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AUTODETERMINAZIONE E RINASCITA NEL NUOVO ROMANZO DI OLIVIA GOBETTI “LA DONNA DI VETRO” : EMILIA E IL SUO VIAGGIO VERSO LA LIBERTA’ E LA REALIZZAZIONE di Giovanna La Vecchia

Emilia è una donna intrappolata in un matrimonio soffocante e oppressivo che lentamente, anno dopo anno, le fa perdere la fiducia in sé stessa e la voglia di vivere. La donna di vetro (Edizioni del Roveto, pag. 272, euro 17.90, 2024) è il nuovo romanzo di Olivia Gobetti, un potente racconto di resilienza e determinazione, che offre una importante e profonda riflessione sulla forza interiore necessaria per affrontare le situazioni più complesse e dolorose della vita. 

Scrittrice, aforista e writing coach, Olivia Gobetti è romana di adozione. Nata a Brescia attualmente vive a Nettuno. Ha condotto programmi TV tra cui Sereno Variabile (RaiDue), con Osvaldo Bevilacqua, Sabato4 (Rete 4), oltre a diversi programmi radiofonici su RadioRai e Networks nazionali. La donna di vetro è il suo quinto libro. L’abbiamo incontrata per i nostri lettori conoscendo contemporaneamente due donne straordinarie, Olivia l’autrice ed Emilia la protagonista. Solitudine, silenzio, il crollo di tutte le certezze e sicurezze, la resa dei conti, la nuda e cruda realtà, la percezione che bisogna affrontare le proprie illusioni e farsi carico del senso di distruzione che opprime e annienta. La donna di vetro affronta tematiche drammatiche con un linguaggio schietto e diretto che rispecchia appieno Olivia Gobetti, donna solare, elegante ed empatica, con un sorriso che spazza via tutto, ripulisce in un attimo la via per far spazio al nuovo, al bello, all’estasi della rinascita e della riconquista di sé stessi. 

La donna di vetro è una storia che ne rappresenta migliaia purtroppo, tutte molto simili, con dinamiche e linguaggio molto familiari. Emilia, la protagonista, compie un viaggio molto complesso dentro di sé per giungere ad una rappresentazione di sé stessa e della realtà quanto più possibile vicino alla verità. Cosa o chi fa scattare in Emilia la capacità e la possibilità di affrontare tutto questo?

“Se, come si dice, “Nessun uomo è un’isola”, penso che “Nessuna donna ancora lontana dalla sua isola ideale, possa prendere in mano lo scettro della propria esistenza”.  Riconoscere il nostro percorso, accettandone le asperità, soprattutto queste, ci permette di lasciare alle spalle una vita poco compatibile con il nostro modo di vivere e sentire la vita. Emilia ‘sente’ quando l’approdo è a un passo: lo avverte nell’anima e, nel momento preciso in cui ne diventa consapevole, il cambiamento è già iniziato. E indietro non si può tornare. La sofferenza è tanta, le delusioni provate non si contano, ma una luce si sta facendo strada tra le lacrime, emerge dalle insicurezze, e infine trionfa sulla paura.

Come direbbe Raffaele Morelli, autore della prefazione, quando riconosciamo la nostra Itaca, togliamo tutti gli orpelli inutili e pesanti della vita, e respiriamo la brezza pura e incontaminata della nostra vera essenza”.

Il linguaggio adoperato nel romanzo è molto semplice, diretto, lineare ed efficace proprio perché non subisce filtri e non si nasconde dietro una facciata di insegnamenti e lezioni di vita. I dialoghi emozionano e colpiscono perché appartengono a molte donne, a molti uomini, a molte famiglie. Perché Emilia ed Edoardo appaiono così familiari e così vicini ad ogni lettore?

“Quando scrivo non uso filtri. Non lo faccio mai perché se racconto la vita, non posso e non voglio nascondermi dietro inutili pudori. Il lettore se ne accorgerebbe subito. La vita non è edulcorata, non chiede permesso aprendo una porta, né chiede scusa se ti offende. Io scrivo solo quando ho qualcosa da dire, e cerco di farlo senza tanti ‘girotondi di parole’. I personaggi di Emilia, Edoardo, ma anche Julian, Cloe, Marika e Simona, forse, in qualche modo, li abbiamo già conosciuti e sperimentati nelle nostre vite. Per questo ci appaiono tanto reali nelle loro grandi o piccole debolezze, nel modo di dar voce a pensieri e convinzioni, ma anche nelle scelte, corrette o meno.

Emilia e il marito Edoardo, pur nelle descrizioni e dialoghi più accesi, mantengono dialoghi verosimili. Quando ci appassioniamo a una storia, non è necessario sia tutto identico al nostro vissuto, quindi alle nostre esperienze dirette. Molto spesso, però, basta un paragrafo, se non un’unica frase, a farci sentire parte della narrazione. Credo sia questa la magia di un romanzo ben strutturato”.

Il dolore e la difficoltà di Cloe, la figlia di Emilia, spiegano molte problematiche sempre più diffuse nei ragazzi che tentano con le proprie forze ed i propri strumenti di resistere e di sopravvivere a due genitori in conflitto ed alla violenza che spesso caratterizza il loro quotidiano. Che mamma è Emilia?

“Emilia, come moltissime madri, pensa alla propria figlia come la parte migliore di sé. La osserva durante la fase della crescita con ammirazione, cerca di starle accanto per incoraggiare le sue scelte, ma anche per offrirle una spalla su cui piangere nei momenti in cui la vita si mostra poco generosa. Emilia si sentirà in colpa per aver offuscato l’orizzonte di Cloe con una visione distopica dell’amore. Ma qualcosa accadrà tra di loro, qualcosa in grado di offrire una nuova prospettiva di sé stesse e del loro rapporto”

Nella crisi matrimoniale ad un certo punto entra Julian, un nuovo amore che inizia virtualmente e che sembra per Emilia una rinascita ed una riconquista dei propri spazi e della propria libertà. A volte quella che sembra essere la salvezza è peggiore della condanna a restare cui una donna si sottopone. Forse l’appartenersi esclusivamente dovrebbe essere prioritario in una crisi matrimoniale e famigliare, dandosi un tempo di solitudine e di riflessione. Cosa ne pensa? 

Tutto ciò che ci attraversa, va vissuto. Così, nel modo più naturale possibile, senza pensarci troppo. Un amore nuovo arriva nel momento esatto in cui deve accadere. Non un attimo prima, né un attimo dopo.

Dobbiamo viverlo anche se sappiamo potrebbe farci male perché la passione, l’innamoramento, ci portano sempre a grandi evoluzioni, ci permettono di entrare in stretta connessione con noi stessi. Le emozioni provate ci trasformeranno nella parte più vera, quella trascurata da troppo tempo.

“L’Amore non si arrende, ma all’Amore ci si arrende.” Questo non è sinonimo di debolezza, ma tutto il contrario. Darsi senza limiti a un altro essere umano, è tra le esperienze più straordinarie della vita.

Quando un matrimonio o una convivenza hanno perso la strada del rispetto, è facile riconoscerci emotivamente in altre persone rispetto al proprio partner. Non è leggerezza, è dolore che cerca di respirare più forte per sopportare tutta la tensione prodotta. E’ vita alla ricerca di se stessa”.

Quando Emilia si sente male descrive in modo toccante “la sensazione di sentirsi completamente sola”, quel vuoto terrificante con cui ad un certo punto si impara a convivere. Ma si è veramente e completamente soli o ci si sente perché si ha paura di far vedere agli altri i nostri cambiamenti, che forse fanno paura addirittura a noi stessi e che temiamo? Forse bisognerebbe avere il coraggio di chiedere aiuto più spesso ed in un modo sincero e profondo. Cosa ne pensa? 

“Chiedere aiuto è fondamentale. Alle persone giuste, però… Emilia si appoggia con fiducia a un paio di amiche storiche, ma come riconoscere la sincerità nelle persone amate? L’amicizia al femminile prevede solidarietà e onestà in qualunque situazione? Nella storia se ne parla, e forse,si arriverà a una risposta in grado di fare chiarezza sull’argomento”.

“Le persone ci devono deludere a tal punto perché possiamo contare sui nostri talenti, perché il nostro percorso diventi nitido, essenziale?” scrive Raffaele Morelli nella prefazione a La donna di vetro. “Come Ulisse bisogna arrivare stranieri, sconosciuti, soli, per vedere la propria Itaca?” prosegue. Una immagine veramente potente e straordinaria che penso racchiuda tutto il significato del romanzo. Emilia è dunque come Ulisse e non come Penelope, è d’accordo? 

“La trasparenza di noi donne non è sinonimo di fragilità: sbaglia di grosso chi ci definisce ‘deboli’. Morelli parla di ‘spoliazione’, condizione necessaria per mettere in luce i talenti nascosti, le virtù di cui non eravamo consapevoli. Da Penelopi in perenne attesa, siamo in grado di trasformarci in tanti Ulisse alla ricerca della propria Itaca, pronte a difendere noi stesse e i nostri figli. Questo non significa rinunciare alla propria femminilità, significa non permettere più a nessuno di trattarci senza rispetto in nome di un amore ‘a chiacchiere’, non certo nella sostanza.

Proprio come suggerisce Alessandro Baricco in una bellissima intervista televisiva, impariamo l’arte di ‘lasciar andare’: cose, situazioni, persone.

Non perdiamo tempo a rincorrere chi ci lascia, a dare altre possibilità a persone non meritevoli, non buttiamo il nostro tempo prezioso con chi usa la violenza per riparare l’amore, smettiamo di regalare anni e anni a chi non perde occasione per farci sentire inadeguate o perennemente colpevoli di qualcosa. Lasciamo andare!”

Quanto conta ancora oggi nella nostra società il giudizio degli altri quando si affronta un matrimonio infelice e drammatico ed una separazione in un contesto di violenza? 

“Non ho mai amato il giudizio altrui. Soprattutto i classici matrimoni ‘di facciata’, tanto frequenti nello scorso secolo, ma che ancora sopravvivono in certe realtà del nostro Paese. I nostri nonni tenevano molto a ‘lavare i panni in casa’, oggi se un matrimonio si mostra disfunzionale, se la violenza verbale o fisica ne rappresenta l’essenza, dobbiamo parlarne.

Denunciamo anche quando pensiamo di essere sole in mezzo a un mondo ingrato, denunciamo anche quando in certi sorrisini ipocriti e di circostanza, leggiamo a chiare lettere: “In fondo, se lui ti picchia, è perché te lo sei meritato!” Denunciamo. Prima che sia troppo tardi. Per tutto”

La donna di vetro è un romanzo che contiene in sé infinite verità utili sia agli uomini che alle donne, anzi probabilmente i lettori dovrebbero essere in maggioranza uomini perché a volte riuscire a vedersi da fuori attraverso gli occhi di un altro, meglio ancora se donna, può essere un aiuto quasi terapeutico per un  uomo. Pensava di avere tutta questa attenzione da parte del pubblico maschile? 

“Sapere che questo romanzo viene letto con attenzione da molti uomini, è stata per me una notizia importante. Significa che sono in molti ad avere a cuore le proprie donne, a volere per loro il meglio, scoprendo attraverso questa storia i loro desideri, speranze, fragilità. E la loro forza. Questo ha acceso in me una piccola grande luce di speranza! Le persone belle esistono. E non sono poche. Guardiamoci attorno”.

“I mariti si conservano con lasagne e pompini” dice ad un certo punto del romanzo l’amica Marika, è una provocazione o c’è qualcosa di vero in questa affermazione? 

“Magari, alle lasagne, preferiscono una pasta alla carbonara…”

La donna di vetro è il suo quinto libro, come e quanto è maturata la sua scrittura ed i temi trattati in questi anni? Ci racconti il suo esordio. 

“In quel periodo, lavoravo come conduttrice a Rete 4 anche se, di tanto in tanto, scrivevo su alcuni settimanali dedicandomi alle interviste e agli argomenti legati al benessere. Un giorno, la mia agente mi disse di aver trovato una persona disposta a scrivere un libro per me. In pratica, io avrei firmato come autrice, e lei avrebbe lavorato come ‘ghost-writer’.

Rimasi senza parole e, a essere sincera, anche un po’ offesa da questa proposta inattesa. Risposi ringraziando e dicendole di avere già in testa l’idea per un romanzo. E quindi, non avrei avuto alcuna necessità di ricorrere a un aiuto esterno. Da quel giorno stesso, iniziai la scrittura del mio romanzo d’esordio. Dopo nove mesi esatti, nacque “Una Vita al Contrario”. La prefazione di Vittorio Feltri mi aiutò non poco a farmi conoscere come scrittrice, e per questo gli sarò sempre molto riconoscente”.

Scrittrice, giornalista, presentatrice, aforista, writing coach, madre di 4 figli, attualmente insegna scrittura immersiva, di cosa si tratta? 

“A un certo punto della mia vita, pur non smettendo di scrivere libri, ho sentito la necessità di condividere quel poco o tanto imparato dall’esperienza letteraria. Adesso seguo alcuni laboratori di “Scrittura Immersiva”. Si tratta dell’ultima frontiera della scrittura creativa, ancora più coinvolgente per il lettore che si sente parte integrante della storia, attraverso la percezione di tutto ciò che sta vivendo e percependo il protagonista. Ci sono strumenti a disposizione per rendere sempre più fluido, accattivante e originale il nostro stile. Se la lingua è in costante evoluzione, la scrittura segue di pari passo”.

Gassman, De Gregori, Gervaso, Morandi, Faletti e molti altri, tutti protagonisti indiscussi del panorama italiano e non solo, con cui ha avuto la possibilità di dialogare e di instaurare delle importanti amicizie. La sua è una carriera lunga e piena di spessore. Ci parli un po’ di questi incontri. 

“Da ragazza ero una giornalista entusiasta ma goffa sul modello ‘Bridget Jones’, per intenderci, anche se l’iconico personaggio in questione ancora non era stato inventato. L’intervista a Francesco De Gregori ai tempi de “ La Donna cannone”, “Rimmel”, “Generale”, quindi nel suo periodo di massimo splendore, andò davvero molto bene. Francesco si era mostrato disponibile, sorridente e generoso… peccato non avessi premuto il tasto ‘Rec’ per avviare la conversazione sul registratore a bobine.

Quel giorno, avrei voluto sotterrarmi e sparire nel nulla, giuro. L’indomani era prevista la messa in onda su RadioRai quindi decisi di rischiare un ‘Vaffa’ ben assestato dal famoso cantautore, tornando da lui con l’espressione di un condannato alla ghigliottina… Francesco si mise a ridere, aveva già capito tutto. Mi cinse le spalle rassicurandomi: “tranquilla, la rifacciamo meglio. Però, adesso, fammi premere il Rec!”

Tra i primi personaggi famosi intervistati, l’incontro con l’immenso Vittorio Gassman mi trovò come un pesce in una cristalleria. Nel camerino, al termine del suo spettacolo teatrale, respiravo male e mi guardavo attorno per evitare di inciampare in un tappeto o di rompere qualche vaso, fiori compresi. Gassman mi fece accomodare e, chissà perché, iniziò a parlarmi della famosa respirazione diaframmatica, tanto necessaria per gli attori e non solo…

Roberto Gervaso intervenne in modo significativo per aumentare il mio livello di autostima quando mi disse: “La tua intervista insieme a quella di Costanzo è stata la migliore di tutte!” Pensavo stesse scherzando, ma mi rassicurò fosse vero. La nostra amicizia, nel tempo si consolidò e lo ricordo quando, seduto nel suo studio, mi leggeva i suoi nuovi aforismi chiedendomi se potessero funzionare per un libro in uscita. Sentivo davvero tanta stima per me, forse non la meritavo ma mi aiutò non poco a crescere a livello professionale. Ps: devo a Roberto la mia passione perdurante per gli aforismi.

Morandi correndo venne ad aprirmi il cancello della villa (all’epoca abitava a Tor Lupara), mi portò in cucina e preparò la moka per il caffè.

Poi mi accompagnò nel salotto, si mise al piano e mi cantò le sue canzoni più belle. L’avrei sposato subito. Giuro”.

“Abbiamo paura di ciò che non conosciamo e spesso scegliamo di fare riferimento, di affidarci  a ciò che conosciamo anche se non è né rassicurante né piacevole” mi ha detto. Questo atteggiamento spesso conduce ad un epilogo drammatico, cosa si può dire o fare per far comprendere soprattutto alle giovani donne che non bisogna temere l’ignoto piuttosto bisogna scappare a volte da quelle che crediamo certezze e sicurezze. 

“Conosciuto o non conosciuto, in realtà quando si è molto giovani è facilissimo scivolare su decisioni o persone dall’aspetto affidabile. Spesso, capita d’incappare in relazioni sentimentali con un uomo dai tratti caratteriali simili al proprio padre. Anche se questo genitore non si è mostrato rispettoso e attento nei confronti di nostra madre. Questo perché il conosciuto è certo, anche se rappresenta un esempio negativo. I salti nel vuoto spaventano sempre un po’. L’unica soluzione è non smettere di parlare, di informare, di scrivere libri che possano chiarire queste tematiche. Io ci ho provato. E non smetterò di farlo”.

Emilia potrebbe tornare a raccontarsi in futuro in un suo nuovo romanzo? Probabilmente i lettori ne sarebbero molto contenti, perché Emilia è diventata un’amica per molti di noi. 

“Quello de“La Donna di Vetro” è il classico finale aperto. Chissà, mai dire mai!!!”

NASCE A ROMA “IL SIMBOLO” CASA EDITRICE DEL POETA MAURIZIO GREGORINI, FONDATORE E PROPRIETARIO. POESIA, NARRATIVA, SAGGISTICA DI TEMATICA SPIRITUALE IN UNA DIFFERENTE IDEA PER EVOCARE IL SENSO DI UN FASCINO POETICO.

Intervista a Maurizio Gregorini in libreria con la nuova opera “Ki. Segni dallo spirito” e la riedizione del romanzo “Neve e Sangue”.

“Inizia così il viaggio di nuove pagine dense di parole belle, contenuti intensi e sogni inafferrabili che, dalle pagine dei bei libri voleranno verso nuovi lettori. Voglio anche dire che i volumi sono curatissimi, le copertine affascinanti, la qualità della carta e dei caratteri di stampa di grande valore estetico. Perché la Bellezza inizia dallo sguardo e dal tatto per poi arrampicarsi lassù, in alto, dove si può. Anche se non si sa”  (Carla Vistarini, pagina Facebook commento sulla presentazione della casa editrice “Il Simbolo” Libreria Feltrinelli – Roma 10 aprile 2024)

Il poeta, giornalista e scrittore Maurizio Gregorini (Roma, 1962), torna nelle librerie con due nuove opere: “Ki. Segni dallo spirito” e “Neve e sangue” (il primo 167 pagine, 15,00 euro, è il suo nuovo libro di poesia, di cui è stata stampata una edizione privata fuori commercio, pagine 202; il secondo, un romanzo, 120 pagine, 15,00 euro, con prefazione del poeta Giorgio Ghiotti, è la riedizione – con aggiunta di racconti introvabili da anni – di un libro edito nel 2007), pubblicati dalla neonata editrice “Il Simbolo”, di cui è unico fondatore e proprietario. Gregorini è autore di poesie, racconti, romanzi, saggi. Ha pubblicato diversi volumi di poesia, alcuni con la prefazione di Dario Bellezza, Luca Canali, Livia De Stefani, Elio Pecora, Riccardo Reim. E’ stato responsabile della Terza Pagina di un quotidiano per oltre quindici anni, e per oltre trent’anni ha pubblicato articoli, interviste, saggi su periodici vari.

Tra il 1997 e il 1999 sui quotidiani “Giornale d’Italia” e “Italia sera” ha curato le rubriche “Inediti d’autore” e “Prova d’autore”, intere pagine monografiche di grande eco e successo in cui dava spazio e voce anche a giovani poeti (parecchie di queste voci sono confluite nel volume “La musica dell’inquietudine. 25 autori si raccontano”, Ianua 2002). Parte della sua produzione poetica è in “Vortici. Poesie per l’altro amore” (2002) che gli ha valso il “Premio Personalità Europea” (trentaduesima edizione), consegnatogli presso la Sala della Protomoteca del Campidoglio durante la “Giornata d’Europa”. E’ il curatore di “Poesie in diesis” (2002), opera poetica – postuma – di Livia De Stefani. Nel 1997 ha pubblicato “Morte di Bellezza” (Castelvecchi), riedito nel 2006 da Stampa Alternativa col titolo “Il male di Dario Bellezza”, vincitore del Premio Mangialibri nella categoria “Miglior rapporto qualità/prezzo del 2006”; nel 2016, sempre l’editrice Castelvecchi ne ha stampato una nuova edizione aggiornata. Nel 2009 Menico Caroli e Guido Harari hanno inserito una sua lunga intervista inedita nel volume “Mia Martini. L’ultima occasione per vivere”, mentre Gianluca Polastri ne ha inserita un’altra sulla poesia in “Festinalente. Il sogno di Ganimedia”, antologia di poesia Gay. Insieme all’attore poeta e regista Giangiacomo Ladisa ha pubblicato “Con gli occhi celesti. 20 anni di lavoro indipendente”. Luca Baldoni ha inserito un fascio di sue poesie nell’antologia “Le parole tra gli uomini” (2012), definendolo l’erede dell’asse poetica Penna-Pasolini-Bellezza. Nel 2012 viene pubblicato in America un’opera sul pittore Simon Dinnerstein, “The suspension of time. Reflections on Simon Dinnerstein and ‘The Fulbright Triptych’”, Milkweed Editions, dove è stato inserito un suo saggio, unico autore italiano invitato a parteciparvi. E’ stato autore e conduttore radiotevisivo (“Outing”, piattaforma 877 di Sky e Teleroma 56; “Un disco e un libro da comprare”, Teleradiostereo). Nel 2012 Radio Vaticana, nella proposta radiofonica “Pagine e foglie”, gli ha dedicato il programma “Storie”, condotto da Arianna De Gasperi. In occasione del trentennale della sua attività poetica, nell’ottobre 2017 Castelvecchi, nella collana ‘Cahiers’, ha mandato in libreria “Sigillo di spine. Le poesie” (opera omnia nonché edizione completa di tutti i libri di poesia editi, con aggiunta di inediti), che ha ottenuto il “Premio speciale della giuria” della III Edizione del Premio Letterario Internazionale “Antica Pyrgos”. Nel 2019 è stato inserito nel volume “Roman Poetry Festival. Quarant’anni dopo il Festival Internazionale dei Poeti” (Ponte Sisto Edizioni). 

Ki: Segni dallo spirito

– Gregorini, ci conosciamo da oltre trent’anni. L’idea di una casa editrice l’aveva in testa già anni or sono. Una attesa, la sua, che alla fine è divenuta una realtà: “Il Simbolo”. Mi parli di questa nuova attesa avventura…

“Cosa vuole sapere esattamente?” 

– Veda lei: per quale motivo l’ha fondata, cosa vuol dire essere un poeta e adesso altresì un editore, che tipo di pubblicazioni avrà la casa editrice, a che pubblico intende rivolgersi…

“Partiamo dall’ultimo interrogativo: penso che un autore non abbia mai in mente il tipo di pubblico da cui vorrebbe essere seguito, ossia letto; perlomeno io non ci ho mai pensato: lascio libero chicchessia di scegliere cosa leggere e cosa evitare non prestandogli interesse. Forse, in qualità di editore, ora il quesito dovrei pormelo, e invece no, non mi sfiora nemmeno l’idea di cercare un pubblico distinto per ciò che si editerà. Per il momento ho pubblicato il nuovo bel libro di poesia di Raffaella Belli e quello di Giorgio Ghiotti, anch’esso notevole. E’ appena stata editata l’opera omnia della Elsa de’ Giorgi, con cura e prefazione di Pecora, più la riedizione dei libri di poesia di Agostino Raff; infine, sta per uscire ‘Tutto il teatro’ di Elio Pecora, con prefazione e cura del bravo Marco Beltrame. Poi, si vedrà. Il motivo che mi ha spinto a realizzarla? Forse la stanchezza di avere relazioni con editori che se ne fregano poco di quel che vorresti fosse mandato alle stampe, e che non ti ascoltano quando auspicheresti evitare situazioni imbarazzanti, come ad esempio la scelta grafica di un libro, sia del corpo del carattere quanto della copertina, senza escludere che quasi mai nessuno di questi rimunera agli autori le royalties maturate, dunque, se debbo far guadagnare inutilmente e a scapito mio editori che a volte nemmeno apprezzano il tuo lavoro, è meglio mettersi in proprio, come del resto stanno facendo vari autori tramite autoproduzioni. Ma quel che davvero mi ha convinto a realizzarla, sebbene io goda della mia esperienza quasi quarantennale nel mondo dell’editoria, è l’aspirazione a rendere pubblici testi di autori che meritano e mi piacciono. Ovviamente, in alcuni casi e con degli autori, ci sono stati, ci saranno, anche i ‘no’, seppur dolenti: non posso pubblicare tutti, certo che decisioni simili non mi porteranno simpatie, ma che farci? Se un libro non mi piace e non ci credo, al di là delle possibili vendite, non lo edito. Insomma, una piccola casa editrice, di nicchia, che proponga testi di qualità. E’ un buon proposito, non crede? Debbo però qui ringraziare Fabio Capocci delle Edizioni Ponte Sisto e tutto il suo magnifico team, in particolare la grafica Daniela, che mi hanno permesso, sposandolo appieno, la totale realizzazione di questo sogno che rincorrevo da anni. Senza la complicità di Fabio Capocci, per il momento, non avrei mai potuto attuare un progetto – penso di buona caratteristica – come quello de ‘Il Simbolo’; è a tutti loro che va il mio grazie sincero e soprattutto affettuoso per avermi accolto nella loro famiglia editoriale”. E poi, l’attesa: conosciamo come ‘attendere’ significhi conservare uno stato d’animo nella sospensione di un tempo ampio in cui si realizzi qualcosa conforme alle proprie speranze. Ecco, come lei ben sa, ho atteso parecchi anni; ora però questo vecchio desiderio è divenuto realtà, e tuttora continuo a stupirmi di essere riuscito a concretizzarne il senso ma, lo ripeto, se non ci fosse stata la disponibilità e l’affetto di Fabio Capocci – che presto diverrà mio socio – tutto questo non sarebbe stato possibile”.  

– Ha presentato il suo progetto alla Feltrinelli di Roma. Ci saranno altre iniziative? 

“La presentazione della casa editrice ha avuto un ottimo riscontro. Con me c’erano Raffaella Belli, Elio Pecora e Giorgio Ghiotti, tutti entusiasti di queste edizioni. Per l’occasione si è spiegato come ‘Il simbolo’ non includerà soltanto libri di poesia o narrativa, ma soprattutto saggistica di tematica spirituale. Ci saranno anche occasioni di edizioni particolari, vedi la pubblicazione dell’opera omnia teatrale di Pecora, che trovavo andasse fatta, sia per rispetto dell’autore, sia per l’importanza che tali testi hanno avuto nel panorama teatrale italiano. A settembre pubblicherò il nuovo libro di Antonio Veneziani; nel frattempo sto valutando delle opere che mi sono state inviate da autori vari”.

– Lei non dava alle stampe opere dal 2017, ora esce contemporaneamente con due volumi. 

“Si riferisce a ‘Sigillo di spine’, l’opera omnia lirica licenziata da Castelvecchi. Quella è stata una occasione per unire ogni libro di poesia edita negli anni; inoltre festeggiava il trentennale dell’attività poetica. C’è da dire che, con lo scorrere degli anni, presumibilmente, anche la musa ispiratrice pretende i suoi tempi di riflessione. Inoltre quel lavoro specifico creava uno spartiacque tra una produzione poetica verso cui ho rispetto, ma che è – e resta – decisamente lontana dal mio ‘sentire’ odierno. La mia scrittura nel tempo è andata a variare di netto, non lo stile, ma gli argomenti che mi preme trattare in questo momento della mia vita. Non si può produrre un libro di poesia ogni due o tre anni, perlomeno non nel mio caso. Tanto più che gli argomenti trattati al presente volgono l’interesse verso l’incorporeo, la transitorietà dell’anima, la realtà dei mondi invisibili e, soprattutto, la morte fisica. Credo siano argomenti non facilmente commerciabili in poesia, che non possono essere editi come si trattasse di un banale libro d’amore. Prenda come esempio il ‘KI. Segni dallo spirito”: per arrivare al risultato ultimo, quello appunto di dominio pubblico, ci sono state ben tre edizioni private che mi hanno permesso di dedicarmi ad esso con maggiore attenzione e consapevolezza, proprio perché l’argomento proposto necessita – a parere mio – di una particolare decantazione intima”. 

– Crede dunque si tratti di un’opera portata a termine, conclusa?

“Chi può dirlo? Non sono mai certo di nulla. Ma come molti oramai sanno, è un libro dedicato alla morte di un amico, Monsignor Angelo Cordelli, deceduto a soli cinquantasette anni a causa di un cancro. E’ stata una esperienza sì dolorosa, ma poeticamente liberatoria, poiché mi ha permesso di rintracciare la via specifica di quel che ero intenzionato a trattare nei versi: l’immaterialità dell’anima. Non a caso per l’edizione pubblica ho scelto di inserire nella seconda e quarta di copertina, ossia le bandelle, la lettera che gli avevo scritto poco prima che morisse e che accompagna la prima edizione privata, datagli in dono affinché la vedesse e ne potesse fare omaggio ai suoi amici. Ho lavorato molto su questo testo, infatti nelle tre edizioni private – composte solo da due atti e non da tre – parecchie sono state le riflessioni e i ripensamenti su termini, vocaboli e impressioni. Considero le edizioni private il ‘lavoro in corso’ di un testo che, per il momento, m’appare risolto; per la ragione che l’evento della sua morte, per naturalità d’evento, si sta distanziando, e le emotività provate in quei mesi precedenti la sua fine, si stanno smarrendo nella memoria del tempo. Infine, era giunto il momento di dare un taglio al dolore, passando ad occuparmi di altro in fatto di scrittura. Capisco e mi rendo conto che si tratta di un volume curioso, di non semplice lettura; ma credo ciò sia dovuto al fatto che questa nuova poesia da me prodotta non abbia alcuna discendenza poetica. Come ha osservato acutamente Antonio Veneziani, è spiazzante, originale, con un uso di termini e parole anomali che ne struttura uno stile bizzarro, però entusiasmante (sono parole di Veneziani, non mie)”. 

