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‘Le Interviste’ Category

Ranzie Mensah, l’affascinante principessa del popolo Fanti del Ghana, è una raffinata interprete di musica gospel e soul dalla straordinaria capacità di coinvolgere ed emozionare il pubblico con la sua voce profonda, calda e sensuale.
Nei suoi concerti musica, espressività corporea e danza si mescolano armoniosamente, sfiorando la pièce teatrale.
Grazie all’intensità delle sue performance e alla sua forte presenza scenica, Ranzie ci avvolge in una miscela preziosa di suoni e parole dalle sfumature variopinte.

Ciao Ranzie, quanto sono importanti le radici culturali per te?

Le radici culturali hanno importanza per l’essere umano come le radici sono importanti per l’albero.
L’albero ha bisogno delle radici per crescere ma deve anche spiegare i propri rami nella direzione opposta, verso il sole.
Se l’albero dovesse “chiudersi” in se stesso, ovvero cercare di crescere nella stessa direzione delle sue radici, morirebbe.
Nello stesso modo l’essere umano, pur riconoscendo le proprie radici, deve aprirsi all’altro, al mondo, all’intero universo, altrimenti la sua realtà si atrofizzerebbe e la sua cultura morirebbe.

Tu hai condiviso il palco con Miriam Makeba che ha portato in giro per il mondo la storia delle sofferenze ed ingiustizie del vostro paese d’origine, che cosa ha rappresentato per te “Mama Africa”?

Mama Africa” è stata il mio mentore.
A parte la sua voce e la sua musica, ciò che rappresenta per me è la capacità e il coraggio di un artista di usare la sua arte per difendere i principi dell’uguaglianza e della giustizia anche a costo di sacrificare i vantaggi della propria carriera o della propria vita.
Questo è ciò che ha fatto Miriam Makeba.
E’ stata esiliata dal proprio paese per oltre 30 anni per la sua lotta contro l’apartheid, è stata dichiarata persona non gradita in diversi paesi del mondo per le sue dichiarazioni contro l’ingiustizia che regnava nel Sudafrica e la sua brillante carriera negli States è stata stroncata negli anni sessanta per la sua unione con il black panther Stokeley Carmichael.
Miriam Makeba è morta sul palcoscenico a Castel Volturno cantando ancora una volta per la giustizia.
Io vorrei seguire questo esempio nella mia vita di cantante.

Durante la tua lunga carriera ti sei esibita in numerosi concerti in Africa, Europa e Nord America, qual è stato il live più emozionante?

E’ veramente difficile dirlo perché sono stati molti i concerti emozionanti. Sicuramente ha significato molto per me cantare per i premi Nobel per la Pace all’auditorium di Santa Cecilia a Roma.
La pace è un argomento che mi interessa particolarmente e ogni volta che sono chiamata a cantare per questo ideale mi sento onorata!

Con la tua musica ed i tuoi progetti interculturali sei da sempre socialmente impegnata a diffondere messaggi di pace, ce ne vuoi parlare?

Il mio stesso percorso di vita è stato interculturale.
Sono nata nel Ghana. All’età di 5 anni siamo andati a vivere negli Stati Uniti e poi in Inghilterra per poi trasferirci in Zambia e poi in Uganda. Frequentavo scuole internazionali dove i miei compagni provenivano dai 5 continenti.
Ho viaggiato in tanti paesi ed ho voluto dedicare la mia espressione artistica all’avvicinamento dei popoli perché oltre le differenze abbiamo tante cose in comune.
Nelle scuole con i bambini da 3 a 12 anni presento progetti interculturali dove racconto l’Africa attraverso le fiabe, la danza, il canto, i proverbi, le ninna nanne perché queste espressioni sono comuni a tutti popoli e culture della terra.

I bambini sono il nostro futuro ed è importante prepararli a questo intreccio di culture e di popoli che ormai è un processo inarrestabile.
In una scuola materna ho chiesto ai bambini che mi guardavano con tanta curiosità: “Bambini, secondo voi, perché
Ranzie è nera?”
Una bambina di tre anni mi ha risposto: “Perché hai mangiato troppo cioccolato!”.
Questa purezza, comune a tutti i bambini del mondo, è un patrimonio, un ispirazione costante per me!

Nel luglio 2021 ho fondato La Melagrana, una Cooperativa sociale composta da mediatori interculturali e altri partner, di cui sono Presidente.
L’obiettivo comune è quello di promuovere la dignità della persona al di là di ogni distinzione etnica, di colore, religione, cultura, lingua o status sociale, offrendo assistenza ai cittadini stranieri con servizi sociali, sanitari ed educativi e promuovendo la consapevolezza interculturale all’interno del tessuto sociale del nostro territorio.
Le parole chiave sono: integrazione, inclusione, benessere e cooperazione.

Quanto ritieni sia importante stimolare l’interesse dei giovani alla musica ai fini di una formazione culturale e spirituale?

Frederick Nietzsche diceva “Senza musica, la vita sarebbe un errore”.
Io dico che sarebbe un grave errore non introdurre la musica nell’educazione giovanile.
Numerosi grandi filosofi e pensatori, da Einstein a Kennedy, hanno riconosciuto che la musica va oltre il semplice intrattenimento.
Secondo la cultura africana, la musica eleva e purifica lo spirito, celebra la vita, è un ringraziamento per tutto ciò che abbiamo e ci permette di raccontare la nostra storia alle generazioni future.
Eric Anderson dice: “E’ soltanto introducendo i giovani alla grandezza della letteratura, dell’arte drammatica e della musica e all’emozione della grande scienza che possiamo offrire loro tutte le potenzialità che sono dentro lo spirito umano e permettere loro di avere visioni e di sognare”

Il fascino di un luogo influenza la rappresentazione, la nutre di contenuti e ne viene a sua volta impregnato, dove ti piacerebbe esibirti?

Mi piacerebbe esibirmi all’Apollo Theater di Harlem perché è il tempio della musica dei neri che sono stati portati in America dall’Africa come schiavi, cantando le loro sofferenze e le loro speranze.
E’ il tempio dei “negro spirituals”, del “gospel”, del “soul”, del “blues” e del “jazz”.
Dice
Paul Whiteman : “Il jazz è arrivato in America trecento anni fa in catene.”

Paolo Conte è rimasto talmente affascinato dalla tua voce che ti ha fatto interpretare il suo brano “Don’t Break My Heart“, come è stato l’incontro con questo grande cantautore? C’è stata da subito una grande intesa tra noi. Io ero innamorata della sua musica e del suo stile inconfondibile.
Dopo un suo concerto a Caracalla, é venuto a sentirmi all’anfiteatro di Asti, abbiamo cenato insieme e successivamente mi ha invitato a casa sua.
Paolo Conte è un personaggio grande ed umile, con una profonda conoscenza e sensibilità per la musica.

Ho nel cuore “Just a Dream”, uno dei tuoi preziosi album. Ci racconti come è nato ?

Il CD “Just a Dream” è nato innanzitutto con un desiderio di fare una raccolta di alcune delle più belle canzoni del repertorio gospel.
Il gospel è la musica della mia anima.
Con il gospel mi spoglio di ogni cosa e esprimo quello che sono veramente: sono innamorata del divino, della trascendenza (ma con i piedi per terra). “Just a Dream” è anche il lavoro della maturità e attraverso questo lavoro lascio al mondo tutto ciò che desidero esprimere.

Quale messaggio vorresti che fosse trasmesso attraverso la tua musica?

Il grande filosofo e scrittore Leo Tolstoy diceva “La musica è la stenografia dell’emozione”.
Attraverso la mia musica voglio soprattutto trasmettere l’emozione e la gioia della vita in tutte le sue sfaccettature.
Vorrei essere al servizio degli altri quando canto, rimuovere i brutti pensieri, portare un briciolo di speranza, innalzare le anime, proporre un sorriso e avvicinare i popoli.
Queste parole del
Dr. Max Bendiner esprimono bene il concetto: “La musica potrebbe compiere la più grande di tutte le missioni: potrebbe essere il legame tra le nazioni, le razze … potrebbe unire ciò che è sconnesso e portare la pace a ciò che è ostile”.

Progetti futuri?

Ad agosto sarò in Canada, a Toronto per lo ‘Yensa Festival. A Celebration of Black Woman in Dance’, i cui principi guida sono la solidarietà, la sorellanza e l’eccellenza artistica.
Home page – Yensa Festival
Questa manifestazione, ideata e prodotta da mia figlia Lua Shayenne con la sua Dance Company, vuole dare risalto al talento e alla creatività delle artiste danzatrici e coreografe di colore che provengono da ogni parte del mondo.
Sarà un susseguirsi di dibattiti, incontri, workshop e performance.
Il tutto in una prospettiva femminile.

https://youtu.be/uiVruv4kKBM

“Il
leone sulla giraffa”: Madre, giornalista, scrittrice, imprenditrice, Giovanna
La Vecchia e le sue figlie inventano favole per costruire un piccolo angolo di
paradiso

Come
nasce una favola?

In
molti modi ed ognuno di essi assume un significato straordinario quando il
risultato è un dono prezioso per il lettore curioso in attesa del miracolo
della narrazione.

“Dunque, una madre e due figlie, che invece di fare quello che fanno tutte le persone comuni, ossia andare in libreria, comprarsi un libro di storie, leggerselo in santa pace, lo inventano e se lo scrivono in proprio. E l’idea non è affatto male, è quasi come farsi il pane in casa, che non è buono solo perché lo mangi, ma soprattutto perché lo lavori, e intanto che lo lavori chiacchieri, ridi, inventi forme fantasiose, intriganti, qualche volta spettegoli. Ecco, farsi il pane in casa dà soddisfazione perché fa l’effetto di una storia, e una storia, proprio come il pane fatto in casa, deve tenere vicini, insieme, chi la racconta e chi l’ascolta. Deve aiutare a ‘stare’, voce del verbo stare, il verbo migliore del mondo.

(Scatto dell’Ospite)

Le
storie esistono proprio per questo, conta più lo stare della trama, e anche se
non tutti sono d’accordo lo dico lo stesso, anzi lo ripeto con maggiore forza,
un genitore che ‘sta’ conferisce energia e credibilità a qualsiasi racconto,
trasformandolo in un atto educativo compiuto.

Se
non c’è nessuno che ‘sta’, tutte le storie sono inutili. Come accade oggi nella
comunicazione virtuale, dove nessuno ‘sta’ ma tutti credono il contrario.”

Domenico Barrilà.

Il leone sulla giraffa (Antonio Stango Editore, pag. 100, euro 15) è la recente pubblicazione di Giovanna La Vecchia in collaborazione con le tre figlie Chiara, Maria ed Iris. La prefazione è di Domenico Barrilà, noto psicoterapeuta e analista adleriano, scrittore, da oltre trent’anni impegnato nell’attività clinica. Il libro è corredato da bellissime illustrazioni di Francesco Barbetti. Si tratta della prima pubblicazione di favole per bambini della scrittrice e giornalista Giovanna La Vecchia.

Oltre
vent’anni di giornalismo, diverse pubblicazioni di narrativa, poesia,
saggistica, ha ricoperto il ruolo di capo ufficio stampa per importanti
aziende, organismi, enti pubblici e privati in ambito nazionale. Come nasce “Il
leone sulla giraffa”?

“Nasce da una felice intuizione di una madre e le sue tre figlie, Chiara, Maria ed Iris. Per alcuni anni ho ideato ed organizzato presso le scuole elementari svizzere, dove vivo dal 2014, corsi di “inventastorie”, scrittura creativa, giornalismo, teatro e poesia. Mi sono accorta di come i bambini, soprattutto quelli più problematici, con vissuti anche molto difficili e complessi, riuscissero ad esprimere sentimenti positivi attraverso le parole e l’immaginazione. Erano percorsi attraverso i quali raggiungevano un equilibrio interiore molto profondo e duraturo. Accadevano dei piccoli miracoli e le espressioni di negatività, attraverso l’immaginazione, si trasformavano in personaggi o eventi grazie ai quali si poteva facilmente anche ipotizzare il loro disagio.

(Copertina de “Il Leone sulla Giraffa”)

Ma
il libro nasce anche e soprattutto da una urgenza ed emergenza personale,
quella di trasformare il dolore in guerrieri di pietra, clown, contadini,
scolari, maggiordomi, giraffe e leoni, baroni, principesse, galline, topi e
ghepardi. Personaggi strampalati, divertenti, buffi, che rappresentavano tutte
le difficoltà, di volta in volta magicamente superate, che stava vivendo la mia
famiglia. I momenti in cui io e le mie figlie eravamo insieme sdraiate sul
prato a guardare il cielo o sul letto ad immaginare le stelle e la luna al
posto di un soffitto, si trasformavano in viaggi straordinari, avevamo la
libertà, che in realtà non ci era temporaneamente concessa, di essere dovunque
volevamo e per tutto il tempo che desideravamo. La separazione dei genitori,
vissuta con problematicità e drammaticità, per due bambine è qualcosa di terribile,
a volte bisogna inventarsi un mostro, magari con sette teste che sputa fuoco e
calpesta i fiori ad ogni suo passo, e magari un principe bellissimo su un
cavallo alato che ferma il mostro e salva il castello, il re, la regina, la
principessa e tutto il mondo. I figli impareranno che non ci sono sfide
impossibili e che affrontare le difficoltà non sempre vuol dire soffrire, può
significare crescere con la consapevolezza di come è realmente la vita, né
bella, né brutta, semplicemente vita”.

Sulla
copertina, sotto al titolo, scrive “fiabe favolose per creature avventurose –
otto storie consigliate dagli 8 ai 100 anni”, quindi in pratica è un libro per
tutti?

“I
nostri personaggi raccontano vissuti di ogni tipo ed in ogni luogo, reale,
immaginario, sogno. Ciò che accade alla gallina Teresina, al vecchio contadino,
al principe Magrino, al leone, alla giraffa, al barone di Santandrè, al bambino
dispettoso o alla principessa insonne in realtà è ciò che potrebbe accadere ad
ognuno di noi a qualsiasi età. L’amore, la libertà, la malattia, i vizi ed i
capricci, la solitudine, la prepotenza, l’arroganza e l’inganno fanno parte di
tutti noi nei diversi momenti della nostra vita. Anche i luoghi rappresentati,
la selva oscura, Benzo Benzo, la savana, Pirulì, Tvlandia, rappresentano a
volte un punto di partenza altre un traguardo, un approdo, una salvezza. Ed
ancora tutti i sentimenti che coinvolgono i personaggi, il coraggio, l’onestà,
la fiducia, l’amore rassicurano il bambino sulla circostanza che, a volte gli
adulti possono sbagliare ed anche tanto, possono perdersi, smarrirsi, anche
sparire, ma nulla di tutto ciò è necessariamente “per sempre”. La parola
“definitivamente”, mi disse un mio caro amico settantenne, non esiste, questo
ai bambini può far paura, ma i miei personaggi interagiscono con ogni forma di
sentimento ed emozione, e ne escono fuori sempre vincenti e forti”.

Quindi
con queste favole ha voluto in qualche modo affrontare il tema della
separazione, della perdita, del cambiamento?

“Una
vicenda molto complessa ha visto me e le mie due figlie coinvolte in un
distacco temporaneo ma molto doloroso. Brevi ma intensi gli incontri quotidiani
durante i quali il tempo doveva essere necessariamente ‘impreziosito’ per
lasciare impresse nel cuore e nella mente delle mie bambine la voce ed il
calore di una madre piena d’amore. E cosa può esserci di più prezioso al mondo
che il dono di una favola? Chiedevo alle mie figlie di ‘darmi i personaggi’,
così le piccole coautrici iniziavano a scavare sempre più a fondo della loro
curiosità, fantasia, immaginazione e magia. Mi chiedevano di ‘inventare una
nuova storia con i loro protagonisti’ e così accadde il primo miracolo, senza
affannosa ricerca o disperata volontà di stupire, abbiamo dato vita a qualcosa
che ci terrà legate per sempre, e che le piccole ricorderanno anche da adulte,
quando il peggio sarà passato ed il male, forse, speriamo, le avrà abbandonate
lasciando spazio e rendendo eterno un sentimento forte e tenace. Non a caso il
primo personaggio del libro è un guerriero con il cuore di pietra alla ricerca
di un vero cuore pulsante che possa fargli provare il sentimento più bello del
mondo, l’amore. Il nostro viaggio avventuroso è durato otto storie e, sempre
non a caso, si è concluso con il felice coronamento di una bellissima e dolorosa
storia d’amore. Nulla è un caso in questo libro, neppure le illustrazioni di
Francesco Barbetti, che ha saputo cogliere il significato di questo lavoro con
estrema sensibilità ed intensità, entrando a far parte anche lui, con grande
garbo, di questa vicenda di cui, inconsapevolmente, ha rappresentato tutto il
senso.  Lui non conosceva cosa stava
accadendo nella vita reale”.

Le
favole sono state scritte tra il 2016 ed il 2017, ma sono state pubblicate solo
a dicembre dello scorso anno. Ha volutamente atteso che Maria ed Iris fossero
più grandi affinchè potessero vedere quelle storie come “favole per tutti i
bambini” prendendo un po’ le distanze da quanto accaduto.

“Esatto.
Avevamo tutti bisogno di far trascorrere un tempo sufficiente per
familiarizzare maggiormente con tutti i personaggi. Rileggerlo adesso è stata
un’esperienza incredibile, tante cose sono cambiate, non mi riferisco agli
eventi esterni. Siamo cresciute e abbiamo lasciato che anche Maria, Iris e
Giovanna abitassero tra quelle pagine. C’è stato un distacco tra il prima ed il
dopo e forse anche i personaggi delle otto storie sono cambiati nel frattempo.
Lo sapremo nel seguito de “Il leone sulla giraffa” perché quello che abbiamo
intenzione di fare è continuare a raccontare, nella prossima pubblicazione,
cosa è accaduto agli stessi personaggi della prima edizione e credo che in
quella occasione si aggiungeranno anche una mamma e due bambine che ne combineranno
delle belle. Tutto è cambiato in questi anni, dalla scrittura alla
pubblicazione del libro.

Mentre inventavo queste favole con e per le mie
figlie avevo i minuti contati, il tempo da trascorrere con loro era limitato e
appena finita la storia se ne sarebbero andate via mano nella mano con il padre
senza neppure rendersi conto di ciò che stava accadendo. Ed io raccontavo di
principesse, leoni, baroni, bambini capricciosi e dispettosi, circensi.
Ridevamo sdraiate nell’erba a guardare il cielo. Dentro di me ipotizzavo che
una semplice folata di vento ci avrebbe potuto sollevare da terra per farci
scomparire. Volevo andare lontano. Non mi accorgevo che in realtà eravamo già
lontanissime, catapultate in quelle storie che ci hanno guarito e ci hanno
salvate. “Il leone sulla giraffa” è la dimostrazione di come si possa
descrivere il paradiso pur vivendo l’inferno, di come l’immaginazione, la
creatività e la poesia siano i veri miracoli del nostro tempo, di ogni tempo.
Le bombe esistono e distruggono ogni cosa, ma noi continuiamo a vivere il
nostro sogno e ad urlare libertà”.

Ci racconti delle sue tre figlie Chiara, Maria
ed Iris, protagoniste fondamentali in questo volume. Tre personalità molto
diverse eppure legate da un sentimento forte e profondo. Come le presenterebbe
ai lettori le coautrici de “Il leone sulla giraffa”?

“Posso descriverle con
un breve racconto scritto poco prima della pubblicazione del libro, mentre
riflettevo sulla ovvia frase “i figli sono tutti uguali”. Mi piace riproporlo
in questa intervista.

“Sono madre di tre figlie uniche.

I figli sono tutti uguali. Non è vero, non è assolutamente vero. Lo diciamo noi genitori pensando di non deludere nessuno e convincendoci che sia la cosa giusta, eticamente corretta da dire. Mai bugia più grande ed inutile. I figli sono TUTTI figli unici e li amiamo in un modo completamente diverso, “problema” sconosciuto a chi ha un solo figlio. “Problema”…mi vien da ridere. Ricchezza, risorsa, bellezza, straordinaria sensazione di avere davanti tanti altri sé completamente diversi, unici, “pezzi” unici, con crepe, difetti e particolarità che ci rendono “miliardari” anche senza un soldo e senza un bel niente di niente. Le guardo tutte e tre, ogni volta che posso, me le guardo sempre più in profondità, arrivo fin dove posso e fin dove credo di poter arrivare, consapevole del fatto che c’è un universo infinito a me ancora sconosciuto, e grazie a Dio, mi ripeto incessantemente. Non voglio conoscere tutto, non voglio sapere tutto, non voglio vedere tutto. Mi piace da impazzire quando d’improvviso arriva qualcosa di completamente inaspettato e sorridendo mi dico “questo me lo sarei aspettato da Maria, non da te” oppure “somigli sempre di più a Chiara”, “non parlarmi come farebbe tuo padre!”. Sempre più spesso dico idiozie del genere, il più delle volte quando la rabbia si impossessa di me e mi trascina in vocabolari fin troppo ovvi e scontati ed allora sono loro che mi guardano come se non fossi io, ma mia madre o mia sorella, mai mio padre, purtroppo, la persona più equilibrata e pacata che io abbia mai conosciuto nell’universo.

(Scatto di Iris)

Ebbene sì, la figlia preferita è Iris. Lo ammetto, voglio essere onesta. La sua dolcezza è disarmante. Sconvolge il tempo e lo spazio, irrompe, travolge. Morbida e liscia come seta, calda come lana, rotonda come una perla, straordinaria nelle sue esternazioni. E’ la parte di me che non sono mai riuscita a far crescere, è quello che mi è sempre mancato per essere “perfetta”. Penso “E’ arrivata per farmi capire che con la calma e con il sorriso si può arrivare dovunque, anche lontanissimo, andata e ritorno”. Non esplode mai, rimane ferma, ferita, offesa e piena di dolore, si nasconde il viso tra le mani, per qualche istante, poi sposta le mani e sorride illuminando il pianeta di stelle. S’accende tutto ed un calore potente si diffonde tra le carni ed il sangue. Mi sento sciogliere, mi dissolvo, evaporo, svanisco da quel mio essere irruenta e prepotente e divento un angelo, mi spuntano due enormi ali e mi sollevo da terra. Lei lo sa l’effetto che produce e se la ride tra sé e sé, come se nulla fosse ed invece è tutto. Ha occhi immensi, di un colore imprecisato, indefinibile, che cambia con il tempo, con le svariate passioni che vive, con lo stato d’animo, con le parole, con i gesti, con i sapori del cibo e con gli orari del giorno e della notte. Comunica con le minuscole venature delle pupille, paralizza quando li sgrana, quegli occhi da aliena e li punta verso una qualsiasi direzione, si riconoscerebbe in mezzo a milioni di esseri pensanti, vien voglia di rapirla e di portarla su un altro pianeta per vedere l’effetto che potrebbe causare il suo esserci. Ha un pugno forte e grande, ma è quando arriva con la mano aperta che riesce ad essere sè stessa, con una sola carezza fa crescere prati di girasoli in mezzo al deserto.

(Scatto dell’Ospite)

Ebbene sì, la figlia preferita è Maria. Lo ammetto,
voglio essere onesta. La sua creatività è disarmante. Sconvolge il tempo e lo
spazio, irrompe, travolge. Quando la cerco per tutta casa per punirla o
sgridarla o rimproverarla, lei appare “travestita”, una nuvola leggera, una
piuma, un soffio di vento leggero e fresco, mille colori addosso come fosse il
più perfetto tra tutti gli arcobaleni. Gesticola, si agita, balla, canta,
scompigliata, scapigliata, scalmanata, scomposta. Mi punta gli occhioni giganti
addosso e improvvisa uno show davanti al mio dito puntato. La sua camera è un
accampamento, a volte ospita gli indiani d’America, altre indigeni africani,
poi arrivano eserciti dalla Mongolia o geishe ammalianti bianche come
porcellane. Lei arriva da Palenga, ne parla perfettamente la lingua
incomprensibile, la notte viaggia, il giorno è assonnata e stanca, si nutre
appena giusto per sopravvivere, tutto l’annoia, è al di sotto delle sue
aspettative. Legge al mattino alle sei e mezza prima di andare a scuola, fa
lunghe passeggiate da sola nei boschi, raccoglie sassi e legni e foglie. Ha un
innato talento in tutto ciò che fa. E’ sorprendente. E’ bellissima quando in
silenzio adagia il suo viso sulla mia spalla e si lascia baciare. E’ preziosa.
Creatura misteriosa. Incomprensibile. Passa dal sorriso al pianto in un
istante. Non se ne conosce il motivo e non è poi così importante conoscerlo. Si
autoguarisce da ogni tipo di ferita. Si lascia amare ma ama con enorme
difficoltà, perché amare è darsi completamente e per lei questo è difficile.

Ebbene sì, la figlia preferita è Chiara. Lo ammetto,
voglio essere onesta. La sua forza è disarmante. Sconvolge il tempo e lo
spazio, irrompe, travolge. Impossibile starle dietro, impossibile anche
camminarle di fianco, di lato, a destra, a sinistra, sotto, sopra. Guerriera
disarmata, in giro per il mondo con valigia e computer. Se lo mangia questo
stupido mondo insignificante. Se lo ingoia e lo risputa fuori migliorato.
Coraggiosa come una tempesta. Furiosa e furibonda. Un fiume in piena senza
rive, argini, approdi. Non si attracca al suo porto anche perché porto non ne
ha e non ne vuole. Impaziente, insaziabile, incontentabile. Sufficiente a sè
stessa. Si basta da sola. Si autogestisce. Si autodistrugge. Ma poi si rialza, si
ricompone e ricomincia. Tutto da sola come fosse l’unica abitante di un pianeta
abbandonato dagli esseri umani, un’apocalisse. Babilonia. “Mamma so io cosa
devo fare”, la frase che ripete incessantemente come un mantra, se ne vuole
convincere, in realtà sa bene che ha bisogno di me ed io di lei, gemelle
diverse, ma incredibilmente uguali. Potente. Attila. Fa paura. Purtroppo anche
a sè stessa. Si contorce frequentemente dal dolore per tutto quello che non
riesce a sputare fuori perché teme di ferire, di far male, di sbagliare.

