguarderebbe soltanto coloro i quali si voglio rendere servi. Dato, però, che i servi vogliono che anche tutti gli altri diventino servi come loro, il problema diventa molto infinitamente più grande e più grave, poiché il servilismo di pochi finirà col rendere servi anche tutti quelli che non vogliono diventare servi ma rimanere liberi. E la democrazia avrà fatto harakiri.

L’ho detto: a volte ritornano. E, di solito, sono incubi. I peggiori. Meditate, gente, meditate. E, soprattutto, non aprite quella porta!” 

A oltre sessanta anni dalla loro prima uscita discografica – 5 ottobre 1962 con Love Me Do – i Beatles rappresentano ancora “la musica”. Quattro ragazzi della classe operaia di Liverpool, un centro portuale piuttosto misconosciuto fino a quel momento, hanno rivoluzionato, con le canzoni che hanno scritto e il modo di presentarsi, non soltanto il settore delle sette note ma in generale tutta la società. Non c’è aspetto della vita post-bellica, dalla moda al look, che non sia stato influenzato dal gruppo di Lennon, McCartney, Harrison e Starr. Ma non solo. I Beatles – così come negli Stati Uniti prima di loro aveva fatto Elvis Presley – hanno portato alla ribalta realtà temi come la spiritualità (il viaggio in India del ’66), l’attenzione ai temi sociali (il rifiuto di esibirsi per un pubblico segregato nel sud razzista degli Usa l’anno precedente) e innumerevoli altri settori della vita contemporanea. 

Oggi, a oltre sessanta anni dalla prima volta, i Beatles sono “tornati” con un brano – Now and Then – scritto da John poco prima della sua morte e che la sua vedova Yoko Ono ha affidato a Paul perché lo rendesse un “ritorno” in grande stile. Operazione riuscita, visto che i “Fab Four” sono di nuovo in testa alla classifica dopo tanti decenni. E, curiosamente, a fargli compagnia nella top ten americana ci sono i Rolling Stones, a dimostrazione che certa musica è davvero immortale. 

Paolo Borgognone, giornalista e scrittore, autore per Diarkos Editore delle biografie “Freddie Mercury. The show must go on”, “Io Elvis. La parabola immortale di The King”, “Martin Luther King Jr. I Have a Dream”, ha da poco pubblicato “Beatles. Il mito dei Fab Four”.  Nato nel 1962 coltiva da sempre la passione per la musica, oltre che per la lettura e la scrittura. Ha collaborato con importanti testate nazionali e realizzato diversi lavori di “ghost writing” ed editing, oltre ad essere impiegato come addetto stampa per un ento pubblico.

Se Elvis, come è stato detto, ha rappresentato il “big bang” della cultura giovanile, i Beatles hanno a loro volta assunto lo stesso significato che nella scienza viene dato alla comparsa della vita. Dal momento in cui è esplosa la Beatlesmania – 1964 – i ragazzi di tutto il mondo hanno trovato un modo per esprimersi. Da qui nascono i generi musicali che ancora oggi si ascoltano e tutti quei movimenti che hanno caratterizzato la seconda metà degli anni ’60 con temi come i diritti delle minoranze, l’opposizione alla guerra, il desiderio di libertà e uguaglianza che sono ancora oggi l’urgenza che anima milioni e milioni di persone in ogni angolo del pianeta. 

“Il libro che ho scritto parte proprio dalle radici, da quella città che tanti conoscono per nome ma che pochi saprebbero trovare su una cartina muta e che ancora meno hanno avuto la fortuna di poter visitare” Borgognone ci spiega il percorso di questa nuova biografia sui Beatles. “Ho ricostruito la storia di Liverpool, prendendo come momento chiave quello dei terribili bombardamenti a cui fu sottoposta durante la Seconda guerra mondiale. Che è proprio il momento in cui i quattro ragazzi vedono la luce. Ho poi cercato di raccontare la storia delle loro famiglie, il retroterra culturale, sociale, politico, di un Paese che stava riemergendo dal conflitto e che, dopo anni di sofferenza e di “grigio” cercava proprio un modo per rinascere. L’esplosione di colori, suoni, mode rappresentata dalla “swinging London” di quegli anni è al tempo stesso causa ed effetto del successo dei Beatles. Ho poi ripercorso le tappe della loro carriera: dal primo incontro tra Lennon e McCartney – 6 ottobre 1957 – fino alla residenza ad Amburgo, apprendistato durissimo e formativo. Poi, a partire dal 1962, un capitolo per ogni anno. Con l’eccezione del 1964, quando ci fu lo sbarco in America, talmente ricco di storie da aver richiesto un doppio capitolo. Un altro l’ho dedicato al breve, ma significativo, tour in Italia del 1965. Solo pochi concerti ma l’occasione giusta per raccontare anche un poco di questo Paese, desumendone atteggiamenti e opinioni dal modo in cui i “Fab Four” vennero accolti, male per la precisione, con un atteggiamento quasi canzonatorio e che cercava di sminuirne le capacità. Si pensi che lo stesso anno delle date italiane, spesso con poco pubblico ad assistere, i Beatles si esibirono allo Shea Stadium di New York per 56mila spettatori! Il testo arriva fino al 1970, anno dello scioglimento della band e della pubblicazione dell’ultimo LP per poi chiudersi con un capitolo finale che racconta i tentativi fatti negli anni di riunire il gruppo. Tentativi che, per vari motivi ma non certo per mancanza di volontà da parte dei protagonisti, non andarono in porto e furono poi stroncati dall’omicidio di Lennon a New York l’8 dicembre 1980”. 