– Come appendice al “KI” ha inserito “Serifos. Diario minimo”, anch’esso un testo edito privatamente in tiratura di cento copie.

“Nell’avvertenza al libriccino spiegavo in che modo, ritrovatomi ad esprimere nel linguaggio della prosa impulsi della mia quotidianità come mai accaduto in precedenza (di solito avviamenti del genere prendono parola in forma di versi; inoltre alla prosa dedico il mio impegno di giornalista e recensore di libri e dischi, ma ora che sono divenuto un editore, non più), mi sono azzardato a pubblicare sentimenti e annotazioni corsive nel mio profilo Facebook. E’ capitato che, leggendole, molte persone abbiano dimostrato di apprezzare queste brevi note e mi abbiano indotto a pensare che la sottilità di quei pensieri si dilatasse nell’animo dei lettori, imprevedibilmente, in larghezza di emozioni. E siccome in privato giungevano sollecitazioni a fare di queste note un libro, mi sono risolto ad editarlo in tiratura minima e fuori commercio sia per gli amici, sia per coloro che lo hanno apprezzato. Si tratta di un diario minimo scritto nell’isola di Serifos, Grecia, in giornate dove la scrittura del ‘KI’ ancora premeva dentro di me in cerca di un chiarimento decisivo. Ammetto come ogni scritto, per me, è sempre stato l’opportunità di attingere ad una verità agognata; cosicché il resoconto di quest’avventura in prosa costituisce il racconto di un ‘me’ recente, e rivela, anche senza la collaborazione della volontà, frammenti di poesia che la realtà ha nascosto in pieghe insospettabili della mia anima. Parimenti, credevo di aver terminato questo episodio, e invece l’anno seguente mi sono ritrovato di nuovo ad annotare frammenti di un sentire che probabilmente mi si presenta nella mente solo in quel luogo specifico, ossia una piccola casa in una frazione di Serifos, che si affaccia su una splendida chiesa bizantina del Mille. Lavorando a questi ultimi appunti, ho capito che la vicenda del ‘Diario minimo’ era il compimento del ‘KI’: non poteva essercene un altro, soprattutto perché in queste riflessioni quotidiane rimaneggiavo l’esperienza della morte di Angelo Cordelli. Per di più era un libriccino che amici e lettori continuavano a chiedere (la tiratura di cento esemplari si è esaurita nell’arco di due mesi). Così ho ritenuto opportuno – magari errando, chi può dirlo? – di inserire il testo come appendice al libro di versi: sia per compiacere tutti quelli che se ne sono mostrati entusiasti, sia perché si tratta di brevi note giornaliere quasi a chiusura dei tre atti che sono la struttura portante del libro. Vi ho anche infilato, sotto la dicitura ‘Arte poetica. Appunti per eventuali rime’, alcuni versi stralciati dal ‘KI’, quale umile esempio e sfida per giovani poeti di come può essere organizzata una singola poesia”. 

– Ma del ‘KI’ ne ha fatto però una ennesima edizione privata.

“Sì, settanta esemplari fuori commercio di oltre duecento pagine che sono testimonianza di come avrei voluto il libro fosse realizzato. E’ una edizione in cui è confluito l’intero materiale che ha articolato le tre edizioni private uscite tra il novembre del 2020 e il luglio del 2022, esemplari in cui mi è piaciuto inserire le frasi di apprezzamento dei lettori, varie fotografie, due appunti di Vincenza Fava, più una sua intervista, cara Giovanna, del gennaio 2022. Anche in ‘Serifos’ vi erano fotografie che scattai dell’isola. Ecco, nell’edizione pubblica, quella presente nelle librerie, sono stati omessi tutti questi materiali e alcune pagine intime del ‘Diario’, magari non di reale coinvolgimento per il lettore. Come dire che – a mio avviso – l’autore deve avere una distanza da quel che ha scritto e da ciò che poi intende divulgare nella correttezza ufficiale, tant’è che, come afferma il cantautore Faust’O, ciò va fatto ‘per non ritrovarsi indifesi davanti alla propria stessa penna’, anche se quel che è scritto è scritto, e nulla può mutarlo nella sua vera genesi’”. 

Neve e Sangue

– “Neve e sangue”: come mai si è deciso per una ristampa del romanzo? So che per anni se ne è disinteressato. In più vi ha aggiunto i racconti di “Lamento o tormento che sia” che nel 2001 Antonio Veneziani volle editare in una sua collana edita da Antonio Porta.

“Il romanzo uscì per le Edizioni del Cardo nel 2007. Di lì a qualche anno, anche questa bella piccola casa editrice, che aveva in catalogo titoli ‘ai margini’, fondata e diretta da Jean-Marie Pouget, terminò le pubblicazioni. Il romanzo breve non fu mai più ripubblicato, nemmeno presso altri editori, ed è vero come lei sostiene: ciò fu dovuto anche alla mia indifferenza. Negli anni numerosi lettori che mi seguono hanno mostrato interesse per il libro e mi hanno sollecitato a darne una ristampa; questa nuova edizione viene incontro innanzitutto al loro desiderio. Devo all’amico poeta Antonio Veneziani la mia produzione in prosa: fu lui a richiedermi brevi prose per una collana, ‘Scritture’, di cui Veneziani era direttore, pubblicata da Antonio Porta. I racconti, introvabili da tempo, uniti sotto il titolo ‘Lamento o tormento che sia’, uscirono per l’Editrice Ianua nel 2001; furono poi accolti in varie antologie e su alcuni quotidiani. Li ho aggiunti in questa nuova edizione come ‘hidden tracks’ per tutti coloro che vorrebbero avere la possibilità di leggerli”.  

– Perché ha atteso diciassette anni per una riedizione?

“Sebbene in sostanza coerenti sia col ‘romanzo breve’ sia coi ‘racconti’ aggiuntovi, la ristampa di questo libro è espressione di una parte di me che io ora avverto distante, remota negli anni della mia gioventù. Pur riconoscendo che forse la scrittura di ‘Neve e sangue’ andasse ‘aggiornata’, alla fine non me la sono sentita: mi sembrava di snaturarne la genuinità, di adulterare uno stato emotivo che di essa si era sostanziato e non poteva perciò essere modificabile. Lo stesso si dica dei racconti, riproposti qui nella loro redazione originale e non in quella edita nel 2001. E’ un testo scritto più di venticinque anni fa, quando prestare fede a certi meccanismi e situazioni, soprattutto omoerotici, era per me un credo e un entusiasmo vitale. Ahimè, non la penso più nello stesso modo di allora, e le confesso che alcune pagine sia del romanzo quanto dei racconti, mi disturbano. Chiederà allora la motivazione della riedizione: un vecchio amico mio, Sandro Brisotto, era già da qualche anno che mi tormentava amorevolmente nel confidarmi che, a parere suo, il romanzo andasse ristampato, soprattutto per la ragione – parole sue – che i tempi adesso erano maturi. A dire il vero non ho mai compreso del tutto cosa intendesse, in virtù del fatto che, ripeto, non assimilo cosa voglia significare ‘tempi maturi’. Forse si riferiva alla narrazione di un uomo maturo che intrattiene un rapporto sentimentale con un giovane ragazzo, tra l’altro sposato? O si riferiva al linguaggio da me utilizzato, spesso crudo, ma anche poeticamente suggestivo? Non mi sono ancora dato una risposta chiara, fatta sta che però debbo dargli ragione: dai primi commenti dei lettori e dalle vendite sembra sia un romanzo che coinvolge maggiormente il pubblico adesso e non quando apparve la prima volta. Nel recensirlo, quando uscì, Alessandro Dezi, sul mensile ‘Blu’, scrisse che si trattava di un ‘romanzo breve ai margini fra prosa e liricità, che racconta senza falsi pudori la catartica discesa nell’intimo di un’affettività fra diversi, destinata alla rovina, dimostrando che i sentimenti di casta non esistono’; Delia Vaccarello sull’Unità ebbe a commentare che parlavo d’amore come un poeta invaghito dalla predestinazione, tant’è che amore e morte, amore e dono estremo, divengono in questa storia, la celebrazione di una potenza di cui solo la natura può essere vestale; Gianfranco Franchi scrisse, ‘diviso in due episodi, questo romanzo è lirico, triste e sentimentale al pari di un disco di Antony & The Johnsons’, proseguendo che si tratta di uno scrigno di emozioni e di passioni vive; mentre Vincenza Fava sul quotidiano Italia Sera ammetteva che sì, ‘si tratta di un racconto sublimemente erotico, forse di natura autobiografica, che scuote le coscienze e i falsi perbenismi degli assennati benpensanti, certi, a torto loro, di non poter mai esperire l’amore diverso’, aggiungendovi che con questo testo ‘sono tornato alla romantica antinomia tra apollineo e dionisiaco, tra la vita dello spirito e la vita della carne, riuscendo però a superare la dialettica hegeliana degli opposti attraverso la perfetta sintesi di amore e morte’. Che dire di altro? Inutile negare che a me tutto questo faccia piacere, anche se tuttora non mi capacito di come io l’abbia elaborato: se dovessi scriverne un altro simile, non ne sarei capace. E come accaduto di recente col ‘KI’, sono certo che anche in quella occasione a venirmi in aiuto sono state anime incorporee. Lo so, lei mi prenderà per cretino, per imbecille, ma è ciò che penso e in cui credo fermamente”. 

– Dopo anni può dichiararlo: è un romanzo autobiografico? E poi il riferimento di Franchi ad Anthony… nelle sue opere c’è sempre spazio per la musica…

“Autobiografico: è così indispensabile saperlo? Giorgio Ghiotti nella prefazione ha annotato un particolare che mi piace: ‘Gregorini è un poeta e un narratore, non un poeta prestato alla prosa’, come sovente può accadere; e da prosatore faccio mie storie riferitemi da conoscenti, amici, immaginandomi come mi sarei comportato io in certe situazioni se queste fossero accadute a me. Sono uno che scruta, guarda, presta attenzione alle cose minime degli animi, ai sentimenti che il prossimo vive, sia con dolore, sia con gioia. Che la vicenda descritta sia di natura personale, poco importa; ma consento che quel che di autobiografico vi ho inserito è la descrizione della casa che abitavo in quegli anni, più nomi di amici intimi, reali, e poche situazioni accadutemi: la morte del mio cane, quella di mio padre, quella di Dodi Moscati e quella di un poeta amico. La musica? Sì, è uno spaccato significativo della vita mia, ne ascolto tantissima, anche per ventiquattrore al giorno. E al di là della motivazione che ne ascolto parecchia anche per scriverne, dato che, come sa, è pure il mio lavoro, la musica è per me fonte inesauribile di ispirazione. Se si presta attenzione e si legge accuratamente tra le righe, si avvertirà che in ‘Neve e sangue’ non c’è solo Anthony o i compositori moderni da me citati nella storia: c’è molto di Mia Martini, di Mina – della Mina di ‘Kyrie’, tanto per intenderci -, di Patty Pravo (ah! la splendida ‘Questo amore sbagliato’ scritta dalla mia amica Carla Vistarini), di Lou Reed, Schulze, Gabriel, Buffy Sainte-Marie, Mitchell, Nico e, perché no?, anche di Riccardo Fogli, il Fogli di ‘Mondo’, ‘Si alza grande nel cielo la mia voglia di te’, ‘Mondo fantastico’, della “The power of love” di Jennifer Rush ma nella versione di Nana Mouskouri; ma c’è anche il senso della tragedia datomi dai due bellissimi dischi di Irene Papas realizzati con Vangelis. Visto quanta abbondanza eterogenea? E sì, è proprio un libro scritto sulla musica che ascolto ripetutamente, ed è il potere della musica a scuotere in me emozioni, anche affettive”. 

– Di recente, dopo essere stato programmato in parecchie sale italiane, è andato su Sky Arte il docufilm “Bellezza Addio” a cui lei ha partecipato. 

“Si, un’ottima iniziativa per un docufilm realizzato davvero bene. Palmese e Giardina, i registi, sono stati capaci di catturare l’essenziale sia della poesia che della natura umana di Dario Bellezza”. 

– Il suo libro su Bellezza dovrà essere stato per questi due registi un testo fondamentale per capirne la personalità.

“E’ vero. Lo è stato. Di lì sono partiti per poi indagare a 360 gradi chi sia stato Bellezza, cosa ha prodotto e significato per una certa Italia colle sue opere, che tipo di lotta ha intrapreso per una certa rivendicazione di una identità omosessuale a cui però lo stesso Bellezza poco credeva, e soprattutto cosa sia stato l’avvento dell’AIDS negli anni Ottanta. Non a caso, sebbene conoscessi Dario dagli anni Ottanta, essendosi lui occupato anche della mia poetica, la mia partecipazione al docufilm è incentrata sulla malattia e sulla morte del poeta, avvenuta nel marzo del 1996. Alle loro ricerche ha contribuito lo studioso Marco Beltrame, che si è appena laureato con una tesi sul teatro di Bellezza. Ci auguriamo che, a ottant’anni dalla sua nascita (tra l’altro manco celebrata, ennesimo scandalo di una Italia che dei poeti non sa che farsene), il docufilm possa essere uno strumento per avvicinare i giovani ad un poeta celebrato ma forse poco compreso, soprattutto nel mondo editoriale nostrano”. 

LIBERAZIONE, VIBRAZIONE, ESISTENZA PURA E NOBILE: Alessandra Macrì ci accoglie nella sua narrativa e Greta ritorna più bambina che mai

Ironica, intelligente, solare, ma anche misteriosa, profonda, lontana quasi lunare. Così appare Alessandra Macrì durante l’intervista, instaura da subito una grande apertura, ha voglia di parlare, una esigenza, una necessità, una urgenza, tutto in Alessandra è urgenza ed emergenza proprio come il comportamento di una bambina, di quella sua donna-bambina che ha fatto conoscere così intimamente e apertamente nel suo romanzo Greta tace. Con disinvoltura e senza alcun freno, senza nessun filtro, Greta è entrata nelle nostre vite in maniera convulsiva e compulsiva, è diventata ossessione, dannazione, un bisogno irrinunciabile. Greta entra e non esce mai, chiunque l’abbia letta, conosciuta, incontrata non ne riesce più a fare a meno, non se ne libera, perché non se ne vuole liberare, perché Greta è un pezzetto di ognuno di noi, non importa se uomo o donna, ed è proprio quella parte essenziale per comprendere dinamiche, evoluzioni, passaggi esistenziali, emotività, debolezza e forza. Greta è quella parte di noi immortale, esiste al di là del tempo, oltre il tempo e le sue battaglie, è nel tempo e si sposta nel tempo, passato, presente, futuro, a volte confondendoli ma in ogni caso rendendo sempre tutto unico ed irripetibile. Straordinario romanzo di cui abbiamo deciso di parlare con l’autrice pur essendo stato pubblicato nel 2021, perchè il bello non ha mai un tempo predefinito e predestinato, esattamente come Greta. 

Condi-Visioni vuole uscire fuori da schemi prestabiliti e formali, volendo recuperare libri di valore, raccontandoli insieme all’autore, senza essere pressata dalle uscite del momento e senza legarsi a vicende necessariamente promozionali. 

Ringraziamo Alessandra Macrì che, in questo spirito e con questa visione, ci ha concesso l’intervista e ci ha fatto conoscere Greta. 

Lo ha definito “Il testo di una lanciatrice di coltelli”, immagine che coglie nel segno e ben rappresenta il suo ultimo romanzo “Greta tace”, perché tanta rabbia, un linguaggio feroce, frasi da cui si vorrebbe scappare via per paura che ci riguardino troppo da vicino e che raccontino anche la nostra storia?

“Ho pensato a come rispondere nel modo più sincero che posso. E quindi ammetto: non lo so. Questo libro è nato dall’amnesia di cosa si andava auto generando, come fossero altrettante parti di testo che emettevo come un’altra si libererebbe di spine, aculei e, appunto, coltelli. Disposti secondo geometrie caotiche, conficcati nelle carni. Armi di cui magari tuttora dispongo oppure l’esito di quel tipo di cadute da cui apparentemente esci illesa e invece il crepaccio era rivestito di rovi, lame, denti di fiere e qualche porcospino.

Greta tace è nato tra amnesie e ritorni. Ogni volta dovevo darmi a una ricerca abbastanza complicata dei file che ne occultavano le parti. Era una sola trama fatta a pezzi e protetta in nascondigli, ogni volta dovevo dimostrarmi la necessità di ripiombarci dentro innanzitutto recuperandola nel marasma del mio Mac.

Capitava che avvertissi l’urgenza di tornare alle vicende che io stessa avevo inventato così come torno ai libri di autori che poi finisco per amare. Sono disordinata nell’approcciare tutto quello che coincide con la parola amore.

Rispetto agli altri esempi che so, per averli vissuti, di questa parola, Greta tace si contrappone con la forza di un enigma. Fa diventare ideogramma, fonema, replica teatrale quello che di me vorrei non andasse perduto, e insieme impone la fuga”.

La “bimba” è la figura ricorrente nel romanzo, la bimba sotto diverse forme, “la bimba casa”, la “bimba bambola”, “la bambina eterna”, questa figlia rifiutata dal padre, non voluta, “era restata bambina per farsi volere”, la “prostituta bambina”. Quasi fosse una continua ossessione da cui non vuole liberarsi, o non può, cosa rappresenta questa bambina?

“Una forma perfetta. Non è immediatamente intuibile forse proprio alle lettrici, alle donne mosse dall’impulso di confrontarsi contrapponendo la propria alla forma di ogni altra femmina, un fatto che invece sospettavo mentre scrivevo imponendomi di non avere filtri. Il dolore ha la meglio su ogni altra percezione. Puoi piacere a tutti, e a tutti essere estranea.

Greta ha il dono/dannazione di una sensualità potente. Seduce al netto di malizia, incapace di premeditazione. Scatena desiderio mentre è impegnata a cercare tutt’altro.

Proprio come i bambini, non condivide intenzioni e obiettivi degli ambienti che abita.

Il suo è un destino da sequestrata dalla stessa materia che la compone.

Questa contraddizione fra cosa sente e cosa di lei vede l’intorno, è un presupposto letterario che m’è sembrato irrinunciabile. Gregor Samsa si trasforma in orrido insetto manifestando il destino che ha rimuginato nell’assenza di ogni sentimento che vorremmo ascrivere all’umano. Viene aggredito a colpi di bastone persino dal padre. Greta è la figlia capitata al modo di un’immagine di cui non ti puoi disfare. Espone a suo padre l’irreversibile quando acerba e tenera come non potrebbe essere la Lolita di Nabokov, se ne va a farsi scomparire gli arti in una piscina d’acqua salsobromoiodica in cui scompaiono le deformità di individui con handicap gravi, e gravi malattie dermatologiche. Quando Greta inizia a percepirsi identica ai mal nati, la forma ibrida che ha assunto, da non ancora adolescente, qualcosa di anteriore pure alla ninfa, vieta al padre di abbandonarla. Dopo aver trascorso l’intera infanzia della ragazzina dandosi a tutte le fughe ipotizzabili, mal digerendo ogni ritorno a casa, quando attorno agli undici anni Greta inizia a cercare i modi per levarsi dal mondo, lui inizia a regalarle i peluche che si regalerebbero a una bimba di due. Indietro di tutte le puntate della vita della figlia, per la prima volta la vede.

Greta non fa altro che adottare quel primo sguardo della prima volta che il padre l’ha guardata”.

Altre tematiche ricorrenti sono il teatro, il rapporto con il cibo, la chirurgia estetica, il corpo, canoni estetici non necessariamente di bellezza ma che rappresentano una gabbia, una prigione, un’altra ossessione. Quindi la finzione, l’apparenza, la rappresentazione. Sembra quasi ci sia un bisogno di fuga da un mondo reale oppure un rifiuto. 

“È arduo scrivere d’amore se lo si vuole riferire a cosa sta nelle possibilità dei maschi. Sono fra quelli che annuiscono quando con i suoi personaggi più credibili Michel Houellebecq sostiene che per gli uomini l’amore per una donna non è altro che  desiderio. Mi interessava scrivere di una giovane donna che ne è consapevole. Una che si riconosce solo nel preciso istante in cui un maschio inizia a perdere lucidità potendola toccare. Mi interessava Greta fosse una lente del maschile. Quando mi chiedono se Greta mi somigli, qualcuno l’ha persino sovrapposta alle immagini di me che ci sono in rete, realizzo che sono riuscita a farla scomparire, così come lei voleva, nella bramosia dei maschi. “Non c’era da attirare il desiderio. Il desiderio era in colei che lo provocava o non esisteva. C’era fin dal primo sguardo o non era mai esistito”, chiarisce ne L’amante Marguerite Duras. Non m’è particolarmente simpatica, eppure l’ho accontentata. E mi sono messa a indagare la forma di nutrimento che sostituisce ogni altro cibo: l’ossessione. La liberazione sessuale ha indotto diversi gradi di confusione riguardo il concetto di emancipazione. Trovo interessante partecipare delle fantasie dei desideranti solo se il desiderio è scoppiato in mania. Essere la sola che può appagare. Il corpo perennemente evocato. Il titolo che avevo scelto è La favorita. Avrebbe chiarito in modo già abbastanza plateale la vocazione teatrale di Greta (è puro istinto a una drammaturgia insostenibile ciò che anima codesto io narrante), e con la sua, chissà, anche la mia”.

Anche il rapporto con la madre e con il padre appare un altro ambito in cui Greta si addentra per farsi ulteriormente del male, sembra impossibile che una protagonista così piccola fisicamente possa reggere tutto questo mondo e questa storia che quasi è impossibile da far entrare dentro, Greta è così esile perché rifiuta tutto e tutti?

“Il dolore ha la meglio su ogni altra percezione. Una madre dovrebbe forse addirittura farsi nutrimento senza interruzioni. Dovrebbe mantenere i connotati della prole, nella forma che dà l’appagamento perfetto. Certe bocche che affiorano come un miracolo sul volto delle bambole meravigliose. Greta non ha alternative al digiuno. Percorre estatica territori che le resteranno estranei, si dà a figuri che si comportano con l’estraneità di Meursault – lei è la nausea che nella canicola, a riva, fa di Meursault un assassino – sa che non è passibile di evoluzione la sua storia”.

La struttura del romanzo è davvero singolare, si può cadere in confusione nel momento in cui lo si legge quasi fossero dei racconti e non un romanzo. Come nasce questo tipo di impostazione?

“La struttura di un romanzo dipende dalla quantità di oggetti che avverti reali, come tu li potessi toccare, sul corpo della pagina. Ho fatto a pezzi la trama disseminandola di manufatti. Scrivere è fabbricare sedie, tavoli. Compongono uno spazio che ha una sola combinazione possibile. Così come c’è una sola parola fra le molte a cui potrebbe accedere lo scrittore per dire con l’efficacia del punteruolo cui accennavamo, cosa sente e quello di cui si fa tramite, così esiste una sola struttura capace di trasmettere il marasma che lo sequestra.

Mania marasma ossessione. Parrebbe che la scrittura coincida col desiderio nelle uniche accezioni in cui lo so concepire.

Gli oggetti che mi reclamavano alla narrazione sono simboli.

Disegnano la ragnatela dentro cui mi auguro si perdano i miei lettori”.

Sembra voler mettere alla prova l’attenzione del lettore, come a volerlo a tutti i costi e tutto per sé, non sono concesse distrazioni nella lettura di Greta tace, né pause, né esitazioni. Lei è uno scrittore esigente non solo verso sé stessa ma nei confronti dei lettori.

“Ho bisogno di emozionarmi leggendo. A maggior ragione se si tratta di pagine che vengono da me. Il libro deve diventare tutto il mondo che c’è. La ragnatela di Aracne”.

“Non è poi così male restare senza prospettive ad 11 anni” è una frase terribile ma che può essere pronunciata solo da una donna forte, cresciuta sotto i bombardamenti, i comportamenti degli esseri umani malati, perversi, patologici, crudeli e maledetti.

“O da una persona che non ha potuto permettersi l’incoscienza dell’infanzia.

Avessi tutti lettori come lei!

In effetti questo l’ho detto io, e non il mio io narrante”.

Roberto, Giulio, Stefano, tutte figure maschili deviate ed in qualche modo pericolose, Greta porta in sé il concetto di morte qualunque cosa faccia e sceglie quasi chirurgicamente i suoi uomini, però a me non dà l’impressione che Greta sia una vittima, credo che lei voglia tutto quello che le capita perché le dà potere e dannazione e lei non può vivere senza.

“Questo accesso alla mania altrui, ciò da cui si fa percorrere come un malanno terminale. Dispone di due strumenti che sono l’inganno sublime del femminino: il corpo e il silenzio”.

Greta si concede completamente agli uomini, tutti i suoi bisogni sono “un uomo”, uomini che le danno tutto tranne la possibilità di essere sé stessa, Greta ipnotizza, così come la scrittura con cui viene rappresentata. Come nasce questo personaggio così complesso, irrisolto ed interrotto?

“C’è in tutti i romanzi che amo, anche di autori contemporanei, violenza che trascende le proprie intenzioni. Ciò che accade fregandosene di chi ne farà le spese leggendo, ma soprattutto di chi ha permesso si manifestasse. Energia magmatica, insiste a pretendere sé stessa. Il corpo di Greta è alimentato da forze del tutto simili”.

“Ogni volta che fingi di non avere fame ti stai consegnando alla fame di un altro”, ancora una frase molto forte che fa riferimento al cibo ma il cui significato è ben più profondo e drammatico. Perché correre il pericolo di consegnarsi “alla fame di un altro”.

“Per avere accesso al suo segreto. La fame predispone al delirio. Riorganizza le parti che ci compongono attorno all’istinto di sopravvivenza. Ci fa bestie. Arcaiche e smisurate”.

Perché “restare bambina per farsi volere”?

“Sono faccende interrelate. Restare digiuni per consegnarsi non al nemico, non al carnefice, ma esanimi e feroci alla fame di un altro. Come i bambini, che non opponendosi per mancanza di prove a sfavore dell’altro, si affidano. Ciechi.

La diffidenza è pelame scomposto, fa ruvidi e respingenti i lineamenti di esseri altrimenti puri. Avrei voluto arrivare alla fine dei miei giorni ignorando la necessità di difendermi. Anche su questo punto ho accontentato Greta. Lei se lo è potuta permettere”.

Oggi le adolescenti, ma anche in parte le donne, si sentono come qualcuno di perfettamente sostituibile, vivono tutto senza dramma ma anche senza intensità, esattamente l’opposto di ciò che fa Greta. Come hanno accolto Greta tace le donne, soprattutto quelle più giovani?

“Alcune sono corse ai ripari. E come capita spesso, sono partite dalla cura del corpo. Qualcuna si è rivolta al chirurgo plastico, al personal trainer. Altre hanno fatto pulizia in armadi zeppi di vesti scelte per caso, di contatti inutili in chat. Le giovanissime hanno preso questo libro come talismano, viatico a rapimenti sensuali, a stravolgimenti di meccaniche e incastri che oramai si assumono su Google come si trattasse di un medicinale da ingollare ai pasti, scorrendone distrattamente il libretto delle istruzioni. Greta tace suggerisce che morire una sola volta consegnandosi alla passione, non basta. Per fortuna non ho mai creduto di voler insegnare qualcosa”.

Nel romanzo vengono raccontate immagini molto forti, a volte tali da farvenire crampi allo stomaco, vertigini, stordimento, la narrazione a sfondo sessuale passa in secondo piano perché ciò che predomina è questo senso claustrofobico di eccesso o privazione, manca sempre la sensazione di equilibrio e questo crea terrore. Era questo che voleva Alessandra Macrì?

“Alessandra compare al centro del romanzo facendo strame di Greta. Dice la morte che potrebbe lei qualora fosse un filo esagerato morire per amore. Altro equilibrio non so immaginare. Eccedo allenandomi, a 11 anni ho intravisto la pista di “La lunga marcia” al posto di tutte le strade. Non mi sembra di essermi fermata. Se contassi i chilometri percorsi finora, crampi un po’ ovunque e mancamenti verrebbero a me. Eccedo nella lettura. Negli incubi. Nel tempo destinato a cause perse. Mi auguro di averne davanti moltissimo”.

In questo romanzo sembra non ci siano sentimenti, tutto accade, tutto avviene, tutto si srotola continuamente sotto i piedi e questi piedi sembrano non poggiare mai a terra. Però Greta di sentimento ne ha tantissimo sin da piccola ma questo sentimento l’ha sempre spezzata e l’ha sempre consegnata a qualcuno o a qualcosa. Cosa mi dice in proposito?

“Ha a che fare con la questione della predisposizione agli eccessi. Se uno fa cose  smisurate, sente in modo smisurato. Però credo che parlare d’amore sia attività da terapeuti o uomini di fede. Una qualsiasi. Mi limito a constatare l’amore che tiene in piedi la mia ricerca. Di Greta so solo che non avrebbe potuto fare altrimenti”.

Sappiamo che sta scrivendo già il suo prossimo romanzo “Attraverso i miei passi”, può anticipare qualcosa per i nostri lettori?

“Stavolta do voce a una che tendo a proteggere. Si chiama Lara. Mi mette a fare i conti con un sentimento di impotenza atroce. Mi induce picchi di malinconia che mi stanno rovinando i giorni. Non è un buon nascondiglio questo nuovo romanzo. Espone ferite, soffitti scrostati. Mi chiedo cosa ne sarà della realtà che calpesto, quando smetterò di farlo”.

Greta tornerà?

“È già tornata in un romanzo di fantascienza esistenzialista, l’ho interrotto per dedicarmi a Lara. In realtà Greta non è mai andata via come ha correttamente notato lei nella introduzione a questa intervista, per cui vorrei ringraziare Condi-Visioni perché tornando a parlare del romanzo Greta tace edito nel 2021, ha saputo cogliere il significato che dovrebbe essere dato ad un testo indipendentemente dalla data di nascita, dalla sua diffusione, dalla sua presentazione, soprattutto in questa nostra epoca, unico momento storico in cui lo spirito, in nessuna forma, ha più alcuna importanza. Un buon testo esiste se continua a far esplodere la sua energia, oltre il materialismo ed oltre un eccesso di concretezza e di contingenza. Questo dovrebbe essere il giusto orientamento della critica letteraria, per il riconoscimento, la valutazione e la scelta dei testi da far conoscere e da diffondere, ripeto, indipendentemente dalla data di pubblicazione”.