Ho tre figlie uniche, sono madre di tre figlie uniche,
raro caso al mondo. Mi sento la donna più ricca del pianeta e la più fortunata
e la più completa. Anche loro dicono di avere una mamma unica, una sola. Raro
caso al mondo. Siamo pezzi unici in attesa di un sogno gigante, di quelli che
non durano una sola notte, ma una vita intera. Nel frattempo inventiamo fiabe:
“Sai nascono cosi fiabe che vorrei dentro tutti i sogni miei e le racconterò
per volare in paradisi che non ho. E non è facile restare senza più fate da
rapire, e non è facile giocare se tu manchi”. Abbiamo imparato a giocare tutte
insieme, sempre, per non farci più del male e per non farci fare più male da
nessuno. Non è difficile il gioco che facciamo, semplicemente non ha regole,
così, incredibilmente nessuno vince mai e nessuno perde mai”.

Madre a 15 anni, in un sud di quasi quarant’anni fa,
uno scandalo che la portò ad abbandonare la sua terra per trasferirsi a Roma
dove ha vissuto per quasi trent’anni. E’ stato forse questo avvenimento a
lasciare intatto ed immutato quel suo sguardo da bambina sul mondo?

“Sicuramente quella esperienza ha fatto sì che sentissi dentro di me l’esigenza di recuperare quegli anni persi, quell’adolescenza bloccata, quello smarrimento e quella paura che andava prima o poi necessariamente guardata in faccia senza filtri.

(Illustrazione da “Il Leone sulla Giraffa”)

Ho affrontato la belva scrivendo il mio primo romanzo autobiografico “Le apparenze”, ho cercato di perdonare tutti, principalmente me stessa ed è nato in quel momento il bisogno di fare qualcosa per aiutare tutti i bambini ad affrontare i loro dolori più grandi. Perché a 15 anni ero una bambina, che vestiva con i maglioni di lana giganti ed i calzettoni al ginocchio. Quella subita fu una vera e propria violenza da parte di tutti, la società condannava una bambina e le dava anche un nome ben preciso e non proprio piacevole. Ma io non mi identificavo in quella etichetta piena di cattiveria e pregiudizio. Io mi sentivo come la gallina Teresina, la principessa insonne, il leone in fin di vita salvato dalla giraffa, il bambino dispettoso e capriccioso al primo giorno di scuola che cerca in tutti i modi di attirare l’attenzione, la gazzella spaventata, tutti i personaggi de “Il leone sulla giraffa” hanno qualcosa di quella ragazzina costretta a lasciare la sua città per evitare le maldicenze e per salvare la buona reputazione della famiglia. Ma non è stato certo solo quell’episodio a formare la donna che sono diventa

(Illustrazione da “Il Leone sulla Giraffa”)

ta. Quasi trent’anni fa ho perso mia sorella e l’anno dopo mio padre, i miei punti di riferimento più importanti. Poi un matrimonio approdato ad un divorzio disumano e disonesto. Il 10 febbraio di quest’anno, l’anniversario della morte di mia sorella Mariella, ho ripensato un po’ alla mia vita. Quasi trent’anni senza di lei.

Stavo per addormentarmi, Maria, mia figlia,
chiacchierava senza smettere un attimo. Ho guardato l’orologio. È apparso quel
numero 10 che mi ha riportato alla memoria quella sera. Roma. Policlinico
Umberto I. “Mi dispiace. Non ce l’ha fatta”. Fine della storia. Le solite
spalle di un camice bianco che se ne va e ci lascia a digerire quel dolore
inconcepibile, inaccettabile, ingiusto. E poi subito dopo aver visto il numero
10 sul mio orologio ho guardato Maria che si era addormentata. Iris era nella
sua stanza, dormiva anche lei. Chiara mi aveva scritto poco prima o poco dopo
la mezzanotte subito prima di addormentarsi, per darmi la buonanotte. Continuavo
a pensare a come risolvere ciò che sta accadendo. Il mio problema di sempre.
Lui. Il padre delle mie figlie. E allora ho ripercorso in pochi secondi
un’altra storia. Agosto 1984, avevo 15 anni e mezzo. Avevo partorito a Roma da
un mese più precisamente il 3 giugno. Avevo lasciato mia figlia in ospedale,
sulla sua cartella clinica la scritta
ADOTTABILE. Ero tornata a casa mia a Crotone. Lo scandalo
era stato evitato, ingenuamente pensavamo. Non era trascorso un solo istante in
cui non avessi pensato a mia figlia Chiara Ileana Francesca, chiamata con i
nomi delle tre infermiere presenti al parto. Il 14 agosto prendo la decisione
di tornare a Roma per riprendere mia figlia. Mia madre decide di accompagnarmi.
Partiamo troviamo una stanza vicino la stazione termini. Andiamo al tribunale
per i minorenni ci dicono che occorre fare una causa e bisogna trovare un
avvocato. Apriamo l’elenco telefonico a caso, il primo nome che appare, una
cabina telefonica, l’appuntamento. Dopo pochi giorni l’udienza. C’è stato un
errore. Prima del compimento dei 16 anni non si può scegliere se riconoscere o
non riconoscere un figlio. Un errore commesso in ospedale. Mia figlia deve
tornare da me. Dopo qualche ora rivedo Chiara e fino al 15 novembre rimango con
lei a vivere in un istituto per ragazze madri a Monteverde. Avevo 15 anni e
mezzo, mia figlia 2 mesi. Quando le luci dell’istituto si spegnevano la sera
iniziavo a piangere e smettevo solo quando arrivavano le prime luci dell’alba.
Ho vissuto così per tre mesi ma a me sembrarono 30 anni. C’erano le sbarre alle
finestre. Una guardia al cancello per impedirci di scappare. Ragazze
abbandonate dalla famiglia, con realtà di droga, prostituzione, violenza. Avevo
15 anni e mezzo, mia figlia due mesi. E quella sera, il 10 febbraio di
quest’anno, in quel  preciso istante in
cui una figlia mi dormiva vicina, un’altra nella stanza di fianco ed un’altra
ancora, quella del miracolo, mi aveva dedicato il suo ultimo pensiero prima di
addormentarsi, dicevo a me stessa “Se ho superato tutto questo puoi tu uomo mettermi
in difficoltà fino al punto di farmi crollare, soccombere, spezzarmi? E no,
caro mio, hai fatto male i conti ed hai scelto la donna sbagliata per
esercitare tutto il tuo potere distruttivo. Una madre che si è vista strappare
sua figlia una volta ed è sopravvissuta, stai pur certo e sicuro, caro uomo,
che sarà in grado di sopravvivere anche a te. Rincara pure la dose ed io di
quella scena ne farò un tempio in cui pregare non un dio qualunque, ma il dio
delle madri e dei figli, e non lo pregherò per me, ma per te, affinché abbia
pietà e non ti faccia pagare un prezzo troppo alto per tutto il male che hai
fatto, prezzo che tu di certo non saresti in grado di sopportare. Amen e così
sia”. Da quel 3 giugno 1984 non ho mai smesso neppure per un giorno di pensare
a come fare del bene a bambine e ragazze a cui è stato impedito finanche di
sognare, non solo di sperare. Mi sono impegnata in battaglie gigantesche
affinchè nessuno si arrogasse il diritto di mettere un’etichetta ad un essere
umano, soprattutto se piccolo, indifeso e spaventato dagli eventi. Anche “Il
leone sulla giraffa” è un piccolo contributo in tal senso. Se sono capace io,
ancora oggi a 53 anni di inventare e raccontare favole, chiunque può farlo in
qualunque condizione si trovi, anche sotto le bombe, sotto le dittature e sotto
tiranni che non hanno nulla di essere umano ma somigliano sempre di più al
mostro dalle sette teste di cui mi raccontava mio padre quando avevo appena
pochi anni”.

Il male che si riceve ed il dolore che si subisce possono trasformarci in
qualcosa che non vorremo mai essere?

“No, assolutamente no. Noi a casa abbiamo un nostro particolare modo di affrontare le “botte” che la vita ci ha dato, ci dà e ci continuerà a dare.

(Illustrazione da “Il Leone sulla Giraffa”)

Una botta? due chili di farina lievito olio e
sale. Due botte? Raddoppiamo le quantità e di pane ne vengono fuori due. Tre
botte? Triplichiamo tutto e la casa profuma di famiglia, figli, pasta, pane e
torta di mele. E no, potremmo essere bestie, animali feroci, orchi, draghi
maledetti, streghe e malvagi guerrieri avidi di conquiste, e invece sforniamo
fiabe e pane e ne facciamo dono anche ai nemici, perché lo dobbiamo a noi
stesse, non diventare mai come loro. Che poi chi lo sa, qualcuno trasformó i
pani ed i pesci moltiplicandoli, può darsi che quel pane pieno d’amore in bocca
ai peggiori demoni si trasformi in veleno e allora sarà ciò che deve essere, ma
per noi rimarrà sempre il più grande gesto d’amore. Siamo fatte così e si illuda
pure chi pensa di averla fatta franca. Non cerchiamo vendetta, noi gridiamo
giustizia in questo ed in tutti i mondi possibili. Nulla può renderti ciò che
tu non sei, nulla può tirar fuori da te ciò che tu non hai”.

Domenico
Barrilà è l’autore della prefazione de “Il leone sulla giraffa”, molto
intuitivo il suo paragone tra le favole ‘fatte in casa’ dalle autrici ed
il pane caldo e fragrante, accogliente e nutriente che ‘fa famiglia’
sempre e comunque, ovunque in ogni casa ed in ogni angolo dell’universo.

“L’incontro con Domenico Barrilà è stato
illuminante, un uomo che da sempre si occupa del disagio giovanile, che ha
scritto tantissimo dimostrando di conoscere molto bene i giovani, il contesto
sociale con tutte le sue trasformazioni ed i suoi velocissimi cambiamenti. Uno
psicoterapeuta attento e scrupoloso cui ho affidato le mie favole nella speranza
che avesse tempo e voglia di leggerle e di commentarle insieme per lasciare un
messaggio ai lettori. E’ stata una gioia grande quando mi ha inviato il suo
scritto cogliendo straordinariamente ed esattamente la natura profonda di
questo lavoro per me così importante. Non potrò mai smettere di ringraziarlo e
di essergli riconoscente. Ogni sua espressione è pregna di significato. “Le
storie che fabbricano, che si leggono tra di loro e poi ci raccontano, sono
piene zeppe di “vecchia” umanità, quella che se muore siamo morti tutti. Non
c’è una sola delle otto fiabe che non contenga un monito intelligente, privo di
moralismo”, scrive Barrilà. E conclude “Ce n’è per tutti i gusti, ma solo per
chi è disposto a credere che il futuro esiste solo se ci portiamo appresso il
meglio del passato, compresa quell’innocenza che per tanti è diventata una
zavorra invece è una solidissima zattera”. Straordinario”.

Il libro è corredato da numerose colorate
illustrazioni di Francesco Barbetti. Com’è nata questa solida collaborazione?

“Conoscere Francesco è stato un altro miracolo
di questo lavoro,
io li chiamo così i
momenti importanti, non un caso, perché il caso non esiste, esistono equilibri
fatti di istanti irripetibili, di unioni di cuori e neppure è un caso che un
padre abbia compreso così bene il messaggio d’amore di una madre, pur essendo
all’epoca del nostro incontro, due perfetti sconosciuti, legati solo dalle
fiabe scritte e da pubblicare.
È esattamente
ciò che avrei voluto. Grazie davvero ad un grande artista, oggi amico sincero e
lavoratore instancabile. Le modifiche al lavoro originario di Francesco sono
state minime, quasi inesistenti. Ha colto sin da subito esattamente ciò che
avevo in mente, senza nessun tipo di difficoltà. Una intuizione ed una
sensibilità incredibili accompagnate da una mano delicata e leggera. Le
illustrazioni sono poesia pura. Il libro non sarebbe stato quello che è e non
avrebbe rappresentato il messaggio che avevo deciso di trasmettere senza i suoi
disegni bellissimi”.

Alcune
delle favole contenute nel libro sono state messe in scena con la
partecipazione di sua figlia Chiara Stirpe, che ha collaborato anche nella
stesura del volume. Sua figlia è un ingegnere presso una multinazionale, come è
riuscita a coinvolgerla in questo progetto?

 “Chiara è un essere speciale, un elfo, una
fata, uno gnomo, un folletto che mi ha sempre sostenuta in ogni folle idea ed
iniziativa, spesso partecipandovi in prima persona, interprete dei miei
racconti in veste di attrice drammatica o comica. Un piccolo gioiello nella mia
vita, senza il quale non sempre avrei avuto modo di ‘brillare’ pur con spunti e
pensieri ‘luccicanti’. Indimenticabile la sua interpretazione della gallina
Teresina, vestita di piume, tacchi altissimi e spacco vertiginoso, una tra le
più belle rappresentazioni teatrali dei miei scritti. Improvvisava davanti ad
un pubblico,  bambini ed adulti,
entusiasta e partecipe che non riusciva a trattenere le risate. E’ un po’ tutto
fatto in casa questo lavoro, ma una casa davvero particolare, nessuno si è mai
sottratto alle mie direttive, sono un capo esigente ed intransigente, mi viene
concesso tutto perché agli artisti, si sa, non si può mai dire di no e non si
possono porre limiti,  come ad un
sonnambulo, se lo svegli mentre vaga per tutta la casa in preda al suo
disturbo, le conseguenze sono imprevedibili, o come un funambulo, se lo distrai
mentre esegue il suo esercizio con le sue regole ed il suo equilibrio, può
accadere il peggio. Io sono una mamma a metà tra l’uno e l’altro. Ad ogni modo
mi temono e questo serve a me ed a loro”.

Incredibilmente queste favole sembrano
cresciute irrigate da fiumi di lacrime e di risate. Sembra un miracolo in
equilibrio perfetto.

“Di risate ne abbiamo fatte tante, fino a
sentirci male, fino quasi a non respirare. Ma io credo fermamente che ciò che
ha contato di più sono state le lacrime.

Potrei versare tutte le lacrime del mondo ma
non basterebbe a raccontare questo bellissimo dolore che vivo per voler amare così
tanto e a tutti i costi la vita, di cui, sono sincera nel dirlo, non cambierei
neppure un giorno. Ci vuole poco per essere felici, ma occorre un grande cuore
ed una coraggiosa fantasia per rimanere per sempre bambini”.

“Ciò
di cui sono convinto è che i parlamenti debbano riprendere in mano le redini
del mondo e costringere la finanza a fare un bel passo indietro”.
Ivan Grossi, una vita dedicata alla
scienza, alla tecnologia ed al progresso, ci racconta cinquant’anni di storia
italiana.

Era il 2004, il mio giornale mi aveva
inviata a Cortino, un comune abruzzese in provincia di Teramo di 609 abitanti,
per seguire il progetto “Ecotourism: places ad traditions”, che aveva
come obiettivo la diffusione e la valorizzazione del turismo ecologico e vedeva
coinvolti 12 partners provenienti da Italia, Spagna, Germania, Croazia, Grecia,
Cipro, Portogallo e Lituania. Un progetto molto interessante. Io seguivo
solamente la parte italiana. In quella occasione il gruppo formato da diversi
professionisti, giornalisti, ambientalisti, scienziati, letterati, artisti e
agricoltori condivise tre giornate memorabili all’insegna delle tradizioni e
del buon cibo, ma soprattutto di lunghe passeggiate “raccontate” da
gente del luogo in cui tutto veniva vissuto con semplicità e profondo
interesse. Mi ritrovai quasi tutto il tempo a dialogare con un uomo
incredibilmente gentile, sensibile, carismatico ed affascinante di cui
inizialmente ignoravo completamente il ruolo: era il direttore del progetto,
Ivan Grossi.

Laureato in fisica, consulente senior
nel settore dell’innovazione tecnologica per diverse importanti società a
livello internazionale, docente di comunicazione pubblica ed istituzionale,
consulente del ministero degli affari esteri ambasciate d’Italia a Beirut e a Tirana, formatore di personale, coach,
direttore generale presso la pubblica amministrazione, programmatore-analista e
coordinatore, studioso presso l’università di Glasgow, Delaware (Usa), Belfast,
autore di numerose pubblicazioni in diverse lingue e paesi, dal 2011 presidente
dell’Associazione Amici dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana di
Assisi.

Amante del jazz e della poesia del Novecento
italiano, della poesia arabo-musulmana, interessato alla saggistica, alla
fantascienza, alla letteratura di viaggio, ai film d’autore, all’arte
contemporanea e d’avanguardia.

Le sue parole, nel corso degli anni,
hanno sempre avuto un valore alto, durante conversazioni e scambi a distanza,
mentre uno camminava in montagna e l’altro in riva al mare.

In questo momento particolarmente
delicato abbiamo apprezzato molto i suoi interventi e lo ringraziamo per
l’intervista concessa che proponiamo, con grande piacere, ai nostri lettori.

Nella nostra introduzione abbiamo
tentato di sintetizzare un curriculum imponente. La sua esperienza in ambiti
così tanto diversificati la rende un referente importante per fare il punto
della situazione in questo momento storico arduo. Anni di difficoltà che ci
impongono riflessioni profonde. Qual è il suo pensiero in proposito?

“Concordo con il caratterizzare questi
anni come anni difficili, anni in cui – grazie anche allo sviluppo tecnologico
– i luoghi decisionali si sono lentamente ma inesorabilmente spostati da quelli
“democratici” – i parlamenti, i consigli regionali e comunali – ai consigli di
amministrazione di aziende private che ora non si riuniscono nemmeno più sul
territorio su cui ricadranno le loro decisioni. Non è inverosimile immaginarsi
un amministratore delegato a Chicago che decide delle sorti di centinaia o
addirittura migliaia di lavoratori di una fabbrica, in provincia di Modena, che
opera nel settore elettromedicale. Quanto appena citato mi fa ricordare che
nella seconda metà dell’Ottocento uno scrittore portoghese, Eça de Queiroz, in
una sua opera intitolata O Mandarim (Il Mandarino) si immaginava come avrebbe
potuto comportarsi un portoghese se avesse avuto la possibilità, schiacciando
un pulsante, di uccidere un mandarino cinese in cambio di un tangibile
vantaggio in Portogallo: quella finzione letteraria è diventata oggi realtà e
l’amministratore delegato di Chicago è il portoghese dell’opera di
Eça de Queiroz, i lavoratori della
fabbrica modenese sono i mandarini di oggi: sacrificabili per un vantaggio a
Chicago. Tutto questo credo stia a testimoniare che le difficoltà attuali
vengono da lontano e sono tutte figlie del modello economico di sviluppo che,
soprattutto in Occidente, è stato adottato, modello che è responsabile anche
dei cambiamenti climatici, come ha ricordato in una recentissima conferenza
Emilio Padoa-Schioppa, dell’Università di Milano-Bicocca.

Non ho ricette, soprattutto perché
sono fermamente convinto del primato della politica sulla finanza e la
tecnologia ed anche perché non sono un decisore politico. Ciò di cui sono
convinto però è che i parlamenti debbano riprendere in mano le redini del mondo
e costringere la finanza a fare un bel passo indietro. Per chiudere questa
breve riflessione, credo che se dovessi, fra i tantissimi problemi che abbiano
di fronte, individuarne uno ed uno solo non avrei dubbi: l’immigrazione, non
certo per alzare muri o affondare barconi bensì per cercare, a livello globale,
una soluzione che permetta ad ogni uomo e ad ogni donna di avere una vita
dignitosa per sé e per i propri figli. Leggiamo di sofferenze indicibili cui
sono sottoposti i migranti davanti alle quali l’unica cosa che mi viene in
mente è il grido di Primo Levi: Se questo è un uomo!”

Oltre cinquant’anni di attività
professionale in ambiti differenti con uno sguardo scientifico. Com’è cambiato
il mondo in questo lungo lasso di tempo?

“L’unica cosa certa è che il mondo è cambiato molto non solo nelle cose ma soprattutto sono cambiate le persone, le scale di valori riconosciute e utilizzate. Posso tentare di sintetizzare cosa è cambiato nel mio mondo, nella sfera delle mie relazioni sociali, nei luoghi di lavoro che mi hanno ospitato: è pertanto una visione molto parziale di un cambiamento più ampio e più profondo che ha coinvolto l’intero mondo. Non avendo paura di tradire il fatto che ho la barba bianca, sono passato dall’uso a scuola della “cannetta” con il pennino (e i diversi tipi di pennino per i diversi tipi di tratto), che si intingeva nel calamaio alloggiato nel banco (che il personale della scuola riempiva ogni mattina) all’uso della Apple Pencil sul mio iPad mentre sto condividendo ciò che scrivo con un collega in quel momento molto lontano da me. La tecnologia mi ha salvato – almeno per ora – la vita aiutandomi a curare una malattia per la quale trent’anni fa la prognosi sarebbe stata assolutamente infausta.

(Scatto dell’Ospite)

Questi pochi esempi spero diano la dimensione di quanto la tecnologia, che ha tradotto in beni e servizi le conquiste scientifiche, sia progredita in un lasso di tempo assolutamente breve, soprattutto se comparata con quanto avvenuto nei secoli passati. Come mi chiede la gentile intervistatrice, per questo benessere abbiamo dovuto pagare un prezzo: la qualità dei rapporti umani e la progressiva perdita delle “radici” culturali. Non sono un laudator temporis acti. il lavoro che ho svolto è sempre stato all’insegna dell’innovazione, tuttavia si è voluto a tutti i costi – nella maggior parte delle situazioni – tagliare i ponti con le tradizioni, con gli stili di vita che caratterizzavano territori, comunità, gruppi sociali per tendere ad una omologazione almeno su scala continentale se non addirittura su scala planetaria. È in atto, ma non da ora, un processo di omologazione che se da un lato mi fa sentire a casa in qualunque città perché ritrovo gli stessi negozi, gli stessi cibi, gli stessi spettacoli dall’altro sento tutto questo estraneo perché costruito negli uffici marketing e non grazie al lento evolversi di un processo locale. Forse è chiaro ormai ai più che, come dice Stigliz, la globalizzazione così come è stata realizzata abbia favorito solo un ristrettissimo gruppo sociale e finanziario ed abbia penalizzato tutto il resto del mondo. Come risultato tangibile della trasformazione (in senso negativo) dei rapporti umani abbiamo di fronte ai nostri occhi il modo in cui viene gestito il problema delle migrazioni di massa (come vede – gentile intervistatrice – è un tema che ricordo spesso): fin dal momento in cui queste persone disperate lasciano la loro terra per puntare verso l’opulento Occidente, reso opulento da secoli di prelievo di risorse da quelle terre da cui provengono i migranti, inizia per loro un viaggio che non ho riserve a definire simile ai viaggi in treno per Treblinka. Confido nelle giovani generazioni per marcare un significativo cambio di rotta nel segno della solidarietà: da questo punto di vista, la mia generazione, quella del Sessantotto, ha mancato clamorosamente l’obiettivo”.

Cos’è la paura?

“La paura è una compagna di viaggio necessaria. La paura di non essere all’altezza del compito assegnato è la molla che mi spinge ad impegnarmi, a non sopravvalutarmi. Ho pagato a caro prezzo il non aver avuto paura nell’affrontare certe situazioni. Anche mentre rispondo a queste domande, postemi da una gentilissima ed apprezzata giornalista, la paura è seduta qui vicino a me e mi ricorda che ciò che sto per dire non sia scontato ma interessante, che l’ovvio è sempre pronto ad entrare in scena. E certe indecisioni nell’eloquio (che purtroppo il testo non potrà riportare) sono il tangibile segno della sua presenza. A volte mi assalgono paure irrazionali che coinvolgono persone a me molto molto care: fortunatamente sono molto sporadiche ed ho imparato a gestirle. Non ho paura di morire e di questo devo ringraziare la mia professoressa di lettere del liceo Giacomo Leopardi: “è funesto a chi nasce il dì natale” possiamo leggere nella splendida poesia dedicata al pastore dell’Asia. È il prezzo che dobbiamo pagare per vivere e sarei disposto a pagarlo cento volte in cambio di cento altre vite!”

(Scatto dell’Ospite)

Il tema di questo numero di
Condivisione Democratica è l’apparenza. Quanto conta ciò che non si vede?

“L’apparire ha molte valenze, sia
positive che negative: anche il non apparire ha questa doppia valenza che
dipende da come e perché la si usa.

L’abito non fa il monaco, si è sempre
detto, ma in tanti contesti – più attenti alla forma che alla sostanza,
probabilmente perché non in grado di valutarne il merito – vestirsi in un certo
modo, utilizzare un certo tipo di linguaggio fa la differenza. Come ho
affermato in altre occasioni, se in forza di una crescita culturale a tutto
tondo, il tendere ad un certo modello, ad un certo stile di vita, anche se si
deve fare ancora della strada, ti suggerisce di cominciare a comportati “come
se fossi già al traguardo”, quell’apparenza rappresenta la palestra in cui
esercitarsi per impratichirsi di un ruolo cui si aspira. Se invece l’apparenza
è solo una maschera per coprire vizi e animo cattivo allora il
compito degli altri è togliere
quel mantello. Specularmente, a volte un aspetto “dimesso”, al limite da
sembrare ciò che non si è, può servire a mettere a suo agio l’interlocutore o
valutarne le capacità a rapportarsi con persone meno attrezzate. Ho utilizzato
quest’ultima tecnica più volte quando volevo capire quanto fosse preparato il
mio interlocutore su un determinato argomento (di cui ritenevo di avere buone
conoscenze). Mi fingevo un principiante, di poche letture su quel tema: dalla
chiarezza con cui mi illustrava un certo tema potevo comprendere quanto chiara
fosse per lui ciò che mi stava esponendo. E’ una tecnica che ritengo molto
utile per farsi un’idea – in un tempo ragionevolmente breve – del livello di
preparazione di una persona. Peraltro Churchill diceva che riesci a dire una
cosa in modo chiaro solo se la conosci molto bene”.