Abbiamo incontrato Paolo Borgognone per i lettori di Condi-Visioni.

Un altro libro sui Beatles? Perché? 

“ Perché i Beatles “sono” la musica. Quello che hanno portato nel settore delle sette note non è finito certo con lo scioglimento del gruppo nel 1970. Ci troviamo davanti a un fenomeno di costume che ritorna continuamente e che sta continuando a influenzare la società contemporanea. Proprio pochi giorni fa, accendendo la tv, ho visto una pubblicità con una loro canzone come sottofondo. Segno tangibile che il loro sound, le mode che hanno lanciato, i messaggi che hanno portato sono attualissimi e ascoltati ancora oggi”. 

Ci sono ancora cose che non sappiamo? 

“Abbiamo appena scoperta una nuova canzone. Con una storia affascinante dietro. Certo, le biografie sui Beatles si sprecano, forse sono gli artisti su cui si è scritto di più e quindi è impossibile trovare la notizia inedita. Ma il processo di avvicinamento alla vicenda personale, sociale e musicale del gruppo si presta a infinite riletture e questa vuole esserne una dedicata in particolare ai ragazzi di oggi, quelli che non 1970 non erano nati e che pure si interessano alla storia della più grande band di sempre”. 

Che tipo di studio ha fatto per realizzare questo libro? 

“Il primo passo è stato riascoltare tutto. Dai primordi, dai “Beatles prima dei Beatles” fino all’ultimo disco, oltre naturalmente alle tappe fondamentali della carriera da solista di ognuno di loro. Quindi ho ripassato le biografie che ne hanno tracciato la storia, a cominciare dalla monumentale “Anthology” che racchiude davvero tutto o quasi lo “scibile” sul gruppo. Poi, naturalmente, ho cercato di limare le differenze che inevitabilmente compaiono tra i vari testi, provando a uniformare le date soprattutto. Per la prima parte, poi, quella dedicata alla città mi sono affidato anche ai ricordi. Ho avuto il privilegio e la fortuna di visitare Liverpool in uno dei periodi più difficili della sua storia, durante il governo della feroce signora Thatcher. Rammento una città ferita, offesa, trascurata, ma viva e piena di musica. Impossibile non amarla…”.  

C’è un punto di vista differente o aspetti nuovi che non erano stati presi in considerazione in precedenza? 

“Un mio carissimo amico, giornalista e scrittore, fan dei Beatles da sempre, nel presentare il volume ha detto: “Io pensavo di sapere tutto sul gruppo, ma questo libro mi ha fatto scoprire aspetti nuovi anche per me”. Ho cercato, in apertura, di situare i “Fab Four” all’interno del periodo storico nel quale sono nati, ovvero durante gli sconvolgimenti della Seconda guerra mondiale e anche nel tessuto geografico della loro città di origine. Un posto di cui tanti hanno sentito parlare ma che, in realtà, pochissimi conoscono veramente. E che – invece – ha fatto da sfondo alla loro crescita personale e musicale, diventando protagonista delle vicende che raccontiamo”.  

Questo ritorno secondo lei è stata una pura operazione commerciale o una volontà precisa di affermare “noi siamo ancora qui”? 

“Un’operazione commerciale non direi proprio. Nessuno dei protagonisti ha certo bisogno di far uscire un brano inedito per mettere insieme il pranzo con la cena. Credo fosse giusto, a questo punto, chiudere il cerchio di questa esperienza. Non a caso, il singolo è stato pubblicato insieme a una riedizione di “Love Me Do”, il primo disco – per noi che abbiamo qualche annetto sulle spalle un “quarantacinque giri” – con il quale era iniziata l’avventura in quell’ormai lontano ottobre 1962”. 

Paul McCartney e Yoko Ono hanno trovato un canale di comunicazione per realizzare insieme ancora dei progetti?

“In realtà i rapporti si sono, per fortuna, molto semplificati con gli anni. Yoko – da tanti considerata una “nemica” del gruppo, idea che non mi trova d’accordo – ha avuto la sensibilità di lasciare a McCartney e Starr l’onore e l’onere di regalarci questa perla. Il lavoro che è stato fatto sulla traccia originale di Lennon è straordinario: alla fine abbiamo una canzone indubitabilmente dei Beatles ma che non risente degli anni che sono passati. Anzi. E il successo discografico – il primo posto nelle classifiche inglesi e americane – testimonia che la scelta fatta è stata giusta”. 

Quanto serve oggi e soprattutto ai giovani “ritornare” ai Beatles?

“Conoscere questa musica – cui accosterei quella di Elvis Presley, un altro titano del settore che ha tracciato la via per innumerevoli altri artisti – significa fare il primo passo per capire tutto quello che è venuto dopo. E anche quello che esiste oggi. Il panorama musicale è stato così fortemente influenzato dai Beatles che ignorandoli si perde la possibilità di comprendere il fenomeno anche nella sua contemporaneità”. 

 Secondo lei qual è il messaggio più importante che hanno dato i Beatles?

“Ne hanno lasciati tanti. Messaggi di amore, pace, voglia di vivere, rispetto per gli altri, anche di impegno per combattere le ingiustizie quando era necessario. Nessuno di questi argomenti può dirsi risolto, quindi le parole e i gesti che i Fab Four hanno tramandato ai posteri sono ancora estremamente attuali. Se proprio dovessi scegliere una frase a simboleggiare il loro lascito, utilizzerei, quella che chiude “The End”, l’ultimo brano che hanno registrato tutti e quattro insieme, pubblicato sull’album “Abbey Road”: “In the end / the love you take/ is equal to the love you make” …” 

 Come sarebbero andate le cose se John Lennon non fosse stato ucciso? 