Avendo accesso potenzialmente ad una infinità di informazioni, ci sentiamo forti di saper distinguere la realtà dalla finzione. Si parla spesso di “Fake news”, di disinformazione, di manipolazione della realtà, di propaganda politica e forse abbiamo iniziato a capire che se “c’è scritto sul giornale” questo non vuol dire che sia la verità.
Abbiamo compreso che nel mondo ci sono persone che manipolano i “fatti” per farli leggere in modo distorto e mostrare agli altri una “realtà diversa”. Già nel suo “L’Arte della Guerra” Sun Tzu (e siamo nel quarto secolo prima di Cristo) sintetizzava che “La guerra si fonda sull’inganno” e forse in questi anni – in questi mesi in particolare – più che in altri ci rendiamo conto di quanto possiamo essere preda di questa “arte” della manipolazione.
Complici eventi terribili e spaventosi abbiamo capito quanto questioni politiche, sociali o anche scientifiche, possano essere alterate dalle capacità retoriche di alcuni personaggi, e quanto possiamo essere influenzati dalle manipolazioni emotive.
Ecco.
Quanto riconosciamo questo comportamento nel dibattito pubblico? Quanto, leggendo queste poche frasi, ci sono venuti in mente personaggi e situazioni che abbiamo letto sui social network o visto in TV?
Ma che succede se questa “arte della guerra” ce la ritroviamo tra le quattro mura di casa? Siamo davvero capaci di individuarla, di gestirla?

Assertivamente” è il nuovo libro di Giusy La Piana e tratta la comunicazione focalizzandosi sull’affermare del proprio punto di vista, senza cedere alle tecniche (consapevoli o meno che siano) adottate dalle persone che hanno uno spirito manipolatorio.
Ne parliamo con l’autrice in un clima molto cordiale e simpatico, tanto che in pochi attimi ci troviamo a darci del tu con una naturalezza incredibile.

Giusy La Piana è nata e vive in Sicilia. È autrice di saggi, testi teatrali, televisivi e musicali. Terminati gli studi liceali ha conseguito il diploma di Autrice presso il CET di Mogol e contestualmente ha intrapreso la carriera giornalistica. Dopo la laurea magistrale in Scienze della Comunicazione si è specializzata in Scienze Criminologico-forensi, Psicologia investigativa, giudiziaria e penitenziaria, Counseling e Coaching Skills. Ha condotto ricerche in pragmatica della comunicazione e su cultura, scrittura e strategie di comunicazione delle organizzazioni criminali. È socio professionista della Federazione Relazioni Pubbliche Italiana. Tiene corsi sulla comunicazione interpersonale e professionale.

Tra i suoi libri: “Strategie di comunicazione mafiosa” (SBC 2010), “Fare del male non mi piace. La carriera criminale di Bernardo Provenzano” (Castelvecchi 2016) e “Se menti ti scopro. Manuale di Sopravvivenza nella giungla quotidiana della comunicazione” (Ultra 2018)

Domanda: Mi sono avvicinato a questo libro – lo dico senza parafrasi – con una certa ritrosia da una parte e un po’ di curiosità dall’altra, perché all’Assertività davo un connotato di prevaricazione, quasi di voler imporre il proprio punto di vista agli altri. Ma non è così. Cos’è l’Assertività?

Risposta: Essere assertivi è scegliere un cammino costruttivo ed improntato verso la libertà: la libertà di essere noi stessi, nella consapevolezza dei nostri diritti e delle nostre responsabilità, di fare scelte coerenti con le nostre intenzioni e il nostro sistema di valori, di agire per la nostra realizzazione senza prevaricare sugli altri e senza soffocare noi stessi.

Il sottotitolo di questo libro molto interessante è “Strategie di Comunicazione Interpersonale”. Quanto è importante essere assertivi in una discussione o in una relazione? Qual è il ruolo dell’assertività nel promuovere relazioni più sane e rispettose?

Il comportamento assertivo offre certamente numerosi vantaggi per migliorare la comunicazione interpersonale e stabilire sani confini a tutela e rispetto della nostra dignità personale e professionale. È un ottimo modo per prendersi cura delle nostre relazioni amicali, sentimentali e professionali. Assertività e cuore aperto mantengono in salute le relazioni, poiché le persone assertive sono in grado di assumersi la responsabilità dei propri sentimenti, belli o sgradevoli che siano, e di condividerli.

L’Assertività, dici nel libro, non fa “immolare l’anima alla divinità del compiacimento altrui”. E’ una visione davvero molto “potente” e forte. Anche perché questa divinità è una divinità a volte maligna, che ha un volto oscuro.

La compiacenza apre la porta all’infelicità ed è nutrimento per l’altrui arroganza. Sta a noi capire che alla fine di ogni processo, di ogni momento sfidante, arriva sempre l’opportunità per aggiungere un pizzico di consapevolezza in più rispetto al passato. È fondamentale chiedersi: “Cosa faccio ogni giorno di nuovo per provare a cambiare le cose?”. Possiamo creare nuovo benessere condiviso alzando la leva della compassione, della gratitudine e della gioia in modo da sfocare la tendenza tossica alle lamentazioni e alla rassegnazione.

Mi ha colpito molto che in parte questo libro è stato scritto come fosse un manuale. Ci sono nozioni teoriche, ma anche casi pratici ed esercizi per aiutare i lettori a sviluppare l’assertività. A chi può essere utile questo “manuale di comunicazione”?

Imparare l’assertività già da giovani rappresenta sicuramente un’ottima base di partenza per la propria qualità di vita. Questo libro è destinato a chiunque voglia mettere in azione il proprio potenziale. A chiunque attraverso una comunicazione costruttiva e proattiva voglia migliorare la qualità delle relazioni, superare momenti di crisi e conflitti sul fronte personale e professionale, coltivare una buona stima di sé, tutelare i propri valori personali e spazi esistenziali. A chiunque lavori nel campo delle relazioni: dagli educatori agli psicologi, dai medici ai manager, dai politici ai consulenti. L’assertività è utile pure per agevolare il dialogo tra genitori e figli, nelle dinamiche tra amici e tra colleghi, ma anche per imparare a dire no, a fare o ricevere critiche, per negoziare e per la realizzazione di obiettivi. Inoltre, visto che è in corso una verticalizzazione dell’odio online, con un incremento di messaggi carichi di intolleranza, discriminazione ed esclusione, è fondamentale imparare ad essere assertivi anche nelle nostre comunicazioni sui social.

Nell’ambito di una società in cui spesso prevalgono approcci comunicativi aggressivi, quanto può essere dirompente l’assertività per “rompere” il circolo di una comunicazione manipolativa?

L’aggressività distruttiva è uno dei volti della disistima di sé. Più l’assertività si diffonderà come stile comunicativo cui aderire naturalmente, meno bullismo attecchirà nelle scuole. Più abbracceremo l’assertività e più difficoltà avranno ad attuare le loro strategie i manipolatori, i prevaricatori e gli approfittatori che incroceremo.

Una delle tue specializzazioni professionali è in Criminologia. Ma quanto c’è di criminale nella manipolazione sentimentale che
si può avere in un rapporto di coppia?

La manipolazione riesce ad insinuarsi dove sono presenti mancanze, fragilità o paure. Il manipolatore per mantenere il suo potere spesso fa leva sul nostro senso di colpa. E più la manipolazione prende campo e più l’autostima di chi la subisce rischia di sgretolarsi. Anche in questo caso la pratica assertiva può aiutare a non perdere di vista se stessi e ad intraprendere le necessarie azioni di contro- manipolazione per ristabilire i giusti confini, prendere le legittime distanze e porre limiti alle pretese dell’altro. A conclusione di una delle presentazioni di Assertivamente, una ragazza si è avvicinata timidamente a me e ha detto: “Sono dentro una brutta situazione e non so come uscirne. Gli uomini che cercano di distruggere noi donne alla fine di cosa si nutrono? Quale sarebbe il loro guadagno?”. I suoi occhi si sono riempiti di lacrime quando l’ho invitata a non cercare giustificazioni nei confronti di chi la starebbe maltrattando. E ho aggiunto che chi tenta di distruggerci si nutre proprio della nostra devastazione. Non la conoscevo ma ho riconosciuto il suo sguardo dalla vitalità appannata. Lo stesso che ho visto in decine di persone che erano impantanate in situazioni di dipendenza affettiva, in relazioni distruttive con partner manipolatori, sopraffattori, persecutori. Purtroppo nel nostro Paese c’è una guerra in atto da molti decenni ma di cui l’opinione pubblica si ricorda, per poche ore o giorni, giusto il tempo che si esaurisca la curiosità su tutti i dettagli emersi dopo l’ennesimo femminicidio. È una guerra che ammazza oltre 100 donne l’anno. A portarla avanti sono individui umanamente mediocri e mentalmente programmati alla pretesa di dover sottrarre ogni forma d’indipendenza alla donna che prendono di mira, che considerano come cosa da possedere, fino ad arrivare a strapparle anche l’ultimo refolo di ossigeno vitale. Bisogna ricominciare dalle basi: da “quell’ama il prossimo tuo come te stesso” inteso come profondo rispetto per se stessi e nei confronti di chi ci circonda.

Nei tuoi libri precedenti ti sei occupata del mondo criminale delle mafie. Qual è il grado di comunicazione manipolatoria che c’è all’interno del tessuto mafioso? Ti faccio la domanda perché è davvero sorprendente – come poi riporti nel sottotitolo di uno dei tuoi libri – che Provenzano, uno dei Boss più importanti di “Cosa Nostra” sostenesse che “non gli piace far del male”…eppure…

Ho iniziato a studiare sotto il profilo criminologico-comunicativo le strategie di comunicazione criminale circa 20 anni fa. Ogni volta che un laureando mi scrive per comunicarmi di aver utilizzato i miei libri per la sua tesi, ogni volta che altri autori mettono in bibliografia i miei lavori, mi rendo conto di aver seminato bene. La comunicazione della mafia è molto più di un linguaggio: non è solo un codice, è ragionamento, combinazione astrusa fra delirio e implacabile logica, fra paranoia e lucida razionalità. I parametri di moralità o di concezione di bene o di male che conosciamo e usiamo all’esterno dell’organizzazione criminale non sono applicabili al suo interno. Il mafioso non si percepisce dalla parte del torto, non considera come un disvalore la sua azione criminale e persino quando ha già all’attivo omicidi, estorsioni e traffici è convinto di essere molto religioso. L’adesione all’organizzazione mafiosa spesso è figlia dell’illusoria convinzione di fare il vero salto di qualità. Mentre apparentemente tutto tace, la mafia comunica e dissimula, intessendo le sue sotterranee ma incisive “tecniche di persuasione” per agganciare politica, imprenditoria, professionisti e manovalanza varia.

    Gio mi apre la porta e mi invita ad entrare dentro casa sua. I suoi occhi, scuri e profondi, riescono ad avere sempre un’incredibile luminosità. Lo abbraccio con affetto, quell’affetto che lega due anime in sintonia. C’è così tanta bellezza attorno a me che ne rimango estasiata, ogni oggetto è pregno di arte ed ha una storia tutta sua che vorrebbe raccontare. Una cosa in particolare mi rapisce lo sguardo: uno splendido cuore sacro incorniciato.
    “Adoro gli EX voto” gli dico.
    “Adoro i cuori” mi risponde lui, ed è in quel momento che spuntano, come richiamati all’appello, tantissimi cuori, in ogni sorta di materiale, forma o colore. Ci accomodiamo sul divano, mi offre una birra e iniziamo la nostra chiacchierata.
    Mi trovo qui perché non ho potuto non pensare al suo lavoro artistico riflettendo sul significato della parola “insolito” e perché lui è stato carino ad accogliere con entusiasmo una proposta fatta senza il minimo preavviso.

    Salvatore Giò Gagliano, per gli amici Giò è un artista vercellese, un educatore presso ANFFAS onlus Vercelli e un arte-terapeuta. Classe 1977, ama definirsi un diversamente fotografo, la sua passione è catturare la bellezza umana, la sua arte è vederla anche dove gli altri non sanno farlo, e incanalarla nelle sue foto, per renderla fruibile e leggibile a tutti. Lontano da stereotipi e discriminazioni, ci insegna ad abbracciare la diversità, che è una ricchezza inestimabile per tutti noi, e a tenere viva la curiosità per le tante storie che le sue immagini narrano.
    Dal 2000 lavora come educatore e ha partecipato a diverse mostre collettive e personali, sia in Italia che all’estero.

    Origini

    Come è nata la tua passione per la fotografia e cosa rappresenta per te?
    È una passione che ho fin da piccolo, quando, per la prima comunione mi hanno regalato una macchinetta della kodak con cui ho iniziato a sperimentare, coinvolgendo mia cugina che mi faceva da modella. Il vero lato artistico, però, è arrivato nel 2000, dopo un percorso accademico nel quale mi sono cimentato prima con la pittura e la scultura. Precisamente durante la preparazione di una mostra, una triennale di giovani artisti, che in quell’anno affrontava il tema della guerra. Mi ricordo che avevo a disposizione degli oggetti specifici per costruire un’istallazione: delle cassettine di legno e plastica, che rappresentavano le guerre del passato e le guerre presenti, alle quali ho aggiunto un collage di fotografie in cui avevo immortalato tutti i miei familiari, intervenendo infine a livello pittorico. È stato lì che ho realizzato il grande potere della fotografia per comunicare agli altri quello che avevo dentro, quando la pittura e la scultura non mi bastavano. Ho capito che in questo modo sarei potuto andare oltre e da quel momento le foto sono diventate il mio mezzo artistico.

    [Immagine fornita dall’Ospite]


    Nel 2004, con “I Volti della Passione” sono riuscito ad unire le mie due vocazioni: l’arte ed il sociale, ambito nel quale avevo appena iniziato a lavorare. Questo progetto è nato per la Biennale del Mediterraneo. Mi sono reso conto che in tutta la storia dell’arte nessuno aveva mai affrontato il tema delle disabilità, se non per mettere in ridicolo i suoi soggetti, come facevano nel Settecento, per esempio. Ho subito pensato alla Pietà del Michelangelo, come passione, coinvolgendo Roberta, una ragazza con la sindrome di down, e Andrea, un ragazzo spastico, nei panni di Cristo, per vedere cosa ne uscisse fuori. Gli abiti vennero realizzati da mia madre e da mia zia, io ricreai il calice del Bacco del Caravaggio mettendo insieme un
    candelabro con un piatto di vetro sopra, e gli scatti furono effettuati tutti in analogica.
    Questo progetto è durato fino al 2009, quando ho realizzato la mostra. Grazie al Comune di Vercelli sono stati diffusi più di 30 cataloghi in tutta Italia e le mie foto sono arrivate a svariati giornali di arte. Negli anni a seguire, altri fotografi hanno trattato progetti simili, alcuni con mezzi e sponsor anche molto importanti, ottenendo grande risalto.

    Parlami dei tuoi progetti.
    Attualmente mi sto dedicando a Kouros, un progetto benefico che ha come protagonista Marco. Marco è un ragazzo ventenne, che due anni fa ha perso la gamba destra in un incidente in moto. Io sono venuto a conoscenza di questa storia un anno dopo, leggendo l’articolo su Facebook, in cui si parlava anche di una raccolta fondi “una mano per una gamba”.
    Naturalmente mi sono sentito in dovere di dare il mio contributo, ma rendendomi subito conto che fosse una goccia in mezzo al mare. Volevo fare di piu. Ho contattato Marco su instagram, dicendogli che mi avrebbe fatto piacere conoscerlo e sostenerlo, con l’unico mezzo di cui disponessi, ovvero la fotografia.
    Oltre a questo, il mio desiderio era quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sul fatto che anche senza una gamba si può fare, come ha fatto Marco, e, contemporaneamente dimostrare che un arto mancante non priva un corpo della sua bellezza.

    [Immagine fornita dall’Ospite]


    Ci siamo incontrati e lui mi ha raccontato la sua storia. Io non lo sapevo, ma la ASL passa una protesi, la cosiddetta “gamba di legno”, che come si può facilmente intuire è una protesi molto rigida, che limita i movimenti. Per avere una “gamba” che gli conceda dei movimenti normali e fluidi è necessario un bell’investimento economico: la cifra è di 58 mila euro, ogni anno prevede circa 2 mila euro di manutenzione e ogni 5 anni andrebbe cambiata. Sono rimasto colpito dalla serenità con cui ha affrontato tutto questo: quando Marco si è risvegliato ha pensato di essere fortunato e che sarebbe potuta andare peggio. Era grato per essere rimasto in vita. Questo per me è stato come una pugnalata nel cuore. Per me lui è un eroe, un
    mito e da qui nasce la connessione con le antiche statue greche, con la loro eterna bellezza,
    seppur private di una gamba o un braccio. La rappresentazione visiva è il Kouros: questo giovinetto che mantiene sempre una posizione molto eretta e che ha la particolarità di avere la gamba sinistra leggermente avanti rispetto a quella destra, come nel caso di Marco, in cui la sinistra è quella sana.
    Non credo alle coincidenze, ma credo che le cose capitino in un preciso momento, per un preciso motivo, per farti fare qualcosa di particolare.
    C’era bisogno di un progetto forte! Non volevo fare delle fotografie in studio, fine a se stesse.
    Ho pensato che il Museo Leone potesse essere perfetto con i suoi reperti archeologici. Il museo, non solo ha accolto con grande entusiasmo il progetto, ma ci ha messo a disposizione tutto lo spazio possibile per scattare, ci ha concesso l’utilizzo di reperti che raffigurano gambe, piedi o braccia (come rimando al nome della raccolta fondi “Una mano per una gamba”) ed ha riservato grande attenzione nei confronti di Marco. Inoltre ha esposto 6 delle 27 fotografie all’interno del museo vero e proprio, dislocando addirittura un’anfora antica per collocare una nostra foto. La mostra sta andando bene ed è di sostegno alla raccolta fondi, a cui partecipa anche la vendita all’asta delle foto. Il progetto vercellese si concluderà il 2 giugno, ma il mio desiderio è quello di portarlo anche fuori e dargli quanta più visibilità possibile.

    Un altro progetto in partenza è “Corpus”, un altro progetto benefico a cui sono stato invitato e che probabilmente partirà in autunno al museo del Duomo di Vercelli. Per questo lavoro sto creando un libro d’artista, un percorso sulle persone e la pelle che abitano, con le sue cicatrici, imperfezioni, con le sue malattie, con i suoi vissuti e la sua forza. Saranno 300 fotografie con la copertina in ecopelle rilegata con i fili di sutura. Ogni pagina sarà uno zoom, senza nessun riferimento al soggetto, ma solo con la descrizione delle peculiarità di quella pelle. Ho fatto una ricerca sui social per raggiungere l’ambizioso numero di soggetti da ritrarre e sono rimasto stupito delle risposte positive che ho avuto già in breve tempo.

    Ricordi un momento preciso o un incontro specifico che ha cambiato il tuo modo di vedere il mondo attraverso l’obiettivo?
    Attraverso I’obiettivo no, ma ci sono stati degli eventi durante le mostre che mi hanno toccato, uno in particolare, durante la mostra “I Volti della Passione” al Palazzo del Moro a Mortara. In questo spazio c’erano due ingressi: un’entrata ed un’uscita. Ad un certo punto due signore, anche un po’ trasandate, sono entrate dall’uscita e si sono fatte un giro piuttosto rapido della mostra. Il mio pensiero è stato “queste non hanno nemmeno capito di essere ad una mostra”.

    Le signore, alla fine del giro si sono avvicinate a me per condividere le loro impressioni. Mi sono sentito come se mi avessero preso a schiaffi, perché con uno sguardo veloce avevano colto tutta l’essenza della mostra e della mia arte.
    Siamo esseri umani, capita a tutti di peccare, perfino a te, che del non fermarsi all’apparenza ne hai fatto il pilastro portante del tuo lavoro e della tua arte.
    Da quel momento, ogni volta che faccio un pensiero del genere mi torna in mente quel ricordo e mi riprendo. È cambiato il mio modo di approcciarmi agli altri, non che prima giudicassi, perché sono sempre stato molto aperto, ma cerco di evitare questi scivoloni. Le differenze mi hanno sempre affascinato. Da piccolo ero ammaliato dai cinesi e dai loro occhi a mandorla ed ero incuriosito dal mio compagno delle elementari che aveva un ritardo mentale. Per me è ciò che ci rende diversi gli uni dagli altri a rappresentare il punto di forza dell’umanità.

    PROCESSO CREATIVO
    Come descriveresti il processo che segui per entrare in contatto con i tuoi soggetti? Come costruisci una relazione di fiducia con loro? Qual è il segreto per cogliere l’autenticità e la personalità dei tuoi soggetti?

    [Immagine dell’Ospite]

    Sono io che mi faccio condurre da loro, non sono io che conduco, come ho fatto con i miei ragazzi ( i ragazzi dell’ Anffas di Vercelli). Quando ho costruito “I Volti della Passione”, ho scelto i quadri sia per somiglianza che per caratteristiche, perché sapevo di andare a tirare fuori qualcosa da quella persona. Rosetta, per esempio, è appassionata di gioielli e bigiotteria, metterle quel orecchino di perla la faceva stare bene. E così ho fatto sempre, sia con i miei ragazzi, sia con gli altri modelli con cui ho lavorato. Solitamente sono io che chiedo agli altri cosa vorrebbero fare e quali sono i loro limiti. Anche con Marco è andata così, mi sono fatto guidare da lui, dai suoi movimenti. Intervenivo per suggerirgli di fermarsi solo quando la posizione mi sembrava giusta. Io mi fido e mi affido agli altri. È così che nasce il mio processo creativo. In base alle loro abilità e alla loro capacità di darmi fiducia a loro volta.
    Mi piace creare la relazione, è un momento intimo. È come fare l’amore: ti devi fidare e affidare, perché, che tu sia vestito o svestito, davanti all’obiettivo sei comunque nudo e vulnerabile. Vedo tante foto in giro che sono perfette a livello tecnico, ma che non trasmettono nulla.

    Che cosa è per te la bellezza?
    Non posso essere ipocrita e negare che la parte estetica non mi tocchi, ma io sono sempre stato affascinato dalla bellezza interiore, da quello che mi trasmettono gli occhi e il sorriso.
    Quello che viene da dentro rende bello il fuori. Ho fotografato tempo fa un soggetto fisicamente molto bello, eppure non ho sentito nulla guardando quelle foto, quella persona non mi è arrivata, vuoi perché non si è creato il giusto feeling, vuoi perché quella persona lì in quel momento non aveva nulla da trasmettere. La bellezza è sentire l’essenza di una persona e le sue fragilità, la bellezza è come si parla, come ci si muove, il profumo, la generosità nel dedicarsi agli altri.

    EVOLUZIONE PERSONALE
    Come è cambiata la tua visione del mondo e della bellezza attraverso il tuo lavoro?

    È stato un cambiamento enorme, io mi sono aperto sempre di più. L’arte mi ha aiutato e mi ha liberato dalle catene che io stesso mi ero messo. Mi ha dato il coraggio di espormi e di dichiararmi omosessuale. Mi ha liberato dal bisogno di mettere sempre delle etichette. L’arte mi ha aiutato anche nel periodo della pandemia, nel primo lockdown ho pensato di non farcela: casa lavoro, lavoro casa; a lavoro mi avevano tolto la parte più bella che è quella degli abbracci e a casa ero da solo. Mai come in quel momento ho sentito il bisogno di comunicare con l’esterno attraverso le immagini, ed è così che è nato il progetto “Hope”. L’arte aiuta sempre. Questa è una cosa che mi appartiene sin da piccolo, quando tornavo a casa da scuola arrabbiato mi mettevo a disegnare, invece di parlare con mia mamma. L’arte per me è sempre stata un grande veicolo e negli anni mi ha aiutato ad aprire ancora di più la mia mente, a mettere da parte i pregiudizi e le paure, a migliorare il rapporto con il mio corpo e con lo specchio, a liberarmi dai condizionamenti sociali che ci vengono inculcati fin dall’infanzia.
    Prendi l’Eurovision, per esempio, la vittoria di Nemo quanta critica ha sollevato perché lui è non binario, perché ha indossato degli abiti femminili, e siamo nel 2024.

    Il tuo modo di comunicare attraverso l’arte racchiude dei messaggi che hanno un grande valore umano e sociale. Questo sicuramente ha portato con sé delle difficoltà.

    [Immagine fornita dall’Ospite]

    Ho fatto posare una ragazza down nuda – e sorride. Il lavoro fotografico con la disabilità è stato non solo quello di dimostrare che un ragazzo con la disabilità ha anche delle abilità, ma anche quello di scardinare il canone estetico. Il primo impatto con una persona è visivo e io voglio far vedere un corpo non perfetto in modo perfetto e poi riparlarne.
    Un grande lavoro è stato quello di affrontare con le scuole, e soprattutto con i licei, il mio progetto “I Volti della Passione”. C’è bisogno di lavorare con i ragazzi in età scolastica in questo senso. Trovo che nel mondo attuale due cose non funzionino più tanto: la famiglia e la scuola, perché tutte e due hanno perso un ruolo importante che è quello di educare. La scuola distribuisce nozioni, la famiglia è assente tende a giustificare ogni pecca del proprio figlio, perché altrimenti dovrebbero ammettere le proprie mancanze e le proprie colpe.
    Venendo meno questi ruoli, abbiamo una società allo sbaraglio e dei ragazzi che sono stanchi, delusi e annoiati dalla vita. La vita non è tutta rose e fiori, è una continua gavetta e ti mette costantemente in difficoltà.

    A proposito di famiglia e di difficoltà, mi stavo chiedendo se avessi mai incontrato degli ostacoli nei progetti che includevano i tuoi ragazzi. Penso soprattutto quando hanno posato nudi, come hanno risposto le famiglie che hanno dovuto darti il consenso?
    Quando ho creato “I Volti della Passione” ci sono stati solo due genitori che non hanno dato il consenso. Uno non ha aderito a priori, trattandosi di un nudo, e una mamma ha deciso di ritirarsi dal progetto successivamente perché non si è sentita a suo agio a vedere la figlia ritratta così. Un aneddoto particolare che invece vorrei raccontarti riguarda la rassegna internazionale d’arte moderna sul tema delle streghe, tenutasi a Benevento nel Palazzo Paolo V, poco prima della pandemia. Avevano accettato il mio lavoro con Roberta, esponendolo, per poi ritirarlo a causa delle lamentele di alcuni genitori, che fraintendendo il significato del mio progetto, hanno pensato che associarsi la sindrome di down al concetto delle streghe.
    Ma Roberta è sempre stata una mia modella e musa, e in quanto tale ha sempre interpretato qualsiasi tipo di ruolo.

    Se un giovane artista o fotografo venisse da te a chiederti dei consigli cosa gli diresti.
    Intanto io non mi considero un vero e proprio fotografo, mi piace definirmi diversamente fotografo. Un consiglio che darei ai giovani in generale è di non sentirsi mai arrivati. Fino all’ultimo giorno della tua vita tu non sarai arrivato. Bisogna volare bassi e non perdere mai la curiosità, quella di visitare mostre e di conoscere la realtà che ti circonda. Queste cose sono fondamentali. Se non viaggi e non conosci non ti puoi approcciare agli altri. Un altro consiglio, ma mi rendo conto che fa parte del mio modo di lavorare, è quello di creare una relazione. Per me è fondamentale non essere a senso unico, perché è un processo basato contemporaneamente sul dare e sul ricevere. Ho l’impressione che le nuove generazioni, rispetto alla mia, si brucino tutto subito. Io faccio arte perché è il mio ossigeno, il mio bisogno di comunicare con gli altri, ma mi sento il signor nessuno. Ora c’è il bisogno di emergere subito, anche senza alcuna dote né dedizione.

    Pensi che i social possano essere in qualche modo responsabili di questa cosa?
    Mah, credo che i social siano stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La mia convinzione è che tutto sia partito da un esperimento sociale, che personalmente ho trovato molto interessante e ho amato: il grande fratello. Secondo me questo ha portato alla creazione dei social e di tutto ciò che ne è seguito: delle persone sconosciute, senza nessun talento, entrano in questa casa, e una volta uscite da lì si ritrovano ad essere dei grandi personaggi. Questo ha fatto credere a tutti quanti, che pur essendo nessuno e pur non avendo delle capacità o talenti particolari, sarebbero riusciti lo stesso ad ottenere la fama.
    Tanti tra questi però sono finiti nel dimenticatoio, anche quelli che si pensavano intoccabili.
    Forse bisognerebbe scendere dal piedistallo. Forse solo la storia, se tu hai seminato bene, può acclamarti un grande artista. Gli artisti eterni sono quelli che non si sentono mai arrivati e che non sentono la rivalità, ma che si esplorano e si reinventano continuamente.

    Ginevra Amadio è giornalista e addetta stampa. Interessata al rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta, ha proseguito i suoi studi in Scienze umanistiche, laureandosi con lode in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con tesi magistrale dal titolo Da piazza Fontana al caso Moro: gli intellettuali e gli “anni di piombo”. Collabora con diverse testate e riviste, occupandosi prevalentemente di letteratura otto- novecentesca, cinema e rapporto tra le arti. Per Treccani.it – Lingua Italiana ha pubblicato un contributo dal titolo Quarant’anni fa, anni di piombo, sulle derive linguistico-ideologiche che segnano l’immaginario dei Settanta.

    [Immagine dell’Ospite]

    Ginevra, partiamo dalla stretta attualità. Visto che ti sei occupata specificatamente di queste tematiche, in particolare degli intellettuali e gli “anni di piombo”, cosa pensi del tweet di commiato alla brigatista Balzerani della prof.ssa Donatella Di Cesare, che ha sollevato tante polemiche e critiche? È stato veramente frainteso? Un problema di linguaggio? O un periodo che è stato tabuizzato come sostiene la Di Cesare? A scanso di equivoci, precisiamo che lei ha evidenziato che “malinconia” non significa “nostalgia” e che “le vie” sono state ben diverse, come testimonia tutta la sua storia personale e professionale. Ma infuriano ancora le polemiche.