La scienza e la tecnologia hanno fatto
passi da gigante. Qual è il prezzo che abbiamo dovuto pagare?

“La mia è una risposta “di parte” avendo avuto una formazione molto legata alle discipline scientifiche per antonomasia: la fisica e la matematica sono per me le categorie con cui non solo comprendere la scienza ma il modo principale con cui leggere il mio quotidiano. Il Determinismo è un faro! È ciò che mi ha permesso di tenere ferma la barra nella bufera della pandemia dove si elevavano a leggi universali ciò che si era appreso su Facebook confondendo discipline deterministiche con quelle probabilistiche, facendo equivalere opinioni personali ad evidenze scientifiche.

(Truccato da Nonno Gatto dall’adorata nipotina Cecilia – 5 anni)

Una necessaria premessa, propedeutica
all’analisi del prezzo che il consorzio umano ha dovuto pagare. Il progresso
scientifico, da cui deriva quello tecnologico, ci ha permesso di mettere in
soffitta l’ “ipse dixit” (chiunque si voglia individuare con ipse), ovvero la
categoria che ha permesso di condannare Galileo Galilei; inoltre ci ha  costretto a non credere a ciò che ci viene
detto ma a rispettare solo “le evidenze scientifiche”, il metodo galileiano in
ultima analisi, consapevoli tuttavia che ogni passo in avanti nella conoscenza
non sarà mai un passo definitivo e che potrà essere smentito,
corretto o inglobato da un futuro
passo in avanti. Si pensi alla legge della gravitazione universale di Newton e
la relatività generale di Einstein, dove la seconda ha inglobato la prima.
Sgombrato la strada dal macigno dell’ipse dixit e con in mano la bussola del
metodo galileiano, si è potuto riprendere un cammino per tanti secoli ridotto
ad una strettoia. Abbiamo dovuto accantonare tante illusioni, tante superstizioni,
tante false verità che l’umanità si era costruita nel tempo: ora la Terra non è
più al centro dell’universo, il grembo di una Donna non è più un semplice
contenitore ma un co-attore nella creazione di una nuova vita, l’Uomo non è
stato creato in un paradiso terrestre ma è il frutto di un’evoluzione che
peraltro non lo aveva previsto, per citare il noto saggio di Telmo Pievani.
Certo abbiamo dovuto ammettere che il miraggio fosse solo un fenomeno ottico
che la fisica spiega perfettamente; abbiamo dovuto accettare che i vaccini
abbiano più efficacia del decotto della nonna, anche se non sempre sortiscono
l’effetto desiderato (la medicina è una disciplina probabilistica non
deterministica!)  e consolarci con il
fatto che quelli salvati sono molti, molti di più di quelli cui il vaccino ha
nuociuto. Per farmi capire: se lascio cadere un sasso, qualunque sia la sua
forma o il
suo peso, esso cadrà sempre a terra e con la stessa
accelerazione grazie alla forza di gravità, quando invece somministro un
farmaco, anche se è passato al vaglio di tutti i protocolli di sperimentazione
fin qui noti, avrò un’alta probabilità che sortisca l’effetto desiderato (la
guarigione di una certa patologia) non la certezza.

In ultima analisi, il prezzo che
abbiamo dovuto pagare alla scienza è la perdita di una lettura semplificata (a
volte addirittura semplicistica) del mondo che tuttavia ci viene restituito
sotto la forma di una aumentata capacità di saper leggere la Natura.

Diverso discorso è per le tecnologie.
Il benessere di cui soprattutto il mondo occidentale gode è merito delle
innovazioni tecnologiche: la plastica ad esempio ha permesso di realizzare
oggetti utili a costi molto bassi: dalla semplice terrina per l’insalata al
bypass cardiaco, passando per i paraurti di un’auto, per la tastiera del
computer. Tutto molto bello, comodo, a basso costo se …. in mezzo all’oceano
Pacifico (Great Pacific Garbage Patch) non si fosse formata un’isola di rifiuti
di plastica ampia come la Spagna (alcuni dicono come gli Stati Uniti). Ci si
chiede: la compromissione della vita degli oceani vale la comodità di una
terrina per l’insalata? Credo che i lettori di questa interessante rivista
digitale (Condivisione Democratica) siano anche frequentatori dei social media:
io li uso molto sia per informarmi sia per tenere i contatti sia ancora per
divertimento. È davvero bello poter interagire con immediatezza anche con chi
sta dall’altra parte del mondo, è molto utile avere informazioni di prima mano,
è molto comodo potersi fare aiutare nella ricerca di un ristorante o di un
prodotto ed un istante dopo prenotare (avendo anche uno sconto) o ordinarlo ed
il giorno dopo averlo a casa. Come avrà facilmente compreso vivo appieno il mio
tempo (in altri contesti si sarebbe usata la locuzione “è uomo del suo tempo”).
Tutte queste comodità hanno però un costo molto alto per ciascuno di noi che
navighiamo grazie ad un browser (uso prevalentemente Safari), utilizziamo un
motore di ricerca (uso Google, peraltro ho tenuto tanti seminari sui motori di
ricerca), teniamo i contatti con i social (uso molto Facebook e Instagram,
abbastanza Twitter e Telegram e ormai l’indispensabile WhatsApp) però pagando
il prezzo che tutto ciò che caratterizza la mia presenza sulla rete è diventato
di proprietà dei grandi player della rete (Google, Facebook, ecc.) che
utilizzano i miei dati per fare business. I miei interessi, i mei gusti
interessano chi produce beni o servizi in grado di incontrali o soddisfarli; le
mie convinzioni politiche interessano le organizzazioni politiche ma anche la
polizia (per non parlare dei servizi di intelligence); i miei orientamenti
sessuali o religiosi possono interessare un datore di lavoro o un gruppo
sociale. La mia immagine può essere utilizzata, insieme a migliaia e migliaia
di altre, per costruire un archivio con cui istruire un algoritmo di
riconoscimento facciale; oppure la mia immagine essere scelta da un altro
algoritmo fra i probabili responsabili di un certo fatto criminoso perché l’identikit
fornito all’algoritmo lo rimanda alla mia immagine; oppure le ormai ubique
telecamere davanti cui transito spostandomi semplicemente da un punto all’altro
della città permettono ai gestori di quelle telecamere di ricostruire i miei
spostamenti, in modo analogo a ciò che può fare il gestore della SIM del nostro
smartphone che sa in ogni istante dove siamo ed a che velocità ci spostiamo. In
sintesi, paghiamo tutto ciò in termini di compressione delle
libertà individuali. Il mio
maestro mi ammoniva sempre: comincia a
preoccuparti seriamente quando ti
renderai conto che non potrai più metterti le dita nel naso senza che nessuna
ti veda. Siamo giunti purtroppo a questo punto.

D’altra parte chi sarebbe disposto a
ritornare al solo telefono a gettoni, allo scambio epistolare per dare ed avere
notizia? L’importante è non lasciare tutte queste informazioni nelle mani dei
consigli di amministrazione di imprese private senza aver varato norme
stringenti che ne regolino l’acquisizione e la conservazione. Ritorno al
problema del ruolo centrale dei parlamenti che dovrebbero urgentemente normare
questo settore, con norme sia a livello nazionale sia sovranazionale. Come ben
sappiamo in Internet non esiste la dimensione spaziale – ogni web è lì a
portata di un click – e questo costringe ad avere una normativa sovranazionale
oltre ad una nazionale. Come si può ben comprendere stiamo pagando un prezzo
molto salato per potere fruire dei servizi di una società digitale.

Se il mondo digitale è così “costoso”,
altri settori tecnologici sono meno voraci. Penso ad esempio all’aumentata
sicurezza nei trasporti (le auto sono sempre più sicure), alle macchine
salvavita (come quelle per la dialisi o i pacemaker) che sono sempre più
affidabili ed efficienti, alle protesi sono sempre più sofisticate per citar
solo alcune applicazioni della tecnologia delle quali non potremmo fare a meno.
Credo che si possa convenire che se arriveremo in breve tempo ad una normativa
sulla gestione delle informazioni personali il bilancio dell’uso delle
tecnologie possa essere certamente positivo senza alcuna riserva. D’altra parte
chi sarebbe disposto a tornare al calesse, alla candela, al decotto di lino?”.

Nel 1970 si laureava in fisica presso
l’Università di Bologna con una tesi sperimentale svolta presso l’Istituto
Nazionale di fisica nucleare
.
Cosa significava essere uno scienziato allora quando tutto sembrava ancora
da scoprire ed il futuro appariva come qualcosa da costruire per un mondo
migliore e possibile?

“Sono approdato all’università solo pochi anni prima che scoppiasse il Sessantotto e la facoltà che frequentavo fu uno dei centri di quel movimento mosso dall’utopia di rivoluzionare il mondo. Allora ci si credeva, si leggeva la scienza prevalentemente in chiave sociale e di classe. Come lei certamente saprà il filosofo di riferimento era Herbert Marcuse e L’uomo ad una dimensione il verbo a cui attingere, la scienza doveva essere strappata dalle mani “del capitale e dei padroni” ed essere messa a disposizione delle masse proletarie e degli operai.

(Bologna – Scatto dell’Ospite)

Parole d’ordine che allora avvolgevano e convincevano ma che oggi, a più di 50 anni di distanza, stento francamente a comprenderne la reale valenza e soprattutto il vero obiettivo. Di allora ricordo la passione per i passi da gigante compiuti dalla fisica nei 50 anni precedenti: dalla relatività alla meccanica quantistica, dalla fisica nucleare all’uomo sulla Luna. Erano la conferma che la fisica ed anche la matematica permettevano di leggere correttamente il mondo e che tutto ciò avrebbe reso il mondo migliore. Non avevo fatto i conti, non avevamo fatto i conti, allora con gli altri attori sociali, oltre gli scienziati. Infatti ero ancora all’università quando scoppiò la bomba alla filiale della banca nazionale dell’agricoltura in piazza fontana a Milano; già lavoravo al Centro interuniversitario CINECA quando cominciarono ad apparire le prime stelle a cinque punte inscritte in un cerchio (il simbolo delle Brigate Rosse), quando fu rapito Aldo Moro e quando scoppiò la bomba alla stazione di Bologna. In un simile contesto sociale le utopie o anche semplicemente le aspirazioni personali e collettive passano in secondo piano perché è in pericolo il bene primo: la democrazia. Ho dovuto attendere gli anni Ottanta per riprendere a “sognare” un mondo migliore grazie alla scienza e alla tecnologia e ciò è successo quando fui chiamato ad unirmi al gruppo di lavoro che avrebbe dovuto assistere il ministro (meglio la ministra) della pubblica istruzione di allora a redigere e tradurre in pratica le linee guida del Piano nazionale informatica per le scuole medie superiori. Gli anni del progetto furono l’occasione per adottare soluzioni innovative, per formare una classe di docenti più preparata (ebbi la responsabilità di organizzare la formazione complessivamente circa 6.000 docenti). Furono anni in cui sperammo che una scuola più in linea con i tempi potesse garantire agli studenti di allora un futuro meno difficile: non potevamo immaginare che dieci anni dopo sarebbero arrivati ministri della pubblica istruzione che invece di aiutare la scuola pubblica a migliorarsi ancora avrebbero adottato provvedimenti che la avrebbero fortemente penalizzata a vantaggio della scuola privata. Per fortuna quegli anni Novanta videro l’uscita di Internet dai laboratori di ricerca (al Centro presso cui ero cominciammo ad utilizzare Internet nel 1986) e raggiungere il grande pubblico. Fu quella l’occasione per far conoscere questa tecnologia ai decisori nazionali e locali e dar vita alle prime reti civiche. Fui coinvolto fin dal suo concepimento alla progettazione e alla realizzazione della rete civica Iperbole (vinse il premio europeo della Bangemann Challenge) e l’utopia (in parte realizzata) di portare il Cittadino all’interno delle istituzioni e in grado di interagire con esse in tempo reale. Erano le basi per quella democrazia diretta che tanto mi interessa e che sarebbe stata di stimolo per quella rappresentativa. Il modello Iperbole (acronimo di Internet per Bologna e l’Emilia-Romagna) lo esportai in tante altre città dell’Emilia-Romagna e in altre regioni italiane. La tecnologia più recente veniva portata nelle case dei Cittadini e avrebbe dato loro la possibilità di far sentire la propria voce. Forse una delle utopie sessantottine concretizzata?”.

I temi legati all’ecologia sono stati
sempre a lei molto cari. Gli esiti però non sembrano essere stati quelli che
tutti si auguravano, cosa è andato storto? C’è ancora la speranza di poter fare
qualcosa di buono, giusto, sano e corretto?

“Il tema mi è sinceramente caro anche
se, come lei ben sa, non sono un esperto. Le opinioni che mi sono fatto sono il
frutto di letture (buone) e di ottime conferenze come quella di sabato scorso
di Bruno Carli, accademico dei Lincei, cui ho assistito. Lei mi chiede cosa sia
andato storto: la risposta non può che essere al plurale, vale a dire che il
comportamento di ognuno di noi ha contribuito a far ammalare il nostro pianeta.
Certo con responsabilità affatto diverse fra un presidente del Consiglio e chi
scrive, ad esempio, ma con la consapevolezza che è sul modello di sviluppo che
occorre intervenire in primis. Scrive infatti il prof. Carli in un articolo del
2020:

<<Come risultato della crescita della popolazione e dell’aumento dei
consumi, la domanda di energia e risorse è cresciuta talmente che tutte le
evidenze scientifiche mostrano che ci stiamo scontrando con i limiti
fondamentali del pianeta.
>>, ed ancora sempre Carli in un saggio del
2017 edito da il Mulino: <<La scienza ci dice che è in corso un
cambiamento climatico, che questo è causato dall’uomo, che in futuro alcune
risorse e alcune regioni del pianeta potrebbero non essere più utilizzabili nei
modi in cui siamo abituati e che per arrestare questo processo occorrono
interventi drastici […]. Se e come agire sulla base di queste conoscenze è ora
una scelta politica che riguarda la strategia con cui vogliamo gestire il
futuro nostro e del pianeta
>>. Da ciò che ho letto ed ascoltato
non esiste una soluzione: occorre trovare il concerto fra le diverse soluzioni
ognuna delle quali ne ottimizza l’applicazione, tenendo conto anche di fattori
specifici. L’unica cosa certa è che occorre fare presto, molto presto e bisogna
farlo tutti assieme: non è sufficiente – anche se utile – che solo una parte di
noi diventi virtuosa, occorre che lo si diventi tutti. L’anidride carbonica
emessa in aria in Italia contribuisce al problema del riscaldamento e non solo
dell’Italia ma dell’intero globo. Occorre puntare, sottolineava Bruno Carli,
sulle energie rinnovabili, sull’efficientamento energetico, sul passaggio
all’elettrico abbandonando l’uso dei combustibili fossili”.

Non sempre la scienza è stata legata a
progetti autonomi ed indipendenti, spesso si è arresa al servizio di interessi
economici molto importanti che in qualche modo l’hanno indirizzata verso
obiettivi pilotati e commissionati. Chi può e deve difendere la scienza da
percorsi fuorvianti e dannosi?

“Certamente l’episodio più importante
di indirizzamento della scienza verso obiettivi discutibili è individuabile nel
progetto Manhattan, vale a dire la realizzazione della prima bomba atomica e la
conseguente distruzione di Hiroshima e Nagasaki, che ha visto la partecipazione
dei più preparati fisici e matematici allora esistenti. Per inciso ricordo che
un ruolo fondamentale in quel progetto fu ricoperto da Enrico Fermi cui è
dedicato l’istituto di fisica dell’Università dell’Illinois e un grande
laboratorio di ricerca, il FermiLab, entrambi negli USA. Da quell’esperienza,
certamente fondamentale dal punto di vista scientifico, Fermi trasse un
insegnamento che fu poi recepito nello statuto del Centro Europeo di Ricerche
Nucleari (CERN) di Ginevra: un centro di ricerca accademico non può essere
utilizzato per ricerche coperte da segreto militare. Fu questo il testamento
che Fermi, morì infatti pochi mesi dopo, consegnò ad Edoardo Amaldi, incaricato
di redigere lo statuto del costituendo CERN. Alla sua domanda rispondo quindi:
gli scienziati e solo loro devono decidere verso dove orientare la loro
ricerca, almeno per quella parte della ricerca che viene detta di base, vale a
dire che studia le parti fondanti dell’universo in cui viviamo. Questa ricerca
deve essere finanziata senza condizionamenti se non quelli insiti nei metodi
stessi che la comunità scientifica si dà, vale a dire che i risultati devono
essere riconosciuti tali anche dagli altri scienziati. Se poi un governo o una
società privata vogliono che si esplorino ad esempio le potenzialità e i campi
di impiego di un nuovo materiale, che si cerchino farmaci per curare una certa
malattia ecco tutto questo attiene alla trasformazione dei risultati
scientifici in applicazioni tecniche ed industriali. Resta evidentemente il
grande problema degli aspetti etici: se lo studio dell’atomo non ne pone, ne
pone tantissimi lo studio e la manipolazione delle cellule. Non mi trova
d’accordo che in alcuni settori di ricerca un comitato (ad esempio quello
bioetico), formato anche da rappresentanti di confessioni religiose, o ad esse
riferentisi, possano mettere il veto su una proposta di ricerca. Come vede,
gentile sig.ra La Vecchia, pur essendo credente sono molto laico, una laicità
corroborata anche da importanti letture come il saggio di Peter Harrison
The Territories of science and
religion
”.

E’ giusto credere in una scienza ed in
un progresso tecnologico ad ogni costo?

“L’unica cosa che deve essere fatta ad ogni costo è ciò che può impedire qualcosa di irreparabile. La scienza e la tecnologia sono entità, mi passi questo termine, che per loro natura non possono essere cristallizzate. Si possono rallentare ma mai fermare o far regredire per la semplice ragione che la scienza nasce ed abita la mente dell’uomo. Pensi che Newton formulò la teoria corpuscolare della luce mentre era confinato in campagna a causa di una epidemia e aveva con sé solo carta e penna. Il raggio di luce che, entrando da un foro della finestra, disegna sulla parte opposta un “arcobaleno” lo spinge a indagare sulla natura della luce. Quali gli strumenti a disposizione? Una giornata di sole, un forellino in una finestra socchiusa, una stanza in penombra e la straordinaria mente di uno dei più grandi scienziati di sempre. Questo improbabile mix è il responsabile di uno dei più importanti risultati della fisica contemporanea; coinvolto nel calcolo delle traiettorie delle mitragliatrici della contraerea, a John von Neumann, forte anche di esempi precedenti (ad esempio Babbage, Zuse), fa sul foglio di un bloc-notes uno schizzo che alla stazione di Filadelfia (siamo all’indomani dello scoppio della seconda guerra mondiale) mostra al direttore dei laboratori di calcolo di Aberdeen dell’esercito americano. Quello schizzo è lo schema funzionale di tutti i computer che dal 1943 in poi sono stati utilizzati, anche quello che il lettore sta utilizzando nel momento in cui legge questo articolo. Come vede la scienza non è imbrigliatile. Ci possono essere momenti in cui ingenti fondi vuoi pubblici vuoi privati possono essere resi disponibili per un certo settore di ricerca. Di norma questi settori coincidono con la presa di coscienza dell’esistenza di un importante problema (la necessità di abbandonare i combustibili fossili, ad esempio): la spinta ad impegnarsi “ad ogni costo” su questi temi ha alle spalle una motivazione condivisibile e spesso urgente. Quello che occorre assolutamente evitare è che il dirottamento di cospicue risorse finanziarie su questi temi urgenti impediscano agli altri settori di continuare il loro lavoro. Purtroppo non sempre c’è la sensibilità, da parte dei decisori politici, ad operare per non penalizzare nessuno”.

Nel 1997 è ideatore del progetto TECA
della Pro Civitate Christiana di Assisi per l’informatizzazione del museo e la
digitalizzazione dei beni culturali ivi contenuti. Ci parli di questa
importante iniziativa. Come nasce l’idea?

“Nel lontano 1997, in aprile, alcuni professionisti di Faenza (che erano in contatto con la Pro Civitate Christiana, detta anche Cittadella di Assisi) vennero al Cineca per propormi di progettare la digitalizzazione del museo della Cittadella. Dagli inizi degli anni ’90 al Cineca mi occupavo anche di Digital Cultural Heritage e pertanto l’invito fu prontamente accettato. In quel periodo, ero impegnato in un importante progetto (detto NUME), in collaborazione con l’Università di Bologna, che aveva l’obiettivo di ricreare in 3D la Bologna medievale con la possibilità di vederne le trasformazioni nel tempo. Quel progetto mi permise di familiarizzare con le tecnologie più all’avanguardia (il progetto fu presentato ad un convegno negli USA) rivolte all’acquisizione e all’elaborazione di immagini in ambito culturale.

(Una sala del Museo – Scatto dell’Ospite)

Dopo una serie di sopralluoghi in
Assisi, scrissi un progetto, dedicato all’informatizzazione del museo (che
battezzai TECA – Testimonianze Ecumeniche alla Cittadella di Assisi) che
presentai al MiBAC e che fu finanziato per intero: 1500 milioni di lire. Il
progetto TECA fu realizzato fra il 2001 e il 2003 ed io ne fui il project
manager. Il progetto TECA ebbe un’immediata ricaduta anche sulla biblioteca del
Sacro Convento di Assisi, in cui sono conservati tra l’altro i manoscritti di
san Francesco, perché appena si seppe che stavo lavorando per la Cittadella fui
contattato per scrivere un progetto per digitalizzare gli antichi manoscritti
conservati in quella biblioteca. Fu una vera emozione poter prendere in mano
(dopo aver indossato un paio di guanti) i manoscritti del Poverello di Assisi.

Tornando
al progetto TECA, i suoi frutti possono essere così sintetizzarli:

  1. Digitalizzazione di 2681 opere della
    Galleria, pari al 65,9% delle opere conservate, e rendere accessibili i
    corrispondenti oggetti digitali via Internet;
  2. Protezione gli oggetti digitali con la
    tecnologia del watermarking (filigrana digitale);
  3. Creazione del catalogo on-line (OPAC)
    di 1535 opere, pari al 37,7% dell’intera collezione della Galleria, e renderlo
    accessibile via internet;
  4. Creazione del catalogo on-line (OPAC)
    di 35.002 volumi (pari al 50% del patrimonio conservato) e renderlo accessibile
    via internet;
  5. Digitalizzazione dell’intero fondo
    antico delle Cinquecentine, 17 volumi per complessive 8098 pagine, proteggerle
    con la tecnica del watermarking e renderle accessibili integralmente via internet;
    due di esse sono state trasposte anche in formato full-text;
  6. Creazione del catalogo on-line (OPAC)
    delle opere della Fonoteca registrate su supporto vinilico e renderlo
    accessibile via Internet. Sono state catalogate 6207 opere per complessivi 8150
    supporti;
  7. Conversione analogico-digitale dei
    dischi di maggior interesse e/o in precario stato di conservazione pari a circa
    140 ore di ascolto;
  8. Restauro digitale dei brani musicali
    compromessi da supporti in precario stato di conservazione;
  9. Creazione del portale attraverso cui
    accedere agli archivi, effettuare delle visite virtuali, avere informazioni
    sulle mostre, i seminari e le altre iniziative culturali, acquistare poster,
    riproduzioni, aderire all’Associazione “Amici dell’Osservatorio – ONLUS” [ora
    “Amici dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana Organizzazione di
    Volontariato (ODV)”]

Tutto questo 20 anni fa”.

Perché l’interesse per Assisi?

“Ero stato in Cittadella per un
convegno nel dicembre del 1971 ma lo consideravo un episodio che non avrebbe
avuto un seguito. Furono le tante visite propedeutiche alla scrittura del
progetto TECA a farmi prima conoscere quella realtà e poi legarmi con un affetto
straordinario ai volontari laici che la gestiscono. Furono le persone con cui
interagii, purtroppo molte di loro non ci sono più, che con la loro cultura,
umanità e gentilezza mi accolsero subito come uno di loro. La “magia” che
ancora pervade la Cittadella è quella di far sentire a proprio agio chiunque:
dal credente all’ateo, dal conservatore al progressista, dall’uomo della strada
al docente universitario. Nel corso degli anni (fu fondata nel 1939) tutti i
grandi della cultura, delle arti figurative, del cinema e del teatro, della
musica e della politica italiana si sono fermati in Cittadella lasciando
preziose testimonianze in convegni e congressi, oltre a scritti e interviste.
Si sono fermati in Cittadella ad esempio Rossellini, Vlad, Pasolini, Luzi, De
Chirico, Moro ed anche papa Giovanni XXIII, amico fraterno del fondatore della
Pro Civitate don Giovanni Rossi. Ho quindi iniziato ad affezionarmi a questa
abbazia laica attraverso le opere d’arte conservate nella Galleria d’arte
contemporanea (curata con abnegazione da Anna Nabot), che ospita capolavori del
secondo Novecento italiano, con qualche eccezione come l’americano William
Congdon, che per tanti anni frequentò la Cittadella, dopo essersi trasferito da
Venezia ad Assisi. Un museo che sorprenderà per la ricchezza e singolarità
delle opere ospitate, un numero importante delle quali appartiene alla
collezione di Gesù lavoratore, opere in cui viene reso omaggio ai lavoratori,
dal muratore al carpentiere, al fabbro attraverso la figura del Cristo”.