“Il mondo sarebbe stato un posto migliore dove vivere! Esagerazioni a parte, è molto possibile che avremmo potuto avere l’occasione di rivedere i Fab Four esibirsi insieme, come in fondo loro stessi avrebbero voluto fare. Penso a che chiusura sarebbe stata per un evento – per esempio – come il Live Aid del 1985 se, alla fine, fossero comparsi loro quattro e avessero fatto un ritorno in grande stile mettendo insieme cinque o sei delle loro canzoni più celebri: “Yesterday”, “Let It Be”, “Penny Lane”, “Strawberry Fields” “Something”… e così via. Il più grande spettacolo di sempre. Purtroppo l’instabilità mentale di un fanatico religioso ci ha privati di tutto questo”. 

La dea pagana, la cortigiana di dimora, la popolana avvenente ma attrezzata di coltello: Roma nelle liriche di Luigia Panarello, il grande amore di una vita intera. 

Etabeta edita la silloge “Via del cancello” di Luigia Lupidi Panarello.

Pierpaolo Pasolini l’aveva soprannominata “tre vite”. A noi sembrano anche poche per descrivere un’artista come Luigia Lupidi Panarello. C’è tanto di tutto in lei e nella sua vita, tanta Roma, tanta poesia, tante amicizie straordinarie, tante esperienze e tante sofferenze vissute con quella leggerezza e meraviglia allo stesso modo di come si vivrebbero le gioie e i successi della vita. Una combattente in prima linea, una partigiana delle idee e della cultura non paludata e non avulsa dal reale. Così la definisce Titti Presta. E ancora non basta. Una protagonista senza protagonismi, una formazione artistica ed umana ricca e movimentata, “vivere è più semplice di evitare di farlo” dichiara con impulso e stupore. Garbata, “perbene”, naturale e simpatica, Luigia Panarello si impone con umiltà nello scenario poetico italiano, così come fa in questa intervista per la quale la ringraziamo moltissimo. Non è cosa da poco raccontarsi senza filtri e senza prendersi poi così tanto sul serio. Il mondo ha bisogno di voci fuori dal coro perché la bellezza è fatta di piccoli frammenti di lucidità in mezzo ad un mare di improvvisa creatività. La poesia di Luigia Panarello ci ricorda di cosa siamo fatti e per cosa siamo fatti. Vivere. Punto.

La sua silloge “Via del cancello” è un volume che racconta la poesia, la religione, la politica, la società, la cronaca di una “sua” Roma. Quale percorso l’ha portata alla scrittura di un testo così importante?

“Proprio per quella cronaca… che a Roma passa sempre più per l’ispirazione poetica che per la logica intellettuale, altrimenti più dettata da un parlato prosaico che letterario. Vivere a Roma significa la messa in gioco delle emozioni e delle passioni sempre. Non si resisterebbe sennò al suo investire il cittadino del “troppo” che è in tutto. Roma infatti non è una città metropolitana, ma la condizione umana in cui lui viene messo dalla scelta volontaria e volenterosa di starci. Dunque con questa scelta quasi sacrificale, è insita anche il darne una tipologia di lettura personale per orientarcisi. Quella poetica permette di farsi meno male, di avere sorprese anche gratificanti a volte. Non per nulla qui c’è un detto da tifo sperticato: Roma non si discute. Si ama!” 

Come nasce la sua “fame” di poesia?

“La mia testa è uno strumento acustico. Non ragiona. cerca sulle mie corde parole e frasi adatte a descrivere l’immagine, ad enunciare in metafora ciò che penso per districarlo dall’intimismo. Funziona così da sempre, usando soprattutto intuito e percezione. Io “sento” il colore come orbo, leggo dalla bocca cosa “comunica” la circostanza come sordo. Ho una forma di handicap cognitivo, se non esistesse la poesia, probabilmente avrei patito una pena esistenziale ragguardevole, che invece la poesia ha trasformato in veicolo dell’attrazione per la vita”.

Ci racconti come nasce il titolo di quest’opera.

“Via del Cancello è la strada, quasi un vicolo comunicante dal mio ufficio al fiume, che percorro quando esco di lì per tornare a casa. E’ un luogo di liberazione concreta e quotidiana, un momento di svagatezza, un tracciato di identità. Il cancello che si apre con discrezione per lasciarmi andare oltre la ripetitività quotidiana. Cioè un’annotazione cerchiata in rosso sulla cartina dell’esistenza, perché bisogna avere riferimenti certi per non perdersi”.

Una divisione in due parti, Roma mia nello sguardo e Roma mia nell’anima. Perché ha sentito l’esigenza di una così netta suddivisione, in fondo la poesia è canto unico.

“Eh… avere una relazione con la matrona comporta tenere ben spartite le sue qualità seduttive e le sue velleità dominatrici…Roma non è una metropoli moderna, è ancora la dea pagana, la cortigiana di dimora, la popolana avvenente ma attrezzata di coltello, o te ne fai proteggere, e perciò l’accetti magnifica e cinica, oppure se ne ricorderà della tua indipendenza e ti strazierà spesso e volentieri di colpi in agguato e di malinconie struggenti. Devi assolutamente contenerla in due vasi e farne tu la mediazione, per restare conscio con chi hai a che fare”.

Poesie di sguardo e di anima, per descrivere il suo lavoro. Una espressione molto profonda. Cosa ci consente di vedere meglio, gli occhi o l’anima?

“Assolutamente la propria personalità, che le due componenti aiutano nella funzionalità metabolica. Altrimenti è un pasticcio della malora che squilibra”.