    È proprio dal linguaggio che vorrei partire. La celebre frase pronunciata da Nanni Moretti in Palombella Rossa, “le parole sono importanti”, è ormai modulo locutivo comune e fotografa bene il senso di quanto si discute. Gli anni Settanta, formidabili e tragici, sono stati un periodo di violenza e furore, ma anche una delle fasi in cui si è maggiormente concretizzata la partecipazione alla vita pubblica. Gustavo Zagrebrelsky li ha indicati come il decennio di massima realizzazione dei principi della Carta Costituzionale: si pensi, ad esempio, al referendum sul divorzio e a quello sull’aborto, allo Statuto dei lavoratori, alla Legge Basaglia. Eppure, per qualche ragione che sfugge alla razionalità, si è scelto di collocarli in una lunga parentesi non ancora transitata dalla cronaca alla Storia. Ciò contribuisce a veicolare una narrazione parziale, che costeggia il campo dell’immaginario che per sua natura è una zona dai contorni ambigui, mai pacificati, in cui è possibile gettare ami e pescare ciò che più conviene. Giovanni Moro, figlio del Presidente DC ucciso dalle Brigate Rosse osserva che «a proposito degli anni Settanta abbiamo un linguaggio difettoso, fatto di parole ed espressioni che per lo più mancano di una sintassi che le connetta e le doti di significato». La stessa locuzione “anni di piombo” (che deve la sua fortuna al film del 1981 Die bleierne Zeit di Margarethe Von Trotta) innesca un cortocircuito in grado di censurare le bombe neofasciste e ricondurre in un unico fenomeno tutte le sigle della galassia armata dei Settanta, dalle Brigate rosse ai Nar. Ne deriva un’immagine dimidiata del decennio, che appiattisce sulla violenza politica un’esperienza più complessa, che vide coesistere molteplici forme di partecipazione, intervento e militanza, spesso radicalmente distanti da quelle dei gruppi armati. È in questa prospettiva che va letto il tweet della professoressa Di Cesare e la polemica che ne è seguita. Non si riesce, in questo Paese, a fare i conti con una fase storica complessa, a suo modo insondabile, “smarginata”, come tutto ciò che di contraddittorio esiste. Si ventilano complotti internazionali, manovre, giochi di Palazzo. E si dimentica la vita comune, i percorsi delle persone che a volte seguono tracciati terribili, sbagliati, incomprensibili. Con quelle parole, Donatella Di Cesare ha ricordato che una parte di Paese si è opposta a uno stato delle cose iniquo, ha combattuto la violenza neofascista e certe falde sotterranee delle istituzioni. Chi l’ha fatto ricorrendo alle armi ha compiuto un doppio errore: di azione e prospettiva. Non si può essere d’accordo con chi ha contribuito a imporre a quegli anni lo stigma del sangue. Ma parlare di “rivoluzione”, nella prospettiva della filosofa, equivale a un’altra cosa.

    Uliano Lucas. Sognatori e Ribelli, Bompiani 2018

    Molti intellettuali e accademici sono, a vario titolo, sotto “attacco”, Luciano Canfora, Donatella Di Cesare, Tomaso Montanari, Roberto Saviano, solo per citarne alcuni. Sono scaramucce mediatiche o c’è qualcosa di più profondo, magari un voler intimorire gli intellettuali come alcuni sostengono o un voler porre fine all’egemonia culturale di sinistra?

    Credo che parlare di egemonia culturale sia oggi un modo per alimentare una polarizzazione strumentale. Da un lato – il caso Scurati è emblematico – ritengo gravissimo l’attacco agli intellettuali, perché quando si arriva a censurare il pensiero critico ci si trova difronte alla meschinità del Potere, a quell’arroganza “ottusa” di cui parlava Pasolini negli anni Settanta. Dall’altro laro, tuttavia, io credo che la destra abbia uno spasmodico bisogno di affermare la sua visione, il suo paradigma, quasi a voler recuperare anni di supposto ritardo iscrivendo nel proprio Pantheon, e nella propria visione, una serie di figure più o meno rapportabili alla propria ideologia. In questa prospettiva, l’ansia di affermazione coincide con un bisogno di “difesa” che comporta, anche, la delegittimazione di quanto percepito come ostile.

    Ma ha ancora senso parlare oggi di “egemonia culturale”? Assistiamo ad un paradigma che si vuole sostituire ad un altro.  Oppure ci potrebbe essere un modo diverso di fare cultura?

    Mi ricollego a quanto detto in precedenza; la sostituzione del paradigma è, per certi versi, una spia di debolezza. Intendiamoci: esistono pensatori di destra che hanno segnato e segnano il dibattito culturale, contribuendo a diffondere uno sguardo altro – si badi bene, non alternativo – per arricchire l’orizzonte interpretativo. Ma è miope contrappore una visione ad un’altra, continuare a lavorare per separazione o sottrazione. Ecco, uno dei mali di questo tempo, a prescindere dall’ideologia, è la parcellizzazione del pensiero, la piena abdicazione al principio di totalità. Ogni argomento, ogni tema, ha bisogno di essere letto nel contesto, di nutrirsi di ramificazioni, di rivoli di motivi, immagini, visioni che contribuiscono a dar vita a un mosaico cangiante, ricco e sfumato. La cultura dovrebbe trovarsi al centro di questa rete o meglio ancora, nascere da questa.

    Lavori in modo poliedrico nel mondo della cultura. Cosa significa fare cultura oggi? Come viene recepita dai giovani?

    Fare cultura oggi significa confrontarsi con le sfide del presente e del futuro. Da sempre questo orizzonte è stata una porta privilegiata alla comprensione di certe sfide, di alcuni dati che lo stato delle cose impone di indagare. Viviamo un tempo sgangherato, segnato dall’inefficienza della politica, dalla mancanza di punti fermi e/o di riferimento in ambito ideologico-sociale, da drammi come la crisi climatica, migratoria, il ritorno della guerra. È vero, parafrasando Patrizia Cavalli, che le poesie, e dunque l’arte tutta, non cambieranno il mondo, ma possono permetterci di guardare con occhi ‘laterali’ alle urgenze in corso, di adottare uno sguardo sghembo per focalizzare le cose, per abradere la superficie apparentemente piana del quotidiano. I giovani soffrono questa mancanza di riferimenti perché la percepiscono come un’assenza sistemica che produce sfiducia e smarrimento. È necessario nutrire i loro interessi, intercettare i luoghi che abitano (anche quelli virtuali, a partire dai social), indossare le lenti del loro tempo. Solo così sarà possibile costruire un percorso nuovo e comune.

    Ritieni che la cultura di genere in questo senso possa portare dei cambiamenti significativi, in particolare verso la percezione del ruolo femminile e più in generale delle diversità?

    Senz’altro. Noto con piacere che le nuove generazioni mostrano una sensibilità diversa, e spiccata, verso le tematiche di genere. È un pullulare di pubblicazioni e ripubblicazioni (notevole il lavoro che sta facendo La Tartaruga, in particolare con la riedizione delle opere di Carla Lonzi), di indignazione e sgomento dinnanzi ai fatti di cronaca. Penso che il tema femminicidi stia svelando, finalmente, lo stretto legame tra violenza e fragilità del maschio, tra cultura del possesso e perdita di tale dominio. C’è ancora molto da lavorare, tanto da recuperare. Da molto tempo caldeggio la riscoperta di un filone del femminismo sommerso, ovvero quello delle Operaie della casa – Le militanti del Collettivo Internazionale Femminista, fondato a Padova nel luglio 1972 – che posero al centro della loro lotta il salario per il lavoro domestico “come leva di potere”.  Questo, secondo me, è un tassello di storia da elaborare con sguardo al presente.

    A riguardo ho letto delle bellissime tue prove letterarie sulla rivista “Cultura e dintorni” sull’impronta dell’amore e contro la violenza di genere. Cosa ti ispira e a chi ti vuoi rivolgere in particolare?

    Ho sempre poco tempo per dedicarmi alla narrativa e me ne rammarico. È questa la sola forma attraverso cui riesco a esprimere ciò che sento, quanto si agita nella parte che tengo più in ombra: quella delle emozioni. L’ispirazione si nutre di due filoni, ossia l’esperienza e la sublimazione letteraria. Tutto ciò che scrivo afferisce al mio vissuto, ma vien fuori in maniera traslata, esagerata, per il tramite di uno sguardo diverso – sia quello di una bambina, di una donna diversa da me, di un personaggio letterario a cui ridò voce. Mi piacerebbe parlare a un pubblico capace di cogliere le sfumature dell’essere, in grado di accogliere la fragilità, di scoprire attraverso di essa un nuovo modo di intendere le relazioni e la vita. Tutti i miei racconti ruotano attorno a questo aspetto, e nascono da esperienze dolorose. È da queste lacerazioni che ha inizio la rinascita.

    [Immagine dell’Ospite]

    Ti occupi del rapporto tra le arti. Qual è, se lo ha ancora, il ruolo dell’estetica nella nostra società? Quali tra le arti prediligi e ritieni più efficaci per comunicare i tuoi messaggi?

    Pasolini è stato uno degli anticipatori dei generi “rimescolati” e credo che la sua lucidità di analisi sia consistita proprio in questo: nell’apprendere l’insufficienza di un solo metodo, di una sola prospettiva per raccontare il presente. Indagare il rapporto tra le arti significa cogliere le potenzialità di ciò che si trova negli interstizi e, di conseguenza, può meglio disporsi alla contaminazione. Il mio primo amore resta la letteratura, in prosa e poesia, ma mi rendo conto che per trasmettere messaggi, per far arrivare un’idea in forma “potenziata” sia necessario lavorare sull’intersezionalità. Da questo punto di vista, almeno nel mio lavoro, è l’incrocio di cinema e letteratura quello che trovo più funzionale a certe indagini, specialmente in relazione all’immaginario e alle narrazioni.

    Per finire con una nota sul futuro, cosa ne pensi del Metaverso e come cambierà le arti e il loro modo di comunicare?

    Metaverso e Intelligenza Artificiale sono diverse interpretazioni dell’esistente. Non ho paura degli sviluppi che possono avere nell’arte, giacché ogni epoca si è trovata a fare i conti con invenzioni potenzialmente “fuori controllo”. Certo, oggi tutto corre velocemente e l’Intelligenza Artificiale rischia di contaminare il dibattito politico, di condizionare l’opinione comune, di generare realtà parallele dominate da fake news e immagini artificiali. Questo mi preoccupa, e molto. Ma sul piano artistico, se ben dominata, può rappresentare uno strumento di elaborazione e arricchimento. Ho valutato positivamente diverse mostre di artisti che lavorano con l’AI. Come sempre, è un discorso di metodo e “controllo”.

    Il 22 aprile scorso si è celebrata la giornata mondiale della Terra per sottolineare la necessità della conservazione delle risorse naturali della Terra. Siamo assolutamente convinti dell’eccessivo consumo di risorse, a partire dal suolo, delle acque e dell’atmosfera per non parlare dell’inquinamento e del climate change. Qual è il significato per te come giornalista, tra le altre cose, ambientale, e quali le azioni concrete da mettere in campo?

    Confesso un certo sgomento dinnanzi a ciò che sta accadendo al pianeta. Il termine “ecoansia”, cui si ricorre da qualche tempo per indicare forme di disagio, paura e in qualche caso depressione dinnanzi al pensiero di possibili disastri legati al riscaldamento globale e ai suoi effetti ambientali, fotografa bene lo stato d’animo di chi ha capito che siamo a un punto di non ritorno. Resto annichilita dinnanzi alla faciloneria con cui esponenti del governo parlano dei cambiamenti climatici; pensare che il caldo anomalo degli ultimi anni sia semplicemente riconducibile alla nozione di “estate” e che i danni ambientali causati da piogge copiose rientrino negli eventi naturali è un insulto all’intelligenza e sensibilità di molti. Così come il trattamento nei confronti di esponenti di Extinction Ribellion e Ultima Generazione. Il cambiamento parte dalla testa, ma finché i nostri rappresentanti non prenderanno parola su questo tema in maniera seria sarà difficile convincere l’opinione pubblica in maniera massiva. Ciò che si può fare è continuare a protestare, a parlare, a rivolgersi alla stampa più sensibile al tema (gli inserti ambientali dei principali quotidiani sono ottimi, da “L’Extraterrestre” a “Green and Blue”, così come riviste online specializzate sul tema) e adottare piccole soluzioni quotidiane, dal riciclo al risparmio energetico. Piano piano qualcosa si sta muovendo.

    ** Le foto ritratto sono state gentilmente concesse dall’artista **

    Alessandro Maiocchi, esperto di marketing, ha ricoperto ruoli manageriali nel settore industriale, della consulenza strategica e del’editoria in Italia e all’estero. Per un decennio Direttore Marketing e Corporate Affair quindi Direttore Business Development della Divisione Internazionale in un’azienda leader di impianti per il riciclaggio dei rifiuti. Dal 2013 lavora in un gruppo attivo nel settore enologico, agroalimentare e turistico, dapprima come EVP-COO e dal 2022 in qualità di Presidente e Amministratore Delegato, ruolo che attualmente ricopre. Membro del cda di aziende attive nel settore agroalimentare in Italia e negli USA. Dal 2017 E’ senior advisor di un gruppo americano attivo nel trading di commodities industriali, energetiche ed alimentari.
    Dal 2003 insegna marketing in corsi master universitari.

    Introduzione all’economia circolare: Dott. Maiocchi, potrebbe spiegarci come l’approccio dell’economia circolare si distingue dal tradizionale modello economico lineare e perché ritiene sia cruciale per il futuro sostenibile del nostro pianeta?

    L’economia “lineare” è tesa alla produzione, alla massimalizzazione della stessa occupandosi, se non marginalmente e sovente limitatamente, all’impatto dell’utilizzo delle materie prime e del risultato, dello scarto, della post produzione e del post consumo. Un modello dove esiste un inzio ed una fine e dove il prodotto una volta utilzzato non ha un ruolo se non quello di essere smaltito.

    L’economia circolare è un modello “premeditante”, dove a monte della produzione le materie prime utilizzate, la loro reperibilità e sfruttamento, vengono  valutate trovando strategie e processi di minimizzazione dell’impatto ambientale e a valle, pensando preventivamente a come riciclare, riutilizzare e in ultima analisi a smaltire il frutto della post produzione e del consumo.

    Strategie aziendali per l’economia circolare: In qualità di CEO di Gruppo AGC, quali strategie specifiche ha implementato per assicurare che la vostra azienda operi secondo i principi dell’economia circolare?

    A.G.C. opera prevalentemente in un settore, quello della produzione e distribuzione enologica, dove l’adozione di modelli di economia circolare sono diventati essenziali e cruciali. Il settore, anche in ragione dell’impatto del cambiamento climatico, è stato tra i primi a doversi confrontare con l’esigenza di adottare modelli produttivi “circolari”. Volendo dare un esempio concreto, in una delle realtà che partecipiamo “Fattoria Svetoni” si è cominciato insieme allo sviluppo di attività di riduzione dell’impatto ambientale un processo di impianto di nuove viti a partire da barbatelle autoctone ottenendo: riduzione e sostituzione chimica: piante più resistenti rispetto a condizioni ambientali avverse riducendo l’apporto di fitofarmaci, migliore gestione idrica, le viti con radici più forti e profonde sono meno sensibili agli stress idrici e consentono di limitate gli interventi di irrigazione di soccorso, infine l’innesto con barbatelle autoctone consente una migliore gestione del terreno, del suolo e previene perdite di biodiversità

    Misurazione dell’impatto: Come misurate l’impatto delle vostre iniziative di economia circolare in termini di riduzione dell’impronta ecologica e benefici economici?

    Riprendendo l’esperienza che citavo nella precedente domanda, aderiamo al Consorzio del Vino Nobile di Montepulciano, la prima e ad oggi, unica denominazione ad avere ottenuto la certificazione di sostenibilità secondo lo standard Equalitas. Il protocollo, molto impegnativo, indica un numero elevato di requisiti ambientali, tra i quali biodiversità, impronta carbonica ed idrica. Oggi siamo in grado di sapere l’impronta di carbonio e le emissioni di CO2 derivanti dalla produzione di ogni bottiglia. Da un punto di vista economico, le pratiche di economia circolare, ci consentono, oltre ad un premio economico per la qualità del prodotto anche di una significativa riduzione degli sprechi e dei costi derivanti dalla gestione dei residui.

     Innovazione e tecnologia: Quali innovazioni o tecnologie ritiene saranno cruciali per promuovere l’economia circolare e i consumi sostenibili nei prossimi anni?

    L’economia circolare “comincia” necessariamente nelle prime fasi del ciclo di vita del prodotto. L’ “ecodesign “ la progettazione di un prodotto (e del suo eventuale imballo) è fondamentale nella modalità di estrazione, ottenimento ed uso della materia prima necessaria e del volume di scarto generato che diverrà rifiuto. Quindi processi innovativi e tecnologie che assicurino durabilità, riparabilità, possibilità di aggiornamento e riciclabilità.

    Un elemento cruciale è poi riposto nello sviluppo delle tecnologie verso i prodotti che generano residui definiti “hard to recycle” dalle plastiche ai rifiuti alimentari.

    Barriere e sfide: Quali sono le maggiori sfide che le aziende e i consumatori devono affrontare nell’adozione di pratiche più sostenibili e come possiamo superarle?

    Per le imprese la sfida è decisamente nell’adozione di nuovi modelli di business dove la massimizzazione dei profitti non risiedere più soltanto nella riduzione e minimizzazione dei costi e l’aumento dei ricavi; ma minimizzando l’uso delle risorse, massimizzando la vita utile dei prodotti e riducendo scarti e generazione di rifiuti. L’IW (Institut der deutschen Wirtschaft), l’istituto economico tedesco, definisce chiaramente i punti chiave questi nuovi modelli di business descrivendoli come “  modelli che si concentrano sull’abilitazione, la chiusura, la creazione o l’estensione di cicli produttivi, preservando il valore e conservando le risorse il più a lungo possibile mantenendo al contempo la competitività”

    Le sfide per i consumatori sono decisamente legati ai comportamenti di consumo, dalla consapevolezza dell’impatto dei propri consumi interrogandosi sulle possibilità di riparazione e riutilizzo, alla fondamentale progressiva limitazione di consumi puramente “emozionali” , spinti cioè più dal desiderio di possesso che dalla effettiva necessità, e dalla adozione, ove possibile, di consumi “condivisi”.

    Ruolo dei consumatori: In che modo i consumatori possono contribuire attivamente all’economia circolare e quali azioni quotidiane possono fare la differenza?

    Accennavamo prima che la realizzazione dell’economia circolare implica numerose innovazioni. L’innovazione tecnologica non è l’unico motore, ma è certamente, in diverse situazioni un elemento chiave. In uno studio di qualche tempo fa elaborato per PBL, l’agenzia governativa olandese per l’impatto ambientale, l’economista Potting definiva tre cambiamenti per l’economia circolare connessi all’utilizzo della tecnologia e al comportamento dei consumatori nella catena del valore dei prodotti/servizi:

    – Prodotti e servizi basati su nuove tecnologie con basso impatto sul comportamento dei consumatori, come le plastiche biodegradabili

    – Prodotti e servizi dove la tecnologia ha un impatto relativo ma dove il comportamento dei consumatori è fondamentale, e ladattamento a nuovi stili di consumo è il fattore chiave di successo. packaging-free ad esempio

    – Prodotti e servizi dove il comportamento dei consumatori è fondamentale e dove anche la tecnologia è il fattore abilitante fondamentale, ad esempio i servizi legati alla sharing economy

    Il ruolo dei consumatori è dunque quello di essere consapevoli che il successo delle tecnologie e dei processi innovativi e quindi nella piena realizzazione dell’economia circolare, è strettamente legato alle modalità di consumo.

    Educazione e sensibilizzazione: Qual è l’importanza dell’educazione e della sensibilizzazione dei consumatori sui temi dell’economia circolare e quali iniziative o programmi avete sviluppato o sostenuto in quest’area?

    Credo che l’errore che spesso, inconsapevolmente, si commette nella educazione e sensibilizzazione alla economia circolare sia quello di proporre modelli virtuosi ma razionali che si scontrano, spesso soccombendo, con gli attuali modelli di consumo, mossi in molti casi dall’emozione. Tutte le modalità e e forme di sensibilizzazione che abbiano come chiave quella della consapevolezza dell’impatto degli stili di consumo sono non solo necessarie ma fondamentali.

    Per quanto riguarda le iniziative intraprese, il gruppo A.G.C. ha aderito e supportato diverse iniziative di sensibilizzazione sui temi della sostenibilità e della circolarità dell’economia. Ho prima accennato alla scelta compiuta ormai da qualche anno di pratiche concrete di  riduzione dell’impatto ambientale, di consumo del suolo e dell’acqua e della preservazione della biodiversità. Comunichiamo ai consumatori chiaramente questa scelta e le motivazioni, organizziamo inoltre visite regolari per mostrare concretamente l’efficienza e l’efficacia delle scelte di sostenibilità, sensibilizzando all’adozione di stili di consumo consapevoli.

    Collaborazioni e partnership: Potrebbe fornire esempi di come la collaborazione tra aziende, governi e organizzazioni non governative possa accelerare la transizione verso un’economia più circolare?

    Mi piace ricordare “Spiagge di Vetro” un progetto nato in Campania che credo sia uno dei più concreti esempi di economia circolare che ha visto il coinvolgimento di Università, imprese, esercizi commerciali e amministrazioni. Da una idea, quella di rendere ancora più efficiente un ciclo già molto efficiente come quello del vetro, si è sviluppata con gli investimenti d’impresa e il know how accademico una piccola macchina capace di triturare i contenitori di vetro, contenendo circa 200 bottiglie in un bidonino di meno di 25 kg di sabbia di vetro. Si sono coinvolti prima nella sperimentazione, poi nell’adozione del sistema utenze commerciali (bar, ristoranti, pizzerie, mense, alberghi, centri commerciali, palestre), ospedali e amministrazioni comunali. I risultati sono stati una drastica diminuzione dei passaggi dei mezzi di raccolta, dello svuotamento delle campane, con migliore igiene di strade e spazi pubblici. Il vetro, ridotto in “sabbia”, trattato meccanicamente,  viene impiegarlo oltre che nella industria vetraria in filtri per piscine, nel edilizia per sabbiature, impasti in calcestruzzo, realizzazione di pannelli fonoassorbenti  e perfino nel ripascimento delle spiagge. La collaborazione tra soggetti diversi ha prodotto una riduzione dei costi energetici, dell’impatto ambientale dovuto alla logistica, e una efficace ed efficiente sostituzione di materie prime.

    Politiche pubbliche: Quali politiche pubbliche ritiene siano necessarie per supportare e incentivare l’economia circolare a livello nazionale e internazionale?

    L’Italia ha elaborato una strategia nazionale per l’economia circolare, nel 2021 ne ha definito le linee programmatiche includendo tutti gli elementi richiesti dalla Commissione Europea nell’ambito dell’Operational Arrangements del PNRR, in particolare:

    • un nuovo sistema di tracciabilità digitale dei rifiuti
    • incentivi fiscali a sostegno delle attività di riciclo e utilizzo di materie prime secondarie
    • una revisione del sistema di tassazione ambientale dei rifiuti per rendere più conveniente il riciclaggio rispetto al conferimento in discarica
    • sviluppo di centri per il riuso e individuazione di strumenti normativi ed economici ad incentivo degli operatori;
    • riforma del sistema EPR (Extended Producer Responsibility) e dei Consorzi
    • supporto agli strumenti normativi esistenti: End of waste (nazionale e regionale), Criteri ambientali minimi (CAM) nell’ambito degli appalti pubblici verdi. Lo sviluppo/aggiornamento di EOW e CAM riguarderà in particolare l’edilizia, il tessile, la plastica, i rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE);
    • sostegno normativo e finanziario al progetto di simbiosi industriale

    Credo che la trasformazione di queste linee guida in azioni e provvedimenti possano concretamente sostenere e accelerare la crescita dell’economia circolare.

    Visione futura: Come immagina il futuro dell’economia circolare e dei consumi sostenibili nei prossimi 10 anni? Quali tendenze o cambiamenti prevede saranno più significativi?

    Ritengo che l’adozione di modelli di economia circolare sia inevitabile. I prossimi 10 vedranno consistenti cambiamenti delle modalità di produzione e degli stili di consumo. Su questi ultimi bisogna fin da ora prestare particolare attenzione ed evitare fenomeni che rischiano di rendere poco efficaci e talvolta inutili i modelli di economia circolare. Mi riferisco ai fenomeni di “rebound”. Diversi studi hanno evidenziato come esista il rischio che prodotti sostenibili “provenienti da modelli di business circolari possano stimolare ulteriore consumo sia per i prezzi accessibili o bassi sia per implicazioni psicologiche.  E’ il caso ad esempio dei telefoni cellulari ricondizionati che dovrebbero estendere il ciclo di vita del prodotto, e ridurre quindi l’impatto ambientale , in alcuni casi i consumatori continuano ad acquistare modelli nuovi aggiungendovi quelli ricondizionati.

    Significativo quanto riferiva Pierluigi Zerbino ingegnere gestionale e ricercatore senior in Economia Circolare e Innovazione Digitale presso l’Università di Pisa in una recente intervista a Repubblica : “.. l’economia circolare non è intrinsecamente sostenibile, ma un mezzo per raggiungere la sostenibilità”, e ancora “e si pensa di massimizzare contemporaneamente la performance ambientale e quella economica sul breve periodo, forse si domanda troppo. La vera sfida inizia col fare tanta disseminazione ed evangelizzazione su comportamenti di consumo e su comportamenti di non-consumo”

    “Ne usciremo migliori”, si diceva, ma a più di 3 anni dal momento da quando lo slogan fu coniato ci sentiamo particolarmente lontani da come eravamo prima del Covid-19 e sembra che il raggiungimento di un equilibrio non sia affatto un processo semplice. Per avere un’idea più completa, ho contattato una persona che – per lucidità di visione e per professionalità – avesse la capacità di aiutarmi in questo percorso: Emilio Mordini.

    (Foto dell’Ospite)

    Emilio Mordini è laureato in medicina e in filosofia, si è formato come psicoanalista ed è stato tra i primi psicoterapeuti medici abilitati dall’Ordine dei Medici di Roma. Esercita l’attività clinica come psicoanalista da circa quarant’anni. I suoi interessi scientifici si focalizzano sui rapporti tra individuo e inconscio sociale e sulla nozione di Einheitpsychose. Dal 1994 al 2005 Emilio Mordini ha insegnato bioetica presso la II Scuola di Specializzazione in Ostetricia e Ginecologia dell’Università di Roma La Sapienza. Negli stessi anni è stato membro e segretario scientifico della Commissione di Bioetica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), membro della Commissione di Bioetica dell’ Ordine dei Medici di Roma, tesoriere e segretario generale dell’ Associazione Europea dei Centri di Etica Medica (EACME), membro del Consiglio di Amministrazione dell’International Association of Bioethics (IAB), membro del Comitato Etico e docente nei corsi di etica della Società Italiana di Psichiatria (SIP) e ha tenuto corsi di bioetica e di psicoanalisi in varie università italiane e straniere. Dal 2002 al 2013 Emilio Mordini ha diretto il Centro per la Scienza, la Società e la Cittadinanza (CSSC) di Roma, per conto del quale ha partecipato come principale investigatore o coordinatore a più di trenta progetti di ricerca internazionali promossi dalla Commissione Europea e ha diretto due workshop del programma Science for Peace della NATO. Nello stesso periodo è stato membro di vari comitati di esperti della Commissione Europea e delle sue agenzie. Dal 2014 al 2020 ha diretto Responsible Technology, una società di consulenza con sede a Parigi. Attualmente è research fellow dell’Health and Risk Communication Center dell’Università di Haifa in Israele.  Nell’Unione Europea, presta la sua opera nel CERIS Expert Group (Community for European Research and Innovation for Security).  Fa parte del comitato editoriale di numerose riviste scientifiche internazionali, tra le quali il “Journal of Ethics in Mental Health”, “IET Biometrics“, “Somatotechnics” e la “Revue Française d’éthique appliquée”. Ha pubblicato più di centosessanta articoli e monografie su riviste scientifiche internazionali, numerosi articoli divulgativi e curato quattordici volumi collettanei. È socio di varie società scientifiche, tra cui la Società Italiana di Psichiatria (SIP) e l’Association for the Advancement of Philosophy and Psychiatry (AAPP).  Raggiungo telefonicamente il professore in Friuli, a San Vito al Tagliamento, un paese tra Venezia e Trieste, dove ora vive ed esercita la sua attività clinica.

    Domanda:
    Com’è la situazione degli italiani dopo il covid riguardo alla loro salute psicofisica? In questi anni c’è stato un investimento importante, anche con il così detto “bonus psicologi” ma questa iniziativa è servita o no? Com’è lo stato attuale?

    Risposta:
    Le posso rispondere come medico e psicoanalista, non come epidemiologo, cioè le posso parlare di mie impressioni e riflessioni, non di dati statistici. Dal mio punto di vista, non ritengo che il Covid abbia cambiato molto la salute degli italiani. Eventualmente quello che ha cambiato la salute degli italiani, e non solo quella mentale, è il progressivo degrado dei servizi sanitari che era già in corso ben prima del Covid e che con l’epidemia ha avuto un’accelerazione. Il COVID è stato preso a pretesto per promuovere tutta una serie di processi di trasformazione che erano già in corso ma che avrebbero avuto – senza epidemia – tempi ben più lunghi.  Il primo e più importante processo è stata una progressiva e massiccia digitalizzazione dei servizi sanitari pubblici e privati. La digitalizzazione e l’automazione della sanità permettono di ridurre in modo drastico i costi (che sono per la gran parte imputabili ai costi del personale) e migliorare l’efficienza complessiva del sistema. Però ci sono anche aspetti negativi.

    Quali?

    Sta accadendo alla sanità quello che è già accaduto in altri settori (si pensi ad esempio al mondo dei servizi bancari e finanziari dove le agenzie bancarie funzionano praticamente senza personale) e che sta accadendo nel mondo dell’istruzione e dell’educazione, con la didattica a distanza e la formazione online. L’obiettivo è quello di arrivare a una sanità “ad alta automazione”, un po’ come quei caselli autostradali privi di ogni presenza umana. Per realizzarsi un processo del genere, è stato necessario però il realizzarsi di alcune condizioni.