Qual è attualmente la situazione
dell’associazione e quali sono i progetti e le iniziative future?

“Come tutte le associazioni di
volontariato che non hanno alle spalle uno o più sponsor, l’associazione Amici
dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana – Organizzazione di
Volontariato (ODV) che presiedo dal 2011, la cui missione è assistere e
promuovere il museo della Cittadella, ha sempre più idee di quante ne possa
realizzare. Se da un lato i soci sono distribuiti un po’ in tutta Italia –
negli scorsi anni ne abbiamo avuti anche dall’estero – permettendoci di avere
un qualche riscontro anche in luoghi lontani da Assisi, dall’altro l’attività
ricade prevalentemente sul presidente e sui consiglieri, non potendo contare su
adeguate forze ubicate in Assisi. Oltre alla carenza cronica di persone
fattivamente coinvolgibili, l’associazione vive una perenne situazione di
inadeguatezza del budget a disposizione. Nonostante queste condizioni, non
certamente ottimali, con tenacia e perseveranza cerchiamo di onorare gli
impegni che lo statuto ci impone e quindi, grazie anche alla “quiete” del
lockdown abbiamo messo a punto alcune idee progettuali per i prossimi anni.

Partendo dalla considerazione che
dalla realizzazione del progetto TECA ad oggi la tecnologia del web aveva fatto
passi enormi, soprattutto in termini di accesso alle informazioni, alla loro
condivisione e alla loro ricerca e che il look del sito web scaturito dal
progetto (
www.procivitate.assisi.museum) mostrava i segni del tempo, come una
rosa recisa, abbiamo deciso di metterci mano. Delle scelte tecnologiche di
allora tuttavia si sono rivelate time independent gli standard adottati per
digitalizzare le immagini, la fase del progetto più onerosa sia in termini di
tempo sia di risorse umane e finanziarie.

La fase uno del progetto JANUS

Con queste premesse, risulta
abbastanza naturale pensare di cambiare la “cornice” ad una “tela” di pregio e
con queste finalità è stato concepito il progetto JANUS. Il nome tradisce
apertamente gli obiettivi: ci saranno due interfacce web, una per accedere alle
informazioni del museo, l’altra per accedere al web dell’associazione: entrambe
accederanno, tramite una opportuna interfaccia, a tutte le informazioni digitali
esistenti (opere d’arte, stampe antiche, musica, libri, cinquecentine) come
fossero in un unico archivio che sarà trasportato sul Cloud in modo da
garantirne la funzionalità h24 ed avere una velocità di accesso molto maggiore
da qualunque parte del mondo l’utilizzatore si colleghi. L’interfaccia web sarà
multilingue: italiano e inglese per ora.

Questa riorganizzazione dell’accesso
alle informazioni digitali permetterà al visitatore virtuale di accedere a
tutte le informazioni disponibili su un certo autore o una certa opera nelle
diverse sezioni. Ad esempio, un visitatore interessato a Giorgio De Chirico (la
Galleria conserva una splendida opera del grande maestro metafisico dal titolo
Gesù Divino Lavoratore del 1951) digitando il suo nome otterrà l’immagine della
tela del 1951, le immagini dei 4 disegni conservati nel Gabinetto delle stampe,
l’elenco dei libri che sono dedicati a lui.

Le interfacce web permetteranno di
soddisfare le esigenze di visitatori affatto diversi: dal semplice “curioso”,
all’appassionato di arte, allo studioso e al ricercatore.

Il progetto JANUS esplorerà anche la possibilità
di creare delle immagini NFT (Non-Fungible Token), immagini digitali uniche e
non replicabili, per dare la possibilità al museo di crearsi una fonte di
finanziamento vendendo gli NFT delle sue opere, avendo già la base digitale per
realizzarle.

Inoltre le opere della Galleria d’arte
contemporanea, una sezione del museo, verranno corredate di un codice QR per
permettere al visitatore di avere sul proprio smartphone le informazioni utili
per comprendere l’opera di fronte alla quale si trova.

Il progetto JANUS è stato finanziato
al 60% dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Perugia: il restante 40% è
in parte coperto con i fondi dell’associazione che presiedo e per la parte
rimanente contiamo su donazioni e sponsorizzazioni che sto cercando. Iniziato
nel dicembre del 2021 avrà una durata di 12 mesi.

Abbiamo già pensato ad una fase due e
tre del progetto: il problema, come si può facilmente intuire, è rappresentato
dalle risorse finanziarie.

La fase due di JANUS prevede la digitalizzazione dell’epistolario
degli autori le cui opere sono conservate nel museo. Si tratta di circa 10.000
lettere che i diversi artisti, da De Chirico a Prosperi, da Carrà a Pirandello
e Rosai, hanno scritto a don Giovanni Rossi per spiegare, commentare le loro
opere. Molte lettere, tuttavia, vanno oltre il mero dato “contingente” e sono
vere e proprie confidenze ad un sacerdote. Si ha un quadro molto umano di
questi artisti, molti di loro pilastri dell’arte italiana del secondo
Novecento. Crediamo sia importante mettere a disposizione questo materiale
autografo a studiosi e ricercatori, senza compromettere l’integrità
dell’archivio. Il progetto potrebbe essere completato nell’arco di 18 mesi e
l’archivio generato integrato con quello creato dalla fase 1 di JANUS. Stiamo
cercando i fondi e sarò felice di illustrare i dettagli ad un eventuale
sponsor.

La fase tre di JANUS è un progetto molto ambizioso. La Pro
Civitate Christiana fondata nel 1939, come già ricordato, ha svolto un ruolo
molto importante nella cultura e nella società italiana. Si sono fermati lì
tantissimi protagonisti della cultura e della politica italiana: da Moro a
Rossellini, da papa Giovanni XXIII a Roman Vlad, da Pasolini a Luzi per citarne
solo alcuni.

E queste persone hanno lasciato
testimonianze scritte, sonore e di immagini ora conservate (su supporti
analogici) nell’archivio generale della Pro Civitate Christiana. Inoltre i
volontari ancora in vita e che hanno vissuto quelle passate stagioni e quelle
più recenti sono “memorie” viventi cui vorremmo “far raccontare la loro vita” e
rendere disponibili anche queste testimonianze ai posteri.

Purtroppo l’archivio non è mai stato
digitalizzato. Vorremmo intraprendere questa iniziativa per consegnare alla
storia tutte queste informazioni. Il progetto è ambizioso ed anche molto
costoso: ad una prima stima occorrerebbero non meno di 5 anni ad un team di
almeno 4-5 persone in modo da mettere a disposizione del progetto competenze
archivistiche, informatiche, biblioteconomiche avvalendosi anche di strutture esterne
per realizzare le (lunghissime) interviste. Sarebbe molto bello che un
importante mecenate, o un gruppo di mecenati, volesse associare il proprio nome
a questa iniziativa che verrà consegnata alla storia. Anche in questo caso sarò
lieto di poter esporre il progetto a chi potrebbe esserne interessato.

Infine alcune informazioni sull’associazione che presiedo.: Associazione Amici dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana ODV (organizzazione di volontariato) ha sede in Assisi presso la Pro Civitate Christiana (nota anche come Cittadella di Assisi) in via degli Ancajani 3 – 06081 Assisi è stata fondata nel 2000 per aiutare il museo della Pro Civitate dopo il terremoto del 1997. Ha soci sparsi in tutta Italia e si finanzia con le quote sociali, le donazioni e il 5 x mille e con questi fondi assiste il museo, purtroppo non per tutte le necessità per l’esiguità delle risorse disponibili. L’indirizzo di posta elettronica è amiciosservatorio@gmail.com e il sito web è www.amiciosservatorio.org”.

(Scatto dell’Ospite)

Una breve visita virtuale del museo
può essere effettuata raggiungendo questo link

L’idea di essere un uomo di scienza è
sempre stata presente nella sua vita?

“Mi è sempre sembrato naturale
occuparmi di scienza fin dai tempi del liceo quando mi resi conto che il
professore di matematica e fisica (ho frequentato il liceo scientifico Serpieri
di Rimini) era l’unico in grado di catturare il cento per cento della mia
attenzione. L’iscrizione a fisica fu una cosa quasi naturale (oggi sceglierei
matematica, ma questo è un altro discorso), così come fu casuale il mio
diventare un informatico. Lo stesso giorno in cui mi laureai andai nella sede
del Cineca a Casalecchio di Reno, alle porte di Bologna, per salutare alcuni
compagni di corso che già lavoravano là ed anche un professore di fisica, con
cui ero in contatto, che aveva iniziato a collaborare con quel centro. Entrai
come visitatore e ne uscii come dipendente. Non sono rimasto disoccupato
nemmeno dodici ore! La matematica, l’informatica e le loro applicazioni nelle
diverse discipline scientifiche prima e poi in quelle statistiche ed
umanistiche divennero il mio “pane” quotidiano. Non ho mai preso in considerazione
il cambio di campo.

Tuttavia qualcosa cominciava a
bruciare sotto la cenere: una costante necessità di leggere “cose” non
tecniche: mi appassionai alla letteratura ispano-americana e
portoghese-brasiliana di cui ho letto tantissimo, mia appassionai alla musica
sinfonica e da camera (che nel 2005 abbandonai per abbracciare il Jazz),
all’arte senza aggettivi.

Quando agli inizi degli anni ’90 mi fu
proposto di occuparmi di tecnologie digitali per i beni culturali queste due
passioni, quella professionale e quella privata, avevano trovato una casa
comune.

La scienza e soprattutto il metodo
scientifico fanno così parte del mio modo di pensare che ho elaborato – per
alleggerire quest’intervista, della quale la ringrazio infinitamente – una
teoria matematica dei vizi.

Questa teoria afferma che il numero di
vizi di ognuno di noi è una costante (detta K) e che i vizi si dividano in
confessabili (Vc) e inconfessabili (Vi). In formula:

Vc + Vi = K

Vale a dire che più si sembra
perfetti, più vizi inconfessabili si hanno.

È la santificazione dei mascalzoni!”

Eppure il suo animo è fortemente
“inquinato” da note artistiche, creative, poetiche e letterate, questo ha
rappresentato un “disturbo” o una distrazione nella sua vita professionale?

“Lo dicevo anche poco fa: l’amore per
l’arte nelle sue moltiplici forme è stato prima un fiume carsico che ha trovato
nel settore del digital cultural heritage il suo punto di emersione. Devo anche
ammettere che l’informatica e solo lei (e non le altre discipline) mi ha come
prosciugato perché è un campo in cui solo molto poco di quello che si è fatto
ed imparato permane nel tempo. Mi spiego meglio: ciò che ho studiato di
matematica all’università è ancora tutto completamente attuale e utilizzabile,
ciò che ho imparato di fisica è al 99% utilizzabile. Ciò che ho imparato (e
conoscevo molto bene) di informatica negli anni Settanta e Ottanta è
utilizzabile solo al 20%, nella migliore delle ipotesi. Quindi le scorribande
nel settore umanistico sono state una necessità che fortunatamente sono
riuscito a rendere compatibile con l’attività professionale”.

Che cosa vuole fare il dott. Grossi da
grande?

“Vorrei scrivere un libro. Ho provato
alcune volte ad iniziare un’impresa di questo genere ma “il da fare quotidiano”
ha sempre avuto la meglio”.

La prima cosa che le viene in mente da
dire ad un giovane oggi.

“Leggi molto, leggi tutto ciò che ti
passa sottomano. Studia, studia, studia e se hai la fortuna di amare il
pensiero astratto studia matematica: è la più straordinaria costruzione
astratta mai creata dalla mente umana”.

I suoi impegni professionali l’hanno
vista da sempre impegnato in giro per il mondo. Come si concilia questo con una
famiglia?

“È stato un problema che non sono
stato capace di risolvere. Gli impegni professionali mi costringevano molto
spesso a spostarmi in Italia e all’estero e devo confessare che amavo quei
viaggi perché mi permettevano di incontrare persone, imparare cose nuove,
visitare luoghi mai visti e non facilmente accessibili come quando, ad esempio,
sedevo nel comitato creato dalla Commissione Europea per l’introduzione
dell’Information Technology o in quello per la collaborazione fra università e
imprese che si riuniva di volta in volta in un paese diverso. Essendo un
comitato europeo riconosciuto venivamo ospitati nei palazzi delle istituzioni
del paese ospitante: edifici per lo più storici che non avrei mai avuto la
possibilità di visitare.

Ho soggiornato per periodi abbastanza
lunghi negli USA (in quelle occasioni portai con me la famiglia), la norma però
era viaggiare solo o con colleghi. Fu durante questi lunghi viaggi che, per
ottimizzare il contenuto della valigia, iniziai a portarmi dietro dei libri di
poesie: un solo libro di poesie può farti compagnia per settimane perché le
poesie si leggono e rileggono più volte anche durante la stessa giornata. Non
lo si fa – almeno a breve – con un libro di narrativa. L’ottimizzazione del
peso della valigia mi ha permesso di addentrarmi nello splendido universo della
poesia.

Non ricordo se nel 1986 o 1987
trascorsi in trasferta più della metà delle giornate lavorative di quell’anno.
Rientrando a casa una sera mia moglie mi chiese di mostrale i documenti prima
di togliere il chiavistello. Come vede il problema c’è stato.

Ora che non sono più in attività ho
una regola aurea: prima gli affetti e poi il resto e finora sono riuscito a
mantenere, nella stragrande maggioranza delle volte, questo impegno”.

Il covid ci ha tolto momenti
importanti e ci ha costretti ad un blocco forzato, ad una paralisi fisica ed
emotiva. In molti parlano di perdita importante, ma ci sono state anche
ricchezze altrettanto importanti. Fermarsi non sempre è un male. Qual è il suo
bilancio?

“Confesso che ho vissuto con una certa leggerezza i mesi del lockdown stretto del 2020. Lo stare in casa mi ha permesso di leggere ed ascoltare tanto Jazz. Con le video conferenze ho recuperato incontri sempre invocati al telefono ma mai realizzati. Avevamo (ed abbiamo) il vantaggio di abitare nello stesso edificio di un grande supermercato per cui non ci è mancato mai nulla né siamo stati costretti a lunghe file potendo decidere quando scendere. Avendo fatto la scelta di essere molto prudenti,  vuoi per le norme imposte, vuoi per i consigli di amici medici, abbiamo ridotto al minimo i contatti: la famiglia di mio figlio maggiore (il minore vive all’estero). Solo sporadicamente la famiglia di mio fratello e quella degli amici più cari: peraltro abitando tutti questi fuori provincia abbiamo dovuto attendere le necessarie autorizzazioni.

(Manifesto di una delle Conferenze)

Mi è mancato l’andare al cinema almeno
due volte la settimana: dal marzo 2020 ad oggi sono stato al cinema una sola
volta nel novembre scorso; mi sono mancati i viaggi; mi è mancata Assisi.

Ho cercato di supplire a questa sosta
forzata organizzando delle conferenze in modalità streaming, di fare riunioni
in videoconferenza.

Ho sempre indossato la mascherina
anche se ora mi accorgo di essere un po’ insofferente.
La sosta forzata cui siamo stati costretti, più che i regimi di
semilibertà che mi hanno creato più problemi che vantaggi, mi ha permesso di
essere padrone assoluto del mio tempo. La giornata era scandita dalle cose che
volevo e mi piaceva fare. Avevo tirato fuori dal fondo di un cassetto un
comodissimo abito da casa con cui sono entrato rapidamente in simbiosi. Un
periodo che mi ha regalato tranquillità e tanto tempo per me. Un paio di mesi
l’anno di lockdown li accetterei molto volentieri”.

Alberto Fortis è un artista sensibile che nella sua densa carriera si è misurato con le molteplici forme della Poesia ed ha prodotto capolavori quali Il Duomo di Notte, La sedia di Lillà, Settembre, Milano e Vincenzo, La neña del Salvador, Sindone, Venezia, Do l’Anima,…
Con sedici album realizzati tra Italia, Stati Uniti e Inghilterra, un disco di platino, due d’oro e oltre un milione e mezzo di dischi venduti, annovera tra le sue collaborazioni artisti illustri come George Martin (produttore dei Beatles), la London Philarmonic Orchestra, PFM (Premiata Forneria Marconi), Claudio Fabi, Lucio Fabbri, Gerry Beckley (degli America), Carlos Alomar (produttore di David Bowie), Bill Conti, Guido Elmi e l’Orchestra Sinfonica Arturo Toscanini,…

Autore di libri di poesia (“Tributo giapponese”, “Dentro il giardino”, “A meno che…”) e del fumetto “Berty”, con la sua biografia “AL. Che fine ha fatto Jude?”, Fortis ha voluto raccontare il suo cammino non solo dal punto di vista artistico ma mostrando anche l’uomo impegnato nel sociale, Ambasciatore UNICEF, innamorato di cause umanitarie e sempre dedito alla ricerca spirituale.
Il suo è un universo fatto di Amore, Emozioni, Angeli, Arcobaleni e di “
Fragole infinite” che testimoniano una geografia dell’anima, un paesaggio interiore fatto di rara sensibilità.

Ciao Al, stiamo vivendo un momento storico molto buio dove le parole valore ed economia sono diventate sinonimi e questo in un certo senso riassume gran parte della violenza del mondo contemporaneo: un mondo dove, come afferma Alessandro Guerriero, le immagini fondative sono tutte di guerra.

Stiamo vivendo in un mondo che corre sempre più velocemente, dove la massimizzazione del profitto detta legge. Inoltre in un’economia basata sulla guerra, le entrate fiscali vengono spesso ridistribuite per sostenere lo sforzo bellico a spese di altri progetti di cui  una Nazione potrebbe avere bisogno.
Vedo uno scellerato match muscolare tra folli leader, che dovrebbero sfidarsi a duello anziché straziare la Vita dei propri simili, che, evidentemente, simili non considerano.

Dovremmo poter arginare questa
attitudine appartenente a molti leader, trovare una sorta di equilibrio.

Sicuramente, rispetto al
passato, alcuni aspetti sono migliorati ma ciò che sta accadendo in questi
giorni mi porta a pensare all’esistenza di un lato oscuro della forza che
sta alterando l’equilibrio e l’armonia cui dovrebbe tendere l’Universo. Non trovo
altre spiegazioni possibili.

Non riesco a comprendere perché
ci sia così tanto odio nei confronti dei propri simili.

Putin / Lord Voldemort a Poznan, in Polonia

Il desiderio estremo di potere porta a diventare esseri del cosiddetto lato oscuro, tema comune in letteratura, con le tentazioni incarnate in diavoli, streghe, serpenti, …, purtroppo lo vediamo troppo spesso rappresentato nella realtà, con quel restringimento di coscienza che porta a vedere le proprie azioni esenti da conseguenze su un sistema interconnesso.

L’ego può fare anche questo,
farci credere che siamo arrivati chissà dove e a chissà quali vette di potere. Quello
che viene fatto da una parte del pianeta si ripercuote anche sull’altra parte,
perché ogni cosa è connessa alle altre.

A quanto pare Putin vuole lasciare il segno come fece Pietro il Grande, riunendo i territori dell’antica Russia.
Ma nel frattempo le cose sono cambiate. E’ cambiato il mondo.

L’Ucraina si è europeizzata. La
comunicazione attraverso i vari media, l’uso dei cellulari hanno consentito in
parte al libero arbitrio di oggi. Medaglia che ha sempre due facce ma che comunque,
nel suo lato positivo, ha creato collanti nel tessuto sociale e ha determinato forti
prese di coscienza collettiva su molte tematiche.

Il grande dispiacere è che non
si sia realizzata la visione di un uomo illuminato come quella di Michail Gorbaciov,
visione di un rapporto Russia Europa ben diverso, con valori condivisi e ideali
di armonia. 

Putin, come Hitler, gioca con il DNA ucraino e russo.
Il murale si trova sotto la stazione di
Dnipro, in Ucraina

Gorbaciov richiamò per prima
cosa l’attenzione sui valori umani, universali in quanto tali, che avrebbero
dovuto divenire la nuova stella polare della politica dell’URSS, come di
qualunque altra potenza. Altro punto fondamentale, il riconoscere ed il
tollerare le diversità tra i vari nazionalismi.

Gorbaciov è stato un Uomo di PACE. Ha sempre ripudiato l’uso della forza come strumento di politica. E’ stato davvero un Uomo straordinario, anello tra tanti di un’unica catena che lega tra di loro tutte quelle Esistenze spese per la Pace ed il bene dell’umanità.
Cito per primo Gesù per proseguire con Mahatma Gandhi, Martin Luther King, i fratelli Kennedy, i Primi Ministri Istzak Rabin e Benazir Bhutto, i Giudici Falcone e Borsellino, John Lennon, Pier Paolo Pasolini e tanti altri.

Ritengo che tutte queste Persone siano state bandiere di Pace, che hanno condiviso una fine cruenta voluta da un vertice che non aveva capito che questo mondo potrebbe essere migliore e che così tutti potremmo celebrare il vero senso della Vita.
Siamo qui per questo, per celebrare la nostra esistenza.
Attraverso la testimonianza della loro Vita e del loro credo, continuano a trasmetterci quanto sia importante credere ai nostri piccoli-grandi sogni.

Eleonor Roosvelt diceva infatti
che il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni.

Sì, ognuno di noi ha il potere di trasformare piccole cose che poi possono portare ad un risultato inaspettato.
In un momento storico di profonda crisi come il nostro, la trasformazione diventa fondamentale.
Urge al più presto un cambiamento, un ripensamento, un colpo di coda che porti ad una riconfigurazione del sistema internazionale, con valori che diventino collante, i mattoni per costruire un new world order.

Io vivo con questa speranza. Molti sono stati gli sforzi in questa direzione ma il cammino è ancora lungo. Con questa ennesima guerra, ci svegliamo con le immagini di esplosioni, bombardamenti, morte e disperazione. Milioni di profughi, per la maggior parte donne e bambini. Nei loro volti dolore e speranza.
Una tragedia umana che colpisce profondamente i nostri cuori.

In questo agghiacciante scenario di sofferenza, una nota positiva sta nella risposta da parte dell’Occidente. E’ davvero encomiabile quello che sta accadendo: la catena di solidarietà, sia dall’Italia che dagli altri Paesi, è la risposta all’orrore di questa guerra.
Sono molte le Associazioni e le famiglie che offrono accoglienza e ospitalità ai profughi e che inviano aiuti in Ucraina. Un esempio è l’Odissea della Pace, ammirevole iniziativa capitanata dall’Arcivescovo Avondios Bica, a cui ha partecipato anche l’amico Gianfranco D’Amato.
Il suo convoglio é rientrato con 8 Profughi tra cui quattro bambini.
Avevamo tentato in poche ore di recuperare un Van o Camper per potermi unire alla Spedizione che prevedeva anche gli Amici Mario Furlan, Presidente City Angels e Rolando Giambelli, Presidente Beatlesiani D’Italia. Questo, purtroppo, non è stato possibile, ma ci sarà modo, oltre alle donazioni già effettuate, di contribuire alla Causa Umanitaria della Pace.
La guerra è l’antivita e chi la causa renderà conto alla VITA stessa.

https://youtu.be/5r-67-caEpE

Papa Francesco continua a lanciare appelli affinché si ponga fine a una guerra che definisce “un massacro insensato” per il quale non c’è alcuna giustificazione. Il 25 marzo  ha voluto consacrare l’Ucraina e la Russia al Cuore Immacolato di Maria. Evento spirituale a cui si sono uniti tutti i Vescovi del mondo.

Papa Francesco ha sottolineato che abbiamo dimenticato la lezione delle tragedie del secolo scorso, il sacrificio di milioni di caduti nelle guerre mondiali e, soprattutto, stiamo tradendo i sogni di pace dei popoli e le speranze dei giovani.
Le piazze europee chiedono, con grande forza, la pace, ma la ferocia degli scontri in Ucraina non sembra diminuire. Putin ha ancora un seguito molto accorato e convinto. Basti pensare alla dichiarazione del Patriarca Kirill, Capo della Chiesa Ortodossa, che giustifica e sostiene la guerra in quanto crociata contro “la lobby gay” occidentale!

Putin non prende in considerazione l’opinione pubblica, non crede che si possa ribaltare lo status quo.  Secondo alcune fonti, la sua cortina di protezione non lo informa sullo stato reale della situazione ma gli dicono unicamente quello che lui vuole sentirsi dire.
Da un’analisi di un inviato che vive a Kiev, Putin ha sempre considerato l’Europa come un territorio debole, che può essere ‘comprato’.
Fondamentale sarebbe capire quali siano le intenzioni del leader cinese
Xi Jinping, perché questo condizionerà l’ago della bilancia.
Se dovessimo sommare tutto quanto è capitato in questi ultimi tre anni di pandemia, la visione di questa ennesima guerra mi appare come un’orribile ciliegina su un’altrettanto orribile torta. 
La speranza è che si arrivi presto ad un accordo.
Non posso non pensare alle vittime di questa guerra. Continuo a vedere bambini uccisi e ospedali bombardati: tutto questo è inaccettabile.

Concordo con te in toto e voglio in questo contesto ricordare il discorso tenuto dal Dott. Gino Strada nel corso della cerimonia di consegna del “Right Livelihood Award 2015”, il “premio Nobel alternativo“.

https://youtu.be/lUot4EHauEk

“….. Mi è occorso del tempo per accettare l’idea che una “strategia di guerra” possa includere prassi come quella di inserire, tra gli obiettivi, i bambini e la mutilazione dei bambini del “Paese nemico”.
Armi progettate non per uccidere, ma per infliggere orribili sofferenze a bambini innocenti, ponendo a carico delle famiglie e della società un terribile peso. 
Ancora oggi quei bambini sono per me il simbolo vivente delle guerre contemporanee, una costante forma di terrorismo nei confronti dei civili.
Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di circa 1200 pazienti per scoprire che meno del 10% erano presumibilmente dei militari.