Paesaggi interiori e paesaggi naturali, una contaminazione ed una interazione di forza e potenza straordinarie. Percepirli entrambi è una grande ricchezza, possederli entrambi è un’approssimarsi alla perfezione del vivere. Cosa ne pensa?

“Piuttosto è come avere quei doni extrasensoriali, che per carità arricchiscono la qualità dello stare al mondo, ma sono pure delle condanne a non poter stare mai spensierati. Un pizzico di leggerezza, per fortuna, lo offre la romanità con la sua ironia dissacrante, per non prendere ogni elaborazione e se stessi sempre sul serio!”

Roma così tanto appieno descritta è cosa assai rara. C’è ogni aspetto, ogni persona, ogni anima di una città così tanto complessa e così tanto amata. E’ stata un’analisi di sicuro anche dolorosa.

“Ho avuto maestri fantastici in questo, mi hanno educata e istruita con la loro storia fatta di vicende individuali e di fatti epocali raccordati. Pierpaolo Pasolini, mia madre, gli ebrei del ghetto, i bancarellari dei mercati rionali…e le soste sulla banchina dell’ Isola Tiberina a riflettere solitariamente”.

Il suo amore per Roma è completo e complesso. Un amore “organizzato” che, come i più grandi amori, raccoglie in se ogni dettaglio e particolarità, nel bene e nel male. C’è qualcosa di Roma che è rimasta “intatta”, incontaminata, eterna?

“Più che intatta, è inviolata la sua completezza. Roma non è invadibile! L’assediano, di tanto in tanto, dai barbari ai mafiosi, dagli invidiosi ai parassiti, ma Roma quando poi si spazientisce li scrolla di sella e torna a pascolare sul prato della pigrizia, indisturbatamente. Pure il papato ha ridotto in una porzione di terreno recinto! Roma resta signora e padrona della sua indolenza sdegnosa verso ogni bega trionfalistica, le basta farsi le sue gite al mare quando c’è il sole o su qualche colle da rudere all’aria aperta. Il resto non la riguarda: il tempo gli umani se lo trascorrano e se lo perdano come vogliono, lei lo dispone nell’interezza”.

Quale immagine rappresenterebbe meglio oggi la sua Roma?

“Il Gasometro oramai inutilizzato che sta vicino alla Garbatella, unico rione fuori mura, che segna il passare della modernità quanto un monumento”.

Cosa le manca di più della “sua” Roma che vorrebbe resuscitare?

“Le latterie, i bar di una volta, centro sociale casareccio, con le pareti maiolicate e la panna montata fresca la domenica con la cialda per mangiarla. Ma anche lo spirito di “quelle” domeniche che la gente banchettava col pollo arrosto e la romanella nel quartino “co l’amichi de famija” magari alle baracche sull’Aniene”.

Mi vuole raccontare la rabbia per lo sgombero feroce di Piazza Indipendenza nell’agosto del 2017?

“Più che rabbia un dolore da raccapriccio: fu uno sbattere in strada bambini, anziani, donne, uomini decorosi e indifesi, da un posto inutilizzato per anni, cioè abbandonato alla fatiscenza, tenuto bene proprio solo per avere un’abitazione. Fu un sabba di prepotenza inaccettabile, a cui si oppose la rassegnazione disperata di somali ed eritrei, profughi di altrettanti soprusi. Fu un pianto di vergogna il mio, appoggiata ad un albero, perché avveniva ed ero impotente, ed ero comunque una borghesuccia bianca che non poteva soprattutto assolversi per niente”. 

Tra i tanti personaggi conosciuti e frequentati, Pierpaolo Pasolini e Alda Merini. “E come si fa” è la poesia che ha dedicato a Pasolini. “E come si fa a non pensarti”. Ci può raccontare del vostro rapporto?

“Neanche tanto occasionale con entrambi, fortuitamente fruito come tutte le migliori occasioni che ho avuto vivendo di curiosità. Due persone etiche, ma entrambe con delle faide interiori come baratri. In Alda questa generò l’innocenza, in Pierpaolo causò la colpa. Eppure avevano la stessa natura spirituale da asceti, esseri nudi ed esposti come volatili in fuga dalle gabbie. Li hanno bersagliati pure sotto i miei occhi, li hanno traditi senza alcuna remora e dileggiati oltre ogni impudenza. Sono stati “la diversità” rifiutata perché riguardava identità e mente, che ciascuno invece camuffa di banalità spregevole, di pusillanime normalità. Li ho conosciuti perché li ho ascoltati, perché non mitizzo, riconosco però sempre l’autorevolezza di quelli con cui condivido la tavola, sennò preferisco la mia solitudine. E loro due erano e saranno certamente autorevoli, al di sopra del giudizio scontato che si usa per liquidare chi ci turba. Raccontarne porterebbe via la redazione di due volumi interi perché non furono anni trascorsi invano a cercare di crescere!”

So della sua ammirazione per Papa Francesco. Qual è il suo rapporto con la religione?

Sono cristiana e apprezzo anche la filosofia buddista, ma religiosa ben poco come canone di pratica. Ritengo che tutti dovrebbero coltivare la spiritualità in bilanciamento con la laicità. Sono cristiana, ho fede nella compassione come cambiamento del comportamento egoistico che danna la società. Francesco lo “amoro”, arrivo pure a fermarmi in chiesa davanti al crocefisso per chiedere forza per lui. Non sono più reverente al clero vaticano istituzionalizzato. Sarà perché provengo da un’epoca di incontri come Di Liegro, Bello, Gallo e Madre Teresa? Probabile….”