    A cosa si riferisce?  
    Le farò un discorso un po’ lungo per cui le chiedo scusa. Sono convinto, però, che il momento che stiamo attraversando sia una svolta storica non solo nel modo in cui si esercita la professione medica ma nell’idea stessa di salute e nella funzione politica e sociale del concetto di salute.

    (Immagine dell’Ospite)

    La medicina è stata per secoli, dalla sua nascita sino alla seconda metà dello scorso secolo, soprattutto “artigianato”, basato sulle conoscenze cliniche, sull’esperienza e intuizione dei singoli medici e delle équipe curanti. Era una medicina che sbagliava spesso, curava poco, difficilmente evitava la morte e che era guardata con diffidenza dai pazienti, anche se l’alternativa erano solo maghi e fattucchiere che erano ancora peggio. Ci fu poi, agli inizi del 1900, il periodo dei grandi clinici e della medicina ospedaliera di massa: le cose cominciarono ad andare un po’ meglio anche grazie a farmaci più efficaci, alla scoperta dell’asepsi in chirurgia, all’avvento dei vaccini. Però, sino a dopo alla Seconda guerra mondiale, non è che i medici riuscissero a salvare molte vite. Spesso i trattamenti non erano efficaci se non addirittura dannosi.
    Nel ventennio tra il 1950 e il 1970, avvennero due fatti fondamentali tra loro correlati: da un lato l’industria farmaceutica divenne un colosso produttivo con un’influenza finanziaria crescente, dall’altra si affermò l’idea di provvedere tutti i cittadini con un’assicurazione sanitaria, prevalentemente pubblica in Europa, principalmente privata negli USA. Nacque, cioè, il concetto di “diritto alla salute” che, come altri “diritti sociali”, fu la risposta del blocco sovietico alla critica che gli rivolgevano gli stati occidentali. Nazioni e forze politiche che si riferivano più o meno al mondo comunista iniziarono a contrapporre ai “diritti civili e politici” tutta una serie di altri diritti, “sociali” appunto, come il “diritto alla salute”. Questo diritto divenne un principio fondante l’Organizzazione Mondiale della Sanità e, in genere, tutte le organizzazioni delle Nazioni Unite, così come divenne centrale per le grandi socialdemocrazie europee e la nascente Unione Europea. In questo mondo fondato sul diritto universale alla salute (e dominato dalle case farmaceutiche) poteva andare ancora bene la vecchia medicina clinica e ospedaliera degli inizi del 1900?  Ovviamente, non poteva. Serviva una medicina di massa, territoriale (i cui costi farmaceutici crescenti fossero affrontati dai servizi sanitari pubblici o privati e fatti ricadere sull’intera collettività) e basata su metodi di validazione statistici, cioè una medicina che avesse come obiettivo non tanto lo stato di salute del singolo paziente quanto della comunità considerata nel so insieme. Nasce così, verso la fine degli anni 1970, la cosiddetta “medicina basata sull’evidenza” (EBM).
    La 𝗘𝗕𝗠 𝗮𝗳𝗳𝗲𝗿𝗺𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝗻𝗲𝘀𝘀𝘂𝗻𝗮 𝗽𝗿𝗼𝗰𝗲𝗱𝘂𝗿𝗮 𝗱𝗶𝗮𝗴𝗻𝗼𝘀𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗼 𝘁𝗲𝗿𝗮𝗽𝗲𝘂𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗱𝗲𝗯𝗯𝗮 𝗿𝗶𝘁𝗲𝗻𝗲𝗿𝘀𝗶 𝘃𝗮𝗹𝗶𝗱𝗮𝘁𝗮 se non dopo un’esperienza empirica che la sostanzi. Nei fatti si rigetta ogni appello al principio d’autorità (“l’ha detto quel medico, quindi deve essere vero”), così come ogni convinzione aneddotica (“nella mia esperienza ha sempre funzionato”, “ci sono numerosi casi in cui sembra essere efficace”), invece ci si rifà rigorosamente a osservazioni controllate, alla riproducibilità delle esperienze, al consenso tra specialisti.  Il movimento della EBM si presenta, quindi, come un grande movimento, che non si oppone pregiudizialmente a nessuna pratica medica, né quelle convenzionali, né a quelle non-convenzionali, ma pretende che ogni trattamento che si proclami “efficace” sia sottoposto a un rigoroso controllo. 𝗜 𝘀𝗼𝘀𝘁𝗲𝗻𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶 𝗱𝗲𝗹 𝗺𝗼𝘃𝗶𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝗵𝗮𝗻𝗻𝗼 𝗱𝗶𝗰𝗵𝗶𝗮𝗿𝗮𝘁𝗼 𝗰𝗵𝗲 𝘀𝗼𝗹𝗼 𝗹𝗮 𝗘𝗕𝗠 𝗽𝘂𝗼̀ 𝗰𝗼𝗻𝘀𝗲𝗻𝘁𝗶𝗿𝗲 𝗮𝗹 𝗽𝗮𝘇𝗶𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗱𝗶 𝗮𝗰𝗰𝗲𝗱𝗲𝗿𝗲 𝗮𝗱 𝗶𝗻𝗳𝗼𝗿𝗺𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗼𝗯𝗶𝗲𝘁𝘁𝗶𝘃𝗲 e non di parte, perché medici e pazienti si troverebbero a disporre di una stessa fonte neutrale di informazioni. Medici e pazienti sarebbero messi in grado, di decidere insieme, su base paritaria. Nelle intenzioni proclamate, l’EBM dovrebbe fondare un meccanismo razionale e condiviso di distribuzione delle cure, evitando diseguaglianze tra gli utenti e impedendo lo spreco di risorse su trattamenti inefficaci quando non addirittura nocivi. Agli inizi degli anni 2000, l’EBM si afferma universalmente come standard delle cure mediche e, nel ventennio successivo, diventa progressivamente la sola filosofia accettata dai servizi sanitari pubblici e privati, dalle società scientifiche mediche e dalle istituzioni sanitarie statali. La funzionalità dell’EBM sembra essere testimoniata dai risultati: dove è stata adottata, il livello complessivo di efficacia delle cure mediche è aumentato, almeno secondo tutti gli indicatori statistici. Il problema, però, è proprio questo: la EBM è una medicina fatta da manager sanitari per manager sanitari e politici che hanno bisogno di citare numeri; non è una medicina per i pazienti a cui importa poco che le statistiche migliorino se loro, come singoli individui, ricevono servizi sempre più spersonalizzati e anonimi.   
    In questi ultimi vent’anni, è accaduto un altro importante fatto, che non ha riguardato solo la medicina ma che sta avendo sul mondo sanitario un impatto devastante. Mi riferisco alla crescente capacità di catturare, immagazzinare, interconnettere e processare quantità enormi di informazioni. Tutto ciò è diventato possibile man mano che la tecnologia ha permesso di trasformare informazioni qualitative in quantitative, detto in maniera più semplice: via via che la tecnologia ha creato strumenti per misurare ogni cosa ed esprimere in dati numerici qualsiasi evento. Questo processo è quello che è chiamato comunemente “digitalizzazione” (termine preso dall’inglese che significa, letteralmente, “numerizzazione” così come infatti lo traducono i francesi). Questa capacità, che è cresciuta di giorno in giorno con una velocità impensabile sino a qualche tempo fa, ha generato un approccio scientifico (anche alla medicina) molto diverso da quello tradizionale: la cosiddetta “scienza dei dati”. Una delle caratteristiche principali della “scienza dei dati” è la sua capacità di produrre “previsioni senza comprensione”. La scienza convenzionale, quella che era nata nel 1600 con Galileo Galilei, era deterministica, cioè, mirava a produrre spiegazioni basate sul principio di causalità (A causa B = B è un effetto di A). La scienza moderna (quella che si era affermata nel 1900) era invece probabilistica, cioè si basava si basava ancora sul principio di causalità, ma ammetteva un certo grado di incertezza. Nella scienza probabilistica (come era, agli inizi, anche quella della “Medicina Basata sull’ Evidenza”) si cercavano correlazioni statistiche e, una volta scoperte, si cercava di stabilirne le cause più probabili. Questa ipotesi causale veniva confrontata di nuovo con i dati empirici e il processo veniva ripetuto fino a quando non si era in grado di arrivare a una qualche comprensione dai dati (il verificarsi di A è strettamente associato al verificarsi di B = ci sono x probabilità che A provochi B).  
    La scienza dei dati è simile alla scienza probabilistica in quanto anch’essa ricerca correlazioni e modelli, ma non è più interessata a trovare un senso, cioè, a stabilire relazioni di causa-effetto. La scienza dei dati, proprio perché la tecnologia le mette a disposizione una quantità di informazioni enorme, si accontenta di individuare configurazioni di fatti (al fatto A segue prima o poi il fatto B).  La scienza dei dati non si interessa delle cause: si limita a identificare i primi segnali della comparsa di un fatto in modo tale che si possa agire preventivamente. Applicata alla medicina, questa scienza produce la “medicina post-COVID” che stiamo imparando a conoscere. Si tratta di una medicina che può essere considerata l’evoluzione della EBM. Come la Medicina Basata sull’Evidenza, anche la medicina basata sulla scienza dei dati non si interessa alla clinica ma analizza grandi numeri di pazienti. L’obiettivo, però, non è soltanto quello di modificare le condizioni di salute di una comunità, ma di riuscire ad applicare modelli matematici e statistici generali anche ai singoli casi. Questo diventa possibile non perché si individuino specifiche correlazioni causali e fisiopatologiche, ma perché si identificano pattern da cui trarre indicazioni specifiche di azioni da compiere per ottenere il risultato voluto. Per spiegarlo in un modo più semplice e forse comprensibile: la medicina basata sulla scienza dei dati è molto simile al modo in cui funzionava il “servizio pre-crimine” in un film di fantascienza di qualche anno fa, Minority Report.

    Quindi il degrado della medicina post-COVID sarebbe la conseguenza della “medicina Minority Report”?

    Quello che le ho descritto è il processo principale, le cui conseguenze, però, sono poi il frutto del concomitare di altri sottoprocessi. Via via che la medicina statistica e poi quella basata sui dati hanno preso il sopravvento, è diminuita parallelamente l’importanza del fattore umano e quindi della preparazione del personale sanitario, dei medici in particolare.
    Stiamo assistendo a una progressiva de-professionalizzazione dei medici che ha almeno tre componenti. La prima, più generale, riguarda la qualità della formazione fornita dalla scuola primaria e secondaria. I giovani giungono al momento della scelta universitaria in una condizione di ignoranza impensabile qualche decennio fa. Il COVID, con la didattica a distanza, ha portato agli estremi questo processo di disfacimento educativo. Spesso i “nuovi medici” sono persone di un’ignoranza generale che fa rabbrividire. Sono persone che non hanno mai letto un’opera letteraria in vita loro, che non hanno mai visto un film che non sia prodotto da Netflix o simili, che non hanno mai visto uno spettacolo teatrale che non sia quello di un comico televisivo, che si informano su Instagram, che ascoltano i Måneskin e vestono Zara. Non differiscono, in questo, dai loro coetanei che fanno altre professioni. Ma fossero, ad esempio, ingegneri potrebbero forse essere decenti professionisti lo stesso; invece, è impossibile che lo siano facendo il medico.  Senza l’esperienza formativa di quelle nel mondo anglosassone sono chiamate “humanities”, cioè le scienze umane, e senza essere stati formati artigianalmente da un maestro, che li abbia accompagnati al rapporto diretto con il malato, questi giovani medici mancano i fondamenti umani e psicologici per curare un paziente.  Del resto, la loro funzione nei sistemi sanitari moderni perde sempre più di importanza e il fatto che mancano delle necessarie qualità umane non è avvertito dagli amministratori come un problema di cui preoccuparsi.
    A questo si aggiunge un secondo processo: la superspecializzazione e l’ignoranza degli aspetti della medicina diversi dal proprio.  I giovani medici conoscono (quando conoscono) il loro settore specialistico ma quasi ignorano tutto il resto, sia perché lo hanno studiato poco e male già durante il corso di laurea, sia perché – diventati medici – se ne disinteressano completamente. Si arriva così alla situazione attuale in cui i pazienti non hanno più un medico che voglia e sappia seguirli complessivamente, ma liste di specialisti interessati all’organo o apparato di loro competenza, come fossero carburatoristi o elettrauto. Questi medici super-specialisti si integrano perfettamente nel sistema della medicina tecnologica basata sui dati, perché diventano loro stessi simili a macchine o a esami di laboratorio: si trasformano in “generatori di informazione medica” che sarà poi analizzata da altri o, sempre più spesso, dagli algoritmi dell’intelligenza artificiale. In questo senso, è quasi meglio che non pensino e non si prendano cura del paziente: altrimenti disturberebbero i veri decisori che non sono più loro ma le macchine (in teoria – nel sistema italiano – il medico che riunisce tutte le informazioni ci dovrebbe essere ed è il medico di base, ma spesso questa è solo un’illusione. Purtroppo, i medici di base finiscono di frequente a essere burocrati che smistano il paziente tra vari specialisti ed esami, cercando di contenere i costi).
    Infine, c’è un terzo processo che spiega la perdita di qualità professionale di molti giovani medici. Mi riferisco alla crescente produzione di linee guida e protocolli di cura. Questo fenomeno è direttamente legato alla medicina basata sull’evidenza e alla sua moderna versione basata sui dati. Più, infatti, le decisioni mediche scaturiscono non dalla clinica ma dall’analisi biostatistica di informazioni fornite da macchine, più è logico che queste decisioni si basino su alberi decisionali e algoritmi. A ciò si aggiungano una serie di ragioni medico-legali e amministrative, che – in Italia anche attraverso specifiche leggi nel 2014 e 2016 – hanno sempre più vincolato i medici all’osservanza di protocolli e le linee guida stabilite da istituzioni scientifiche statali, quali l’Istituto Superiore di Sanità o il Ministero della Sanità, e società scientifiche riconosciute. La legge lascia un margine di discrezionalità ai medici, che hanno ancora in teoria la libertà di cura.  Tuttavia, se un medico si discosta da protocolli e linee guida, deve giustificare questo scostamento e sincerarsi che il paziente sia d’accordo con queste sue scelte. Questo principio, la necessità di un consenso informato ogni qual volta un medico non segua linee guida fissate, è in teoria comprensibile, non fosse che spesso un malato avrebbe voglia di dover non essere chiamato a decidere ma di avere consiglio. A tutto ciò si aggiungono una serie di problematiche amministrative e contrattuali specifiche per i medici che lavorano nel sistema sanitario nazionale, i quali – se non rispettano protocolli e linee guida – corrono il rischio di perdere le proprie coperture assicurative ed esser soggetti a provvedimenti disciplinari.

    Ma lei, dunque, è contro le “linee guida”?

    No, assolutamente. Possono essere utilissime affiancate al ragionamento clinico. La questione è che ogni essere umano è un caso a sé stante e va valutato come tale. Che cosa chiede un paziente? Di essere riportato nell’ambito di parametri statistici di normalità e di salute? Ma proprio per niente. Un paziente chiede di che ci qualcuno si prenda cura di lui. C’è una differenza fondamentale tra “curare” e “prendersi cura”. “Curare” vuol dire riparare un carburatore che non funziona ed è quello che accade spesso oggi: la medicina tecnologica basata sui dati lo sa fare bene, non c’è dubbio. “Prendersi cura” significa, invece, domandarsi cosa sia per quella specifica persona la “salute”, quale sia il suo “bene”. Si tratta di una questione complicata, non c’è dubbio che il medico debba essere umile, debba evitare l’arroganza di decidere da solo quale sia il bene del paziente, Un medico onesto deve sapere di non sapere: sempre porsi domande e porre domande. Eppure, in ultima istanza, se il medico non cerca di capire cosa sia il bene per il malato che si è rivolto lui e non cerca di realizzarlo, diventa un truffatore perché non rispetta il contratto terapeutico. Cos’è il bene per quel mio determinato paziente? Avere il colesterolo LDL entro i valori fissati dalle ultime linee guida dell’American College of Cardiology (società, per altro, sponsorizzata da case farmaceutiche produttrici di farmaci per abbassare la colesterolemia) oppure avere il colesterolo un po’ più alto ma godersi un piatto di formaggio e un bicchiere di vino ogni tanto? Ho fatto un esempio banale, ma credo che si capisca cosa intendo.
    Del resto, se un medico si limita ad applicare in maniera pedissequa linee guida create da altri o dall’intelligenza artificiale, non si capisce cosa serva più. Se un medico è solo un esecutore di algoritmi, allora le macchine possono farlo in maniera molto più efficace e sicura.

    Quindi lei crede che il problema sia la “disumanizzazione” della medicina moderna?

    Sì e no. Non c’è dubbio che la medicina tecnologica basata sui dati sia “disumanizzata”, ma non ne consegue automaticamente che ciò dispiaccia ai pazienti. La medicina tecnologica è una medicina che ha conseguito risultati straordinari in termini di guarigioni dalle malattie. In questo senso, i pazienti sono soddisfatti dei suoi risultati. Poi, non si scordi tutte le cose che le ho detto in precedenza, in particolare rispetto alla perdita di qualità “umana” dei medici.  I pazienti si rendono conto che spesso i medici oggi sono disinteressati umanamente a loro, incapaci di entrare in relazione, di provare simpatia (preferisco questa parola a quella che va più di moda, “empatia”).  È molto difficile affidarsi a qualcuno se non abbiamo piena fiducia nella sua “umanità”. In un contesto in cui ci si fida poco dei medici è allora molto meglio la medicina tecnologica. I pazienti a volte preferiscono medici frettolosi, poco attenti al rapporto umano, ma almeno scientificamente efficiente e aggiornati. Nella mia professione di psicoanalista, vedo abbastanza bene questo tipo di contraddizione: non pochi pazienti oggi chiedono soprattutto farmaci o rapidi interventi comportamentali che siano in grado di riportarli a un discreto funzionamento psicologico senza troppe complicazioni. L’idea che è un trattamento psicologico possa e debba andare oltre la risoluzione immediata dei sintomi è oramai molto lontana da tante persone. Per loro, il medico, persino quel quello che fa lo psicoterapeuta, deve essere solo un meccanico che ripristina una funzione alterata. 

    Mi colpisce questa rappresentazione. Da informatico resto quasi turbato da questo: eravamo convinti che gli strumenti informatici ci avrebbero liberati dagli errori, mentre ci siamo ritrovati con delle macchine dalle quali siamo dipendenti.  Qual è lo scenario visto dal punto di vista medico?

    Sui motivi per cui la nostra società si è sviluppata soprattutto in senso tecnologico sono stati versati i leggendari fiumi di inchiostro. Economisti, sociologi, filosofi, teologici, antropologi: ciascuno ha fornito la sua spiegazione. Dal mio punto di vista, mi sembra che la tecnologia sia servita e serva agli esseri umani soprattutto per evitare i lavori più faticosi, noiosi, meno gratificanti, tant’è che il suo sviluppo coincide grossomodo con la fine della schiavitù. Le macchine servono a fare cose che gli esseri umani non hanno voglia di fare, una volta che non ci sono più schiavi da impiegare al posto loro. L’esempio che faccio spesso è quello della nascita delle macchine calcolatrici. Il primo calcolatore nasce nel 1600 ed è un’invenzione di Pascal. Blaise Pascal fu uno dei più grandi matematici (contribuì, tra l’altro, alla nascita del calcolo delle probabilità), filosofi e teologi dell’epoca barocca. Pascal era figlio di un esattore delle tasse nell’Alta Normandia, sotto il regno di Luigi XIV. Quando il giovane Blaise aveva diciannove anni, il padre lo mise a verificare i conti, così il poverello fu costretto a passare le sue notti a rifare i calcoli per controllarli. Immagini quanto un giovane di meno di vent’anni fosse contento di trascorrere le serate in questo modo. Probabilmente io o lei avremmo cercato di “imboscarci” ma Pascal, che era un genio, cercò invece una soluzione diversa: inventare una macchina che facesse i calcoli al posto suo. Questa macchina – che ora è in un museo a Parigi e fu in seguito chiamata “Pascaline” – fu il primo calcolatore meccanico nella storia dell’umanità e ancora i calcolatori degli anni 1960 funzionavano secondo i suoi principi. Questa storia divertente spiega bene qual è la spinta a creare nuove tecnologie: far fare da macchine compiti che noi troviamo noiosi e che le macchine possono fare più rapidamente e con meno errori di noi.
    L’intelligenza artificiale alla fine è soltanto uno strumento di calcolo potentissimo al di là di ogni immaginazione ma che nulla ha a che vedere con l’intelligenza vera. Esattamente come un microscopio elettronico, che vede cose per noi impensabili. Ma lei direbbe mai che un microscopio elettronico “vede”? No, perché un microscopio elettronico non vede nulla, permette a noi di vedere. Lo stesso fanno un telefono cellulare o una macchina da corsa: le tecnologie sono protesi che permettono agli esseri umani di fare quello che, senza tecnologia, non sarebbero in grado di fare. L’intelligenza artificiale è un amplificatore della nostra capacità di calcolo: non sostituisce l’intelligenza, ma ci leva la fatica di calcolare, attività in sé stessa fondamentalmente noiosa pure per i matematici di professione.

    Però c’è un aspetto importante e complicato, ed è quello riferito alla gestione dei big data. Ricordo che all’università, ormai sono passati più di vent’anni, durante il corso di intelligenza artificiale, si considerava la valutazione delle potenziali patologie associate ai segni. Uno degli esempi che si faceva, ripeto su uno studio prima del 2000, riguardava l’individuazione della tubercolosi, partendo da questa considerazione: i medici statunitensi non erano più in grado di conoscere i segni perché pensavano ad altre patologie.
    Allora, trovare correlazioni già predeterminate permette di fare espandere la conoscenza. Ma quando invece la correlazione viene fatta in modo automatico e noi, gli esseri umani, ne perdono il controllo, lì entriamo in un altro mondo.

    Guardi, le ripeto in un diverso contesto quello che le ho già detto a proposito delle linee guida. Io non ho proprio nulla contro l’intelligenza artificiale: se è utile, ben venga. Quando io mi sono laureato, nel 1981, nel reparto dell’ospedale San Giacomo di Roma dove ero assistente, per evitare di mandare troppi esami del sangue in laboratorio, alcuni di questi esami li facevamo direttamente noi in reparto. Uno di questi, l’esame emocromo, lo si faceva al microscopio ottico, usando un particolare vetrino retinato che, una volta colorato il campione, permetteva una conta probabilistica degli elementi corpuscolati, globuli rossi e bianchi. Un lavoro molto noioso che certo non faceva il primario ma che toccava a noi neolaureati. La precisione, ovviamente, era abbastanza approssimativa e sono sicuro che diminuisse progressivamente più noi ci si annoiava e che avesse poi veri crolli se, per caso, uno di noi aveva fretta di terminare per andare, magari, al cinema.  È chiaro che nel momento in cui si mette la provetta dentro una macchina, e la macchina conta con precisione assoluta tutti i globuli rossi e bianchi, è meglio no? Non dobbiamo rinunziare a questo. Però questo progresso dovrebbe dare al medico il tempo, magari, di parlare col paziente. Potrebbe essere un guadagno per tutti. Però, se invece, una volta che ho una macchina che fa l’emocromo, il tempo che risparmio io lo uso per stare su Instagram a guardarmi i reel, allora c’è qualcosa che non gira in questa storia. In realtà ho soltanto perso tempo e non l’ho acquistato.

    Questa è la visione, una visione quasi di profondità perdendo completamente la visione periferica, quella che poi ci permette di allargare la visuale su quello che è la qualità della vita, quello che è il rapporto col paziente. Veramente molto interessante. Questo poi mi colpisce, e metto la mia visione da informatico. Ho sempre utilizzato le videoconferenze, le call conference, per parlare con i colleghi, ma non mi rendevo conto di quanto invece il rapporto umano, quello che poi si aveva comunque in ufficio, fosse fondamentale nel mantenimento del team, nel mantenimento dei rapporti di reciproca stima e fiducia.
    Questa cosa è cambiata, passando tutti e solo in videoconferenza è stato veramente un rapporto completamente diverso. E qui mi interessava anche rispetto alla sua professione, quanto c’è di diverso nell’avere rapporti virtualizzati rispetto ad averli di persona?

    (Immagine dell’Ospite…con Isotta)

    Bella domanda.  La presenza è una questione che non riguarda nessuna modalità sensoriale precisa. La presenza è qualcosa di sfuggente che ha al suo interno tantissime componenti, se volessimo scomporle si potrebbe forse anche: si va dall’odore, ai ferormoni, alle vibrazioni fisiche, quelle dovute al movimento dell’aria che un corpo provoca, allo sguardo, ai rumori impercettibili che ogni corpo genera, alla proxemica, e così via.  Questa infinità di elementi si ritrova nella comunicazione umana. Non è necessario fare grandi discorsi complicati, basta riferirsi a un’esperienza che chiunque di noi può fare. In una sala concerti, in un jazz club, in un teatro, ci si rende ben conto come la presenza sul palcoscenico di un attore oppure di un suonatore o un cantate, sia un’esperienza profondamente diversa dal vedere o ascoltare un programma registrato. Anche semplicemente se si è tra amici e uno si mette al pianoforte a strimpellare o prende la chitarra e canta, si crea una profondità comunicativa che nessun metaverso riuscirà mai a replicare. Perché? Perché in qualche modo, c’è qualcosa che riguarda proprio la nostra intima umanità. Pensi che un bambino di pochissimi giorni, già al secondo o al terzo giorno di vita, conosce e riconosce gli occhi di chi si prende cura di lui ed è in grado di reagire con un sorriso o con una smorfia a seconda di come quegli occhi si muovono e che cosa gli comunicano. Non riconosce ancora la persona, perché ha una difficoltà di messa a fuoco: se dovesse vedere il profilo della madre, o del padre, o dell’infermiera, non li riconoscerebbe. Eppure, reagisce allo sguardo. Cos’è la presenza degli occhi? Ci pensi, provi a rispondere se ci riesce.

    Nel Medioevo ci fu un periodo in cui il potere centrale, del re o dell’imperatore, era molto debole mentre era grande il potere dei feudatari, delle città stato e dei comuni. Se l’autorità centrale si fosse limitata a pubblicare editti senza mai mostrarsi, dopo un po’ nessuno avrebbe più obbedito e pagato le tasse.   Non i contadini, ma i nobili, perché un nobile che non vedeva il re o l’imperatore, dopo un po’cominciava a sperare di esserselo levato di torno per sempre. Allora tutti i grandi sovrani, come i sovrani di Francia, una volta l’anno – normalmente in primavera, quando arrivava il bel tempo – si muovevano nel loro Regno andando a benedire di qua e di là i sudditi. Dopo che erano stati fisicamente in un posto, allora lasciavano frequentemente un segno, ad esempio una statua o un dipinto, che era il modo dell’epoca per essere presente virtualmente. Però, prima, era necessaria la presenza fisica. Questo è esattamente il problema che abbiamo oggi. Si può fare una videoconferenza – ci mancherebbe altro – o l’insegnamento a distanza, così come un medico, persino uno psicoanalista, può curare un paziente a distanza. Si può fare tutto, se le circostanze lo impongono. Ma il virtuale ha senso soltanto se c’è stata una presenza prima, se la persona ha percepito almeno una volta la presenza fisica del corpo dell’altro. Questo perlomeno è valido per tutte quelle professioni dove il rapporto umano è fondamentale.

    Devo dire, che questo è vero anche per l’informatica, come ho notato personalmente: manca il concetto del team. Cioè, non si lavora più “in team”, dopo più di due anni praticamente sempre a distanza, e non ci si vede personalmente, ma si lavora come somma di individualità.

    Il nostro mondo sta procedendo verso la digitalizzazione e dematerializzazione di tutto.
    A partire dal denaro, sino ai rapporti umani, all’educazione, alla medicina, noi viviamo in un mondo che si sta progressivamente dematerializzando, persino il sesso è per buona parte dematerializzato e masturbatorio.
    Le persone saranno pure soddisfatte, non lo discuto, ma sono anche sempre più rincretinite.
    E, oltre un certo livello di stupidità, viene minacciata anche la felicità, perché la felicità richiede comunque un minimo di intelligenza per apprezzare le cose che abbiamo intorno. Per apprezzare il piacere della vita, un po’ di intelligenza ci vuole e invece più si dematerializza, più si diventa stupidi e infine infelici. Quindi, per concludere tornando alla sua domanda iniziale sullo stato di salute degli italiani, la mia risposta è che, se la salute ha a che vedere in qualche modo con la felicità, allora c’è davvero da essere preoccupati.

    Anna Crispino, napoletana, nata nel 1972, canta per amore della musica. Vive e lavora a Roma, impegnata nel sociale. Arte terapeuta ad indirizzo psicofisiologico integrato, musico-terapeuta, counselor, mediatrice familiare con esperienze in ambito socio-sanitario. Ha lavorato con minori a rischio, pazienti psichiatrici, Alzheimer e donne che hanno subito violenze. Ha collaborato con l’Aref (Associazione per la Ricerca sulla Epilessia Farmaco resistente – Onlus) per un progetto di musicoterapia nei reparti neuropsichiatria e neurochirurgia infantile del Gemelli di Roma.

    Anna Crispino, “Carlo Delle Piane. L’uomo che amavo”, ed. Martin Eden, 2023 pag.61

    Da tutte queste esperienze ho capito che l’arte e la musica riescono a tirar fuori il non-detto da tutti noi e ci sollevano dalle pene

    Anna, volevo partire dai tuoi dati biografici e dal tuo percorso professionale ma, trovando molti riferimenti e riflessioni nel tuo bel libro pubblicato lo scorso anno dalla casa editrice napoletana Martin Eden “Carlo Delle Piane. L’uomo che ho amato”, partiamo da questo che per me è stata una vera carezza per l’anima. Pupi Avati, che ne ha curato la prefazione, lo ha definito un  “diario d’amore”.  Puoi dirci cosa ti ha spinto a scrivere questo libro ?