Il 90% delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. È quindi questo “il nemico”? Chi paga il prezzo della guerra?

….. Ogni volta, nei vari conflitti nell’ambito dei quali abbiamo lavorato, indipendentemente da chi combattesse contro chi e per quale ragione, il risultato era sempre lo stesso: la guerra non significava altro che l’uccisione di civili, morte, distruzione. 

La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra.

La maggiore sfida dei prossimi decenni consisterà nell’immaginare, progettare e implementare le condizioni che permettano di ridurre il ricorso alla forza e alla violenza di massa fino alla completa disapplicazione di questi metodi. La guerra, come le malattie letali, deve essere prevenuta e curata. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide il paziente.

Il rispetto per la Vita, la nostra e quella di tutto ciò che ci circonda, è segno di civiltà. Purtroppo, secondo Antonio Guterrez, segretario generale dell’ONU, in alcune situazioni ci stiamo avvicinando ai peggiori scenari ipotizzati dagli scienziati, con conseguenze per le persone e per tutti i sistemi naturali che ci sostengono.

C’è da preoccuparsi seriamente del rapporto che l’umanità ha con il Pianeta. E’ uno scenario a dir poco deplorevole quello della specie umana.
L’uomo può essere paragonato ad un animale che lotta e prevarica l’altro per la conquista di territori.
Non c’è granché ora che mi faccia ridere e forse un po’ tutti preferiamo scrivere al telefonino perché inconsciamente ci piace di più pensare che non conserveremo ricordi e testimonianze di un’epoca che tutto sommato avvertiamo disumana.
Come ha sempre sostenuto Gino Strada, ABOLIRE LA GUERRA E’ L’UNICA SPERANZA PER L’UMANITÀ.
Sono convinto che se l’Essenza del Femminino Sacro potesse avere più voce in questo mondo potrebbe quasi certamente decretare una società lontana dalle guerre, orrendo giochino voluto da tanti bimbi grandi, mai veramente cresciuti..
Continuo a essere fortemente convinto che se le guerre si facessero con duelli tra “capi di Stato” ce ne sarebbero molte meno, o nessuna.
Tutto è sempre risolvibile senza ricorrere ad una guerra, ma l’uomo idiota ha bisogno di quel malato e perverso meccanismo personal/sociale per soddisfare voglia atavica e disturbata di prevaricazione e di leadership.
Si creano fatturati nazionali giganteschi per comprare armi per poi espandersi: per andare dove? Stai a casa tua, uomo stupido e pensa a fare del bene e, se mai, a esportare del bene.
Così conquisterai il bene più alto: la Stima, il Rispetto e la Collaborazione altrui nel caso di bisogno.
Siamo tutti piccoli Istanti di UN enorme Firmanento.

Caro Al, purtroppo, ‘L’UOMO IDIOTA’ non è dotato del basik kit intelletto + cuore, né di coscienza, ‘muscolo’ che per funzionare bene andrebbe tenuto costantemente allenato.
‘L’UOMO IDIOTA’ soffre di una malattia peggiore dell’immoralità: l’amoralitá, la totale indifferenza, ed è per questo che molti hanno l’arroganza di mostrarsi tali, con protervia e veri e propri deliri di onnipotenza…

courtesy by Bruno Bozzetto

“Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta.
Alla sua gestione. All’umanità che ne scaturisce.
A costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati.
A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo.
In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del successo, dell’apparire, del diventare…
A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde. E’ un esercizio che mi riesce bene. E mi riconcilia con il mio sacro poco.”

Pier Paolo Pasolini

La crudeltà sugli animali è il tirocinio della crudeltà sugli uomini” (Ovidio)

“Sono animalista, buddista, non violento. Ritengo che ciascuno di noi debba impegnarsi nel proprio piccolo per lasciare il mondo un po’ meglio di come lo ha trovato perché “chi salva una vita, salva il mondo intero”.
Walter Caporale, fondatore, presidente e legale rappresentante dell’associazione Animalisti Italiani (anno di nascita 1998), da oltre quarant’anni è impegnato a diffondere nel nostro paese una cultura basata sul rispetto del diritto alla vita di tutti gli esseri viventi, uomini e animali, contro ogni forma di violenza, sfruttamento e prevaricazione. Un impegno partito da adolescente e che inizia a concretizzarsi nel lontano 1987 quando presenta ed ottiene l’approvazione della legge 281/91 sul randagismo, che ha abolito l’uccisione dei cani randagi nei canili dopo tre giorni dalla cattura.

(Foto dell’Ospite)

Consigliere direttivo nazionale della LAV dal 1989 al 1994, direttore italiano dell’IFAW (Fondo Internazionale per la Protezione degli Animali) fino al 1998, rappresentante italiano della PETA (People for the Ethical Treatment of Animals) la più grande associazione animalista al mondo. Ha fatto parte del comitato di redazione della rivista animalista “Impronte”, autore del libro “La crudeltà non è chic”, prima guida italiana per il movimento antipellicce, curatore di copertine ed interviste per il “Venerdì” di Repubblica, promotore, insieme ad altre associazioni e parlamentari di ogni orientamento politico, della nuova legge contro l’abbandono ed il maltrattamento degli animali, che li ha finalmente considerati soggetti di diritto: per la prima volta viene introdotta la reclusione per chi uccide o sevizia animali. Le più recenti iniziative vedono Animalisti Italiani impegnati per la l’aiuto ed il sostegno agli animali provenienti dall’Ucraina e nella raccolta firme, che scadrà il prossimo 31 agosto, per chiedere all’Unione Europea una conversione in favore dei metodi alternativi alla sperimentazione animale (Europa senza vivisezione – Save Cruelty Free Cosmetics). 

Abbiamo intervistato Walter Caporale per i lettori di Condivisione Democratica. 

(Foto dell’Ospite)

L’associazione animalisti italiani compie 24 anni, tante le battaglie affrontate e vinte, gli animali vengono finalmente considerati soggetti di diritto e per la prima volta viene introdotta la reclusione per chi uccide o sevizia animali. Perché è stato così difficile affermare ciò che dovrebbe essere riconosciuto universalmente e spontaneamente?
“La radice del problema sta nello specismo ossia in quella discriminazione – indifendibile ed antiscientifica – in base alla specie (quella umana superiore a quella animale) che è parente stretta della discriminazione in base alla razza e al genere. Nonostante anni di battaglie animaliste ancora oggi gli animali, malgrado l’evoluzione legislativa, continuano ad esseri mezzi a disposizione dell’uomo e non veri soggetti di diritto. Basti pensare alle attuali normative vigenti concernenti l’uccisione e maltrattamento degli animali (legge 189/2004, artt. 638 e 727 c.p.), compiuti con crudeltà e senza necessità che prevedono pene inferiori ai quattro anni  e la sospensione della pena o addirittura del processo, chiedendo in prima battuta l’istituto per la messa alla prova che dà luogo appunto, in caso di esito positivo della prova, all’estinzione del reato.
Le norme ci sono ma vanno indubbiamente riviste in termini di aumento della pena e in merito alla parte lesa: l’animale va considerato in quanto essere senziente di per sé. Per questo da tempo raccogliamo firme, durante i nostri stand informativi e tramite il nostro sito www.animalisti.it, per la petizione finalizzata a chiedere un inasprimento delle pene in proporzione ai reati commessi. Speriamo che qualcosa cambi realmente grazie al recente inserimento della tutela degli animali in Costituzione. Mettiamoci in testa che siamo tutti inquilini dello stesso palazzo: esseri umani, animali, piante”.

(Foto dell’Ospite)

Chi è violento con gli animali è predisposto ad essere violento anche con gli altri “deboli” della società, anziani, bambini o portatori di handicap, leggiamo tra le pagine dell’associazione. Cosa la porta ad affermare questo parallelismo?
“Quando è stata inaugurata la statua di Snoopy, il cane ucciso a Livorno da un colpo di fucile, alla sua base è stata impressa, appunto, la frase di Publio Ovidio Nasone, il poeta latino vissuto tra il 43 a. C.  e il  17 d. C.: “La crudeltà verso gli animali è tirocinio della crudeltà contro gli uomini”. È impressionante constatare, come già secoli fa, la correlazione tra violenza sugli animali e violenza sugli umani fosse una certezza. Riconoscere che la violenza sugli animali è sintomo di predisposizione alla violenza sui più deboli della società è per noi un’evidenza, dal momento che abbiamo constatato sul campo casi concreti in cui il colpevole aveva precedentemente commesso atti di violenza su esseri umani. La percentuale più alta di tali abusi l’abbiamo rilevata proprio tra le mura domestiche.  Gli studi che riguardano la cosiddetta zooantropologia della devianza sono vastissimi e partono da un assunto fondamentale: la violenza sugli animali è spia di pericolosità sociale. Riconoscere che essa rappresenti un preciso segnale di un possibile futuro comportamento antisociale, è il primo passo per poter cambiare la cultura nei confronti dei crimini sugli animali”.

L’associazione ha come mission quella di opporsi ad ogni tipo di violenza, sopruso ed abuso nei confronti degli animali: dalla caccia alla vivisezione, dai maltrattamenti di animali all’abbandono, dal randagismo agli allevamenti intensivi, dalle pellicce agli zoo, dai circhi e dai delfinari alle manipolazioni genetiche. In quali di questi argomenti avete trovato maggiore resistenza e perché?
“Indubbiamente vivisezione, allevamenti intensivi e caccia, perché attorno ad essi ruotano gli interessi economici, difficili da contrastare, delle lobbies più potenti”.

(Foto dell’Ospite)

Alla radice di molte tra queste situazioni da voi fortemente combattute ci sono enormi interessi economici e la battaglia si fa ancora più dura e complessa. Qual è stata la realtà più drammatica che siete riusciti a smascherare rendendola pubblica?
“Era il 22 maggio 2017, quando 22 macachi utilizzati dal CNR per la vivisezione, vennero salvati e trasferiti, dopo una battaglia durata ben 4 anni, dal Centro ENEA Casaccia (RM) al Centro di Recupero Natuurhulpcentrum Wildlife Rescue ad Oudsbergen in Belgio grazie all’operato degli Animalisti Italiani, all’impegno e alla strenua determinazione con cui si è portata avanti una lotta fatta di molteplici attività: manifestazioni, blitz, conferenze, azioni legali e politiche, campagne di sensibilizzazione.Il Centro ricerche Casaccia a Cesano, vicino Roma, dell’Imri (Istituto Nazionale di Metrologia delle radiazioni ionizzanti) – Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), come emerso dalle nostre investigazioni, deteneva circa 120 macachi allevati, sottoposti a esperimenti e smistati presso altre strutture. Di questi, 65 macachi dopo la sperimentazione erano rimasti chiusi, come vecchi oggetti inutilizzati, negli stabulari, anziché essere affidati a un’oasi o a un centro di recupero. Per questo presentammo subito esposto alla Procura della Repubblica di Civitavecchia. Passarono 4 lunghi anni, prima di riuscire a salvare quelle povere creature tenute in gabbia senza motivo. Riuscire a restituire loro la libertà, ha ripagato ogni nostro sforzo”. 

In questi ultimi anni pare ci sia una maggiore sensibilità verso argomenti animalisti, quali sono i dati e cosa emerge in modo più diretto?

“Le numerose campagne animaliste hanno sicuramente contribuito a sensibilizzare i cittadini, in particolare, sullo sfruttamento degli animali e sulla loro salvaguardia sotto diversi punti di vista. Nello specifico, il tema della produzione e dell’utilizzo delle pellicce, e quindi dell’allevamento di animali a questo scopo, ha trovato negli italiani, un’opposizione quasi plebiscitaria (l’83% dei cittadini secondo i dati Eurispes è contrario): tant’è che finalmente, complice anche la pandemia, gli allevamenti di visoni sono stati chiusi definitivamente. Sicuramente è aumentata anche la sensibilità verso il problema dei cambiamenti climatici i cui dati parlano da soli: secondo le previsioni scientifiche il riscaldamento globale di 1,5°C e 2°C sarà superato durante il corso del XXI° secolo a meno che non si verifichino nei prossimi decenni profonde riduzioni delle emissioni di CO2 che sono state le più alte degli ultimi 2 milioni di anni. Ormai nessuno ha più dubbi sul fatto che siano in atto importanti mutazioni nel clima del Pianeta di cui siamo tutti direttamente responsabili”.

Macchine, oggetti, mezzi a disposizione dell’uomo, incapaci di ragionare solo perché non hanno capacità di parola. Gli animali, ancora oggi sono così considerati. L’argomento è anche culturale. Come si fa a sconfiggere determinazioni così fortemente radicate nell’essere umano?
“La sensibilizzazione e la corretta informazione producono il cambiamento culturale che serve per formare, in primis, le nuove generazioni al rispetto degli animali e dei più deboli”. 

La logica è fondamentalmente quella dell’essere superiore ed inferiore. Quella umana su quella animale, quella bianca sulle altre, quella maschile su quella femminile. Si ha bisogno di trovare una giustificazione per lo schiavismo, lo sfruttamento del debole, lo sterminio. Nel corso degli anni avete ampliato molto le vostre battaglie diversificando anche gli argomenti. Non c’è il rischio di perdere l’identità?
“È un rischio che siamo pronti a correre ben volentieri. L’identità è una soltanto ed il messaggio è forte e chiaro. Dobbiamo superare il concetto di superiore ed inferiore in qualsiasi ambito ed attraverso argomentazioni semplici, lineari, sane e corrette. Uno studio inglese di qualche anno fa (università di Cambridge) ha dimostrato come i bambini che rispettano gli animali saranno adulti migliori. Un animale educa alla diversità ed alla differenza, dimostrando al bambino che esistono altri esseri viventi meritevoli ed in grado di offrire molto dal punto di vista affettivo. I bambini che imparano a rispettare gli animali sviluppano una capacità empatica che li porta a leggere e comprendere le emozioni ed i comportamenti altrui, proprio perché allenati fin dalla più tenera età all’osservazione di un essere vivente che è portatore di bisogni fisici ma anche psicologici da interpretare e da rispettare. L’attenzione, la comprensione e la compassione per tutti gli esseri viventi dovrebbero essere al primo posto negli intenti educativi dei genitori. Potrebbe sembrare assurdo che occorrano studi, progetti educativi, iniziative di sensibilizzazione a scuola, dialoghi nel nucleo familiare, parentale e amicale, per far arrivare un messaggio che appare quanto mai naturale, evidente ed intuitivo, eppure è esattamente così e per quanto possa anche stupire per certi versi, noi continuiamo a trattare l’argomento in ogni sua, anche evidente, fattispecie. Le modalità possono essere innumerevoli. Ciò che a noi interessa è il risultato e siamo disposti ad impiegare sempre più tempo, risorse ed energie per concretizzare la reale e concreta difesa e tutela del più debole”.

(Foto dell’Ospite)

Qual è stata la vostra più recente vittoria?
“La nostra più recente vittoria è il divieto, con la Legge di Bilancio 2022, degli anacronistici e pericolosi allevamenti da pelliccia, veri e propri lager per gli animali. L’Italia è così diventata un Paese più civile e cruelty-free, collocandosi come il ventesimo Paese europeo che ha introdotto tale divieto. Una scelta etica che non solo rispetta la vita degli animali, esseri senzienti proprio come noi, ma previene il diffondersi di spillover e zoonosi tutelando la stessa salute collettiva. Animalisti Italiani ha contribuito, nel corso degli anni della sua attività, sia attraverso la consegna di oltre 150.000 firme al Parlamento per la sospensione degli allevamenti di animali da pelliccia che mediante numerosissime battaglie sul campo: manifestazioni, presidi e blitz non sono mai mancati, ad esempio, durante la settimana della Moda a Milano. Mani insanguinate, fischietti e cartelli con volpi, visoni ed il volto di donne bellissime che seguono la moda senza indossare pellicce, come Pamela Anderson e l’indimenticabile Marina Ripa di Meana ci hanno aiutato a sensibilizzare sulla necessità di una moda cruelty-free.

Un’altra importante vittoria che ci sta particolarmente a cuore è quella relativa al salvataggio di 4 delfini del Delfinario di Rimini a cui è seguita la successiva condanna del suo Direttore per maltrattamento di animali e la chiusura definitiva del delfinario. Dal 2013 Animalisti Italiani è al centro di una lunga e importante battaglia legale che abbiamo sostenuto avvalendoci della rappresentanza legale dell’Avv. Michele Pezone per tutelare il diritto alla vita di Lapo, Alfa, Sole e Luna, i 4 delfini protagonisti di questo caso giudiziario che subivano forme di maltrattamento costante, soprattutto a causa di una sistematica ed inappropriata somministrazione di calmanti e di ormoni. Si tratta di un caso unico in Italia: per la prima volta nel nostro Paese è stata portata avanti un’inchiesta approfondita su una vicenda di maltrattamento di delfini. Di certo è una sentenza storica, come è avvenuto per Green Hill, utile affinché si comprenda la fondamentale importanza della tutela non soltanto fisica, ma soprattutto psicologica ed etologica degli animali”.

Ci spieghi come avviene il processo, in tutte le sue fasi, per portare avanti le vostre campagne di sensibilizzazione.
“Lavorare in gruppo ci aiuta a far fluire le idee che evolvono grazie al confronto, ma soprattutto partendo dalle criticità quotidiane segnalate dai volontari che operano sul territorio, a stretto contatto con gli animali, oltre che dall’analisi del contesto generale. Si prende spunto anche dalla rassegna stampa quotidiana e dai testi di legge per individuare i temi più caldi relativi alla tutela degli animali. Da qui, si fa uno screening degli obiettivi da raggiungere e si decide il focus della campagna da realizzare. In concomitanza all’utilizzo di tutti gli strumenti di comunicazione classica (volantini, eventi, spot, media) ci avvaliamo del supporto di vip e influencer per amplificare maggiormente il messaggio anche sui social, divenuti il luogo virtuale più frequentato dal popolo del web. È un lavoro accurato, di fino, molto coinvolgente per la squadra ed efficace per il risultato finale”.

I suoi riferimenti sono Martin Luther King, Nelson Mandela, San Francesco e Madre Teresa di Calcutta. Ai giovani mancano riferimenti importanti e decisivi per l’orientamento delle loro scelte e molti non hanno una conoscenza approfondita, a volte neppure superficiale, di nomi così fondamentali per il nostro progresso, la nostra libertà e la nostra cultura. Cosa ne pensa?

“Ormai è luogo comune dire che i giovani siano spenti e privi di riferimenti culturali importanti. Spesso commentando il comportamento di molti di essi (forse in modo anche un po’ troppo semplicistico), si afferma che i ragazzi di oggi non hanno più valori, non hanno nulla in cui credere, non hanno nessun interesse vero all’infuori del divertimento. No, non è così: cerchiamo di vedere il bicchiere mezzo pieno. I giovani traboccano di buoni valori, di energie, di voglia di fare e di desiderio di affermazione, diversi fra loro ma simili per tenacia e grinta e capaci di trasmettere tanti messaggi positivi. Si pensi a Greta Thunberg e al movimento Fridays For Future”.

La vita non si compra, si adotta. Combattere il commercio degli animali a favore della loro adozione consapevole. Perché l’essere umano ha “necessità” di acquistare animali di razza, belli, costosi e a volte addirittura anche rari?

“Alcuni esseri umani cercano di appagare il proprio ego distorto attraverso finte necessità che gli producano una soddisfazione apparente, ma che in realtà non fanno altro che evidenziare un enorme vuoto esistenziale. “La vita non si compra, si adotta” è lo slogan del nostro ultimo spot televisivo, andato in onda sulle reti Mediaset dal 20 al 26 febbraio, realizzato insieme a Cuori in Corsa, il primo Moto Club animalista d’Italia rappresentato da Giacomo Lucchetti, motociclista battagliero in pista quanto nella lotta per difendere gli animali. Abbiamo unito le forze per trasmettere un messaggio importantissimo: combattere il commercio degli animali, a favore della loro adozione consapevole. Gli animali non sono merce da acquistare in negozio, ma vite preziose da accogliere e amare per sempre. Per questo è fondamentale adottare nei canili e nei rifugi e non comprare. Solo così facendo li rispetteremo e non ruberemo una possibilità di adozione ai cani, chiusi in un canile, che tutti i giorni sognano una vita migliore”.

Con il progetto “Animal care” avete avviato una campagna di sterilizzazioni gratuite interamente finanziata dagli Animalisti Italiani. Quanto è grave ancora oggi il problema del randagismo e dove è maggiormente diffuso?
“Il randagismo è una piaga endemica: ancora molto diffuso nel nostro Paese, soprattutto nel Mezzogiorno dove, sebbene si percepiscano segnali di miglioramento, il fenomeno resta grave. Sono stimati in 600 mila i cani randagi in Italia e più di 2 milioni e mezzo i gatti. Vagano per le strade in cerca di cibo, riparo, una carezza. Nella sola città di Roma, dove è partito il nostro progetto pilota “Animal care”, sono oltre 13.000 i cani randagi. Secondo i dati pubblicati sul sito del Ministero della Salute, aggiornati al 31 dicembre 2020, gli ingressi dei cani nei canili della Capitale sono stati 8.240, 5.085 nei rifugi, 6.050 i cani dati in adozione e 7.323 i gatti sterilizzati. Tali numeri si “arricchiscono” continuamente di nuovi abbandoni, delle cucciolate dei privati, in molti casi lasciate negli scatoloni vicino ai cassonetti e della prole frutto degli accoppiamenti dei randagi che, per ogni femmina non sterilizzata, danno luogo fino a 300 nuovi cani in 2 anni. Così è un fenomeno tutt’altro che raro quello di residenti dei quartieri che spargono veleno nei parchi e nelle zone di riparo di tali animali per risolvere in modo delinquenziale una piaga che nasce per un comportamento a sua volta irresponsabile di alcuni cittadini e per l’inerzia delle amministrazioni deputate al controllo del fenomeno. “Animal Care” è una risposta concreta a tutto questo: contrastare il randagismo attraverso le sterilizzazioni”.

Animalisti Italiani ha aderito all’iniziativa Save Cruelty Free Cosmetics, per chiedere all’Unione Europea una conversione in favore dei metodi alternativi alla sperimentazione animale. Entro il 31 agosto 2022 bisogna raccogliere un milione di firme. Ci spieghi meglio gli obiettivi e ci dia qualche dato concreto sugli esperimenti condotti sugli animali. 

“Molte persone non sanno che i test cosmetici sugli animali sono ancora consentiti nell’UE ai sensi della legislazione sulle sostanze chimiche industriali. Nei test richiesti dall’Agenzia Europea per le sostanze chimiche, migliaia di ratti, conigli e altri animali sono costretti a ingerire o inalare ingredienti cosmetici, causando loro immense sofferenze prima di essere uccisi. In alcuni test, centinaia di conigli femmina vengono alimentati forzatamente durante la gravidanza prima di essere uccisi e sezionati insieme ai loro cuccioli non ancora nati. I marchi di cosmetici corrono il rischio di essere costretti a partecipare a test sugli animali con la conseguenza che non sarebbero più esenti da crudeltà o in grado di commercializzarsi come tali. È essenziale proteggere il divieto di sperimentazione animale sui cosmetici e il diritto dei consumatori ad acquistare prodotti cruelty-free. Pertanto, attraverso l’iniziativa Save Cruelty Free Cosmetics, una volta raggiunto l’obiettivo della raccolta di 1 milione di firme, potremo chiedere alla Commissione europea di consolidare tale divieto e la transizione verso metodi di valutazione della sicurezza senza l’impiego di animali.
Nello specifico proporremo di adottare i seguenti provvedimenti: precedenza allo sviluppo e alla convalida di metodi non basati sulla sperimentazione animale nel bilancio dell’UE e nelle nuove politiche generali, quali il Green Deal europeo, la strategia in materia di sostanze chimiche sostenibili e i piani per la ripresa post-COVID, riorientando i finanziamenti dagli studi sugli animali ad alternative altrettanto valide. Vogliamo modificare la legislazione per proteggere gli animali, i consumatori, i lavoratori e l’ambiente affinché in nessun caso e per nessun motivo gli ingredienti cosmetici siano sperimentati sugli animali. L’obiettivo è trasformare il regolamento UE sulle sostanze chimiche e impegnarsi per una proposta legislativa, pur riconoscendo la direttiva 2010/63/UE, che metta a punto una tabella di marcia per la progressiva eliminazione della sperimentazione animale nell’UE prima della conclusione dell’attuale legislatura”.

Molti ed importanti i ruoli da lei rivestiti in oltre quarant’anni di attività. Una dedizione assoluta e totale che non l’ha mai distratta dall’obiettivo principale della sua vita: il rispetto, il riconoscimento e la nonviolenza. Come si forma in modo così radicato e profondo un essere umano?
“Con l’empatia, la solidarietà, la compassione. Ma soprattutto mettendosi sempre nei panni dell’altro, prima di giudicare e/o condannare. Avevo 14 anni quando ho iniziato a lavorare per i diritti degli animali, dopo aver visto come venivano uccisi i cani nei canili pubblici. Bisogna informarsi, comprendere, vedere, vivere alcune situazioni, osservare non solo con gli occhi, e già quello basterebbe, interrogarsi su cosa ci sia veramente dietro facciate di comodo e di business. Il diritto alla vita e l’assenza di sofferenza inutile, ingiustificata, illegittima sono “emozioni” che ognuno di noi dovrebbe riservare all’altro, oltre a noi ci sono le vite degli altri ed ogni loro respiro dovrebbe essere importante per noi quanto il nostro”.