La sua produzione è monumentale, scrive quotidianamente. E’ come fermare ogni emozione su tutto ciò che accade nella sua vita ma anche nella vita degli altri. E’ questo un mezzo per vivere meglio, per vivere bene?

“Por vivere a mi manera”

Una vita, la sua, che sembrano tante vite di tante persone diverse in una sola unica straordinaria città: Roma. Quanto è importante diversificarsi ed adeguarsi senza però mai perdere se stessi?

Pierpaolo Pasolini mi aveva soprannominata “tre vite”. Io penso solo che mi viene spontaneo accettare quel che viene e andare avanti”

“Non mi sono però depressa”, scrive parlando delle difficoltà della sua vita. Oggi ci si deprime per molto meno, per molto poco, per niente. Abbiamo perso il senso ed il valore della parola “difficile”? 

Oggi avverto più l’accasciamento della fatica, non dovuta alla difficoltà, quanto al carico esuberante dell’eccesso, del superfluo”

“C’è domani come giorno come altro opportuno possibile come quantità di tempo”. Trovo questo verso di “Colata di verde” molto delicato, un modo antico per dire che c’è il nuovo, il futuro, la speranza. Quanto è necessario soprattutto oggi guardare avanti?

“Invece curiamoci di rallentare subito, perché cambiare comporterà un salto in lungo, slancio nelle gambe e spinta. Ci vuole metodo studiato per superare la gravità”

“Figlia non riconosciuta di madre ignota”. Quanto ha significato questo aspetto della sua vita nella sua crescita, nel suo sviluppo e nella sua poetica?

Fondatezza del perché leggo e scrivo e disegno. L’ignoto così non diventa ossessione”

La consapevolezza di essere speciali per aver vissuto delle esperienze radicali, profonde quanto eterogenee, e avere continuato a camminare con questo bagaglio compressi verso terra” scrive di lei David Giacanelli. Lei è consapevole di essere un “essere” speciale?

Particolare, sì, particolare quanto un albino o un uomo in kilt ad un concerto”

Coraggiosa, impavida guerriera, con parecchie marce in più, ma non votata alla gloria ed alla fama. Per cosa vale la pena vivere Sig.ra Luigia?

“Per esserci: meravigliosa opportunità vivere!”

“Il suono dei versi ha un potere benefico”, per chi scrive e per chi legge. Quanto abbiamo ancora bisogno di scrivere e di leggere poesia?

Data la brevità, la poesia sarà il linguaggio del futuro, svincolato dalla metrica e dai temi solo romantici”

C’è chi dice e crede ancora che la poesia abbia il potere di salvarci. Perché è nella natura del poeta rimanere lontano dall’inferno dell’ignoranza e della meschinità. Lei ci crede?

La poesia è angelica. Il poeta è soltanto un testimone attento, una piccola vedetta. Può sfracellarsi giù dal pinnacolo ad ogni folata di tentazione, vizio, colpa, peccato. Nessun uomo è santo, semmai può esercitare la beatitudine, ma è uomo”

Mi vuole declamare uno dei versi più cari alla sua vita? 

Ma davvero mi si chiede che attacchi “Le ceneri” di Gramsci? Tra l’altro le recito leggendole a mente, mai pronuncio quello che mi piace. Lo sacrificherei forzandolo all’impudicizia della prosa vocale e lo faccio al cimitero della Piramide”

Alcuni suoi versi mi hanno riportato alla delicata profondità di Peppino Impastato: “I miei occhi giacciono in fondo al mare nel cuore delle alghe e dei coralli”. Vorrei concludere l’intervista con un suo pensiero su Peppino e su questi versi. Mi concede questo regalo? 

“Dei bambini veri non diventeranno mai adulti, saranno vicini nei paesi, nelle merende di niente strofinate alle fette secche, avranno avuto per giochi soltanto le pietre aguzze sotto i piedi per correre. Peppino era un piccolo che seppe diventare grande, restando per la mano a sua mamma Felicia, che gli aveva insegnato il bello del nespolo, il canto del fringuello, tutto quello da avere finchè si può bere, finchè si può respirare, finchè il mare fa tuffare da una giornata libera. Quei bambini delle imprese da coraggiosi come bucanieri, sconfiggeranno vigliacchi serpi e loschi farabutti acquattati, avranno deciso, per vincere, dei massi lisci, podi da saltare a pieppari. Peppino era un mingherlino cui riuscì farsi gigante, andando alla ventura paurosa contro la criminale mafia che lo aveva minacciato di infamarlo, di ucciderlo, perché senza più sangue non sarebbe più cresciuto”.

I cambiamenti a volte possono essere inaspettati o a volte possono essere desiderati, possono essere sfide che sembrano insormontabili o possono essere gradini da salire (o da scendere). Ci possiamo sentire persi e disorientati o invece pieni di energie e motivati ad andare avanti.
Può cambiare il terreno sul quale muoviamo i nostri passi, può cambiare il tracciato che stavamo seguendo o che stavamo creando, ma il percorso non si interrompe.

La metafora del “percorso” ci ricorda che la vita è un viaggio, un’esperienza continua di crescita, apprendimento e cambiamento. Nonostante i nostri piani possano essere sconvolti da eventi imprevisti, dobbiamo adattarci e trovare nuove strade per continuare il nostro cammino.