    Il voler omaggiare un grande attore, sicuramente. Dato che già esisteva una biografia di Carlo in cui l’artista era già stato raccontato, mi interessava raccontare l’uomo, con le sue fragilità, le sue passioni e le sue malinconie. Soprattutto volevo raccontare l’incontro speciale tra due anime che seppur diverse su alcuni punti di vista, erano anche molto simili. È stato incisivo l’incontro con la casa editrice Martin Eden, che mi ha proposto di fare questo omaggio a Carlo e con la loro sensibilità e l’attenzione che ho trovato mi ha permesso di dare forma a questo libro che per me è stato anche in qualche modo terapeutico, un’elaborazione della separazione.

    Nel libro parli di come hai conosciuto e ti sei innamorata di Carlo Delle Piane, che poi avresti sposato nel 2013 e che tutti conosciamo come protagonista del cinema italiano in oltre cento film con grandi registi. Mi ha colpito la casualità e nel contempo l’importanza che questo evento ha avuto nella tua vita, quasi come una profezia che si autoavvera. Non a caso il capitolo s’intitola  il “Volo dell’Anima”. Puoi dirci qualcosa di più su questo incontro e le tue riflessioni a riguardo?

    Penso che l’incontro tra me e Carlo non sia stato un caso. Ci siamo incontrati in un luogo (l’ex-manicomio di Santa Maria della pietà) dove per la prima volta avevo messo piede, perché ero andata a fare una passeggiata e a leggere, mentre invece Carlo era a fare delle prove. In tanti anni io non ero mai andata e neanche lui. Conoscendo Carlo, probabilmente se non fosse stato per lavoro non ci avrebbe mai messo piede, e quindi questa sincronia di trovarci lì, in quel posto, a quell’ora, mi ha fatto sempre pensare che sia stato il destino. Fu un incontro magico, ritrovarmi davanti il mio attore preferito mi spiazzò, ma mai avrei immaginato che le cose avrebbero preso la forma che poi hanno preso. La vita ha fatto sì che ci incontrassimo e che condividessimo un pezzo importante delle nostre esistenze.

    Qual è stata l’importanza di Napoli, la città in cui sei nata, per la tua vita e la tua carriera artistica? In realtà, sempre nel libro, si parla nel capitolo “Le città amate”, di tanta altre città, ovviamente Roma, dove vivi e lavori, poi di Firenze, Alghero e Parigi.  A ciascuna sono legati dei ricordi e ognuna ha rappresentato qualcosa di importante. Ce n’è qualcuna particolarmente significativa di cui vuoi parlarci e che rappresenteresti con una parola o un’immagine?

    Nascere a Napoli è stato sicuramente un dono. La città è stata centrale nella mia vita, anche per la musica napoletana che è molto rappresentativa per me e che sicuramente mi ha salvato. Se dovessi rinascere lo farei sicuramente a Napoli, che è un luogo sacro e unico fatto di accoglienza, generosità e bellezza.

    Per quanto riguarda le altre città citate, ognuna di esse ha un posto speciale dentro me, ma sicuramente Parigi è la città che più di tutte è stata importante. È stata il sogno che mi ha salvato, come si capisce anche nel libro.

    La tua attività professionale è molto eclettica e varia, cantante, arte-terapeuta, counselor, mediatrice familiare e impegnata nell’ambito socio-sanitario. Puoi raccontarci il tuo percorso artistico e professionale e come si coniuga a quello di cantante?

    Il mio percorso artistico nasce da molto lontano, nel senso che ero ragazzina e già cantavo nei locali. Ricordo che cantavo Mina ogni sabato sera, portando questo repertorio con un pianista. Poi ho scelto la musica napoletana, ho studiato canto e man mano il sogno ha preso sempre più forma con diversi artisti, fino al maestro Colicchio con cui abbiamo dato forma a diversi spettacoli in diversi teatri, anche con lo stesso Carlo. Parallelamente, avendo sperimentato la musica anche come forma terapeutica per andare a lenire alcune ferite e dolori dettate da esperienze di perdite premature della mia vita, sentivo anche il bisogno di trasformare questo dolore in una risorsa. Fin da ragazzina ero molto portata ad aiutare gli ultimi e chi era in difficoltà, atteggiamento che viene

    dalla mia famiglia nella quale respiravo sempre grande generosità. Facendo degli studi specifici all’università ho poi iniziato a lavorare prima con i minori a rischio, poi nell’ambito psichiatrico, poi con i bambini oncologici al Gemelli, specializzandomi poi in Arteterapia a indirizzo psicofisiologico integrato alla Sapienza e, ancor di più con la specializzazione in Musicoterapia, ho unito le mie grandi passioni: la musica e la psicologia.

    Nel tuo libro sono citate diverse canzoni ed autori, da Aznavour a Battiato da Billie Holiday a Jacques Brel, colonne sonore della tua vita. Qual è quella che in particolare ti è più cara?  Ma ci piacerebbe sapere quella del tuo repertorio che ti piace più cantare o meglio ti rappresenta.

    Molto difficile scegliere. Sicuramente La cura di Battiato, un brano che ascoltavamo sempre io e Carlo e che incidemmo con l’aiuto di Franco, che oltre a essere un artista eccezionale è stato anche una figura importante nella mia vita. Sono però molto legata anche ad Aznavour. Tra le canzoni che canto non posso che citare Maruzzella che è stato il mio cavallo di battagli fin da bambina, il mio stesso soprannome è Maruzzella. L’ho fatta in tutte le versioni possibili. Dovendo scegliere una sola canzone quindi dico questa anche per l’aspetto affettivo e per l’amore che ho per Carosone.

    Nel libro parli di come la passione per il canto sia andata di pari passo con il lavoro di arte terapeuta, generando anche un conflitto interiore che hai cercato di “sanare” in qualche modo, almeno da quello che ho colto, specializzandoti in musicoterapia. Ci potresti spiegare meglio in cosa consiste questa tua attività?

    La musicoterapia, come ho già detto nella domanda precedente, rappresenta la cura attraverso l’arte basandosi su un modello specifico, quello del professor Vezio Ruggeri, che è un modello psicofisiologico. Il professore sottolinea come mente e corpo siano una cosa sola e andando a lavorare sul rilassamento andiamo a lavorare anche sulle emozioni. Meno tensioni abbiamo e più emozioni rilasciamo e andiamo a riscrivere la nostra storia anche con una postura diversa nel modo in cui stiamo nello spazio. Non è facile da spiegare a voce, il mio è un lavoro che si basa sull’esperienza, fatto di alchimia. Non preparo nulla prima di fare i laboratori, perché in base alle persone che ho propongo un certo tipo di esperienza. Sicuramente la poesia è uno strumento che uso molto, attraverso la scrittura si fa una fotografia di un momento e si ragiona su cosa si può fare per stare meglio. Il lavoro è fatto attraverso l’ascolto della musica, le immagini, il movimento, l’ascolto. Si lavora su tutto il corpo, dallo sguardo al movimento delle mani e si usa molto l’immaginazione perché tutto ciò che si immagina è.

    Il libro è strutturato in undici capitoli, ciascuno aperto da un passo di una poesia o da una riflessione di un intellettuale. Puoi dirci come li hai scelti, se c’è un filo conduttore e se magari ce n’è qualcuno che ti è particolarmente caro ?

    Mi sono confrontata con l’editore, con cui abbiamo lavorato con una grande intesa e ascolto reciproco. Sono tra gli autori o le citazioni che preferisco. Sicuramente Bobin è quello a cui sono più legata. Riesce sempre a commuovermi ogni volta che leggo una sua opera. Purtroppo è venuto a mancare poco tempo fa, una grande perdita sul piano del nutrimento dell’anima. Il filo conduttore è dare voce all’anima, qualcosa che ho voluto condividere con gli altri perché la poesia per me è un modo per esprimersi e andare in profondità.

    Il libro è dedicato a tua madre, tua figlia e ad Andrea Purgatori. Di tua madre mi ha colpito molto la sua dipartita nel giorno del tuo 11° compleanno, cosa che ti ha segnato per tutta la vita, come credo quel ventitré agosto del 2019. Puoi dirci di più anche sulla tua amicizia con Andrea Purgatori, la cui recente e improvvisa  scomparsa ci ha colpito tutti inaspettatamente anche per le modalità con cui è avvenuta?

    La perdita di Andrea Purgatori come professionista è stata grande per tutti quelli che lo conoscevano attraverso i suoi scritti e i suoi programmi, come ogni volte che si perde una persona di tale integrità e serietà. Per me è stata una perdita personale, è stata una persona importante nella mia vita e ancora sto elaborando questa separazione avvenuta come uno strappo, proprio come quella di mia madre. Mentre Carlo l’ho accompagnato alla morte standogli vicino fino all’ultimo, nel caso di Andrea è stato come un fulmine a ciel sereno. Un momento molto difficile arrivato nel momento della chiusura del libro ed era giusto omaggiarlo e ricordarlo, perché le persone che abbiamo amato vivono attraverso il ricordo e gli affetti.

    Cosa significa custodire la memoria di una persona come Carlo Delle Piane che, al di là del suo privato con una grande e complessa personalità che pur è inscindibile dall’attore come ben si evince dal tuo libro, è stato un grande interprete pluripremiato del cinema.

    Custodire la memoria di Carlo è un grande dono della vita e anche una grande responsabilità. Come dicevo nella domanda precedente, ci sono persone che hanno lasciato un segno perché hanno amato quello che facevano e sono arrivati al cuore delle persone emozionando. Hanno toccato corde che ci hanno permesso di metterci in contatto con parti nostre nascoste, ci hanno fatto sognare, ci hanno reso la vita più leggere per certi versi. Ecco perché sono sempre pronta a ricordare Carlo e ringrazio molto la casa editrice Martin Eden e tutto il gruppo di lavoro che mi ha sostenuto perché è bello quando giovani così vogliono fare un omaggio ad un attore anziano che però ha dedicato settant’anni di vita al cinema. È veramente un gesto d’amore

    Nel ringraziarti per il tempo che ci hai dedicato e raccomandando il tuo libro, ci lasciamo con un’ultima domanda sui tuoi progetti futuri sia artistici sia professionali nei vari campi a cui ti stai dedicando e se hai qualcosa  di particolare su cui stai lavorando o che ti sta a cuore comunicarci.

    Sono io che ringrazio voi, persone che danno spazio alla culture e all’arte. Per quanto riguarda i progetti futuri sicuramente continueremo a portare il libro in giro, proprio nei prossimi giorni andrò a Parigi per parlare di un’eventuale presentazione. Sto preparando dei concerti dove farò degli omaggi a Carlo. Partiranno dei progetti nelle carceri per l’educazione al sentimento, legati alla violenza sulle donne, che ho dedicato ad Andrea Purgatori. Poi altri progetti legati alla musicoterapia che partiranno quest’anno, la collaborazione con il Gemelli e con l’associazione Aref. Cose in cantiere che spero possano prendere forma e farmi continuare il lavoro che amo, sia quello di cantare che quello di curare, e per lo meno far del bene, con la musica.

    Vi ringrazio ancora di cuore e un in bocca al lupo per il vostro giornale, a presto.

    ** Le opere fotografiche sono state gentilmente concesse dall’artista **

    Nicoletta Latteri, scrittrice ed archeologa, nasce in Germania da padre italiano e madre tedesca. Laureata in Archeologia all’università di Bonn, si trasferisce a Roma per questioni di studio, dove resta per amore della città. Dopo un brutto male, decide di scendere in politica per poter incidere maggiormente sulla difesa dei Beni Culturali e la Cultura del territorio. Ex Presidente della Commissione Cultura dell’VIII Municipio di Roma, oggi si batte in difesa della creatività e del patrimonio storico-artistico italiano.

    L’abbiamo incontrata in occasione del suo nuovo romanzo, Rosso Romano.

    Gentile Nicoletta, ci può descrivere, innanzitutto, il Suo stato d’animo, le Sue sensazioni personali? Come sta vivendo questi giorni così unici della nostra storia? 

    Difficile da dire, pensavo di essere forte e superare il tutto abbastanza indenne, però non è proprio così, la realtà è sempre diversa da quanto si crede. Mi è sempre stato chiaro che il mondo in cui viviamo non fosse così sicuro e consolidato come ci piace credere, ma vederlo crollare in così breve tempo è tutt’altra cosa.  Inoltre penso che il peggio debba ancora venire, perché andiamo incontro a una crisi economica senza precedenti. Alla fine ce la faremo perché siamo maestri nell’arte di arrangiarci, però sarà dura.

    Veniamo subito al Suo bel libro, “Rosso Romano”. Che tipo di viaggio personale ha compiuto per scrivere questo libro, che viaggia tra le mura della città eterna ed apre a ragguardevoli combinazioni di spazi e visioni?

    Diciamo che avevo cominciato a scriverlo già prima della quarantena, però era solo sbozzato. Rosso Romano è stato scritto durante il lockdown e quindi in qualche modo ne risente, vi è questa sensazione di muoversi ai bordi di un baratro. Più che un viaggio personale, ho voluto descrivere una Roma fatta di mille voci diverse e corali allo stesso tempo, che per quanto brutale ha il dono unico di riuscire a rimanere umana. Per questo come protagonisti ho scelto dei ragazzi dei nostri giorni che cercano di guadagnare qualcosa per mantenersi agli studi, l’unica particolarità è che lo fanno compiendo furti d’alto livello, e a un certo punto, loro malgrado, sono costretti a confrontarsi con la pressione passato e con la violenza delle lobby di potere odierne.

    In qualche modo la stessa città di Roma in Rosso Romano assume la dimensione di un personaggio ingombrante, un Giano bifronte, che può essere sia benevola che sanguinaria.

    Una prima impressione che abbiamo avuto di questo Suo testo riguarda la sensazione che l’autrice voglia farci “annusare” il mondo della Chiesa, molto legato agli affari materiali piuttosto che alle grandi questioni spirituali… ci sbagliamo? 

    No, ho voluto seguire un certo realismo, il romanzo mostra una Chiesa divisa tra affaristi e chi si impegna sul territorio e cerca realmente di aiutare chi è in difficoltà. Un’antica lotta intestina della Chiesa, in fondo niente di nuovo.

    Anche da un punto di vista squisitamente metafisico, nel libro si percepisce l’attenzione di un certo mondo ecclesiastico nei confronti dell’immaginario esoterico, che distorce il senso del messaggio cristiano…

    Se si va a visitare l’Appartamento Borgia nei Musei Vaticani, si può ammirare una bellissima collezione di simboli e messaggi esoterici. Fa parte della storia della Chiesa che ha combattuto l’esoterismo e in parte ne ha subito il fascino, non dobbiamo dimenticare che la Chiesa, soprattutto quella antica, è stata molto eclettica e ha sempre assorbito molto dal mondo circostante. Nel romanzo si parla anche di alchimia, che, prima di essere condannata, era ampiamente praticata dagli ecclesiastici, S.Tommaso d’Aquino e S.Alberto Magno ad esempio erano grandi alchimisti. Con questo voglio solo dire che le cose, anche metafisiche, non sono sempre tutte nere o tutte bianche e che un po’ di esoterismo non incide sul messaggio evangelico che ha tutt’altre basi.

    Molto accattivante è comunque la figura della volpe, alias Marco, che dopo aver viaggiato tra operazioni di riciclaggio di denaro sporco attraverso le opere d’arte, sembra giungere ad una volontà di redimersi. Si è ispirata a qualcuno o a qualche situazione particolare nel tratteggiare questo personaggio?

    Ammetto di essermi ispirata ad Arsenio Lupin di Maurice Leblanc e alla sua versione moderna di Lupin III. Il mio romanzo ha forti influssi manga nella concezione delle scene e dei personaggi, questo perché mi ha sempre affascinato la capacità creativa dei manga e l’originalità delle storie narrate o meglio disegnate che non trova eguali in altri ambiti artistici. Nel mio romanzo c’è molta fantasia, ma non credo di arrivare ai manga o anime. 

    Comunque ha colto nel segno, c’è una forte volontà di cambiare vita nel personaggio principale, ma anche in altri secondari, cosa che continuerà negli episodi successivi, dove, senza spoilerare, la banda della Volpe diventerà qualcosa di simile ai “Monuments men”.Chiudiamo con una curiosità personale. Quale attore immaginerebbe nell’interpretazione della volpe se dal Suo libro un giorno venisse ispirato un film?
    Domanda difficile, La Volpe è un tipetto particolare né bello né brutto, il bello di Rosso Romano è Raffaele il killer e volendo anche il frate che fa l’hacker è più bello del protagonista, forse pensando ad un attore italiano… Fabio Rovazzi.

    Nora Lux è un’artista romana che proviene da studi psicologici ma con una formazione multidisciplinare che prosegue all’Accademia delle arti e nuove tecnologie. Artista trans-mediale che spazia dalla fotografia, al video, alla performance, dalla poesia alla musica con forti richiami allo sciamanesimo e al femminino sacro, attraverso simbologie esoteriche che rimandano ad Ermete Trismegisto.

    Vent’anni di ininterrotto lavoro nella natura, in cavità e nelle profondità della terra per narrare la storia del femminile nella nostra anima: il percorso artistico di Nora Lux inizia con opere in bianco nero in pellicola e prosegue con immagini di sé stessa come Dea Madre nelle vie sacre e negli ipogei degli etruschi. Il lavoro evolve successivamente in azioni performative che, nell’approccio dell’autrice, rappresentano il naturale sviluppo degli autoscatti.

    L’originalità di queste “azioni” consiste nell’essere veri e propri rituali di sintonizzazione con le energie dei luoghi, riti che possiedono la funzione di immergere l’artista nell’inconscio collettivo e nel consentirle di conquistare e trasmettere al pubblico il frammento di una nuova conoscenza. Proprio nel corso di una di queste “azioni”, infatti, mentre assumeva la ieratica posizione della potente Dea Madre, l’artista ha trovato il riferimento Totemico: un corvo, simbolo dello stato iniziale dell’opus chiamato “Nigredo”.

    Da questa dimensione di oscurità, Nora Lux ha integrato nuove figure di comunicazione spirituale tra la terra e il cielo, come il pavone (Albedo) e l’aquila (Rubedo), simboli di trasformazione presenti nel suo Vitriolum (2017-2019). Fotografia e performance si compenetrano poiché per l’artista non c’è confine tra l’agire e il momento fotografico. Ciò che porta in scena nelle performance è il risultato delle sue esplorazioni, l’autoscatto è un momento vissuto con e nella natura. L’elemento Terra e le grotte della civiltà etrusca, dove la donna era la più libera delle società antiche, sono i luoghi della metamorfosi, passaggi ctoni, simboli della profondità dell’inconscio.

    La fotografia può fissare l’eterno, il suo proposito è più ambizioso, lasciare scorrere, permettere al tempo di passare, non fermarlo e dominarlo ma, creare con esso e su di esso, sfuggire alla vocazione naturale di specchiarsi nell’obiettivo fotografico per attingere ad un altro universo, quello degli Dei, e più specificatamente a quello della Grande Dea, influenzata dalle teorie di Marija Gimbutas, e dall’indagine di Erich Neumann sull’archetipo della Grande Madre e i Simboli della trasformazione di Carl Gustav Jung.

    Nora, ci siamo conosciuti in una tua nuova iniziativa, SpeculumamoriS, di cui dopo parleremo. Mi ha da subito incuriosito la tua arte con i suoi forti richiami primordiali. Puoi raccontarci come è cominciato il tuo percorso?

    E’ iniziato tutto all’età di 8 anni quando mio padre mi regalò una macchina fotografica.  In famiglia c’era uno zio intellettuale che mi portava spesso nei musei dove mi affascinavano le statuette che poi ricollegai alla Dea madre, come divinità femminile e primordiale. Questo è stato il primo germoglio, da cui è scaturito il Maestro Albero della mia arte ma, direi forse della mia vita. Le radici si sono formate all’Accademia delle arti e nuove tecnologie e l’albero è continuato a crescere, alimentandosi con l’interesse per le civiltà preistoriche e gli etruschi. In quest’ultimi, il principio femminile fu massimamente celebrato e coincise con il diffondersi dei culti misterici e delle civiltà matriarcali, che ho poi approfondito con gli studi dell’antropologa e archeologa Maria Gimbutas.

    Ho iniziato il lavoro sul corpo in Accademia, fotografandomi in pellicola, l’uso della fotografia analogica, del bianco e nero con i suoi contrasti, mi proiettava in una dimensione intima e oscura,  vedevo me stessa in luoghi rarefatti, abbandonati, misteriosi.

    Passavo giornate intere nei luoghi che sceglievo, spesso ci dormivo anche. Nel 2008, suggestionata dal Film di Pasolini “Il Vangelo secondo Matteo, mi sono recata a Matera nel parco della Murgia, fotografandomi principalmente nelle Chiese Rupestri, e ho realizzato la mia prima immagine iconica di nudo in natura “Mater Lacrimosa”.

    Da questo momento ogni mia foto è creata in ambienti esterni, la Natura, che non ho più lasciato, diventa la mia scenografia ed inizio ad ambientare la GRANDE DEA in Etruria (Toscana, Alto Lazio e Umbria). Prediligo ancora oggi le zone tufacee del triangolo magico tra Pitigliano-Sorana-Sovana, area di insediamenti etrusco-romani, all’interno di cavità, grotte e boschi, in 15 anni di lavoro negli stessi luoghi.

    Oltre al rapporto con la Natura e con gli elementi primordiali, prevale la dimensione della trasformazione, sia del corpo sia del paesaggio, come si può vedere dall’evoluzione storica degli autoscatti. C’è una tensione tra la foto che vuole eternizzare ed il divenire del tempo che è anche ciclico. Anch’io seguo questa ciclicità come Persefone, che passava sei mesi dell’anno (autunno e inverno) nel regno dei morti e negli altri sei mesi (primavera ed estate) andava sulla Terra da sua madre Demetra, facendola rifiorire al suo passaggio.

    Le feste solstiziali hanno infatti avuto nel tempo, la funzione di ricordare all’uomo che il continuo ripetersi della morte e della rinascita del Sole è per analogia l’avvicendarsi della morte e della rinascita della vita.

    Anche per me il periodo primavera-estate è quello di massima espressione e produzione artistica mentre quello invernale è più dedicato al ritiro spirituale e allo studio.

    A proposito di solstizi, sappiamo che il 21 dicembre prossimo, giorno del sol invictus, presenterai il progetto SIGILLUM alla Galleria Canova 22. Ce ne potresti parlare, illustrando le novità e come si inserisce nella tua composita produzione artistica?

    Con la performance SIGILLUM il corpo è medium tra microcosmo e macrocosmo.

    La Performance si inserisce all’interno del progetto Close Up promosso da Roma Capitale Assessorato alla cultura con “culture in movimento”, curato dal dipartimento Attività culturali in collaborazione con Siae, in una delle location più suggestive della capitale, la Galleria Canova 22, diretta da Fiorenza D’Alessandro e Franz Prati.

    L’Azione è L’Hypostasis greca, la persona in quanto unica “icona divina”. Dialogherò con una mia opera, una fotografia che con la tecnica del mapping verrà proiettata sull’intera galleria.

    L’immagine, un autoscatto realizzato nella grotta perciata, maggiore esempio di grotta a scorrimento lavico dell’isola di Ustica, descrive il flusso di magma vulcanico che cambia forma e temperatura come il corpo è fluido e solido. Il corpo scenico di carne e ossa in performance genera un nesso con il versetto della Genesi 2,23: “Questa è osso dalle mie ossa e carne della mia carne”. Creo attraverso il simbolo un corpo che diventa oggetto della vita psichica sigillata nell’essenza del femminile e del maschile insieme in correlazione con i recenti fatti di cronaca riguardanti i femminicidi e la guerra in Palestina. Gli elementi sono incarnazioni terrene dei principi cosmici, così il mio corpo costruisce all’interno dell’opera fotografica un’inclusione totale con gli elementi. Il corpo formato da calcio, fosforo, sodio, potassio, magnesio e ferro unito alla roccia lavica richiama lo stesso ferro presente nel sangue. Il nucleo di ferro fluido della Terra con l’eruzione si manifesta nelle rocce magmatiche con le quali il mio corpo si confronta.

    Gli uomini sono il piccolo mondo, perché legati alla Natura del Mondo. L’universo è il grande mondo, il Macrocosmo. Nella performance SIGILLUM attraverso l’immagine, la geometria sacra, il suono, la voce e il CORPO, come specchio ed eco di ciò che è stato violato, unisco Terra e Aria, Fuoco e Acqua.

    Potresti sintetizzare il senso della ricerca alla base della tua espressione artistica?

    Come dicevo in precedenza, la mia ricerca nasce dalla fotografia che si “muove” parallelamente alla perfomance art, la quale negli ultimi anni è diventata un’espressione necessaria quanto le opere fotografiche che realizzo in Natura.

    Il progetto UNUS MUNDUS (2020) mette in evidenza questa corrispondenza, dal quale emerge l’evoluzione della mia espressione, la fotografia e la performance, prioritari nel mio fare, dialogano sempre di più.

    Sacralità e Ambiente, retaggi antichi e connessione con il mio corpo, linguaggio alchemico e geometrie sacre. La consapevolezza che ciò che è dentro di noi vive anche al di fuori, in un rapporto di integrazione e unione continua con la natura, il sole, la luna, le stelle.

    C’è un senso altro che muove il mio operato ultimamente, qualcosa che si avvicina alla purezza del fuoco. Bruciando puoi distruggere, se non compensi e mitighi con altri elementi, oggi la sfida è proprio questa, vivificare per perfezionare, sottraendo.

    Il fuoco è interno alle cose e esterno, è nel cuore della Terra e nei raggi del sole ed ogni cosa si trasforma, si muove e diviene come il fuoco.

    Con riferimento al genius loci, ci puoi parlare del tuo progetto “site-specific” TEMPLUM iniziato nel periodo pandemico in Puglia, nel sito preistorico più grande di Europa? e della visione cosmica, in particolare quello su cui sta lavorando attualmente

    In uno spazio dove sono raccolti e consacrati i segni, nasce la mia visione del progetto artistico TEMPLUM.

    Il Templum è un concetto etrusco, la stessa Roma città in cui sono nata e fondata da Romolo, primo Re Etrusco, viene edificata con il tradizionale rito di fondazione delle città etrusche. Il Templum è una divisione spaziale e temporale praticata in una determinata area, per estensione il Templum diverrà il tempio che conosciamo oggi, cioè la costruzione che si edifica sul luogo precedentemente augurato e reso sacro.  Questo augurare un luogo significa anche dare una centralità ispirata dal luogo.  Percorro sempre la stessa modalità che utilizzo nel progetto TEMPLUM poiché è divenuto un metodo performativo. Ogni cosa procede secondo una geometria e attraverso le ombre che il sole proietta nel cerchio, costruisco una vesica piscis, immagine iconografica sacra, mediazione tra cerchio e quadrato, i cui assi individuano l’orientazione dei futuri cardo Nord-Sud: asse del mondo e decumanus Est-Ovest: traiettoria dell’eclittica. Gli assi del Tempio Sacro.

    TEMPLUM inizia in Puglia, nel sito neolitico più grande d’Europa, dove svelo una delle modalità d’azione che attraverso questo progetto diviene chiaramente visibile a tutti. Interpreto un mondo arcaico. Il mio corpo ricettacolo di energie cosmiche divine soglia medianica tra mondo sacro e profano. Nella grande pianura del tavoliere delle puglie, all’interno dell’area neolitica ripercorro i segni di ocra rossi, corrispondenti alla costellazione di Cassiopea, iconografia presente sul busto della statuetta della Dea sciamana, simbolo di sangue e di vita.

     Se il tempo, dice Platone, “è l’immagine mobile dell’eterno e l’istante è l’eterno, dove futuro e passato non esistono”, nell’istante in cui l’augure contempla fissando il Templum diviene tutt’uno col Dio, entra nell’eterno, nell’essere, il quale poi lascia segni indiscutibili di verità e presagio”.

    In TEMPLUM II risalgo le scale dell’unica Piramide etrusca presente in Italia, l’altare rupestre più grande d’Europa, con in mano una pietra rosso sangue, inverto il rito di scolatura del sangue, rianimando le vittime sacrificali. Dal sangue degli animali l’anima trasmigra nelle pietre che percorrono al contrario il destino infausto elevandosi in una propositiva e trasmutata nuova esistenza, non solo simbolica, ma incredibilmente reale. In questo mio gesto rinnovo e mi affido ad una metafora concreta, sui temi della vita sotterranea del mondo etrusco, proseguendo il percorso sulle tematiche della  Dea Madre. In TEMPLUM III, rappresento Cerere chiamata la Nera, Demetra per i greci e, Vei per gli etruschi. Il nero è il colore della fertilità, che spiegherà in seguito il proliferare In Europa delle Celebri Madonne Nere, che non a caso erano dotate di virtù curative. La Terra fertile di Cerere e la Lava vulcanica il cui principio è il fuoco si congiungono, ma il sale della Terra è L’anima, “Quell’acqua divina, aqua permanens che dissolve e coagula” la sostanza arcana che trasforma e al tempo stesso è trasformata, la natura che vince la natura.

    In TEMPLUM il concetto di sacro è in continua evoluzione, in correlazione al rapporto che stabiliamo con gli elementi naturali e la rotazione dei corpi celesti. Realizzo, infatti, le azioni performative e le fotografie rispettando una divisione spaziale e temporale, seguendo concetti di assialità e orientamento. In questo senso sento di essere arrivata all’alba di un procedere nuovo in cui l’osservazione degli oggetti astronomici, dello spazio, e della natura è parte fondamentale del tutto, e nelle azioni performative è particolarmente evidente poiché si partecipa attivamente ad un modello cosmologico.

    Ci potresti illustrare meglio i tuoi punti di riferimento artistici, alcuni di natura antropologica, psicologica e magari filosofici che sono alla base della tua ricerca ed espressione artistica?

    Nell’Europa del Neolitico la società poneva la donna al centro della vita sociale e la Dea all’apice del Tempio degli Dei, poiché la donna porta e genera la vita e la divinità della Terra che dà nutrimento. Maria Gimbutas connette il rispetto sociale per il femminile al rispetto profondo religioso, la venerazione di Dee, dichiarando che le società matrilineari dell’Europa Antica rispettavano sia le donne mortali che le divinità femminili.