Il problema è sociale, politico, economico e culturale. Coinvolge molte fasce argomentative differenti ed ognuna di queste con un potere diverso. Non ha mai pensato fosse una impresa titanica? Ha mai avuto momenti di sconforto che potessero portarla a rinunciare?
“Cui prodest? Le sconfitte aiutano a crescere e a vincere nel lungo termine le battaglie più dure, anche quelle che sembrano impossibili. Davide ha sconfitto Golia. A chi giova farsi sopraffare da sentimenti ed emozioni negative? Sapevamo dall’inizio che nulla sarebbe stato facile o comodo o immediato, d’altronde quella che ci accingevamo a fare non era una battaglia semplice ed anche gli interlocutori non erano sempre così ben predisposti all’ascolto. Nulla o quasi ci ha mai colto di sorpresa e di conseguenza il probabile eventuale sentimento di delusione ed amarezza era qualcosa che conoscevamo bene prima ancora di cominciare ma questo non ci ha impedito di procedere a passo veloce e sicuro. Quando si è certi di fare del bene non ci si può permettere fasi di inattività dovuti a risultati che tardano ad arrivare, così come critiche, delegittimazioni. Ciò che facciamo è ciò di cui questa società ha bisogno e noi dobbiamo esserci con tutte le nostre forze”

Ci parli dei volontari, una forza lavoro fondamentale in questa attività.
“Ad oggi abbiamo 15 sedi locali sparse in tutta Italia che sono in continua crescita. I volontari rappresentano l’anima dell’Associazione Animalisti Italiani: la loro dedizione e passione è linfa vitale per gli animali. Senza il loro prezioso supporto giornaliero per la realizzazione dei progetti volti alla salvaguardia di ogni specie e di tutela diretta dei quattrozampe abbandonati, abusati, randagi, presenti sul territorio nazionale, non potremmo andare avanti”. 

Sostenere una buona causa si può. I buoni propositi si possono trasformare in azione concreta con un piccolo gesto di generosità. Attraverso t-shirt, tazze, felpe dell’associazione si possono fare donazioni per sostenere questa battaglia. Le iniziative si diversificano costantemente ma l’obiettivo rimane fermare la sofferenza di tutti gli animali. C’è un riscontro concreto a queste iniziative ed in che misura?
“Si assolutamente, il riscontro è positivo. Ovviamente si tratta di modi diversi per avvicinare e incuriosire le persone al fine di coinvolgerle nella causa animalista. Cerchiamo di sostenere autonomamente le spese per mantenere a vita gli animali che abbiamo salvato: non solo cani e gatti, ma anche pecore, caprette, agnellini, cavalli, asini e maialini di cui ci prendiamo cura e a cui vogliamo garantire un futuro sereno. Attraverso questi piccoli gesti di generosità riusciamo a portare avanti le nostre attività. Le donazioni sono fondamentali per ogni associazione di volontariato”.

Abbiamo avuto modo di leggere della vostra presenza anche nell’ambito della salvaguardia degli animali coinvolti nell’attuale conflitto tra la Russia e l’Ucraina. Un impegno molto importante. Come vi siete organizzati?
“Ci siamo attivati per donare alimenti per gli animali provenienti dall’Ucraina rendendo la nostra sede centrale un punto di raccolta cibo e organizzando una serie di stand, i cosiddetti “Gazebo per la pace”, a Piazza del Popolo a Roma, al fine di incrementare la raccolta cibo. Il 2 aprile, in occasione dell’Assemblea Nazionale degli Animalisti Italiani, provvederemo a consegnare non solo il cibo raccolto, ma anche quello acquistato direttamente da noi. Un piccolo modo per dare il nostro aiuto in questa situazione drammatica”.

Quali sono i prossimi obiettivi di Animalisti Italiani?

“Lasciare il mondo un po’ migliore di come l’abbiamo trovato”.

Animalisti Italiani

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La ragazza che sapeva trattenere le cose che sparivano. Storia di una principessa un po’ maga e un po’ fotografa. 

“In questa guerra che ammutolisce, vedo bambini con piccole borse colorate camminare al freddo accanto a madri, sorelle, nonne, zie.
Tutte donne che hanno il coraggio di ricominciare.
Penso tante cose; quelle che chi capisce più di me, sa comprendere e analizzare meglio di me.
Stasera mi atterrisce una cosa minima.
Se sei madre, sorella, nonna, zia e ti trovi in questa situazione e devi fuggire, lasciare la tua casa, le tue cose, il tuo posto, la tua cucina, le tue lenzuola pulite, cosa fai mettere ai tuoi figli, ai tuoi nipoti in quelle borse?
Un cappello per il freddo, matite colorate, un libro, un pupazzo, un maglione in più, la foto di una vacanza al sole, la cioccolata?
Come si fa a dire a un bambino questo sì, quello no. Come si fa a scegliere?
Come si fa?
Il mio pensiero minimo va a quelle donne, tutte, e a quei bambini”.
Eva Romoli 

(Foto dell’Ospite)

Somiglia in tutto ad una bambina antica, il suo aspetto fisico, i suoi lunghi capelli che ti viene voglia di sistemare con un enorme fiocco dal colore sgargiante, il tono della sua voce, la sua lentezza quasi avesse a disposizione l’eternità, la sua ingenuità, le sue lettere, i suoi pensieri e le sue parole scritte come in un diario segreto, quello di un tempo che aveva lucchetto e chiave. Il suo desiderio di fermare il tempo traspare in ogni cosa che fa, che pensa, che dice, appare come un volersi rapportare ad uno dei momenti più felici e sereni della sua vita. Eppure è una donna, una professionista, forte, coraggiosa, profonda. Ma quell’odore di biscotto appena sfornato che racconta una storia come fosse una favola, se lo porta addosso come un secondo abito.
Eva Romoli nel 2016 inizia un’attività molto curiosa, fotografa insegne antiche di ogni tipo di attività commerciale. Ovviamente inizia da Roma, sua città d’origine, ma poi la sua iniziativa interessa ogni parte del mondo e coinvolge sempre più persone grazie alla pubblicazione su Facebook. La storia coinvolge e raggruppa sempre più persone, amici reali e virtuali, che la sostengono, le inviano materiale, condividono e commentano. Eva diventa popolare, La Repubblica le dedica un ampio spazio sul quotidiano, la curiosità cresce e questo suo piccolo mondo antico inizia a diventare sempre più grande e popolato. 
L’abbiamo incontrata per i lettori di Condivisione Democratica. 

Più che una passione la sua appare come una esigenza, un bisogno, una chiara volontà di fermare il passato, i ricordi, le emozioni di un tempo in cui la semplicità e la felicità erano più a portata di mano, come se non si dovesse poi faticare molto per ottenerle. Quando si è resa conto di quanto fosse necessario e fondamentale utilizzare
la fotografia per ristabilire un legame così forte ed irrinunciabile?

“Era febbraio 2016. La mia idea originaria, quel pomeriggio, era di fotografare tutti i posti dove ero stata felice con l’uomo di cui ero innamorata. Volevo regalargli una foto per ogni posto in cui eravamo stati insieme. Poi, guardando portoni e vetrine, mentre aspettavo per entrare al cinema, in quei momenti che sembrano momenti persi camminando sul marciapiede, mi sono caduti gli occhi sull’ìnsegna rossa della tavola calda. Era quell’ora del pomeriggio, che ancora non è buio e che basta già per rendere le insegne ancora più luminose.
Ho usato la fotografia che conoscevo, quella col cellulare, perché era l’unico strumento per creare la mia scatola dei ricordi; per fermare i ricordi nel tempo; per dare a quei posti, a quei profumi, a quei mestieri e storie, una vita senza fine”.

Cosa accade ogni volta che fotografa una vecchia insegna?
“Provo la grande soddisfazione di esserci riuscita, di aver fatto in tempo, di essermi spinta per caso fino a lì. In realtà non sono mai andata apposta a cercare insegne per le strade. Sono le insegne che si sono lasciate trovare durante le mie passeggiate e i miei spostamenti a piedi e poi tantissime le devo ai miei amici, di vita e dei social. Alcuni conosciuti virtualmente solo grazie a questa avventura e che non smettono ancora di farmi costantemente bellissime sorprese”. 

Una raccolta di oltre mille insegne in sei anni, la prima risale al 2016. Sono raccolte in tutto il mondo?
“Sono arrivata a 1094 e sì, vengono da tutto il mondo. Ho iniziato dal mio quartiere e mi sono allargata a tutto il mondo, alle piccole isole greche, a quasi tutti i posti di vacanza di amici e di mio fratello. Le insegne sono diventate quello che erano in passato, le cartoline (anche di queste ne ho una bella collezione, una scatola di tutte quelle ricevute): ogni insegna diventa un pensiero e un saluto per me”.

Qual è stata l’insegna più significativa e per quale motivo?
“Quasi impossibile sceglierne una…. Le mie preferite sono foderami, passamanerie, negozi di bottoni, cartolerie, vecchie salumerie; se proprio devo scegliere, d’istinto il pensiero va al vini e olii vicino casa, che poi ha chiuso dopo poco tempo e sono stata felice di aver fermato quel ricordo, prima che venisse cancellato dalla strada.  

(Foto dell’Ospite)

Le insegne vanno di pari passo con mestieri ormai quasi del tutto scomparsi o con definizioni di mestieri che sembrano non appartenere più al vocabolario comune e quotidiano. Salsamenteria, coloreria, foderami, mesticheria. Parole che per molti rappresentano un vissuto sano e pieno. Il linguaggio dei giovani oggi è più aggressivo e diretto. Secondo lei il mestiere del “narratore” di vita passata può aiutare i ragazzi ad un confronto più maturo anche con se stessi?

Sarebbe un aspetto sul quale riflettere, ma che non nasce con la mia collezione. La mia raccolta ha una lettura molto più personale e non voglio veicolare nessun insegnamento. Mi basterebbe che la foto di un’insegna di foderami sollevasse la curiosità di chi ora o fra qualche anno non sa e non saprà nemmeno che anni fa si compravano le fodere e i bottoni, per fare e per riparare i vestiti. Mi piacerebbe non andassero perse quelle attività e quelle atmosfere,  quel modo di vendere e comprare senza fretta. Per esempio il piccolo mondo che ruota intorno alle pizzicherie, ai commessi con le cravatte dai nodi grossi, alle persone che entrano, si riconoscono e si salutano”.

Quanto è importante la volontà di condivisione in lei e come pensa di attivarla nel modo più ampio possibile?
“La condivisione è l’anima di questo percorso. Per questo ho scelto di pubblicare tutte le foto in un album pubblico su fb: per renderlo visibile e fruibile da tutti quelli che ne abbiano curiosità e per fa partecipare più persone possibili. Fossi stata da sola, questa raccolta non sarebbe diventata quella che è.
Ah, importante: anima del progetto è che le foto devono essere scattate sul posto, bisogna passarci davanti fisicamente e poi ogni foto deve essere localizzata topograficamente (sempre la città, meglio se con la via). Unica eccezione l’ho fatta io fotografando, all’interno di due ristoranti e di un negozio di sanitaria, le loro foto delle vecchie insegne, conservate in quadri appesi al muro, dopo la ristrutturazione dei locali”.

I suoi studi di archeologia ed il suo lavoro all’Istituto austriaco sono una parte importante della sua vita. Qual è il suo sogno per il futuro?
“I miei studi sono il mio passato e quello che mi ha formata e resa quello che sono, regalandomi lo sguardo che ho sulle cose, sulla storia e sulle parole; il lavoro che faccio da 20 anni mi permette il contatto con le persone e lo amo per questo. Di sogni ne ho sempre tanti. Se devo dirne uno legato a questa esperienza è pubblicare un libro con una scelta di insegne, raccontando la storia vera di quell’attività e scriverne accanto una io, una immaginata da me”.

Come immaginava il mondo da adulta quando la mattina prima di andare a scuola comprava mille lire di pizza bianca per la merenda?
“Per me, il mio mondo futuro di bambina era tutto il mio presente e contava solo che le persone che amavo fossero con me e che non mi mancasse mai il mare d’estate, la lista dei regali di Natale da scrivere con mio fratello, la pizza bianca sotto al banco. Mi immaginavo ballerina e mamma. L’immaginazione non mi è mai mancata”.

La sua iniziativa ha destato molta curiosità ed interesse, tanto da coinvolgere il quotidiano La Repubblica che le ha dedicato ampio spazio. Quando ha iniziato a fotografare le vecchie insegne immaginava ci potesse essere uno sviluppo “produttivo” e costruttivo?
“No, non l’ho mai pensato e non lo penso neanche ora. Per me iniziare è stato come mettere ricordi in un cassetto e mai avrei immaginato tutto questo interesse e le proposte che mi sono state fatte”.

Sulla sua pagina Facebook ha creato l’album “Lettere antiche” dove pubblica non solo il materiale fotografico ma pensieri, riflessioni, spunti e brani di altri autori. 
“L’album #lettereantiche su fb è dedicato solo alle insegne. L’album per le parole è #parolemie dove scrivo delle mie cose, senza un vero filo logico, se non il mio istinto, per fissare i miei momenti di gioia e quelli tristi. È nato per non lasciare perse nel flusso di fb le mie parole. Come vede, l’istinto alla conservazione e alla raccolta sono sempre prioritari per me!
Tra tanto materiale ho molto apprezzato il suo scritto sui bambini, le donne e la guerra.
Cosa metterebbe lei in quelle borse preparate frettolosamente per fuggire all’orrore della vita?
Me lo sono chiesto e quella lista mi spaventa: mi sembra ridicola e priva di rispetto per chi si trova senza niente ad elencare le mie cose.
Gli occhiali, un libro di mio fratello, l’astuccio, la mia agenda, il telefono e il carica batterie, le tre forcine per capelli di mia nonna, un sasso del mare di Santorini, una foto di mio padre che dorme sotto l’albero, le chiavi di casa, un fiocco di raso di mia madre, un rossetto e la mia acqua di colonia”.  

La rubrica “cose belle”, sempre su Facebook, è come un vademecum della vita semplice e facile. Ognuno credo voglia raggiungere questo obiettivo. Cosa fa lei per costruire un percorso più o meno lineare al di là di ciò che accade soprattutto in una città di sicuro difficile e caotica come Roma?
“Innanzitutto cerco di capire e di non scordare le cose belle che mi capitano; cerco di spronare il mio ottimismo. Anche nei giorni peggiori, sempre capita una cosa bella. Per esempio, durante il lockdown, uno dei primi giorni più tristi in assoluto, mi sono sorpresa contenta di una camelia che stava sbocciando. Così ho iniziato a scrivere ogni giorno una #cosabella nella mia agenda. A volte mi va di condividere queste cose su fb con una foto e allora può essere la gioia di mia madre per una torta inaspettata, mio fratello che torna per Natale, ritornare a parlare passeggiando per Roma con un’amica, che temevo di aver perso, il caffè con le amiche la domenica pomeriggio, prima del cinema, un mazzo di fiori il sabato mattina al mercato, una posizione a yoga che mi rende felice, un cibo speciale cucinato, una telefonata inaspettata. Ogni giorno capita una cosa bella, quello che serve è il tempo per accorgersene e quello di fermarsi per scriverla. Quando la scrivi, è ancora più bella, perché resta e non passa più. Non c’è nulla di lineare nella costruzione di questo percorso, che rimane ad ostacoli e di sicuro non porta alla felicità. Non esistono vite semplici e facili (nemmeno la mia lo è) e raccogliere cose belle mi aiuta a tollerare tutto il resto. Come passeggiare lungo gli argini del Tevere, guardando le cupole delle chiese e i terrazzi meravigliosi da sotto, scordandosi il traffico delle macchine che passano di sopra.
È come guardi le cose, che fa la differenza”.

Molti di noi si sono trovati a dover “camminare con una stampella” a volte anche solo metaforicamente, reggersi spostando il peso tutto da una parte, affrontare scalini, marciapiedi, strisce pedonali e porte dure da aprirsi con la spinta di una sola mano.
Eva è una donna forte, coraggiosa e “allenata”?

“Sono una donna: forza e coraggio me li sono dovuti prendere da sola”. 

Quali sono le sue passioni oltre alla fotografia di insegne antiche?
“Amo leggere e scrivere, il mare e la cartoleria, con tutto il mondo di penne, stilografiche, inchiostri, adesivi, nastri colorati e carte dai vari spessori. E mangiare”. 

Anche il suo aspetto rimanda un po’ al passato, a quelle donne di un tempo, dal viso importante, i lunghi capelli morbidi e gli occhi un po’ abbassati quasi per pudore, timidezza e riservatezza, dalla bellezza particolare e un po’ mistica. Cosa vuol dire essere donna oggi, cosa vede di diverso nel confronto con sua madre?
“Essere donna so quello che vuol dire per me, non so se sia “essere donna oggi”: per me è non smettere mai di credere di poter essere felice, di avere sempre un nuovo mare da scoprire. Questa illusione di avere davanti a me tutte le possibilità, è il regalo del cuore di mia madre. Il suo insegnamento più bello è in fondo la mia ricchezza vera”. 

Continuerà a fotografare insegne antiche o ha già pensato ad un altro modo per rapportarsi al suo essere bambina, fanciulla, adolescente, creatura di un piccolo mondo antico?
“Tutta la mia vita è un rapportarmi alla bambina che metteva da parte i cataloghi dei giocattoli per Natale, da settembre. La vedo e la porto in ogni cosa che faccio. Le insegne, continuerò per sempre a raccoglierle. Insieme a lei”. 

Antonio Longo è una persona decisa e dalla visione limpida e netta, lo si percepisce al primo sguardo, dai suoi occhi che guardano intensamente l’interlocutore con il suo sorriso gentile. Lo incontro – virtualmente – alla scrivania del Movimento Difesa del Cittadino (MDC) del quale è divenuto Presidente da alcune settimane con un voto unanime dei rappresentanti. Laureato in Scienze Politiche, Specializzato in Sociologia della Comunicazione, giornalista professionista dal 1991, Antonio Longo ha dedicato la prima parte della sua carriera all’attività giornalistica e a prestare consulenza ad istituzioni pubbliche ed aziende private sulle problematiche della comunicazione.
Con il tempo, si è avvicinato al mondo del consumerismo e ai relativi diritti dei cittadini ed utenti, fino ad aderire al Movimento Difesa del Cittadino, diventando uno dei massimi esperti nazionali, e fondando nel 2003 Help Consumatori, la prima e unica agenzia quotidiana d’informazione sui diritti dei cittadini-consumatori e sull’associazionismo organizzato che li tutela. Tutt’ora ne è il direttore.
E’ stato Presidente nazionale del Movimento dal 1998 al 2016, successivamente Presidente Onorario, dal 2016 al 2021.
Per dieci anni, con due mandati consecutivi, è stato componente del Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE). A Bruxelles ha rappresentato i consumatori italiani su indicazione unanime delle associazioni nazionali e in questi anni ha redatto pareri e presieduto gruppi di lavoro su varie tematiche, tra cui i diritti dei consumatori, le nuove tecnologie, Tlc, energia, protezione dei minori su internet e pagamenti elettronici. Dal 2015 al 2018 ha presieduto il Gruppo permanente Agenda digitale.

(Immagine dal Web)

Dal gennaio del 2020 ha riabbracciato MDC con una nuova energica presenza, dimostrando il suo immutato attaccamento verso l’associazione, accettando il delicato incarico di Coordinatore Generale Nazionale. Nel dicembre del 2021 viene eletto nuovamente Presidente nazionale del Movimento Difesa del Cittadino, con il desiderio di rafforzare l’Associazione, intensificando la presenza sul territorio, promuovendo progetti, studi e campagne di sensibilizzazione rivolte alla tutela dei consumatori.

Un lungo Curriculum il suo, dedicato alla Comunicazione e alle organizzazioni dei consumatori. Direi quasi un precursore del mondo del consumerismo. Com’è iniziata questa avventura? Perché dalla comunicazione è passato a questo tema?

Una avventura davvero, iniziata con due telefonate: a metà del 1998 mi chiamano Altero Frigerio, direttore del Salvagente, il settimanale dei consumatori, ed Ermete Realacci, presidente di Legambiente. Altero era un mio amico dai tempi dell’università, Ermete lo conoscevo dagli anni del mio lavoro come conduttore e caporedattore di Italia Radio, l’emittente All news del PCI-PDS.

Mi parlano di una associazione che ha bisogno di una guida, un presidente, perché chi la dirigeva aveva preso altre strade. Mi informo meglio e scopro che il Movimento Difesa del Cittadino (MDC) aveva illustri natali, da Giorgio Ruffolo a Enzo Mattina, da Pierre Carniti a Carlo Caracciolo. Inoltre in quel periodo andavo alla ricerca di un lavoro  extra giornalistico, perché avevo lasciato la radio con altri redattori nel 1994, quando era stata venduta al Gruppo Espresso e facevo consulenze per Centri di ricerca economici e sociali.  Quindi ho accettato e a ottobre del 1998 sono stato cooptato ed eletto presidente nella sede di Piazza Cola di Rienzo.  In fondo potevo continuare a scrivere, a comunicare con i cittadini, impegnandomi sul versante consumeristico proprio quando era stata appena approvata dal Parlamento la legge 281 che riconosceva le associazioni consumatori, costituiva il Consiglio nazionale consumatori e utenti (CNCU) presso il Mise e quindi faceva diventare le stesse associazioni protagoniste riconosciute non solo dai cittadini, ma anche dalle Istituzioni. Era una bella sfida!

Torna ad essere il Presidente del Movimento Difesa del Cittadino dopo 5 anni, dopo esserlo stato dal 1998 al 2016 e dopo esser stato Presidente Onorario. Questo numero di Condivisione Democratica è dedicato al concetto dell’eredità, intenso anche come senso della responsabilità e dell’impegno che deriva dal gestire pro-tempore non “proprio” ma “comune”, “collettivo”. Come responsabile di una associazione, come una comunità di persone, come vive questa eredità?

Dopo aver trascorso 18 anni come presidente MDC, nel 2016 avevo deciso di lasciare la presidenza per favorire un ricambio che portasse energie e idee nuove. Ero impegnato dal 2010 anche in Europa, essendo stato designato dal Governo italiano, dopo il voto del CNCU, a rappresentare i consumatori italiani nel Comitato Economico e Sociale Europeo, l’Istituzione comunitaria in cui è rappresentata la società civile organizzata e cioè imprese, sindacati e associazionismo. E nel 2015 ero stato confermato all’unanimità dal CNCU per un secondo mandato europeo. Volevo quindi dedicarmi di più e meglio alle tematiche comunitarie che hanno nei problemi della tutela dei consumatori uno degli ambiti più complessi ma anche più affascinanti del dibattito e dell’azione europea.

Nel 2020 sono stato invitato a tornare nel Movimento, che era in difficoltà economiche e organizzative, e ho accettato con grande entusiasmo. Non potevo abbandonare l’associazione che avevo contribuito a decollare e far crescere, facendola diventare una delle più importanti e autorevoli nel mondo consumeristico. Da questo punto di vista quindi si è trattato davvero di una presa di consapevolezza che l’eredità non poteva essere mandata al macero, mi richiedeva un nuovo impegno per superare le difficoltà e rilanciare il nome e il prestigio del Movimento. Ho accettato, a titolo gratuito e senza alcuna formalizzazione, di presiedere un Comitato di risanamento e insieme con il Comitato di Presidenza ho ripreso in mano la situazione economica e finanziaria, riorganizzando lo staff della sede nazionale, riannodando fili che erano interrotti con altre associazioni consumatori, aziende e istituzioni. I dirigenti mi hanno chiesto nel 2021 di tornare a rivestire il ruolo di presidente. Ho riflettuto molto  prima di accettare, anche perché ho superato i 70 anni… e alla fine ho accettato, in coerenza con la mia convinzione che bisogna partecipare alla gestione dei beni comuni, alle battaglie per la tutela dei cittadini-consumatori.

E’ ancora una volta una sfida che con l’aiuto di tutti gli amici di MDC sono sicuro che vinceremo. Il miglior viatico è stato l’elezione all’unanimità lo scorso dicembre. Spero di onorare al meglio questo impegno. 

Il Movimento Difesa del Cittadino ha una diffusione territoriale su tutta Italia e ha stretti legami anche con altre realtà dell’associazionismo, mi viene in mente, per citarne una, quella con Legambiente. Quanto è necessario essere “vicini” ai cittadini in un mondo così digitale oggi? E’ importante fare un fronte comune?

Venti anni fa una associazione consumatori aveva sostanzialmente un compito preciso e definito: tutelare i cittadini contro gli abusi delle società che fornivano servizi di elettricità, tlc, gas o servizi finanziari come banche e assicurazioni. C’era poi tutta la partita della Pubblica amministrazione con le sue vessazioni. Oggi lo scenario è cambiato profondamente. Con l’avvento delle nuove tecnologie digitali sono esplosi i problemi del digital divide, le fake news, le truffe on line,  l’identità digitale e il conseguente furto di identità, il commercio on line…insomma tutto uno scenario complesso di fronte al quale le competenze tradizionali dei nostri avvocati ed esperti non sono sufficienti a dare risposte adeguate e offrire tutele.

Lo stesso è avvenuto per l’ambiente e la sensibilità di fronte ai problemi del riscaldamento climatico, alla tutela del territorio, dell’aria, dell’acqua. La convergenza di consumatori e ambientalisti è nell’ordine delle cose. Noi come MDC abbiamo da sempre un rapporto strutturato con la maggiore associazione ambientalista italiana, Legambiente, con la quale abbiamo anche una offerta di tesseramento comune, realizziamo progetti, facciamo insieme esposti alle Autorità di regolamentazione.

Da soli faremmo ormai ben poco, insieme con le altre associazioni consumatori, ambientaliste e del volontariato siamo tutti più forti e più adeguati alle crescenti esigenze dei cittadini

Il Movimento che presiede è teso non solo alla protezione dei consumatori, ma è anche impegnato nella promozione di progetti, di studi e campagne sensibilizzazione rivolte alla loro tutela attraverso forme di cittadinanza attiva, la promozione della libertà di informazione dei propri diritti per una gestione consapevole. Quindi non solo consumatori, ma Cittadini a tutto tondo?