La chiave per affrontare il cambiamento e continuare il nostro percorso è l’adattabilità.
Dobbiamo imparare a lasciar andare vecchi schemi mentali e abitudini che potrebbero ostacolare il nostro progresso. Accogliere il cambiamento e abbracciare l’ignoto, ci apre a nuove possibilità e ci aiuta a costruire una versione migliore di noi stessi. La paura del fallimento o del giudizio degli altri può limitarci, ma dobbiamo ricordarci che i fallimenti fanno parte del percorso. Ogni volta che cadiamo, possiamo imparare qualcosa di nuovo e ottenere la forza per rialzarci.
Affrontare il cambiamento con coraggio ci porta a riscoprire il nostro potenziale nascosto e ci incoraggia a perseguire i nostri sogni con determinazione.

Ma più che il coraggio, aggiungerei “la felicità”, quella felicità che viene nel fare i percorsi fatti di corde e rami, di legno e ferro, come nei parchi per i ragazzi. Sicuramente si sentiranno coraggiosi a cimentarsi in quella sfida, ma penso che la spinta sia il “divertimento”, la voglia stessa di affrontare il percorso. Con un sorriso.

Per ricordarci i passi che abbiamo fatto finora, proviamo a riproporre quì, alcuni passi che, appena ci giriamo all’indietro, si aprono davanti a noi, significativi e densi di ricordi.

Andiamo avanti con lo sguardo rivolto davanti a noi. E le scarpe ben allacciate per affrontare il nuovo terreno.

Dopo lo straordinario successo della scorsa edizione, con circa 400 partecipanti, tra pazienti,
medici, amici, studenti, volontari e cittadini provenienti da tutta Italia, si riaffaccia a Roma la
SarkRace, un evento sportivo amatoriale aperto a tutti, per sensibilizzare e raccogliere fondi per la
ricerca e la cura dei sarcomi dei tessuti molli, rara forma di tumore, dalla complessa gestione
clinica.

L’appuntamento è per domenica 24 settembre 2023, con partenza alle 10,00 da via Àlvaro del
Portillo, 5
, sede del CESA, Centro per la Salute dell’Anziano della Fondazione Policlinico
Universitario Campus Bio-Medico. Il percorso si svolge all’interno della Riserva naturale di
Decima Malafede lungo un tragitto di 5 km.
Al termine della manifestazione sportiva, saranno premiati i primi tre classificati e verranno donati
alcuni gadget ricordo per tutti i partecipanti.
L’evento, ideato ed organizzato dall’Associazione Sarknos, in collaborazione con la Fondazione
Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, è patrocinato dalla Regione Lazio, dal Municipio IX
di Roma Capitale e da F.A.V.O. (Federazione Italiana delle Associazioni di Volontariato in
Oncologia).

Numerose le autorità istituzionali che hanno abbracciato l’iniziativa e non hanno voluto mancare a
questo appuntamento di solidarietà, impegno, testimonianza e sensibilizzazione. Saranno presenti
la Senatrice Paola Binetti (Presidente onorario Associazione Sarknos), l’On. Luciano Ciocchetti
(Vice Presidente XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati), l’On. Massimiliano
Maselli
(Assessore Servizi sociali, Disabilità, Terzo Settore, Servizi alla Persona della Regione Lazio),
l’On. Marco Bertucci (Presidente IV Commissione Bilancio della Regione Lazio), l’Ing. Carlo Tosti
(Presidente della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio Medico), il Dott. Patrizio
Chiarappa
(Assessore Sport e Grandi Eventi Municipio IX Comune di Roma).
La “iena” Filippo Roma, da sempre amico e sostenitore dell’associazione Sarknos, condurrà la
giornata in tutti i suoi momenti e sviluppi.
Le iscrizioni sono aperte al costo di 10 euro. Il ricavato verrà interamente devoluto per le attività di ricerca e di cura del sarcoma.
Per info e iscrizioni: amministrazione@sarknos.it


Sarknos: la rete per chi è affetto da sarcoma. Sarknos è un’associazione benefica di medici e
pazienti, nata per sostenere e supportare le persone affette dai sarcomi dei tessuti molli durante il
percorso di diagnosi, spesso lungo, complesso e impegnativo, dal punto di vista fisico ed emotivo.
Fondata il 26 marzo 2022 su iniziativa del Dott. Sergio Valeri – Responsabile Unità Operativa
Semplice – Chirurgia dei Sarcomi dei tessuti molli presso la Fondazione Policlinico Universitario
Campus Bio-Medico di Roma – e di un gruppo di pazienti e medici, spinti dal desiderio di voler
creare una rete di contatto e unione per quanti sono affetti da questa forma di tumore.
La Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, che ospita la sede legale
dell’associazione, ha accolto la sua nascita stipulando una convenzione. L’accordo ha l’obiettivo di
promuovere l’associazione patrocinandone le attività e supportandone le iniziative. Sarknos
sostiene la ricerca scientifica grazie all’organizzazione di eventi di informazione aperti a tutti.
Inoltre, favorisce l’incontro e il confronto tra pazienti, familiari e personale sanitario e promuove
la socialità, per far nascere idee e stimoli dalle esperienze comuni, abbattendo le barriere
dell’isolamento e della paura. Tra i suoi obiettivi, inoltre, c’è quello di sensibilizzare i professionisti
sanitari presenti sul territorio in merito all’importanza di un corretto percorso diagnostico e
terapeutico, diffondendo la conoscenza dell’Ambulatorio per la Chirurgia dei Sarcomi e
contribuendo a garantire un’adeguata presa in carico alle persone con una nuova diagnosi di
sarcoma dei tessuti molli, con l’obiettivo di superare gli ostacoli che si frappongono all’accesso al
miglior trattamento possibile.