    Molte di queste statuette sono acefale, puoi proiettare su di esse.

    Mi viene in mente la testa della “Venere” di Willendorf una sfera granulosa e omogenea, come anche la “Venere” di Lespugue dalla forma ovale allungata, o le statuette di Grimaldi, il Bassorilievo di Laussel e molte altre.

    Insieme alle statuette e ai bassorilievi le pitture preistoriche mi hanno sempre affascinata, segni disordinati che arrivano fino a noi con una composizione tangibile ai nostri occhi di un’epoca remota che appare vicina. In questo ho sempre intuito l’Arte, e anche per questo senso di appartenenza che proseguo il mio percorso artistico. Dopo molti millenni questi uomini e queste donne continuano a parlarmi mi assomigliano e tuttavia hanno trasformato loro stessi si sono fatti medium.

    Nelle pitture preistoriche i pittogrammi annunciano immagini di animali e non di loro, l’annullamento della rappresentazione dell’uomo rispetto a quella dell’animale mi stupisce ancora portandomi dentro emozioni dal carattere sospeso.

    Le tue performance e le tue opere fotografiche sono ricche di richiami ancestrali, esoterici, sciamanici che ci riportano a riflessioni intime ed universali allo stesso tempo.  Qual è la motivazione alla base ed il messaggio che intendi portare?

    È innanzitutto una necessità che mi sospinge, un’urgenza, e per questo creo, trasformo, scompongo e ricompongo, non so se c’è un messaggio che intendo portare ma, spero di riuscire ad evocare la Grande Dea, attraverso gli scenari della civiltà etrusca, e della natura tutta, tramite le simbologie della tradizione alchemica occidentale, in maniera sia esoterica che essoterica.

    Il culto della Dea Madre di cui parlo abbondantemente nella risposta precedente muove il mio operato da anni, e se pensiamo che questo culto dal neolitico si estende per tutto il paleolitico in un arco temporale che va dai 40.000 anni a.C. ai circa 3000 a.C. più o meno quando inizia la scrittura, è davvero un periodo vastissimo, nulla in confronto ai miei 20 anni di ricerca, nonostante la costanza.

    Le statuette delle “Veneri” dalle quale riprendo le posizioni e il dialogo Sono figure di donne enigmatiche che stimolano la mia immaginazione interpretativa, statuette silenziose, così come le opere fotografiche, “aliene”, che lasciano nell’ombra ciò che invece la nostra società mette in risalto.

    Probabilmente attraverso le tematiche che indago, metto in luce sia la società patriarcale che ci ha condotti ad ogni femminicidio ma, anche la responsabilità personale oltre le dinamiche sistemiche, strutturali.

    Il corpo della donna è portatore delle generazioni future e tutte queste guerre e massacri disonorano la donna e la terra.  Noi siamo il nostro pianeta, uniti possiamo essere più recettivi e disponibili ad agire all’interno di noi.

    Stando con i piedi a Terra mi affido al mondo invisibile. Attraverso le mie azioni performative esprimo attraverso il suono il tentativo di portare il pubblico in uno stato di frequenze alfa, per alcuni anche Theta, consapevole che per svuotarci dai condizionamenti culturali che sono l’ostacolo più grande alla nostra evoluzione, possiamo attraversare stati altri di coscienza e risvegliare la visione psichica assopita, per credere in quello che percepiamo.

    La Tecnologia e la scienza non dà spazio al soprannaturale ma, gli ebrei tradizionalisti credono che Mosè parlasse con Dio, i mussulmani credono che Maometto ebbe incontri con l’arcangelo Gabriele, gli indù e i buddisti riconoscono entità, regni, intelligenze e stati di esistenza non fisici illimitati.

    La nostra conoscenza del soprannaturale nasce da affermazioni di visionari religiosi in condizioni di estasi, profeti, sciamani. L’estasi sciamanica è alla radice di ogni cultura. Nei primi momenti dopo la sua fondazione, circa 2000 anni fa, il cristianesimo era una religione sciamanica. Cristo era uno sciamano non solo perché era umano e divino aveva il dono di guarire gli infermi. Quando pensiamo alla croce del Cristo in essa c’è la morte e la rinascita, è l’iniziazione dello sciamano tramite la morte, l’agonia e la resurrezione.

    Ultimamente hai dato vita al progetto iniziatico SpeculumamoriS, a cui ho assistito alle prime due edizioni. Oltre che a un progetto artistico che ti consente di sperimentare per la prima volta il teatro e poterlo confrontare con la performance art che da vent’anni è il tuo mezzo artistico insieme alla fotografia, mi sembra di capire che sei mossa anche da una tua esigenza “spirituale” di metterti a disposizione di altri artisti, aiutandoli ad emergere. Un afflato ispirato dal testo “Lo specchio della anime semplici” della mistica medioevale Margherita Porete. Ci puoi parlare di questa esperienza e dei suoi riferimenti e di come si colloca la disciplina dell’Animazione della Spada che mi ha molto incuriosito e attirato?

    Forse oggi le mie azioni hanno una pretesa che va oltre la ricerca artistica, c’è uno spazio nuovo, che mi sono concessa che avvicina me e gli altri alla conoscenza e alla realizzazione di Sé. La Lettura del testo “Lo specchio delle anime semplici“, della mistica del Duecento Margherita Porete, è un trattato allegorico tra Amore, Anima e Ragione, come se fossero tre personaggi. Amore e Anima sono Dio e Margherita che confliggono duramente con ragione. Il testo mira alla semplicità, intesa come unica realtà, non c’è alterità dell’essere. Leggerlo è stato come far vivere in me la non-dualità, un desiderio dell’Anima, l’amore e la conoscenza sono due ali. Questa visione mi ha condotto alla creazione di SpeculumamoriS sia per un sentire intimo ma anche per dare luce a questa mistica cristiana che fu bruciata sul rogo come eretica. Attraverso la via amoris contemplare vedere e amare in gioia. Lo spirituale non è né maschio né femmina il messaggio è aprirsi alla natura propria, che è coscienza. in questi appuntamenti mensili niente va raggiunto, ma svelato. Viene l’ora ed è questa.

    La spada è una disciplina che ho imparato da Umberto Di Grazia, Maestro e Amico, Ricercatore e Sensitivo di fama internazionale, ideatore delle tecniche dell’Unione e del Risveglio® e, viene maneggiata in modo rituale sia negli esercizi meditativi che nei movimenti di combattimento, creando apposite figure geometriche nello spazio. In SpeculumamoriS, l’intervento con la spada è sempre presente per valenza del simbolo e connessione storica con la Porete, che anticipa le sorti di un’altra nota figlia di Francia, Giovanna D’Arco, anche lei bruciata al rogo, che guidata da Santa Caterina, ne impugnava una.

    La spada, secondo le credenze e le civiltà, simboleggia diversi valori ma rappresenta anche la spina dorsale dell’essere umano, dalla testa al coccige, che è la punta della lama. I simboli come Umberto mi ripete spesso, comunicano più delle parole e risvegliano informazioni addormentate ed indipendenti dalla logica.

    Portare questo simbolo, che rappresenta il potere che esercita la sua forza benefica se usata in purezza e nobiltà di intenti, per me significa trasmettere questo e molti altri messaggi a chi vorrà continuare il percorso SpeculumamoriS.

    Nel ringraziarti per il tempo che ci hai concesso, c’è qualcosa che vorresti comunicare ai nostri lettori che riguarda la tua espressione artistica oltre che di vita, alle tue direttrici di sviluppo che sembrano inesauribili o, semplicemente, un messaggio da lasciarci?

    C’è necessità di un’archeologia del rito per cogliere e ristabilire una verità collettiva attraverso i luoghi, come nei culti di fondazione e continuare a pensare e sentire. Gli algoritmi stanno ridefinendo la realtà. Le nostre informazioni danno luogo a un doppio digitale, un “gemello”, che diventa una nostra estensione. Prodotti e processi vengono ridisegnati dall’intelligenza artificiale: questo Doppelganger elettronico è lo specchio sul quale trasferiamo inconsapevolmente sensazioni, emozioni, pensieri e comportamenti che vengono catalogati in database. Attraverso di questi, coloro che immagazzinano i nostri dati studiano strategie di previsione delle nostre future azioni, dei possibili cambiamenti di direzione e persino gli imprevisti, cercando di tramutare ciò in avvenimenti prevedibili o addirittura prescrivibili. Non credo che questi processi ci aiuteranno a conoscerci meglio e ad avvicinarci maggiormente alla Madre Terra, poiché intaccano il libero arbitrio e violano il confine sacro dell’intimità umana. A questo punto mi chiedo se questi avatar alienati da noi e soggetti al controllo di invisibili padroni, potranno sviluppare addirittura una loroautonoma coscienza? Di fronte a quesiti così radicali e perturbanti sfide tanto poderose, possiamo attraverso l’unione e il risveglio della coscienza, iniziare veramente ad interessarci del nostro pianeta verde. Le specie vegetali e animali si spostano in modo imprevedibile da un ecosistema all’altro creando danni incalcolabili alla biodiversità di tutto il mondo.

    Attraverso il mito in cui c’è il senso della nostra esperienza quotidiana, recupero le immagini visibili e invisibili, è come se nei giardini del sogno s’innescasse il potere di trasformare la materia in un elemento libero. Una forma simbolica del pensiero che per analogia organizza la riflessione sull’esistenza e l’esperienza umana mediante la narrazione di eventi passati, presenti e futuri.

    *Le opere fotografiche sono state gentilmente concesse dall’artista

    Quest’intervista nasce un pò per caso.

    Una domenica davanti ad un prosecco mi ritrovo a chiacchierare con Elisa di cose normali come il lavoro, e immediatamente salta fuori una questione inaspettata: l’ansia da prestazione.

    Non ci sarebbe nulla di insolito pensando ad un universo fatto di adulti, carriera, uffici, piuttosto che della vita privata, ma che invece è tristemente riferito ai bambini. Nasce rapidamente in me la necessità di approfondire la questione e di chiarire, innanzitutto a me stessa le dinamiche che portano
    a questa condizione che ha tutta l’aria di essere una piccola silente sofferenza della nostra epoca e che porta passivamente con sé la promessa di creare una società fragile e intrisa di solitudine, una macchina con degli ingranaggi scollegati.
    Elisa Alaimo ha 43 anni, anche se ha il viso fresco e raggiante di una ragazzina. Lavora nell’ambito dell’educazione dal 2006. Dopo la laurea in Filosofia, con una tesi in antropologia culturale sulla Comunità Eritrea di Milano e sulle sue dinamiche di integrazione nel contesto urbano contemporaneo, c’è l’incontro con i Minori nelle comunità di accoglienza e i ragazzi nei corsi di formazione professionale, dove svolge il ruolo di docente di sostegno. Al riguardo mi dice: “Attraverso la relazione educativa con i giovani allievi e il supporto di docenti illuminati sono riuscita ad avvicinarmi al significato di reale inclusione (in anni in cui non era ancora un concetto così tanto diffuso), superando così quello di integrazione.
    L’esperienza tra i laboratori di elettronica ed elettrotecnica finisce circa dieci anni più tardi, quando arriva l’esigenza di fare un salto verso nuove conoscenze, apprendimenti e visioni. Ed è così che per i cinque anni successivi ricopre il ruolo di coordinatrice pedagogica ed educatrice per i più piccoli, per quella che è la “fascia 0-6”.

    Cosa ti sei portata a casa di quegli anni?
    Sono stati anni decisivi e fondamentali, di visioni nuove, aperte davvero alla centralità della persona, dei suoi bisogni, con i propri tempi e con i propri processi. Gli anni insieme ai bambini, vissuti all’altezza dei loro sguardi mi hanno ridato l’energia e la sicurezza per tornare nel mondo degli adolescenti, così tanto vicini, così tanto lontani, così sollecitanti.
    Attualmente sei docente di sostegno specializzanda presso l’Università di Torino (TFA VIII° ciclo), come descriveresti questa esperienza?
    A dir poco impegnativa! | nostri docenti definiscono noi studenti in vari modi: acrobati tra le nostre vite, ponti tra le istituzioni, ma la definizione che preferisco è “attivista dei diritti umani”, perché lavorare per un mondo più inclusivo e più giusto è davvero ciò che finalmente rende piena la mia vita, chiara e colma di significato.
    Quando abbiamo chiacchierato quella domenica mi ha colpito molto il fatto che tu abbia fatto riferimento all’ansia da prestazione dei giovanissimi, ho sentito la stessa sensazione di quando fai degli esami approfonditi e il dottore ti conferma una diagnosi, che sospettavi ma che speravi in fondo di poter scongiurare: quell’impressione che la società in cui viviamo non goda proprio di ottima salute. Che cosa sta accadendo?
    L’ansia da prestazione è assai diffusa tra le nostre classi, fin dai primi anni della scuola primaria. lo stessa, da docente, sono testimone quasi quotidianamente del disagio che i bambini provano di fronte ad un insuccesso, ad un voto non corrispondente alle aspettative, alla paura di deludere gli affetti più significativi. La paura più grande è quella di perdere valore dinnanzi ai propri genitori. Come se l’affetto e l’amore famigliare fosse commisurato al giudizio a seguito di una prova. Ciò non corrisponde alla realtà, eppure nel bambino si fa, spesso, strada questo pensiero. | fattori sono molteplici, da una società sempre più competitiva, al tempo passato in famiglia, che tra i vari impegni di genitori e figli è sempre meno.
    Molte volte confrontandomi con i genitori e raccogliendo i racconti dei bambini mi sembra che mamma, papà e figli si conoscano (o riconoscano) davvero sempre meno, così il voto o il risultato di qualunque prova diventa il dato tangibile del “chi si è?”. La mia è sicuramente un’opinione ma ritengo abbastanza ‘verosimile che le famiglie facciano molta fatica a capire i reali bisogni dei propri figli, a comprendere i processi che sottendono all’agire dei loro bambini e quindi le loro personalità. Forse se si iniziasse a dare valore e significato ai processi più che ai risultati (e uso il noi perché, a mio avviso, anche noi docenti dovremmo ricordarcelo di più) potremmo vedere bambini più sereni, consapevoli e sicuri del fatto che loro valgono non per quello che fanno ma per quello che sono.”
    Qual è la differenza nell’apparato scolastico ed educativo della generazione attuale rispetto alla nostra?
    La scuola di oggi è una scuola che si mette sicuramente più in discussione rispetto ad un tempo. Ai docenti che si stanno specializzando si chiede di accettare, accogliere la trasformazione, di andare oltre all’ “abbiamo sempre fatto così”, di superare l’idea che certe teorie e pratiche non si toccano. Il lavoro educativo ci obbliga a rimanere nella complessità (di tempi complessi), la scuola di oggi inizia a riflettere sul fatto che ogni esperienza proposta ai ragazzi deve essere pensata, riflettuta. Uno stesso approccio non va bene per tutti, per sostenere un ragazzo nell’apprendimento è necessario riflettere sui suoi bisogni, riconoscerlo, accettarlo, accoglierlo incondizionatamente.”

    …secondo G., sono vestita di stelle.
    Per me è stata una rappresentazione significativa.
    Ho lavorato con lei molto sulla sua difficoltà a disegnare le mani.

    Genitori, scuola e società formano la comunità educante di ogni individuo fin dalla più tenera età, quanta responsabilità ha ciascuno di questi attori?
    Sappiamo bene che con “comunità educante” si intendono tutte quelle istituzioni che concorrono alla crescita di un ragazzo e non solo, dalla famiglia alla scuola allo sport, fino ad arrivare al quartiere, ai servizi offerti dalla città etc… Con comunità educante si intende attualmente davvero un cerchio molto ampio. Ad esempio se so che un mio allievo, che sta manifestando disagio a scuola in svariati modi, va a prendere il caffè prima del suono della campanella in un determinato bar, io da docente devo essere consapevole che il mio allievo entra in classe con il bar. Per intenderci, gli incontri che ha avuto, i quotidiani sfogliati, i discorsi ascoltati possono essere indicatori del perché prova o manifesta disagio. E io, come docente, e quindi parte della comunità educante, così come il barista, posso attingere alla rete interna della comunità per capire la situazione e quindi intervenire sollecitando altri nodi della comunità.
    Se questo senso di rete fosse più condiviso probabilmente anche le famiglie potrebbero sentirsi meno sole e quindi supportate in un percorso di crescita che coinvolge tutti collettivamente.

    Pensi che la nostra generazione fosse più libera e dunque più serena?
    Non so dire se la nostra generazione (anni 90-2000) fosse più libera delle nuove generazioni, sicuramente avevamo un sentimento della libertà diversa. Per me la libertà si manifestava nella Scelta.
    La mia generazione poteva scegliere, sapeva cosa scegliere, si esponeva dichiarando cosa volesse. Talvolta gli obiettivi si raggiungevano con facilità, altre volte lottando (con la famiglia, la scuola, con le aspettative della società), altre volte lasciando perdere o cambiando strada. Con o senza compromessi.
    Ora mi chiedo se le nuove generazioni si sentono libere di sognare. Mi domando se esistono ancora i desideri

    Questo mondo ci vuole altamente performanti, forse ancora prima di riuscire a maturare la nostra identità ed espressività, e non curandosi del nostro bagaglio emotivo, o banalmente dei tempi filologici individuali. e per questo che si parla sempre di più di burnout? È vero che questa condizione vede vittime sempre più giovani? Come fare per invertire questa tendenza?
    Il burnout è una malattia e come tale deve essere trattata. Il burnout si manifesta quando il nostro mondo intimo, quello dei sogni, delle ambizioni, dei modi in cui la nostra personalità si presenta al mondo brucia letteralmente. E brucia davvero. Ciò riguarda tutti, dai ragazzi che non si sentono riconosciuti nel loro valore, ai giovani adulti che sperimentano la frattura tra ciò che sono e l’ambiente che li circonda, spesso vittime di rapporti con datori di lavoro, manipolatori e perché no? Anche sadici. Ma ci sono anche lavoratori in prepensionamento che trascinano la loro giornata lavorativa al termine, senza esserci realmente (spesso generando una catena di malcontento e disagio tra colleghi, che potrebbero al loro volta sperimentare quel vuoto che genera il burnout stesso). lo non ritengo che il burnout sia legato direttamente al livello di performance o alle richieste esterne, credo che nasca da un profondo disagio esistenziale, che richiede un cambiamento, uno svoltare di cui spesso si ha paura o non si ritiene di averne le forze. Eppure quante storie conosciamo di lavoratori sofferenti che per scelta o necessità hanno cambiato contesto e si sono ripresi in mano la loro vita? E’ necessario monitorare i luoghi di lavoro (o di studio) con criteri adeguati e precisi, che mostrano chiaramente quali sono gli indicatori per un ambiente sano e favorevole al benessere.

    Il mio gattone secondo F., lei non lo ha mai visto. Ma ha ascoltato una sua storia e lo ha disegnato così

    In diversi studi si fanno analogie sul comportamento tra la generazione degli adulti di oggi e quelle che l’hanno preceduta, affermando che ci si trova in un adolescenza estesa fino alla soglia dei 40, cosa implica questo atteggiamento, lo possiamo collegare al nostro discorso?
    Sì, ritengo che ci sia una correlazione tra i ragazzi adolescenti e gli adulti ritenuti (o che si ritengono) adolescenti a 40 anni ed è molto semplice, i quarantenni adolescenti sono tali perché non sono riusciti a superare le grandi paure dei ragazzi, cioè quelle di non essere amati, non accettati per quelli che sono, di essere lasciati soli.
    Per concludere, non posso esimermi dal domandarti cosa ne pensi del metodo Montessori.
    Il metodo Montessori ha dato la libertà ai bambini di scegliere e di conseguenza attraverso la scelta di manifestarsi nella loro personalità. L’ambiente, ordinato, preciso, leggibile della Casa dei Bambini porta il fanciullo a scegliere con serenità lo spazio con le proposte più adeguate al suo sentire. Con il metodo viene messo l’accento sulla centralità del bambino, che sperimenta sempre di più diventando via via più consapevole ed autonomo. Sono innumerevoli le possibilità che offre il metodo, ma ho voluto focalizzarmi sulla libertà di scelta perché, come già detto, la ritengo una facoltà che stiamo perdendo.
    Anche il metodo Montessori ha il suo limite, che sta proprio nel concetto di metodo. Il metodo non deve essere considerato una “lista della spesa” o come consigli per gli acquisti da applicare in ogni occasione, ma va pensato, valutato, ripensato nella complessità.

    Presentazione di Giovanna La Vecchia

    Lo abbiamo incontrato per il nostro giornale già nel 2020 in occasione di un’intervista in cui ci aveva raccontato le “mille e una vita” di un uomo “Obelix” caduto nel paiolo della pozione magica delle parole. Giuseppe Cesaro: la musica, la bellezza, la famiglia, le parole, la forza. Fu un incontro inconsueto ed informale con un grande protagonista del nostro tempo: “Siamo noi l’anima delle cose. La fragilità è bellezza. Ed è infinitamente più ricca della solidità. Che, spesso, è pura apparenza”.

    Giuseppe Cesaro (Sestri Levante, 12 marzo 1961) ha cominciato a scrivere professionalmente alla fine degli anni ’80. Giornalista, scrittore, ghostwriter, curatore, editor e traduttore, si occupa di musica, politica, società, narrativa, saggistica. Negli ultimi vent’anni, ha pubblicato 50 titoli – tra racconti, romanzi, memoir, graphic novel, saggi, biografie, traduzioni e sceneggiature – per alcuni tra i più importanti editori nazionali (Bompiani, Mondadori, La Nave di Teseo, Skira, Rizzoli). Dal 1998 è consulente ai testi di Claudio Baglioni. Ha firmato due romanzi (“Indifesa” – 2018, e “31 Aprile. Il male non muore mai” – 2021, entrambi editi da La Nave di Teseo) e un graphic novel (“Michelangelo. La parete perfetta” – 2017, edito da Round Robin) ed è co-autore di due libri inchiesta: “Ombre sul web” (2019) e “La fabbrica fantasma” (2020), pubblicati da Lastaria Edizioni. Lo scorso settembre, per Round Robin, ha pubblicato “Manuale per aspiranti scrittori. 3×5 non fa 15”: il metodo di lavoro messo a punto in quasi quarant’anni di scrittura.

    Per il numero di Dicembre di Condi-Visioni ha voluto “condividere” con noi il suo pensiero sull’attuale momento storico e per questo gli dobbiamo un ringraziamento speciale. Giuseppe Cesaro è senza alcun dubbio una delle personalità più interessanti e poliedriche del nostro paese, leggerlo “crea dipendenza” perché ci obbliga ad una riflessione quanto mai necessaria. Certezza e speranza di un futuro possibile sono solo nelle nostre azioni, perché se è vero che “non dobbiamo aprire quella porta”, ricordiamoci che di porta non ce n’è mai una sola.

    “A volte ritornano: non aprite quella porta!” di Giuseppe Cesaro

    “A volte ritornano. E, di solito, sono incubi. E il ritorno che stiamo vivendo, non fa eccezione. Purtroppo. Del resto, quasi mai il passato è migliore del presente. Basta un’occhiata fugace a un (serio) libro di Storia per rendersene conto. Né è detto che un buon passato possa diventare anche un buon presente. Figurarsi, dunque, se può diventarlo un passato pessimo. Sto parlando del Fascismo, evidentemente. Il giudizio sul quale è totalmente negativo. E non è impugnabile, dal momento che è passato in giudicato da un bel pezzo. Non parlo del mio giudizio, che conta poco. Parlo del giudizio della Storia. La Storia vera, autorevole, documentata, meditata. Non le favolette degli imbonitori mediatici che cercano di spacciare per verità le bugie, per progresso il regresso, per libertà l’oppressione. Al contrario di ciò che sosteneva Novalis: non tutto, in lontananza, diventa poesia. L’errore resta errore. Il crimine, crimine. L’orrore, orrore.

    La nostalgia, però, è un sentimento-rifugio che, ahimè, fa sempre presa. Soprattutto quando – come accade oggi – il presente fa paura. Una paura indotta, quasi sempre esagerata e ingiustificata. È allora che l’idea di un ritorno al passato rassicura, come l’abbraccio amorevole di un’amorevole madre o il tepore di un focolare domestico al quale tornare, per sentirsi, finalmente, al sicuro.

    E, così, invece di guardare avanti, guardiamo indietro, dimenticando, appunto, che il passato non è migliore del presente. Eppure, la propaganda ci sta convincendo del contrario. Come? Da una parte, alimentando le paure, vecchie e nuove, dell’opinione pubblica (quella che Umberto Eco chiama “la costruzione del nemico”); dall’altra, fornendo risposte tanto facili, veloci e capaci di incantare, quanto false, folli e antistoriche.

    Come una mamma che, accarezzandoci, sussurra: “dormi tranquillo: ci sono io, veglierò io su di te!”, la politica vuole che chiudiamo gli occhi, ci giriamo dall’altra parte e ci addormentiamo sereni. Non ci dobbiamo preoccupare di niente. Spegnerà la luce, chiuderà la porta e penserà a tutto lei. Riuscite a immaginare qualcosa di più rassicurante e tranquillizzante?

    Sono queste le ragioni per le quali, ancora una volta, ci ritroviamo alle soglie di una svolta autoritaria. Questo, non altro, è il premierato. Altro che “democrazia decidente”. La nostra democrazia è “decedente”. In fin di vita, cioè. Vogliamo davvero staccarle la spina? Come mai ci ritroviamo di nuovo a questo punto? Non ci è bastata la catastrofe di cento anni fa? No, evidentemente.

    Per capire a cosa stiamo andando incontro, dovremmo, innanzitutto, smettere di chiamare “politica” qualcosa che politica non è più, da decenni. Nel nostro Paese, la politica è morta 45 anni fa: 16 marzo 1978, quando Aldo Moro è stato rapito e i cinque agenti della sua scorta, trucidati. Quanto accadde 55 giorni dopo, fu solo il colpo di grazia. Morte violenta, dunque, non naturale. La politica andava tolta di mezzo e venne tolta di mezzo. Fine dei giochi.

    Tutto quello che è venuto dopo l’omicidio Moro – andreottismo, craxismo, berlusconismo, renzismo, salvinismo, grillismo, contismo, melonismo, per ricordare solo i passaggi più significativi – non è politica: è occupazione, spartizione, gestione e mantenimento del potere.

    La politica è stata tolta di mezzo perché il Potere – che non è la politica ma la forza che condiziona ogni politica – non vuole rotture di scatole. E la politica – se è vera politica – è un’immane rottura di scatole. Perché fa domande inopportune (democrazia, diritti, giustizia, libertà, pace…), accampa pretese assurde e costose (istruzione e sanità gratuite, salari dignitosi, pensioni…), è lenta a decidere (confronto con le parti sociali, bicameralismo paritario…).

    Contrariamente a ciò che crediamo, dunque:

    1. la politica non detiene il Potere. È esattamente il contrario: il Potere detiene la politica;
    2. gli “uomini politici” non esercitano il potere: sono strumenti nelle mani del Potere. “Utili idioti” che – come marionette ventriloque – fanno e dicono tutto ciò che il Potere comanda loro di fare e dire;
    3. il Potere non ha un nome e un cognome e nemmeno una faccia.È una forza – anonima, invisibile, onnipresente – che ha un potere di seduzione così forte, che è quasi impossibile resisterle. Si impossessa della coscienza degli uomini, fino a renderli schiavi. In cambio, offre loro l’illusione del comando (“Cumannari è megghiu ri futtiri” – “Comandare è meglio di fottere” – recita la millenaria saggezza siciliana), soldi, sesso, droghe, lusso, glamour, fama…

    “Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo».

    Gesù resistette alle tentazioni. La maggior parte degli esseri umani, purtroppo, no. Il Potere lo sa: arruola coloro i quali cedono alle sue seduzioni e fa in modo di mettere gli altri in condizioni di non nuocere.

    Il Potere ha solo quattro obiettivi: ottenere, conservare, incrementare e perpetuare sé stesso. E, per raggiungere questi obiettivi è disposto a qualunque cosa. Con “le buone”: favori, prebende, corruzione, morale e materiale. O con “le cattive”: ricatto, violenza psicologica e fisica, demolizione della credibilità e dell’immagine pubblica degli avversari o loro eliminazione.

    Per parafrasare una celebre favola dell’antichità, il Potere è lo scorpione, il popolo è la rana, e la classe dirigente (che, personalmente, preferisco chiamare “digerente”), il “coro” che fa di tutto per convincere la rana a fidarsi dello scorpione, caricarselo sulle spalle e lasciarsi indicare da lui la rotta giusta per attraversare il fiume. 

    Ma le vere domande sono:

    • perché preferiamo chiudere gli occhi, girarci dall’altra parte e dormire, lasciando che pensi a tutto “mammina”, piuttosto che tenere gli occhi ben aperti e assumerci la responsabilità delle scelte importanti che riguardano la nostra vita?;
    • perché, anche se sappiamo benissimo che lo “scorpione” ci ucciderà (è la sua natura!), continuiamo a dare retta al “coro”, e crediamo che lo scorpione ci indicherà la rotta giusta per arrivare, sani e salvi, sull’altra sponda del “fiume”?

    La risposta è semplice. Semplice ma devastante: siamo codardi e profondamente bugiardi. Dichiariamo di amare e desiderare la libertà e, invece, non la vogliamo affatto, perché abbiamo paura di assumerci le nostre responsabilità.

    Del resto, che la natura umana non fosse proprio perfetta, lo sapeva fin troppo bene colui il quale dettò a Mosè le Tavole della Legge. Non è certo un caso, infatti, se Dio comanda all’uomo di Non uccidere, Non commettere adulterio, Non rubare, Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo, Non desiderare la moglie del tuo prossimo, Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo. Se avesse saputo che l’uomo non aveva bisogno di tali raccomandazioni, il Padre Eterno non avrebbe certo perso tempo a dargliele. Evidentemente, invece, conosceva così bene le sue creature che sapeva di doverlo fare.

    E assai bene conosceva gli uomini anche Gesù, quando decise di introdurre il comandamento che recita: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Perché sentì il bisogno di farlo? Perché sapeva benissimo che gli esseri umani sanno amare solo sé stessi e che amare l’altro è contro natura. Del resto, se amare l’altro fosse qualcosa di naturale, non ci sarebbe stato certo bisogno di un comandamento che impone di farlo!