Come dicevo sopra le tematiche e le esigenze a cui dobbiamo fare fronte sono diventate più complesse, toccano ambiti che prima ci erano sconosciuti come il digitale e l’ambiente, sono cambiati gli scenari, perché il web e il digitale hanno ampliato enormemente le opportunità per i cittadini, ma anche le possibili difficoltà nei servizi e negli acquisti dei prodotti. La società postmoderna e digitale ha cambiato l’approccio quotidiano alle tematiche del consumo. Emergono continuamente situazioni nuove, pensiamo agli ultimi 20 mesi e alla pandemia con tutti i cambiamenti nella nostra vita quotidiana, dalla DAD per i ragazzi allo smartworking per i genitori, dalle cautele nella vita collettiva col green pass alle pesanti ricadute sulla gestione ordinaria della sanità. A proposito della pandemia, mi piace ricordare che un vantaggio di questa drammatica situazione (forse l’unico, insieme ad uno sviluppo forte della solidarietà in forme anche nuove) è l’aver “costretto” tutte le famiglie e le imprese ad aumentare le competenze digitali, per le prenotazioni dei vaccini, lo scarico dei greenpass, gli acquisti della pizza on line e la conseguente esplosione del commercio elettronico.

La cittadinanza sta diventando un esercizio sempre più complesso, a cui rispondiamo realizzando progetti e iniziative. E’ significativo che gli ultimi progetti finanziati dal Ministero dello sviluppo economico li abbiamo titolati  “E-consumers” e “MDC full digital”. Significativo anche che negli ultimi tempi ci siamo molto impegnati sul tema del sovraindebitamento, a causa della situazione di povertà, perdita del poso di lavoro e precarizzazione crescente causate dalla pandemia. Ecco, il nostro ruolo si sta ridefinendo, si sta ampliando, siamo chiamati a sfide sempre più complicate e dobbiamo attrezzarci adeguatamente.

   

Il Movimento Difesa del Cittadino, forse più di altre realtà del mondo dell’associazionismo, è coinvolto nelle sfide che la digitalizzazione ci pongono ormai da anni e sempre in modo più forte, più profondo, più pervasivo nelle nostra vita quotidiana. Cosa ci dobbiamo aspettare nel futuro di questa sfida?

Per noi le sfide saranno soprattutto nel rendere sempre più MDC una associazione totalmente full digital, come abbiamo titolato il progetto sopra citato. Vogliamo offrire tutto attraverso i canali digitali, dal tesseramento all’assistenza, dall’informazione alla consulenza vera e propria sui vari tempi. Vogliamo approfondire sempre più i temi della tutela dei minori, che vanno guidati nell’uso di internet. Nello stesso tempo ci stiamo già impegnando nell’accrescimento delle competenze digitali delle persone anziane, meno acculturate., aiutandole a superare il digital divide che rischia di isolarle e impedire sia l’esercizio dei loto diritti che l’accesso ai servizi. Pensiamo all’identità digitale, ormai indispensabile per accedere all’agenzia delle entrate, per iscrivere i figli alla scuola o per cambiare il conto corrente di accredito della pensione. Domani potrà arrivare il voto elettronico per il sindaco o il parlamento. Già oggi è possibile firmare per via digitale l’adesione ai referendum abrogativi o alle proposte di legge popolare. Conoscere internet o saper utilizzare la posta elettronica o l’identità digitale è il nuovo alfabeto. 

A volte si sentono toni fantascientifici, quando non proprio distopici, di lotte contro aziende multinazionali più forti degli stessi governi che sembra aver fatto saltare gli equilibri democratici che esistevano negli anni passati. E’ davvero così?

Indubbiamente oggi Facebook o Twitter condizionano l’informazione politica, fanno cadere governi, provocano inchieste giudiziarie. Pensiamo a cosa è successo con Wikileaks, con la pubblicazione di documenti riservatissimi di governi di tutto il mondo, al caso Assange, con informazioni che hanno fatto conoscere trattaive e accordi segreti, manovre per far cadere governi o dare l’assalto a gruppi finanziari…

Molti governi hanno reagito duramente con inchieste penali e proposte di limitazione del diritto di pubblicazione. Parallelamente sono stati denunciati molti tentativi di condizionamento delle elezioni negli USA, Germania, Italia e altri Paesi attraverso fake news e altri interventi sui canali digtali.

Da parecchi anni c’è l’Internet governance forum, una iniziativa dell’ONU alla quale anche io ho partecipato nel 2016 nella sessione tenuta a Istanbul in rappresentanza dei consumatori europei, in cui si cerca di dare delle regole condivise sulla tutela dei minori, contro le truffe informatiche, per la difesa della libertà di espressione e dell’esercizio dei diritti civili e politici. I risultati non sono esaltanti ma è importante che il dibattito continui.

Mi piace concludere tornando al digitale. E’ una rivoluzionaria tecnologia che ha ridotto tempi e spazi, permettendo di fare un acquisto a migliaia di km e da qualsiasi punto della terra, di vedere un familiare che si trova in un altro Paese, di gestire il nostro conto bancario senza muoverci da casa e senza limiti di orario. Ma ha anche prodotto truffe, mobbing, pericoli, minacce. Anche il nucleare piò essere utilizzato per produrre energia o per la bomba atomica o per indagini e terapie mediche prima impossibili e che ora offrono grandi opportunità di salvezza.   La tecnologia è neutra, dipende dall’uso che se ne fa. Non si deve demonizzare né esaltare, ma deve essere usata con intelligenza e sotto il controllo delle istituzioni democratiche.

“Voglio fare il musicista”: il mondo di Rosario Jermano in un libro autobiografico.  Quando accade che la realtà racconti un sogno ancora più in grande.

(Immagine dell’Ospite)

Un musicista con l’intuizione di un percussionista che ha fame di suoni, strumenti, passione e animo. Leale, amico vero, sincero, generoso ed altruista, precursore ed anticipatore, un uomo d’altri tempi con valori grandi quanto i suoi sogni, giganti, incorruttibili e fermi come roccia col cuore. Ha rinunciato a Gato Barbieri per seguire gli impegni presi con Luca Barbarossa e molti ancora sono gli aneddoti raccontati nel suo libro autobiografico “Voglio fare il musicista” (Apeiron edizioni). E’ stato sempre nel posto giusto al momento giusto, quando tutto sembrava oro e si poteva parlare veramente di musica e di passione da seguire ad ogni costo e ad ogni prezzo, con rinunce pesanti e grandi come macigni. Franco Miseria lo ha voluto nei suoi spettacoli così come tutti i grandi autori del calibro di Pino Daniele, Renato Zero, Fabrizio De Andrè, Loredana Bertè, Mia Martini, Gino Paoli, Eros Ramazzotti, Zucchero e tutti gli altri nomi del panorama musicale dagli anni ’70 in poi. Tutti, ma veramente tutti hanno nel loro percorso artistico una o molte collaborazioni con Rosario Jermano. Uomo ed artista instancabile, coraggioso e vero come raramente capita, in un mondo difficile e faticosissimo. Ha costruito un mondo di rapporti umani attraverso la musica, fortemente voluto dai più grandi che ha saputo seguire raccogliendone la profondità, l’essenza, la natura più intima e complessa. 

(Immagine dell’Ospite)

“Un arco di tempo così lungo non può rimanere senza ricordi”, scrive “Avevo bisogno di psicanalizzarmi da solo, di non mentire più al mio cervello, di cercare ragioni e motivazioni, chiamare per nome tutte le cose che avevo visto. Per questo ho scritto, altrimenti avrei suonato la batteria”. Un fiume in piena di ricordi il libro “Voglio fare il musicista”, che travolge il lettore e presenta i grandissimi della musica italiana nella loro verità assoluta, come fossero tutti messi a nudo per farli sentire ancora più vicini a chi legge, a chi li ha amati ed a chi li ha ascoltati con il cuore gonfio per tutta la vita. 

“Mio padre è quell’uomo che mi ha insegnato ad essere libera, a credere nelle passioni e nei sogni più alti. Ha creduto nel mio talento alimentando una sensibilità a volte pericolosa per un mondo di marmo come quello in cui viviamo. Mi ha insegnato che la vita è una sola e che la tomba non ha le tasche. Ho compreso le sue debolezze anche in età adulta e accarezzato i suoi errori, perché con lui ho conosciuto un amore senza eguali. Mi ha cresciuto accudendomi come una balia, non dimenticando mai un saggio di fine anno o una recita scolastica. Un uomo che mi ha insegnato la matematica e a fischiare. A cucinare e ad ascoltare i Beatles. Ero grande e lui così piccolo, quando la coperta gliela rimboccavo io, standogli vicino nei suoi momenti difficili e leccando le sue ferite, come lui aveva fatto con me. Ad oggi, grandi entrambi, guardiamo al domani con la solita poesia” – prefazione di Heather Francis Iermano (figlia di Rosario).

(Immagine dell’Ospite)

Nella prima copia del libro ha voluto scrivere una dedica a sè stesso “Alla fine ci sono riuscito a scrivere un libro, sembrava un’impresa impossibile come la “missione”. Il libro non si autodistruggerà tra trenta secondi, ma sopravviverà a me, molti lo potranno leggere dopo che io non ci sarò più. La pandemia ha fatto anche delle cose belle, spronarmi a fare cose che non avrei mai fatto. Ho fatto anche un disco nuovo dopo la mia malattia e anche questo resterà. Come queste pagine. Si gruoss” Rosario Jermano. Lo abbiamo incontrato per i lettori di Condivisione Democratica. 

All’inizio del suo libro scrive “scappavo dalla vita” e si avverte come un rimpianto per non essersi dedicato molto agli affetti familiari. Perché sentiva di dover fuggire?

“Non è un rimpianto, ma trasferitomi a Roma nel 1984, mi trovavo lontano dalla mia famiglia di origine e preso da tutti i miei impegni, avevo la musica che mi assorbiva completamente, i miei sogni da realizzare, la mia persona da coltivare, da far crescere e maturare artisticamente e non solo. Ci sono scelte nella vita che non lasciano “scelta”. Poi sono rientrato a Napoli, mia madre e i miei fratelli c’erano ancora e sentivo il bisogno, dopo anni di lontananza, di stare più a contatto con loro, ricevere il loro affetto vero e sincero, anche se Roma significava avere mia figlia spesso con me essendo separato dal 1990. Ho vissuto molto l’essere padre e ne sono felice. Mia madre è mancata nel 2004 e i miei due fratelli maggiori sono scomparsi dopo. Ho avuto modo di trascorrere molto tempo con loro e viverne anche le loro sofferenze e paure, questo mi ha fatto sentire un vero fratello ed un vero figlio, amavo moltissimo mia madre. Non si vive solamente di musica, ma di vita, di persone, di sentimenti, di paure, di felicità e di amore. Siamo sempre a cercare un motivo, una ragione per vivere, ma l’unica ragione si chiama vita, ogni giorno dobbiamo pensarci cercando di non commettere errori, perché Dio ci dà due strade, sta a noi scegliere quale percorrere”.

(Immagine dell’Ospite)

“Mio padre ha perso e ha vinto proprio come me”, in fondo è quello che accade ad ognuno di noi, è proprio la vita che porta in sé questa alternanza ed è forse ciò che ci fa crescere e maturare. Cosa ha perso maggiormente nella sua vita?

“Credo niente, rifarei tutto allo stesso modo, forse se non avessi vissuto cosi non sarei quello che sono oggi: un musicista. Nella vita ci vuole coraggio, bisogna rischiare, essere unici ed inconfondibili. Essere sè stessi ti dà un senso di libertà e di realizzazione che non ha paragoni e fare il lavoro che ci piace per noi esseri umani è fondamentale. Le scelte sbagliate rattristano, deprimono, fanno male e coinvolgono anche le persone che ci sono vicine e che amiamo. Essere insoddisfatti, frustrati e repressi è la stessa morte in vita, ci svuota lentamente giorno per giorno e ci costringe finanche ad accettare l’abitudine come qualcosa di sano. E’ importante, quando ci accorgiamo di ciò, fare il possibile per modificare qualcosa o tutto pur di ritrovare il nostro centro ed il nostro posto nella nostra vita”. 

Nascere a Napoli è come nascere sulla luna, inizi a vivere con uno scafandro ed un casco ma con occhi che vedono cose che nessuno vedrà mai. Si nasce da privilegiati contrariamente a ciò che pensano in molti. Qual è il suo pensiero a riguardo?

(Immagine dell’Ospite)

“Penso che noi napoletani non ce ne rendiamo conto, viviamo una realtà che è ricca di tradizioni e di musica, fanno parte del quotidiano non è un fatto eccezionale. Napoli per me è il mare, gli odori delle strade, i panni stesi, la grande arte in varie discipline come il teatro di Eduardo, tutte cose che ci sono e ci appartengono naturalmente insieme al Vesuvio, la pizza, la musica classica Napoletana di Bovio e De Curtis, siamo avvolti da tutto questo e noi stessi diventiamo simili, cercando sempre la migliore soluzione ai problemi per poter “Tirare a campare”, ma con orgoglio e dignità. Napoli è una città creativa, piena di passione, di magia, di entusiasmo, co a capa tosta, a noi ci piace fare le cose fatte bene e non come si dice in giro per il mondo. “Ccà nisciuno è fesso”, anzi….Napoli ti parla ogni minuto ed in ogni angolo e ti racconta tante storie belle di umanità e di passato glorioso. E’ una terra spettacolare con tutti i suoi problemi e le sue criticità, ma da qui a dire che siamo furbi, senza voglia di lavorare ed indolenti ce ne passa. Napoli va vissuta, il turista vede quello che vuole vedere, ma chi ci vive si prende tutto ed alla fine, le assicuro, il bilancio è in positivo”

Licenziarsi dal “posto fisso” nel 1978 credo sia roba da eroi o da folli. Lei come si sente?

“Mi sento un incosciente ed in parte un pazzo, ma non mi pento, vedo i miei amici di scuola e di adolescenza molto più vecchi di me anche se hanno la stessa età, io ho messo un anticalcare alla mia anima e loro no rimanendo ricoperti di una patina grigia che li rende infelici. Lavoravo all’Aeritalia, ufficio progetti, un’importante fabbrica di aeroplani, era anche un gran bel lavoro, mi insegnarono l’uso del computer, all’epoca grande come un camion, partecipai alla progettazione di un bimotore turboelica, usato tuttora dall’aeronautica militare. Fu in una delle pause pranzo dal lavoro che mi trovai in una delle tante botteghe della zona Via Marina vicino al porto, vendeva materiale di vario genere per animali. Comprai campanacci per le mucche, campane piccole, campanelli, sonagli e sonaglini, tutto ciò che produceva un suono e rimasi molto perplesso e sorpreso quando il negoziante mi disse che anni prima anche Gegè Di Giacomo, il batterista di Renato Carosone, ne aveva comprati molti. Era un segno del destino, un messaggio magico e divino, qualcuno stava cercando di farmi capire che dovevo fare il musicista. Nel febbraio del 1978 mi licenziai”, il resto è storia nota”

Cosa significa iniziare a fare musica con un’artista come Pino Daniele?

“Per me fu normale, due ragazzi che avevano voglia di fare musica, in quegli anni meravigliosi, gli anni ’70, in cui tutto era possibile e tutto era permesso. Dovevo solo volerlo, insistere e crederci fino a vederlo completamente realizzato, il mio sogno, qualsiasi sogno fosse e non importava quanto grande, gigante, immenso. Io ci ho sempre creduto. Pino è stato un musicista straordinario perché era un uomo straordinario, un amico vero, semplice, con un cuore grandissimo”.

I suoi inizi e la sua formazione la vedono al centro di un momento storico d’oro, dove la musica era il senso del vivere quotidiano. Cosa pensa dell’attuale situazione musicale italiana?

“La situazione della musica in Italia è veramente drammatica, quando i miei allievi mi fanno delle domande a volte non so rispondere, ad esempio come fare per entrare nei giri giusti per poter fare tours e dischi. I dischi non si fanno più, i tours si servono sempre di specialisti quotati ed infallibili che danno fiducia e sicurezza, ma chi ci arriva? I ragazzi sono scoraggiati, oggi è molto più difficile diventare un session man cioè un turnista, anche se questo termine a me non è mai piaciuto. Io ci sono dentro perché all’epoca tutto quello che facevo passava attraverso i canali giusti che erano attivi e floridi, mi notavano e mi facevo notare per la mia creatività, oggi anche se ci sono dei talenti non si riesce a mettersi in evidenza, devi essere raccomandato o presentato da un altro musicista conosciuto altrimenti stai a casa. Ci sono ragazzi bravissimi in giro per la strada che probabilmente non emergeranno mai perché hanno solo musica e bravura. Che tempo triste”. 

Crescere ascoltando Pino Daniele, Battiato, De Andrè, Renato Zero, Gino Paoli, ha tutt’altra sostanza rispetto all’ascolto musicale attuale. Forse manca tutto questo oggi ai giovani.

“I miei ascolti erano diversi, R&B di Otis Redding, Il rock dei Led Zeppelin, la chitarra di Hendrix e I Cream. Questo mi ha portato a mescolare tutto ed usare la somma nei dischi e nei live di artisti come Daniele, De Andrè e tutti gli altri. E’stata la mia forza. Non mi fermavo mai, ascoltavo, provavo, imparavo, sperimentavo ed ero incuriosito da tutto ciò che fosse capace di emettere un suono, un qualsiasi suono che potevo poi modulare e modellare. Oggi i ragazzi cos’hanno? I talent Show, il rap, la trap e cos’ altro? Di profondamente valido e costruttivo c’è ben poco, bisogna basarsi sul passato e sulle tradizioni se vuoi creare qualcosa di nuovo”.

(Immagine dell’Ospite)

La musica anni 70/80 era anche uno stimolo ad affermarsi con forza e coraggio, anche a costo di grandi ribellioni. Ai giovani manca tutto quello che la sorte ha dato a noi. Si è perso il senso profondo di fare musica.

“Non si è perso il senso, si sono chiuse troppe porte ed è difficile entrare nel “vortice” giusto, perché di vortice si tratta, di giostra, di nastro trasportatore, di catena di montaggio. Anni fa preparavi un provino e potevi farlo ascoltare a qualche direttore artistico, oggi i giovani non sanno neppure dove andare. Le case discografiche producono solo persone che escono dai talent o da milioni di visualizzazioni su youtube o altro. Diventa inutile mettersi a comporre e pensare di far conoscere la tua musica. Per me è molto difficile oggi, con la mia carriera, figuriamoci per i giovani talenti”.

(Copertina del Libro)

Carosone, Pino Daniele, Ornella Vanoni, Mia Martini, Luca De Filippo, Renato Zero e tantissimi tra i più grandi di sempre, l’hanno voluta a suonare le percussioni. Si rendeva conto che sarebbe entrato nella storia della musica?

“Io ho fatto il mio lavoro, il lavoro che amavo, non mi sono mai reso conto che sarebbe accaduto quello che poi è stato, ma in realtà non ero neppure attento a cercare qualcosa che andasse oltre la mia musica, fare musica, pensare musica. Certo sentivo la magia, i brividi, le paure di un debutto, a volte piangevo sentendo cantare parole commoventi come quelle scritte da Paoli o da Zero, ma mai avrei immaginato di poter fare ciò che ho fatto suonando uno strumento che non fa neppure parte della tradizione musicale italiana. Ed invece è accaduto l’impossibile, sono entrato a far parte in prima persona della musica italiana, quella più vera e profonda. Erano davvero altri tempi, quando si cercava qualcosa di più, eravamo esigenti, precisi, pignoli, grandissimi lavoratori prima ancora che artisti o musicisti, puntuali e testardi, ci piaceva e sapevamo quanto fosse importante essere “ricercatori”, volevamo costruire qualcosa di grande che potesse piacere a chi ci ascoltava, che potesse farli esaltare ed esultare. Abbiamo vissuto momenti di vera gloria, la gente ci apprezzava e sapeva riconoscere il valore di una bella canzone”. 

I suoi anni a Roma ed il ritorno a Napoli. “Quello che se ne è andato” viene ancora oggi considerato, come un affronto, un errore imperdonabile, un’offesa. Ma Roma rappresentò per lei un passaggio fondamentale. 

“Certo, a quei tempi bisognava andare ed essere a Roma, era il centro della vita e della produzione musicale. Sono stati anni importanti per la mia formazione e per la mia professione. E’ stato un passaggio fondamentale della mia vita al quale non avrei potuto e voluto rinunciare per niente al mondo. Non è stato tutto facile, anzi, ma tutto si compensava in un’ottica di visione futura, bisognava poter guardare al di là del proprio orticello, mettersi alla prova e sottoporsi anche a difficoltà di ogni genere e natura. Per come sono andate poi le cose e per tutto ciò che è accaduto penso solo che i napoletani sono stati un pò invidiosi di quello che ho fatto, non c’è altra spiegazione per l’atteggiamento che hanno dimostrato nei miei confronti. Io non partecipo alla vita musicale Partenopea, eccetto che per poche cose nelle quali mi fa piacere essere coinvolto come ad esempio “Napoli Opera” con la voce di Michele Simonelli ed un’orchestra da camera diretta da Paolo Raffone, antico collaboratore di Pino Daniele e pianista del nostro primo gruppo insieme, la “Batracomiomachia”. Altra collaborazione da me gradita è quella con Antonio Onorato, un grande chitarrista le cui doti furono riconosciute anche da Pino Daniele”.

Che lavoro fa? – Il musicista – Si capisco, ma che lavoro fa?, così le disse il proprietario di casa. E’ quasi impossibile pensare che allora, quando si faceva veramente musica, questo mestiere non veniva considerato come tale. 

“Anche oggi è così, nulla è cambiato, vogliono credenziali diverse o ti devono vedere in televisione allora accettano che il tuo sia considerato un lavoro “ben pagato” altrimenti ti mandano sotto i ponti. Ma credo che ugual sorte tocchi a tutti gli artisti in ogni ambito, devi essere riconosciuto per strada o avere poltrone nei talk show o contratti strapagati, e spesso, me lo lasci dire, tutto ciò non corrisponde necessariamente a bravura o professionalità. Ma questo i proprietari di casa o altri riferimenti della vita quotidiana non lo tengono in nessuna considerazione”. 

E’ riuscito a collaborare con i più grandi artisti, ognuno nel suo momento di massimo successo. Non credo sia stato un caso. La sua professionalità era fondamentale per ognuno di loro proprio quando il livello si alzava e l’esigenza di perfezione cresceva. Non capita a molti una esperienza del genere.

“Sono casualità il fatto di trovarsi al posto giusto nel momento storico musicale giusto, certo il talento ha fatto in modo che ciò avvenisse, ma ci sono altri aspetti come l’allegria, la simpatia e l’entusiasmo che danno tanto valore ai rapporti sia musicali che non. Forse era più facile l’approccio ma più difficile poi il consolidamento, se non valevi non duravi da nessuna parte, se non avevi una serie di caratteristiche forti, oltre alla buona preparazione musicale, non avevi una certa continuità. Bisognava avere una personalità, un carisma, una credibilità. Tutto questo ha reso lunghi e duraturi molti sodalizi”. 

“Ho superato i sessant’anni e le difficoltà si rinnovano senza pietà. Ci vorrebbe una pensione della sofferenza, una pensione delle difficoltà, una pensione per il coraggio che abbiamo avuto”. Scrive nel suo libro. Tutto questo purtroppo non esiste. Si combatte per pagare affitto e bollette. Professionisti come lei in difficoltà mentre dilaga il buio artistico e culturale. Quanto fa male tutto ciò a lei ed a noi?

“Ci sono abituato. Dal 1978 sbarco il lunario e vado avanti, con momenti eccezionali e momenti bui, ci sono dentro e ci vivo con le mie sofferenze, ma anche con le mie gioie. Ma se ci pensa non è in fondo così la vita di tutti noi?”

Trecento LP registrati con quasi tutti gli artisti italiani, 4 album da solista, tournée, come riesce ad accettare, affrontare e superare questa situazione di crisi così grave e pesante?

“Fortunatamente sono un pensionato, nei momenti difficili, come questi anni del covid, sono andato avanti con la mia pensione ed i vari ristori concessi, me la sono cavata fino ad ora. La fine di questo delirio è ormai vicina e godrò dei benefici, età e forze permettendo. Molto presto sarò in tour con Renato Zero, anche se lui ha 70 anni, non resterà di certo inoperoso dopo la pandemia”.

Il covid ha fatto cambiare lavoro a molti artisti completamente rovinati. Il tempo passa e la situazione peggiora e per molti non ci sarà più una soluzione. Cosa avrebbe dovuto fare lo stato per evitare tutto questo?

“Avrebbe dovuto dare più ristori a noi musicisti ed artisti, non certo i mille o duemila euro che non significano assolutamente nulla, cifre importanti che ci avrebbero aiutato a non finire sul lastrico. E forse anche qualche decisione meno vessatoria e prolungata nei confronti del mondo artistico e culturale”. 

Nel 2016 la malattia e tutto per un po’ si ferma. Come ha trascorso quel periodo?

“Con una caparbietà infinita, una voglia di ritornare a suonare sul palco, con coraggio e determinazione. Mi ha aiutato molto l’amore di mia figlia e la presenza di dottori eccezionali. Poi gli amici intorno e la stima di tanti che non mi hanno mai fatto sentire solo o perso o definitamente abbattuto da una malattia molto dura e tenace. Tanta sofferenza poi nella mia vita l’avevo già provata e penso che questo ti aiuta quando un altro ed un altro ed un altro uragano si abbatte su di te. Semplicemente ti trova più forte e non certo rassegnato. Dici a te stesso “ne ho passate tante, supererò anche questa”. Nella vita e nella malattia soprattutto non è tanto quello che ti accade e di quale portata, ma il tuo modo di reagire e la tua voglia di vivere. Avevo sempre la musica in testa, ma quella ce l’avevo sempre anche ed indipendentemente dalla malattia. Il ritmo, quello giusto, fa tanto la differenza in ogni circostanza, finanche nella malattia, pensi un po’”. 