Ufficio stampa SarkNos
Gerry Mottola
Tel. 3332725538
ufficiostampa@sarknos.it

Di solito la fine dell’anno è il momento dei bilanci, è quel momento nel quale ci si concede un pò il tempo per andare ad analizzare quello che è stato e quello che avrebbe potuto essere. A volte non è che ci si concede il tempo, ma è il tempo stesso che suona la campanella interiore che ci dice che l’ora è finita e che quindi prima di passare alla lezione successiva è necessario chiudere i quaderni e i libri. Converrete con me che, almeno a volte, quello della campanella non sia proprio un suono così piacevole.
Insomma il momento del bilancio quando arriva, arriva. E il momento della pubblicazione di quest’ultimo numero di Condivisione Democratica, è proprio un momento nel quale fare un bilancio.
Un bilancio, ma forse anche più di uno: un bilancio dell’anno in corso, un bilancio degli ultimi 10 anni – 2 lustri! Non avrei mai immaginato che saremmo potuti arrivare a tagliare questo traguardo – un bilancio del lavoro che si sta svolgendo, un bilancio della vita che si sta conducendo, così come la si sta conducendo, un bilancio sulle proprie aspettative e di come le abbiamo alimentate, un bilancio delle cose che ci danno soddisfazioni e di quelle che ci portano frustrazioni.

Ho imparato ai tempi della scuola la Partita Doppia.
Mi sono reso conto che per molti questo concetto è o considerato astruso – e quindi ignorato – oppure è banalizzato – e quindi abbandonato – in particolare per questi ultimi vorrei far sapere che la Partita Doppia non dice che c’è un elenco “del Dare” e un elenco “dell’Avere” – assolutamente no, quella è la Partita Semplice! – ma ci sono contemporaneamente movimenti che riguardano il Dare e l’Avere, nell’aspetto Economico e nell’aspetto Patrimoniale. Contemporaneamente. Detto così sembra difficile – e potrebbe: in effetti il primo a descriverlo fu Luca Pacioli un Matematico (nel suo “Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalita” nel 1494) – ma non disperate assolutamente, perché proverò a cercare altre parole.
La Partita Doppia non è un elenco di soldi che si devono Dare e di soldi che si devono Avere, questo, come dicevo, è la Partita Semplice, con una “contabilità” così non verrebbe fuori il valore intrinseco delle cose. Non emergerebbe quanto vale quello che abbiamo comprato: ipotizziamo di aver pagato il macellaio per la sua merce, diciamo 100€, ma non è riportato il valore di quello che abbiamo avuto in cambio. 100€ di carne risponderebbero i più. Beh no, perché quella carne che abbiamo pagato 100€ probabilmente finirà nella cella frigorifera, e potrò consumarla un pò per volta da solo o tutta in un’unica grigliata con gli amici oppure ancora, se la cella frigorifera si dovesse rompere o se dovessi attendere troppo, potrebbe anche andare tutta a male e finire direttamente nel cestino dell’umido. Tutto questo, quello che avviene dopo “l’azione dell’acquisto”, dove verrebbe riportato, se avessi solamente segnato il “movimento” ma non il “valore”?
Più chiaro ora?
Il bilancio non è solamente un elenco di elementi, di soldi, di immobili, di merce, ma la loro storia, di come si siano mossi all’interno dell’azienda. Come i singoli movimenti economici si siano trasformati in qualcosa di diverso, di come siano diventati degli uffici, dei capannoni – quindi degli elementi del Patrimonio – o la merce che nei capannoni è stoccata, di come siano diventati dei contratti di lavoro, di come siano riusciti a creare delle plusvalenze, quel “valore aggiunto” economico che in ultima analisi è la ragion d’essere di una azienda, di una impresa.
Ecco il bilancio, anzi i bilanci, che vorrei fare e che vorrei proporre, sono focalizzati sul “Patrimonio” e sul “Valore Aggiunto”. Su quegli aspetti che rimangono comunque, perché duraturi, e quegli aspetti che danno il senso di quello che si sta facendo, anche se possono essere effimeri.
Tracciamo una linea quindi, e facciamo i nostri ragionamenti.
Permettetemi poi un gioco di parole sciocco: nella vita, a differenza dei bilanci aziendali, i valori Patrimoniali non sono Immobili, ma mobili, in continuo movimento evoluzione, ma così come i primi anche i secondi, non sono acquisiti “per sempre”, proprio come un bellissimo edificio, senza manutenzione può diventare in un tempo breve, un luogo abbandonato, dimenticato. Lo abbiamo visto (o potete vederlo, a seconda se questo sia il primo o l’ennesimo articolo che leggete su questo numero) negli altri articoli: luoghi un tempo pieni di vita, possono “deperire”, diventare dei veri ruderi.
Invece di focalizzarmi sul fatto che si chiude un’era voglio quindi focalizzarmi su quello che resta “dopo”. Dopo Condivisione Democratica, ad esempio, resta questo bel gruppo che è la redazione e l’amicizia che si è formata al suo interno – questo direi che sia davvero da considerarsi un patrimonio – e resta la voglia di condividere e di comunicare in modo efficace – forse questo lo possiamo considerare un pò come patrimonio e un pò come “Valore Aggiunto” – resta l’idea che si possa far bene, alzando l’asticella della difficoltà di quello che si vuole fare – questo è sicuramente un elemento del patrimonio.
Sotto la linea che abbiamo tracciato io vedo quindi tanti elementi positivi che possono essere ben investiti in un’altra realtà, che ne possa prendere le sfide, il “testimone” ideale, per poterle portare avanti.