    Ma la natura umana è ben nota anche a noi umani. Da sempre. Non sbagliava, ad esempio, Machiavelli quando, quasi cinquecento anni fa, scriveva che gli uomini sono “ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno”. Questo siamo. Ed è esattamente su questo che conta il Potere.

    Né sbagliava Étienne de La Boétie quando – pochi anni dopo la pubblicazione de “Il Principe” – nel suo “Discorso sulla servitù volontaria”, si chiedeva come fosse possibile che “tanti uomini, tanti borghi, tante città, tante nazioni sopportino talvolta un tiranno solo, che non ha forza se quella che essi gli danno; che ha il potere di danneggiarli unicamente in quanto essi vogliono sopportarlo, che non potrebbe far loro alcun male, se essi non preferissero subirlo, invece di contrastarlo”. E tutto questo non perché gli uomini siano “costretti da una forza più grande”, ma perché “incantati e affascinati dal solo nome di uno, di cui non dovrebbero temere la potenza, poiché egli è solo, né amare le qualità, poiché nei riguardi di tutti loro è disumano e feroce”. “Son dunque – scriveva ancora La Boétie – gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smetter di servire, sarebbero liberi”. È il popolo, dunque, che “acconsente al suo male o addirittura lo provoca”. Evidentemente, “la libertà non viene affatto desiderata, per la buona ragione che, se gli uomini la desiderassero, l’otterrebbero”.

    Analisi condivisa anche da una delle coscienze più alte e lucide della storia dell’umanità, Fëdor M. Dostoevskij. A fine Ottocento, in uno dei capitoli de “I fratelli Karamazov” noto come “La leggenda del grande inquisitore”, Dostoevskij è piuttosto chiaro riguardo alla nostra fobia della libertà: “Nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana più intollerabile della libertà!”; “nulla è per l’uomo più seducente che la libertà della sua coscienza, ma nulla anche è più tormentoso”; “la tranquillità e perfino la morte è all’uomo più cara della libera scelta fra il bene ed il male”. E, ancora: “Non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura”.

    Su tutte queste cose conta il Potere, che conosce la natura umana almeno quanto Dio, Gesù, Machiavelli, La Boétie e Dostoevskij.

    “Governabilità”, “stabilità”, “monocameralismo”, “premio di maggioranza”, “premierato”, “sindaco d’Italia”, “democrazia decidente” sono, dunque, tutte parole d’ordine-truffa. Le marionette ventriloque vogliono farci credere che, più rinunceremo a quel po’ di potere di decisione che ci è rimasto, più potremo decidere del nostro futuro. Non sembra anche a voi una follia? Eppure, ancora una volta, stiamo per dare retta al “coro” e caricarci sulle spalle lo “scorpione”, perché sia lui a indicarci la rotta giusta per attraversare il “fiume”.

    La follia più grande di tutte, dal momento che, come tutti sanno, lo scorpione ci ucciderà. E quando, in punto di morte, gli chiederemo: “Perché?”, ci risponderà: “È la mia natura!”. E solo allora ci renderemo conto di quanto siamo stati stupidi. Tornare indietro, però, non sarà più possibile.

    Cambiare è un privilegio molto recente. I popoli del passato non ne godevano. Perché noi vogliamo rinunciarci? Perché siamo disposti ad accettare che chi sta al governo ci resti il più a lungo possibile? Chi avvantaggia questa “stabilità”? Noi o lui? Prima di rispondere, riflettiamo sul monito di Bobbio: “meglio cinquanta governi in cinquant’anni che uno solo in venti”.

    Non solo. Se, come diceva Gaber, libertà è partecipazione: è evidente che, meno partecipiamo alle scelte che riguardano la nostra vita, meno siamo liberi. Pensiamoci ogni volta che ci chiedono di dare a loro il potere di scegliere e decidere per noi.

    Se coloro i quali preferiscono rinunciare alla loro libertà lo facessero, senza pretendere che anche tutti gli altri facciano la stessa cosa, il problema sarebbe grave ma limitato, poiché riguarderebbe soltanto coloro i quali si voglio rendere servi. Dato, però, che i servi vogliono che anche tutti gli altri diventino servi come loro, il problema diventa molto infinitamente più grande e più grave, poiché il servilismo di pochi finirà col rendere servi anche tutti quelli che non vogliono diventare servi ma rimanere liberi. E la democrazia avrà fatto harakiri.

    L’ho detto: a volte ritornano. E, di solito, sono incubi. I peggiori. Meditate, gente, meditate. E, soprattutto, non aprite quella porta!” 

    A oltre sessanta anni dalla loro prima uscita discografica – 5 ottobre 1962 con Love Me Do – i Beatles rappresentano ancora “la musica”. Quattro ragazzi della classe operaia di Liverpool, un centro portuale piuttosto misconosciuto fino a quel momento, hanno rivoluzionato, con le canzoni che hanno scritto e il modo di presentarsi, non soltanto il settore delle sette note ma in generale tutta la società. Non c’è aspetto della vita post-bellica, dalla moda al look, che non sia stato influenzato dal gruppo di Lennon, McCartney, Harrison e Starr. Ma non solo. I Beatles – così come negli Stati Uniti prima di loro aveva fatto Elvis Presley – hanno portato alla ribalta realtà temi come la spiritualità (il viaggio in India del ’66), l’attenzione ai temi sociali (il rifiuto di esibirsi per un pubblico segregato nel sud razzista degli Usa l’anno precedente) e innumerevoli altri settori della vita contemporanea. 

    Oggi, a oltre sessanta anni dalla prima volta, i Beatles sono “tornati” con un brano – Now and Then – scritto da John poco prima della sua morte e che la sua vedova Yoko Ono ha affidato a Paul perché lo rendesse un “ritorno” in grande stile. Operazione riuscita, visto che i “Fab Four” sono di nuovo in testa alla classifica dopo tanti decenni. E, curiosamente, a fargli compagnia nella top ten americana ci sono i Rolling Stones, a dimostrazione che certa musica è davvero immortale. 

    Paolo Borgognone, giornalista e scrittore, autore per Diarkos Editore delle biografie “Freddie Mercury. The show must go on”, “Io Elvis. La parabola immortale di The King”, “Martin Luther King Jr. I Have a Dream”, ha da poco pubblicato “Beatles. Il mito dei Fab Four”.  Nato nel 1962 coltiva da sempre la passione per la musica, oltre che per la lettura e la scrittura. Ha collaborato con importanti testate nazionali e realizzato diversi lavori di “ghost writing” ed editing, oltre ad essere impiegato come addetto stampa per un ento pubblico.

    Se Elvis, come è stato detto, ha rappresentato il “big bang” della cultura giovanile, i Beatles hanno a loro volta assunto lo stesso significato che nella scienza viene dato alla comparsa della vita. Dal momento in cui è esplosa la Beatlesmania – 1964 – i ragazzi di tutto il mondo hanno trovato un modo per esprimersi. Da qui nascono i generi musicali che ancora oggi si ascoltano e tutti quei movimenti che hanno caratterizzato la seconda metà degli anni ’60 con temi come i diritti delle minoranze, l’opposizione alla guerra, il desiderio di libertà e uguaglianza che sono ancora oggi l’urgenza che anima milioni e milioni di persone in ogni angolo del pianeta. 

    “Il libro che ho scritto parte proprio dalle radici, da quella città che tanti conoscono per nome ma che pochi saprebbero trovare su una cartina muta e che ancora meno hanno avuto la fortuna di poter visitare” Borgognone ci spiega il percorso di questa nuova biografia sui Beatles. “Ho ricostruito la storia di Liverpool, prendendo come momento chiave quello dei terribili bombardamenti a cui fu sottoposta durante la Seconda guerra mondiale. Che è proprio il momento in cui i quattro ragazzi vedono la luce. Ho poi cercato di raccontare la storia delle loro famiglie, il retroterra culturale, sociale, politico, di un Paese che stava riemergendo dal conflitto e che, dopo anni di sofferenza e di “grigio” cercava proprio un modo per rinascere. L’esplosione di colori, suoni, mode rappresentata dalla “swinging London” di quegli anni è al tempo stesso causa ed effetto del successo dei Beatles. Ho poi ripercorso le tappe della loro carriera: dal primo incontro tra Lennon e McCartney – 6 ottobre 1957 – fino alla residenza ad Amburgo, apprendistato durissimo e formativo. Poi, a partire dal 1962, un capitolo per ogni anno. Con l’eccezione del 1964, quando ci fu lo sbarco in America, talmente ricco di storie da aver richiesto un doppio capitolo. Un altro l’ho dedicato al breve, ma significativo, tour in Italia del 1965. Solo pochi concerti ma l’occasione giusta per raccontare anche un poco di questo Paese, desumendone atteggiamenti e opinioni dal modo in cui i “Fab Four” vennero accolti, male per la precisione, con un atteggiamento quasi canzonatorio e che cercava di sminuirne le capacità. Si pensi che lo stesso anno delle date italiane, spesso con poco pubblico ad assistere, i Beatles si esibirono allo Shea Stadium di New York per 56mila spettatori! Il testo arriva fino al 1970, anno dello scioglimento della band e della pubblicazione dell’ultimo LP per poi chiudersi con un capitolo finale che racconta i tentativi fatti negli anni di riunire il gruppo. Tentativi che, per vari motivi ma non certo per mancanza di volontà da parte dei protagonisti, non andarono in porto e furono poi stroncati dall’omicidio di Lennon a New York l’8 dicembre 1980”. 

    Abbiamo incontrato Paolo Borgognone per i lettori di Condi-Visioni.

    Un altro libro sui Beatles? Perché? 

    “ Perché i Beatles “sono” la musica. Quello che hanno portato nel settore delle sette note non è finito certo con lo scioglimento del gruppo nel 1970. Ci troviamo davanti a un fenomeno di costume che ritorna continuamente e che sta continuando a influenzare la società contemporanea. Proprio pochi giorni fa, accendendo la tv, ho visto una pubblicità con una loro canzone come sottofondo. Segno tangibile che il loro sound, le mode che hanno lanciato, i messaggi che hanno portato sono attualissimi e ascoltati ancora oggi”. 

    Ci sono ancora cose che non sappiamo? 

    “Abbiamo appena scoperta una nuova canzone. Con una storia affascinante dietro. Certo, le biografie sui Beatles si sprecano, forse sono gli artisti su cui si è scritto di più e quindi è impossibile trovare la notizia inedita. Ma il processo di avvicinamento alla vicenda personale, sociale e musicale del gruppo si presta a infinite riletture e questa vuole esserne una dedicata in particolare ai ragazzi di oggi, quelli che non 1970 non erano nati e che pure si interessano alla storia della più grande band di sempre”. 

    Che tipo di studio ha fatto per realizzare questo libro? 

    “Il primo passo è stato riascoltare tutto. Dai primordi, dai “Beatles prima dei Beatles” fino all’ultimo disco, oltre naturalmente alle tappe fondamentali della carriera da solista di ognuno di loro. Quindi ho ripassato le biografie che ne hanno tracciato la storia, a cominciare dalla monumentale “Anthology” che racchiude davvero tutto o quasi lo “scibile” sul gruppo. Poi, naturalmente, ho cercato di limare le differenze che inevitabilmente compaiono tra i vari testi, provando a uniformare le date soprattutto. Per la prima parte, poi, quella dedicata alla città mi sono affidato anche ai ricordi. Ho avuto il privilegio e la fortuna di visitare Liverpool in uno dei periodi più difficili della sua storia, durante il governo della feroce signora Thatcher. Rammento una città ferita, offesa, trascurata, ma viva e piena di musica. Impossibile non amarla…”.  

    C’è un punto di vista differente o aspetti nuovi che non erano stati presi in considerazione in precedenza? 

    “Un mio carissimo amico, giornalista e scrittore, fan dei Beatles da sempre, nel presentare il volume ha detto: “Io pensavo di sapere tutto sul gruppo, ma questo libro mi ha fatto scoprire aspetti nuovi anche per me”. Ho cercato, in apertura, di situare i “Fab Four” all’interno del periodo storico nel quale sono nati, ovvero durante gli sconvolgimenti della Seconda guerra mondiale e anche nel tessuto geografico della loro città di origine. Un posto di cui tanti hanno sentito parlare ma che, in realtà, pochissimi conoscono veramente. E che – invece – ha fatto da sfondo alla loro crescita personale e musicale, diventando protagonista delle vicende che raccontiamo”.  

    Questo ritorno secondo lei è stata una pura operazione commerciale o una volontà precisa di affermare “noi siamo ancora qui”? 

    “Un’operazione commerciale non direi proprio. Nessuno dei protagonisti ha certo bisogno di far uscire un brano inedito per mettere insieme il pranzo con la cena. Credo fosse giusto, a questo punto, chiudere il cerchio di questa esperienza. Non a caso, il singolo è stato pubblicato insieme a una riedizione di “Love Me Do”, il primo disco – per noi che abbiamo qualche annetto sulle spalle un “quarantacinque giri” – con il quale era iniziata l’avventura in quell’ormai lontano ottobre 1962”. 

    Paul McCartney e Yoko Ono hanno trovato un canale di comunicazione per realizzare insieme ancora dei progetti?

    “In realtà i rapporti si sono, per fortuna, molto semplificati con gli anni. Yoko – da tanti considerata una “nemica” del gruppo, idea che non mi trova d’accordo – ha avuto la sensibilità di lasciare a McCartney e Starr l’onore e l’onere di regalarci questa perla. Il lavoro che è stato fatto sulla traccia originale di Lennon è straordinario: alla fine abbiamo una canzone indubitabilmente dei Beatles ma che non risente degli anni che sono passati. Anzi. E il successo discografico – il primo posto nelle classifiche inglesi e americane – testimonia che la scelta fatta è stata giusta”. 

    Quanto serve oggi e soprattutto ai giovani “ritornare” ai Beatles?

    “Conoscere questa musica – cui accosterei quella di Elvis Presley, un altro titano del settore che ha tracciato la via per innumerevoli altri artisti – significa fare il primo passo per capire tutto quello che è venuto dopo. E anche quello che esiste oggi. Il panorama musicale è stato così fortemente influenzato dai Beatles che ignorandoli si perde la possibilità di comprendere il fenomeno anche nella sua contemporaneità”. 

     Secondo lei qual è il messaggio più importante che hanno dato i Beatles?

    “Ne hanno lasciati tanti. Messaggi di amore, pace, voglia di vivere, rispetto per gli altri, anche di impegno per combattere le ingiustizie quando era necessario. Nessuno di questi argomenti può dirsi risolto, quindi le parole e i gesti che i Fab Four hanno tramandato ai posteri sono ancora estremamente attuali. Se proprio dovessi scegliere una frase a simboleggiare il loro lascito, utilizzerei, quella che chiude “The End”, l’ultimo brano che hanno registrato tutti e quattro insieme, pubblicato sull’album “Abbey Road”: “In the end / the love you take/ is equal to the love you make” …” 

     Come sarebbero andate le cose se John Lennon non fosse stato ucciso? 

    “Il mondo sarebbe stato un posto migliore dove vivere! Esagerazioni a parte, è molto possibile che avremmo potuto avere l’occasione di rivedere i Fab Four esibirsi insieme, come in fondo loro stessi avrebbero voluto fare. Penso a che chiusura sarebbe stata per un evento – per esempio – come il Live Aid del 1985 se, alla fine, fossero comparsi loro quattro e avessero fatto un ritorno in grande stile mettendo insieme cinque o sei delle loro canzoni più celebri: “Yesterday”, “Let It Be”, “Penny Lane”, “Strawberry Fields” “Something”… e così via. Il più grande spettacolo di sempre. Purtroppo l’instabilità mentale di un fanatico religioso ci ha privati di tutto questo”. 

    La dea pagana, la cortigiana di dimora, la popolana avvenente ma attrezzata di coltello: Roma nelle liriche di Luigia Panarello, il grande amore di una vita intera. 

    Etabeta edita la silloge “Via del cancello” di Luigia Lupidi Panarello.

    Pierpaolo Pasolini l’aveva soprannominata “tre vite”. A noi sembrano anche poche per descrivere un’artista come Luigia Lupidi Panarello. C’è tanto di tutto in lei e nella sua vita, tanta Roma, tanta poesia, tante amicizie straordinarie, tante esperienze e tante sofferenze vissute con quella leggerezza e meraviglia allo stesso modo di come si vivrebbero le gioie e i successi della vita. Una combattente in prima linea, una partigiana delle idee e della cultura non paludata e non avulsa dal reale. Così la definisce Titti Presta. E ancora non basta. Una protagonista senza protagonismi, una formazione artistica ed umana ricca e movimentata, “vivere è più semplice di evitare di farlo” dichiara con impulso e stupore. Garbata, “perbene”, naturale e simpatica, Luigia Panarello si impone con umiltà nello scenario poetico italiano, così come fa in questa intervista per la quale la ringraziamo moltissimo. Non è cosa da poco raccontarsi senza filtri e senza prendersi poi così tanto sul serio. Il mondo ha bisogno di voci fuori dal coro perché la bellezza è fatta di piccoli frammenti di lucidità in mezzo ad un mare di improvvisa creatività. La poesia di Luigia Panarello ci ricorda di cosa siamo fatti e per cosa siamo fatti. Vivere. Punto.

    La sua silloge “Via del cancello” è un volume che racconta la poesia, la religione, la politica, la società, la cronaca di una “sua” Roma. Quale percorso l’ha portata alla scrittura di un testo così importante?

    “Proprio per quella cronaca… che a Roma passa sempre più per l’ispirazione poetica che per la logica intellettuale, altrimenti più dettata da un parlato prosaico che letterario. Vivere a Roma significa la messa in gioco delle emozioni e delle passioni sempre. Non si resisterebbe sennò al suo investire il cittadino del “troppo” che è in tutto. Roma infatti non è una città metropolitana, ma la condizione umana in cui lui viene messo dalla scelta volontaria e volenterosa di starci. Dunque con questa scelta quasi sacrificale, è insita anche il darne una tipologia di lettura personale per orientarcisi. Quella poetica permette di farsi meno male, di avere sorprese anche gratificanti a volte. Non per nulla qui c’è un detto da tifo sperticato: Roma non si discute. Si ama!” 

    Come nasce la sua “fame” di poesia?

    “La mia testa è uno strumento acustico. Non ragiona. cerca sulle mie corde parole e frasi adatte a descrivere l’immagine, ad enunciare in metafora ciò che penso per districarlo dall’intimismo. Funziona così da sempre, usando soprattutto intuito e percezione. Io “sento” il colore come orbo, leggo dalla bocca cosa “comunica” la circostanza come sordo. Ho una forma di handicap cognitivo, se non esistesse la poesia, probabilmente avrei patito una pena esistenziale ragguardevole, che invece la poesia ha trasformato in veicolo dell’attrazione per la vita”.

    Ci racconti come nasce il titolo di quest’opera.

    “Via del Cancello è la strada, quasi un vicolo comunicante dal mio ufficio al fiume, che percorro quando esco di lì per tornare a casa. E’ un luogo di liberazione concreta e quotidiana, un momento di svagatezza, un tracciato di identità. Il cancello che si apre con discrezione per lasciarmi andare oltre la ripetitività quotidiana. Cioè un’annotazione cerchiata in rosso sulla cartina dell’esistenza, perché bisogna avere riferimenti certi per non perdersi”.

    Una divisione in due parti, Roma mia nello sguardo e Roma mia nell’anima. Perché ha sentito l’esigenza di una così netta suddivisione, in fondo la poesia è canto unico.

    “Eh… avere una relazione con la matrona comporta tenere ben spartite le sue qualità seduttive e le sue velleità dominatrici…Roma non è una metropoli moderna, è ancora la dea pagana, la cortigiana di dimora, la popolana avvenente ma attrezzata di coltello, o te ne fai proteggere, e perciò l’accetti magnifica e cinica, oppure se ne ricorderà della tua indipendenza e ti strazierà spesso e volentieri di colpi in agguato e di malinconie struggenti. Devi assolutamente contenerla in due vasi e farne tu la mediazione, per restare conscio con chi hai a che fare”.

    Poesie di sguardo e di anima, per descrivere il suo lavoro. Una espressione molto profonda. Cosa ci consente di vedere meglio, gli occhi o l’anima?

    “Assolutamente la propria personalità, che le due componenti aiutano nella funzionalità metabolica. Altrimenti è un pasticcio della malora che squilibra”.

    Paesaggi interiori e paesaggi naturali, una contaminazione ed una interazione di forza e potenza straordinarie. Percepirli entrambi è una grande ricchezza, possederli entrambi è un’approssimarsi alla perfezione del vivere. Cosa ne pensa?

    “Piuttosto è come avere quei doni extrasensoriali, che per carità arricchiscono la qualità dello stare al mondo, ma sono pure delle condanne a non poter stare mai spensierati. Un pizzico di leggerezza, per fortuna, lo offre la romanità con la sua ironia dissacrante, per non prendere ogni elaborazione e se stessi sempre sul serio!”

    Roma così tanto appieno descritta è cosa assai rara. C’è ogni aspetto, ogni persona, ogni anima di una città così tanto complessa e così tanto amata. E’ stata un’analisi di sicuro anche dolorosa.

    “Ho avuto maestri fantastici in questo, mi hanno educata e istruita con la loro storia fatta di vicende individuali e di fatti epocali raccordati. Pierpaolo Pasolini, mia madre, gli ebrei del ghetto, i bancarellari dei mercati rionali…e le soste sulla banchina dell’ Isola Tiberina a riflettere solitariamente”.

    Il suo amore per Roma è completo e complesso. Un amore “organizzato” che, come i più grandi amori, raccoglie in se ogni dettaglio e particolarità, nel bene e nel male. C’è qualcosa di Roma che è rimasta “intatta”, incontaminata, eterna?

    “Più che intatta, è inviolata la sua completezza. Roma non è invadibile! L’assediano, di tanto in tanto, dai barbari ai mafiosi, dagli invidiosi ai parassiti, ma Roma quando poi si spazientisce li scrolla di sella e torna a pascolare sul prato della pigrizia, indisturbatamente. Pure il papato ha ridotto in una porzione di terreno recinto! Roma resta signora e padrona della sua indolenza sdegnosa verso ogni bega trionfalistica, le basta farsi le sue gite al mare quando c’è il sole o su qualche colle da rudere all’aria aperta. Il resto non la riguarda: il tempo gli umani se lo trascorrano e se lo perdano come vogliono, lei lo dispone nell’interezza”.

    Quale immagine rappresenterebbe meglio oggi la sua Roma?

    “Il Gasometro oramai inutilizzato che sta vicino alla Garbatella, unico rione fuori mura, che segna il passare della modernità quanto un monumento”.

    Cosa le manca di più della “sua” Roma che vorrebbe resuscitare?

    “Le latterie, i bar di una volta, centro sociale casareccio, con le pareti maiolicate e la panna montata fresca la domenica con la cialda per mangiarla. Ma anche lo spirito di “quelle” domeniche che la gente banchettava col pollo arrosto e la romanella nel quartino “co l’amichi de famija” magari alle baracche sull’Aniene”.

    Mi vuole raccontare la rabbia per lo sgombero feroce di Piazza Indipendenza nell’agosto del 2017?

    “Più che rabbia un dolore da raccapriccio: fu uno sbattere in strada bambini, anziani, donne, uomini decorosi e indifesi, da un posto inutilizzato per anni, cioè abbandonato alla fatiscenza, tenuto bene proprio solo per avere un’abitazione. Fu un sabba di prepotenza inaccettabile, a cui si oppose la rassegnazione disperata di somali ed eritrei, profughi di altrettanti soprusi. Fu un pianto di vergogna il mio, appoggiata ad un albero, perché avveniva ed ero impotente, ed ero comunque una borghesuccia bianca che non poteva soprattutto assolversi per niente”. 

    Tra i tanti personaggi conosciuti e frequentati, Pierpaolo Pasolini e Alda Merini. “E come si fa” è la poesia che ha dedicato a Pasolini. “E come si fa a non pensarti”. Ci può raccontare del vostro rapporto?

    “Neanche tanto occasionale con entrambi, fortuitamente fruito come tutte le migliori occasioni che ho avuto vivendo di curiosità. Due persone etiche, ma entrambe con delle faide interiori come baratri. In Alda questa generò l’innocenza, in Pierpaolo causò la colpa. Eppure avevano la stessa natura spirituale da asceti, esseri nudi ed esposti come volatili in fuga dalle gabbie. Li hanno bersagliati pure sotto i miei occhi, li hanno traditi senza alcuna remora e dileggiati oltre ogni impudenza. Sono stati “la diversità” rifiutata perché riguardava identità e mente, che ciascuno invece camuffa di banalità spregevole, di pusillanime normalità. Li ho conosciuti perché li ho ascoltati, perché non mitizzo, riconosco però sempre l’autorevolezza di quelli con cui condivido la tavola, sennò preferisco la mia solitudine. E loro due erano e saranno certamente autorevoli, al di sopra del giudizio scontato che si usa per liquidare chi ci turba. Raccontarne porterebbe via la redazione di due volumi interi perché non furono anni trascorsi invano a cercare di crescere!”

    So della sua ammirazione per Papa Francesco. Qual è il suo rapporto con la religione?

    Sono cristiana e apprezzo anche la filosofia buddista, ma religiosa ben poco come canone di pratica. Ritengo che tutti dovrebbero coltivare la spiritualità in bilanciamento con la laicità. Sono cristiana, ho fede nella compassione come cambiamento del comportamento egoistico che danna la società. Francesco lo “amoro”, arrivo pure a fermarmi in chiesa davanti al crocefisso per chiedere forza per lui. Non sono più reverente al clero vaticano istituzionalizzato. Sarà perché provengo da un’epoca di incontri come Di Liegro, Bello, Gallo e Madre Teresa? Probabile….”

    La sua produzione è monumentale, scrive quotidianamente. E’ come fermare ogni emozione su tutto ciò che accade nella sua vita ma anche nella vita degli altri. E’ questo un mezzo per vivere meglio, per vivere bene?

    “Por vivere a mi manera”

    Una vita, la sua, che sembrano tante vite di tante persone diverse in una sola unica straordinaria città: Roma. Quanto è importante diversificarsi ed adeguarsi senza però mai perdere se stessi?

    Pierpaolo Pasolini mi aveva soprannominata “tre vite”. Io penso solo che mi viene spontaneo accettare quel che viene e andare avanti”

    “Non mi sono però depressa”, scrive parlando delle difficoltà della sua vita. Oggi ci si deprime per molto meno, per molto poco, per niente. Abbiamo perso il senso ed il valore della parola “difficile”? 

    Oggi avverto più l’accasciamento della fatica, non dovuta alla difficoltà, quanto al carico esuberante dell’eccesso, del superfluo”

    “C’è domani come giorno come altro opportuno possibile come quantità di tempo”. Trovo questo verso di “Colata di verde” molto delicato, un modo antico per dire che c’è il nuovo, il futuro, la speranza. Quanto è necessario soprattutto oggi guardare avanti?

    “Invece curiamoci di rallentare subito, perché cambiare comporterà un salto in lungo, slancio nelle gambe e spinta. Ci vuole metodo studiato per superare la gravità”

    “Figlia non riconosciuta di madre ignota”. Quanto ha significato questo aspetto della sua vita nella sua crescita, nel suo sviluppo e nella sua poetica?

    Fondatezza del perché leggo e scrivo e disegno. L’ignoto così non diventa ossessione”

    La consapevolezza di essere speciali per aver vissuto delle esperienze radicali, profonde quanto eterogenee, e avere continuato a camminare con questo bagaglio compressi verso terra” scrive di lei David Giacanelli. Lei è consapevole di essere un “essere” speciale?

    Particolare, sì, particolare quanto un albino o un uomo in kilt ad un concerto”

    Coraggiosa, impavida guerriera, con parecchie marce in più, ma non votata alla gloria ed alla fama. Per cosa vale la pena vivere Sig.ra Luigia?

    “Per esserci: meravigliosa opportunità vivere!”

    “Il suono dei versi ha un potere benefico”, per chi scrive e per chi legge. Quanto abbiamo ancora bisogno di scrivere e di leggere poesia?

    Data la brevità, la poesia sarà il linguaggio del futuro, svincolato dalla metrica e dai temi solo romantici”

    C’è chi dice e crede ancora che la poesia abbia il potere di salvarci. Perché è nella natura del poeta rimanere lontano dall’inferno dell’ignoranza e della meschinità. Lei ci crede?

    La poesia è angelica. Il poeta è soltanto un testimone attento, una piccola vedetta. Può sfracellarsi giù dal pinnacolo ad ogni folata di tentazione, vizio, colpa, peccato. Nessun uomo è santo, semmai può esercitare la beatitudine, ma è uomo”

    Mi vuole declamare uno dei versi più cari alla sua vita? 

    Ma davvero mi si chiede che attacchi “Le ceneri” di Gramsci? Tra l’altro le recito leggendole a mente, mai pronuncio quello che mi piace. Lo sacrificherei forzandolo all’impudicizia della prosa vocale e lo faccio al cimitero della Piramide”

    Alcuni suoi versi mi hanno riportato alla delicata profondità di Peppino Impastato: “I miei occhi giacciono in fondo al mare nel cuore delle alghe e dei coralli”. Vorrei concludere l’intervista con un suo pensiero su Peppino e su questi versi. Mi concede questo regalo? 

    “Dei bambini veri non diventeranno mai adulti, saranno vicini nei paesi, nelle merende di niente strofinate alle fette secche, avranno avuto per giochi soltanto le pietre aguzze sotto i piedi per correre. Peppino era un piccolo che seppe diventare grande, restando per la mano a sua mamma Felicia, che gli aveva insegnato il bello del nespolo, il canto del fringuello, tutto quello da avere finchè si può bere, finchè si può respirare, finchè il mare fa tuffare da una giornata libera. Quei bambini delle imprese da coraggiosi come bucanieri, sconfiggeranno vigliacchi serpi e loschi farabutti acquattati, avranno deciso, per vincere, dei massi lisci, podi da saltare a pieppari. Peppino era un mingherlino cui riuscì farsi gigante, andando alla ventura paurosa contro la criminale mafia che lo aveva minacciato di infamarlo, di ucciderlo, perché senza più sangue non sarebbe più cresciuto”.