Quando decidiamo di organizzare un viaggio, che sia stato programmato da tempo o che si colga l’occasione dell’ultimo minuto, ci troviamo di fronte ad alcune scelte da fare: innanzitutto la destinazione, il mezzo per raggiungerla, quando partire, con chi partire, cosa portare nella nostra valigia! Un “viaggio” è un’esperienza progettata e immaginata, carica di aspettative, desideri e curiosità nei confronti dei percorsi che ci troveremo ad affrontare. Decidere di progettare un viaggio significa partire per poi tornare. E come nella vita, nonostante tutti i preparativi, sarà proprio il viaggio ad arricchirci, meravigliarci e stupirci.

Talvolta si decide di partire per trovare nuovi stimoli, perché è arrivato il momento di cambiare. Il cambiamento, qualunque esso sia, caratterizza l’esistenza ed è sempre positivo. Significa mettersi in gioco, evolversi, trasformarsi, volgere lo sguardo verso nuovi orizzonti. Porta con sé anche il timore nei confronti del nuovo. E proprio per tale ragione che quando decidiamo di attuare un cambiamento è necessario abbandonare ciò che è stato sino a quel momento e accogliere nuove idee e spunti di riflessione, che ci porteranno verso un percorso ancora sconosciuto.

[ Autore: Tom & Anna | Ringraziamenti: https://pixnio.com | Copyright: public domain (CC0) ]

Abbandonare non significa dimenticare né tantomeno
cancellare quel che abbiamo costruito. Quando la spinta verso un progetto –
lavorativo o di vita che sia – si esaurisce, resta comunque il frutto
dell’esperienza che abbiamo vissuto. Semplicemente talvolta arriva un momento
in cui è necessario cambiare per evolversi. È importante fare tesoro
dell’esperienza vissuta, sentita, e costruita, e arricchirla con nuove idee e
progetti. In realtà non si tratta di un abbandono vero e proprio ma di una fase
di trasformazione. E certamente ci vuole coraggio! Perché cambiare significa
abbandonare la “zona di confort” e mettersi in gioco, progettare un nuovo
“viaggio”.

Per intraprendere un percorso verso il cambiamento occorre
anche abbandonarsi un po’, ovvero lasciarsi andare, lasciar fluire emozioni
e sentimenti.
Abbandonarsi come atto di fiducia verso il nuovo e – nel
nostro caso – soprattutto nei confronti di chi continuerà a leggerci e a condividere
esperienze, emozioni, vissuti, sensazioni, racconti dai mille colori e
sfumature, con attenzione e sensibilità verso temi di attualità e con lo
sguardo sempre rivolto alla diffusione della cultura a 360 gradi. Conoscere ci
permette di comprendere, sentire e fare parte della cultura dei nostri tempi e
di quelli passati.

Con coraggio, ci accingiamo dunque a preparare la
nostra valigia
, nella quale porteremo chi eravamo e chi siamo, ciò che
abbiamo condiviso e affrontato, ma anche tanta energia, curiosità, ricerca di
novità e tanto cuore.

Sino ad ora abbiamo percorso insieme un fantastico viaggio,
ricco di storie, persone, colori e fantasia, e siamo pronti a ripartire per
affrontarne uno nuovo. Dunque, torneremo a riflettere su temi di attualità e su
fatti e persone dei giorni nostri e di quelli passati; solleticheremo la
curiosità e offriremo spunti di riflessione su tematiche sociali, momenti di
vita quotidiana, emozioni e sentimenti, che appartengono a ciascuno di noi. In
fondo, ognuno è parte e fa parte della cultura di questo tempo che, attraverso
il legame con il passato, la tradizione, la memoria storica, costituisce quel
terreno su cui si fonda il futuro, nostro e di chi verrà dopo di noi.

E voi, cosa mettete nella vostra valigia?

“L’uomo non può tornare mai allo
stesso punto da cui è partito, perché, nel frattempo, lui stesso è cambiato.
Tutto quello che siamo lo portiamo con noi nel viaggio. In verità, il viaggio
attraverso i paesi del mondo è per l’uomo un viaggio simbolico. Ovunque vada è
la propria anima che sta cercando. Per questo l’uomo deve poter viaggiare.”

   
Andrei Arsenyevich Tarkovsky

Chissà perché, non appena è stato scelto il
tema di questo ultimo numero di Condivisione, ultimo in questa veste s’intende,
in attesa di una sua mutazione a breve per una nuova lunga vita, mi è venuto
subito in mente accanto ai luoghi dell’abbandono e a quelli dell’anima, quello
dei “non luoghi”.

Espressione coniata dall’antropologo e filosofo
francese Marc Augé per indicare quei luoghi omologati della globalizzazione, riferiti non
a spazi sociali organizzati in grado di favorire relazioni, ma tipicamente
luoghi di transito, privi di radicamento, come aeroporti, stazioni ferroviarie,
centri commerciali, supermercati, stazioni di servizio, grandi catene
alberghiere ma anche campi di accoglienza per profughi, solo per citarne i
principali.

E la rete, i social ? Sono sospesi tra luoghi e
non luoghi poiché promettono una compagnia illusoria, come dice Augè, l’ubiquità
e l’istantaneità legate a Internet non possono fare una società, neanche
virtuale.

Mi chiedevo se Condivisione fosse un luogo o un
non luogo, per noi sicuramente un luogo del cuore, ma l’obiettivo della sua
trasformazione è quello di farlo diventare un luogo anche per i suoi lettori,
una comunità che accolga e favorisca l’interazione sociale, ancorché virtuale.

(Immagine dal Web)

Quindi abbandoniamo un non luogo, per
ritrovarci in un quasi luogo, sperando che diventi un vero luogo. Intanto
godiamoci i luoghi dell’estate che conquisteremo attraversando i non luoghi,
tra pandemie, guerre e crisi planetarie…. e
quindi uscimmo a riveder le stelle.