Nel suo libro un capitolo lo intitola “Io e Pino Daniele” un rapporto unico, saldo ed incorruttibile. Cosa c’è ancora di Pino che non sappiamo o non conosciamo?

“Tante cose che terrò nel mio cuore, tanti momenti belli che abbiamo vissuto insieme e che resteranno nella memoria tra i miei ricordi più belli, insieme a quelli di mia madre e di mia figlia. Penso che Pino si sia dato completamente attraverso la sua musica, a parte qualcosa della sua vita privata che è tale e rimane tale, non credo ci sia qualcosa che Pino ha tenuto per sé, proprio perché anche per lui la musica era tutto ed attraverso la musica portava tutto quello che aveva dentro al pubblico, a chi lo amava e lo ascoltava e lo ascolta ancora oggi. Ci siamo conosciuti negli anni Settanta, avevo capito subito che era un grande talento, è stato il mio migliore amico, la sua morte mi ha reso vulnerabile, poi forte. Sono stato un uomo fortunato”. 

Nel 2019, dopo ventitrè anni di pausa, il suo quarto disco “Nouvelle Cuisine”, un disco non commerciale lo definisce, un disco fatto con più di quaranta musicisti tra i migliori della scena musicale, è stata la sua terapia più efficace?

“Certamente, una cura infallibile, ancora con le stampelle ho cominciato a lavorarci e sono felice di averlo fatto. Tutti mi hanno aiutato, tutti i miei amici musicisti che hanno partecipato senza alcun compenso, hanno suonato tutti gratis per me, in nome della nostra amicizia. Se non avessi fatto quel disco non sarei uscito così velocemente dal tunnel dell’apatia”.

Nel 1996 la fatidica frase “Sai suonare il berimban?”, inizia così il suo rapporto con Fabrizio De Andrè. Passano gli anni ed aumenta la desolazione della sua assenza. Le sue parole non passano mai di moda, anzi diventano sempre più attuali. Come è stato il vostro rapporto? 

“Con Faber è stato un rapporto di profonda stima, lui un tipo difficile e speciale, io un pignolo ed anche io persona difficile, lui cambiato negli anni in una persona docile e dolce, io musicista che non lascio dubbi irrisolti. In definitiva due perfezionisti che la musica ha fatto incontrare, il nostro incontro ha dato risultati veramente notevoli, risultati che oggi io valorizzo nel pieno del loro significato”.

Non ebbe il coraggio di andare in America nonostante l’invito di Corrado Rustici. Mi viene in mente Pino Daniele, Massimo Troisi, i napoletani sono pigri? Oppure non ha creduto abbastanza in sè stesso o ancora la certezza non si baratta con l’incertezza? Ci pensa mai che quel coraggio di allora forse le avrebbe regalato un presente più solido e sicuro?

“Ero già conosciuto in Italia, in America avrei dovuto cominciare tutto dall’inizio, lì non scherzano, non è l’Italia delle raccomandazioni. In America se sbagli sei fuori. Non ho visto un futuro sicuro nel mio trasferimento in America, infatti oggi Rustici si è trasferito in Germania perché lì la musica non va più come una volta. Ed a molti è toccata la stessa sorte. Rientrare dopo tanti anni dall’America poi sarebbe stato ancora più complesso, non è rientrare da Roma a Napoli, non è proprio la stessa cosa, si perdono tutti i contatti, gli amici, si torna probabilmente molto diversi e lo stesso rientro diventa più pesante e faticoso anche da un punto di vista psicologico. Non me la sono sentita. Poi chi lo sa come sarebbe andata. Va bene così”. 

Una lista infinita di artisti straordinari, sembra quasi impossibile pensare di averli incontrati tutti insieme in una sola vita. Adattarsi poi ad esigenze sempre diverse, sempre nuove, sempre più complesse. E’ stato bello, ma mi viene da pensare anche tanto faticoso.

“Per me no, non me ne rendevo conto, mi divertivo a suonare con loro, mi davano fiducia e stima illimitate ed anche la libertà di potermi esprimere a modo mio, era un valore aggiunto. I grandi artisti grazie a Dio ragionano così, ragionano bene e mi davano anche la forza di spingermi. E’ stato uno stimolo continuo. La stessa cosa la prova un cuoco quando gli dicono “Sai, cucini bene”, lui crea sapendo che i commensali mangeranno tutto”.

Morale della favola? Perché realmente di favola ha il sapore ed il colore la sua vita. Ed ora? Cosa accadrà?    

“Non lo so, spero di suonare fino a che le forze me lo permetteranno, spero di vedere le mie due nipotine crescere, mia figlia è incinta di due gemelle, spero che mia figlia viva bene e che non abbia mai problemi. Il resto non mi interessa, il mio cuore è gonfio di soddisfazioni e di cose tristi, ma vivo e questo è ciò che conta veramente per me. Ho avuto una vita così piena e ricca di ogni cosa che ora voglio solo godermi tutto quello che ho costruito. Non ho più bisogno di chissà quali grandi sussulti o sobbalzi, sono diventato un po’ più tranquillo, non per l’età e neppure per la malattia, non vivo di paure per nessuna delle due, non vivo di ricordi ma ricordo per vivere meglio e più intensamente possibile la mia vita. 

“Il mio fisico non è fantasia, è fatica”. Karla Kol ci racconta il mondo del fitness, ce lo fa vedere e lo rende accessibile a chiunque. Parola d’ordine: MISSION POSSIBLE

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Le sue storie su Instagram
(@Karlakol_fit) sono ormai diventate famose ed apprezzate ed hanno scatenato un enorme interesse in un pubblico sempre più alla ricerca di approfondimenti e nuovi argomenti sulla cura del proprio corpo, sulla salute e sul buon vivere, con senso pratico ed ironico. L’obiettivo è ciò che conta. Prendersi cura di sè stessi quotidianamente con costanza e volontà. Nulla è impossibile per Karla Kol, fitness model e fashion addicted, professionista, imprenditrice, donna bellissima, ironica, determinata, attiva, senza filtri, una forza della natura, un portento, un uragano che ha deciso di mettere a disposizione di chiunque sia realmente interessato, la sua pratica sportiva e la sua filosofia di vita. Per lei non esiste nulla che non possa essere fatto e detto perché il tempo è prezioso e bisogna saperlo utilizzare per qualcosa di sensato, valido e costruttivo. I suoi post con video e foto sono sempre accompagnati da frasi diventate ormai un vero e proprio punto di riferimento per chi vuole imparare a vivere bene, perché il suo allenamento non si ferma solamente al fisico ma interessa anche la mente, che esattamente come il corpo ha bisogno di un vero e proprio allenamento quotidiano per giungere ad uno stato di benessere totale, assoluto ed appagante. Sicura di sé come poche, in un momento in cui tutto è in bilico, incerto ed insicuro, rappresenta un vero e proprio toccasana, un balsamo, un emolliente che riesce a sciogliere qualsiasi tipo di contrattura. Per lei la vita è un’avventura straordinaria e ciò che accade va digerito, assimilato per trattenere solo le cose buone e belle, il resto via nel più breve tempo possibile. Perché di tempo non ce n’è molto, la sua giornata da donna bionica sembra paragonabile ed equiparabile a 4 o 5 di quelle dei “comuni mortali”, degli “esseri normali”, perché lei è veramente ma veramente straordinaria in tutto ciò che fa e noi abbiamo avuto la fortuna di conoscerla e di intervistarla per Condivisione Democratica, costringendola per un attimo a “fermarsi”. 

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Fitness model e fashion addicted, professioni in questo momento che vedono una grande competizione anche con protagonisti molto noti nel mondo dello spettacolo. Come si arriva ad essere unici, originali, a distinguersi ed a garantire un buon livello?

“Quando la richiesta è tanta aumenta l’offerta, ecco perché il settore del fitness ha sempre rappresentanti. Questo trend era già iniziato prima della pandemia, durante il Covid con la chiusura dei centri sportivi moltissimi si sono organizzati per proporre esercizi da fare a casa oppure all’aperto. Anche personaggi famosi, più o meno competenti e preparati hanno cavalcato l’onda del business reinventandosi P.T. e proponendo tramite canali a pagamento routine di allenamento.

Sono tantissime le nuove “mode” del mondo fitness, crossfit, pilates, zumba, io penso di distinguermi perché non ho mai abbandonato il body building old style, a parere mio l’unico allenamento veramente in grado di modificare le proporzioni del corpo.

Io eseguo e propongo gli esercizi fondamentali del culturismo variando a volte le tecniche di esecuzione.

A livello di risultati un’ora di palestra equivale a 5 di nuoto, 10 ore di crossfit, a 20 ore di esercizi a corpo libero.

Io che non amo raccontare favole o prendere in giro la gente, dico che è molto difficile ottenere un fisico come il mio senza l’utilizzo di pesi anche molto elevati”.

(Immagine dell’Ospite)

Karla Kol Fit è ora diventato un brand conosciuto ed apprezzato, con una importante novità in arrivo di cui però al momento non vogliamo svelare nulla per lasciare nei lettori la curiosità e l’interesse. Proprio durante il periodo di chiusura dovuto al covid, non si è isolata e non si è fermata alimentando ancora di più il suo atteggiamento costruttivo e produttivo.  Ci racconti meglio il suo percorso professionale.

“Io ho un carattere molto forte reagisco sempre alle difficoltà, non mi piace subirle. Quando hanno chiuso le palestre ho avuto qualche giorno di rabbia, ho comunque continuato i miei allenamenti a casa e mi sono subito mossa per trovare una soluzione. Ho trovato delle palestre che davano la possibilità agli agonisti di potersi allenare, quindi io che sono un’ atleta, mi sono iscritta ad una federazione pesistica ed ho ripreso i miei workout. La prima palestra che ha dato questa possibilità era a Bergamo. Partivo da Milano per andarci 4 volte alla settimana. Niente può fermarti se tu non vuoi stare fermo…. poi con locali, ristoranti, negozi chiusi e avendo quindi più tempo a disposizione ho cercato di sfruttarlo al meglio e con l’aiuto di un art Director bravissimo ho creato il mio logo. È stata una grandissima soddisfazione. I primi prodotti di merchandising sono già usciti ma la grande sorpresa è in arrivo… quindi quello che per molti è stato un periodo di pausa per me è stato invece di grande impegno”.

Il suo profilo Instagram è seguito per lo più da uomini, cosa non ha funzionato con le donne?

“Ho un modo di propormi troppo strong, ho cercato di ammorbidire la mia immagine ma sarebbe stato uno snaturare la mia personalità, quindi ho scelto di continuare ad essere semplicemente me stessa e ….. chi mi ama mi segua. Il modello che propongo può sembrare irraggiungibile, irrealizzabile, troppo lontano da una “normalità” cui molte donne, per una serie di esigenze, impegni ed impedimenti, vorrebbero indirizzarsi. Ma credo fortemente che solo puntando al massimo si possano raggiungere livelli ed obiettivi che conducano a risultati soddisfacenti. E poi credo che se si punta in alto scendere un po’ non rappresenti una grande frustrazione e delusione, semplicemente un piccolo ridimensionamento che può essere accettato senza troppi compromessi. Ma se si parte già da un livello troppo basso ben presto si finisce sul divano con pigiama pantofole e vaschetta di gelato al cioccolato”. 

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Della sua vita privata non si sa nulla, lei protegge molto la sua immagine nel mondo virtuale. A noi però può svelare qualcosa. 

“Ho una sorella e due nipotini fantastici. Credo sia più che sufficiente. A chi importerebbe della mia vita privata in fondo? Il messaggio che voglio comunicare attraverso i miei video e le mie foto è un messaggio di creazione del proprio universo fatto di corpo mente anima e cuore. Anche i commenti che aggiungo sono tutti orientati nella stessa direzione, vivere bene. Quindi raccontare la mia vita privata non aggiungerebbe molto al mio lavoro. Ad ogni modo molto di me si può comprendere, a chi interessa, proprio dai miei post che raccontano e presentano me mentre faccio sport, viaggio, sono in casa, presento luoghi e persone e molto altro ancora. Ma sono certa che i miei followers sono seriamente interessati ai miei allenamenti che condivido con tutti perché in fondo sono la parte più importante e significativa della mia vita, ciò in cui credo molto ed in cui investo la maggior parte della mia giornata”. 

Bellissima, impegnatissima, attiva su diversi fronti, ironica, creativa, propositiva, solare e coraggiosa. Karla Kol avrà pure qualche difetto.

“Ovviamente …. come tutte le dive sono nervosa, capricciosa, impaziente e vanitosa”.

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Il mondo del fitness e dell’immagine è cambiato moltissimo in questi ultimi anni con l’arrivo della tecnologia più avanzata, dei social, della figura di influencer. Molti i benefici ma anche molti danni, lei che bilancio ne ha fatto?

“Le figure che i social propongono sono modelli esteticamente perfetti e difficilmente raggiungibili, questo potrebbe creare nelle persone, soprattutto più insicure, uno stato di inadeguatezza e sconforto.

Mai scoraggiarsi davanti a qualcuno che ci sembra migliore di noi, iniziare invece un percorso ed un lavoro su noi stessi per cercare di raggiungerlo ed anche se questo non sarà possibile comunque avremo apportato dei miglioramenti in noi stessi. Non odiamo chi ci sta davanti ma cerchiamo di raggiungerlo. Se riuscissimo a trasformare l’invidia e l’insicurezza in energia produttiva, invece che in delusione rabbia e sconforto, avremmo molta più gente in salute, allegra e felice”. 

Quanto conta nella vita un po’ di sano egoismo ed un pizzico di cinismo?

“Io amo molto i felini e ho imparato a vivere come fanno loro, i gatti sono i miei maestri di vita, per questo ho una vita stupenda…Loro hanno un rapporto bellissimo con sé stessi, con chi li ama, con la casa e con la natura. Sono creature meravigliose. Non fanno nulla per bisogno, sono liberi, per questo tutto ciò che donano è puro e sincero. Vivere pensando di più a sé stessi cercando di razionalizzare non è un male, ma un dovere che abbiamo verso noi stessi. Io parlo di rispetto che ognuno di noi dovrebbe avvertire come esigenza irrinunciabile, rispetto per ciò che siamo e che vogliamo trasmettere”. 

(Immagine dell’Ospite)

Quali sono le sue passioni oltre lo sport?

“Tantissime: la danza che ho iniziato a praticare all’età di 5 anni, la musica, la lettura, il teatro, la guida sportiva e di conseguenza i motori, la moda, l’arte nello specifico la pittura.

Da buona esteta ho un’attrazione verso il bello in ogni sua forma ed espressione.

Avere tanti interessi ci tiene attivi e giovani e rende la vita molto più dinamica e divertente”.

Quando ha inizio la sua attenzione per il corpo, per la salute, per una vita sana ed equilibrata? 

“Quando il primario mi ha preso per i piedi mettendomi a testa in giù per farmi piangere ho pensato: questo fa bene alla circolazione ma se mi sculaccia troppo forte mi spacca i capillari!”

Spesso si associa la bellezza ad una vita di enormi sacrifici e rinunce, ciò che lei comunica però è tutt’altro. Il messaggio è che si può realmente avere ciò che si sogna attraverso un percorso di grande felicità e serenità. 

“E’ semplicemente perché faccio quello che mi piace. Mi spiego: se una donna è paffutella ma è felice e si mette a dieta soltanto perché glielo chiede il fidanzato o perché vede che le sue amiche sono più magre di lei vivrà rinunce e stress. Se lei è felice della sua condizione non deve fare assolutamente nulla.

Non esistono canoni estetici di riferimento, ciò che è fondamentale è saper e voler vivere in un corpo che ci faccia stare bene, che ci faccia sentire a posto con noi stessi”. 

“Quando tutte le giornate sono uguali, sei tu che devi trovare il modo di farle diventare differenti e speciali”. Certamente un motto straordinario, ma non crede che molto spesso il punto di partenza differente può influire su tale atteggiamento rendendo le cose a volte difficili per non dire impossibili?

“La mente di una persona vincente non prende neppure in considerazione la parola impossibile”.

(Immagine dell’Ospite)

Il vissuto di ognuno di noi determina il corso della nostra vita in una direzione piuttosto che in un’altra. Ma è l’atteggiamento nei confronti di questo vissuto che fa la differenza. Il suo messaggio, molto potente, è che non bisogna fermarsi mai, neppure davanti alle tragedie, a traumi profondi, a pericoli, ostacoli, complicazioni e impedimenti. E soprattutto che bisogna essere produttivi ed operativi al massimo. Perché è cosi difficile da far passare questo messaggio?

“Non è un messaggio difficile da far passare, semplicemente c’è chi ha voglia di recepirlo e chi no.

E’ molto più facile piangersi addosso piuttosto che rimboccarsi le maniche e darsi da fare. Chi non ha avuto difficoltà nella vita? Chi di noi non ha attraversato momenti più o meno complessi, dolorosi, pesanti? Eppure molto spesso le persone con identiche situazioni di partenza sono arrivate in punti lontani anni luce. Cosa ha fatto la differenza? Si tratta di percorsi che hanno visto qualcuno lasciarsi andare pensando che nulla sarebbe potuto mai cambiare e migliorare e qualcun altro ripetere a sé stesso ogni giorno “voglio una vita migliore, me la merito e me la prendo”. Il mondo è traboccante di opportunità e volerle cogliere è uno stimolo che ognuno di noi dovrebbe coltivare quotidianamente dedicando a questo aspetto magari lo stesso tempo che impiega per allenarsi in palestra, per vedere un film, una cena con gli amici, la lettura di un buon libro, un viaggio, una buona dormita. Troppo spesso dedichiamo tempo, troppo tempo, ad aspetti della nostra vita che non lo meritano, discussioni, litigi, guerre personali, prese di posizione, cause. Tutta energia che intanto ci avrebbe portato un passo avanti verso il nostro traguardo”. 

Molto spesso si è sentito il binomio palestre-anabolizzanti, doping, farmaci. Qual è la realtà in questo ambiente che dovrebbe rappresentare un tempio per la salute del corpo e della mente?

“Non esiste nessuno sport senza contaminazioni dovute a sostanze dopanti, la gente purtroppo lo ricollega sempre e solo al body building”.

La sua ironia è sorprendente, nella sua pagina Instagram una serie di piccole gags che vanno a toccare argomenti di vita quotidiana. L’ironia è un’arma di difesa o è soltanto una sua spiccata caratteristica?

“Sono molto ironica, anche autoironica. Amo ridere e scherzare e non mi piace chi si prende sempre troppo sul serio. Diffidare sempre dei seriosi e dei noiosi, così come dei “perfetti”, la vita è un continuo di cambiamenti, adattamenti, ci si modella, il corpo come la mente, a seconda dell’età, delle circostanze, dei luoghi. E’ tutto uno spettacolo meraviglioso di colori, luci e suoni. Vedere e sentire sempre le stesse cose non serve a molto, spostare la visuale anche stando in casa è uno strumento infallibile di vivacità e dinamicità”. 

Il secondo posto della sua classifica sull’ipocrisia lo assegna alla frase “i soldi non fanno la felicità”, cos’è che fa realmente la felicità?

“Proprio perché trattasi di frase ipocrita la risposta è contenuta nell’affermazione stessa: la felicità si ottiene facendo quello che ci piace e per farlo servono i soldi. Spesso anche avere idee geniali, creatività, intuizione, non porta alla realizzazione per mancanza di mezzi. Questo non significa mollare il proprio sogno, arrendersi, sentirsi sconfitti e non realizzati, più semplicemente significa che se non hai i soldi devi farli, devi trovare il modo per accumulare denaro da utilizzare per ciò che vuoi. Si deve pur partire da qualche parte, chi parte già avvantaggiato e chi invece il vantaggio deve costruirselo per poi trarne ogni tipo di beneficio possibile. Non mi stancherò mai di ripeterlo, la parola impossibile non esiste”. 

(Immagine dell’Ospite)

Ormai tutti scrivono libri su ogni argomento. Le è mai venuto in mente di cimentarsi in tale ambito magari con un manuale ironico e irriverente del sano vivere in pace con sè stessi e con gli altri?

“No, ma ho pensato ad una mia biografia che sarebbe molto più interessante. Mi piacerebbe raccogliere tutte le mie esperienze, il mio vissuto, il passato ed il presente, il futuro che sto costruendo e che vedo realizzarsi giorno per giorno. Ci sono moltissime storie in un’unica storia che è la mia vita e tanti momenti, incontri e situazioni che sarebbe bello condividere con altre persone. Sono certa che dopo la lettura di questo possibile libro autobiografico le donne, anche le donne oltre agli uomini, sarebbero dalla mia parte e riuscirebbero a vedere tutto ciò che da un profilo Instagram (@Karlakol_fit) non è possibile cogliere completamente. Ripercorrere tutto ciò che ho fatto e tutto ciò che sono stata nei vari periodi della mia vita sarebbe un bel viaggio e di compagni di avventura ne troverei molti altri, in fondo la mia è una bella storia con momenti anche di grande difficoltà, forse quelli più importanti per rafforzare il mio coraggio e la mia volontà”.

Ha mai dovuto affrontare l’invidia, la cattiveria, l’ostilità?

“Certo, come tutte le persone su questa terra, ma dormo comunque sonni tranquilli. Chi non combatte quotidianamente con questi grandi sentimenti? Io però non combatto mi limito ad osservarli e possibilmente ad evitarli, non amo confrontarmi con qualcosa che potrebbe distrarmi e togliermi energie, per quello che faccio e per quello che sono di energie ne ho tanto bisogno e non posso permettermi il lusso di disperderle”. 

Come dicevamo il mondo femminile non è molto a suo favore, ha molte amiche?

“Poche ma sicuramente di qualità, anche in questo sono molto esigente e selettiva. Non è certo la quantità che può avere significato nella vita, e mi riferisco soprattutto alla sfera emotiva e degli affetti. Sarebbe dispersivo anche quello, avere troppe persone con cui condividere ore e giornate, e poi mi domando quanto sarebbe realistico poter affermare di avere molte amicizie profonde, persone a noi così vicine da rappresentare un valido punto di riferimento. La realtà è che dobbiamo ritenerci fortunati se nella vita abbiamo qualche incontro profondo e vero, dove la sincerità e la libertà di essere sé stessi si possa manifestare al cento per cento”. 

L’ignoranza ed il pregiudizio spesso associano una bella donna alla ricerca di una vita facile e comoda. Il suo modello di donna invece mette in evidenza un lavoro costante e continuo per arrivare ad ottenere risultati non da ostentare ma da proporre. Cosa danneggia ancora il mondo delle donne?

“Io credo che indifferentemente sia nel mondo femminile che nel mondo maschile, in generale nel mondo degli esseri umani ci si danneggi da soli, non si può sempre ricercare il danno in qualcun altro per cercare di sopportare meglio le conseguenze. Dobbiamo avere il coraggio di fare le scelte giuste, di sopportare gli errori, di ripartire, di cadere e farsi male, di non giudicarsi sempre e troppo severamente, di essere autoironici quando è necessario, di alleggerire invece di andare sempre in giro con una zavorra di cui non riusciamo a liberarci per mentalità, pregiudizi, limiti, paure. Bisogna lavorare su noi stessi anche con estrema onestà che non vuol dire giudizio ma analisi e comprensione. Dobbiamo imparare a volerci bene ed a proteggerci da tanta confusione e superficialità. Oggi tutti parlano, tutti hanno una soluzione, una risposta, un argomento. Ma è vero? C’è la sostanza in tutta questa concentrazione di tutti sappiamo tutto? Io credo che quando si parli di danno la prima persona a cui bisognerebbe rivolgere l’attenzione siamo noi stessi. Dobbiamo saperci ascoltare senza nessuna ipocrisia”. 

Adora i complimenti, le lusinghe e gli apprezzamenti. Lo dice schiettamente e con grande onestà. Quanto è dannosa l’ipocrisia nella vita di noi donne?

“Esattamente come per tutti, maschietti compresi. Sentirsi apprezzata è una bella gratificazione e ti da anche la misura del lavoro che stai facendo su te stessa, significa che stai facendo bene, che stai indirizzando bene tempo ed energie, che ciò che vuoi comunicare con l’esterno viene compreso e recepito molto bene. Non amo la volgarità, ovviamente, ma uno sguardo compiaciuto, una frase di apprezzamento, un complimento, un gesto di attenzione manifestato con cura, rispetto e garbo di sicuro mi fa molto piacere. Tutto ciò lo trovo sano”.

La libertà di una donna di essere bellissima e non in pericolo credo sia un traguardo ancora lontano, lontanissimo dall’essere raggiunto. Spesso la bellezza viene vista quasi come un invito, un proporsi, una disponibilità. La legge non aiuta. Come ci si difende da questa concezione “malata” della società?

“Io non mi ritengo brutta eppure non mi sono mai sentita in pericolo. E’ ovvio che la bellezza non è tutto, deve essere accompagnata dall’intelligenza nel sapersi districare nella giungla della quotidianita’. Ad ogni modo non penso si debba parlare di difesa quanto piuttosto di un giusto equilibrio. Noi donne abbiamo tutte le risorse necessarie per gestirci nel migliore dei modi, senza né prevaricare l’uomo e nemmeno sottometterci. Credo che nel corso degli anni ci siano stati molti fraintendimenti tra uomo e donna e questo ha finito con indebolire entrambe le parti, quando al contrario la differenza avrebbe dovuto rappresentare una risorsa preziosa, perché che siamo differenti bisogna riconoscerlo ed accettarlo, senza per questo dare giudizi di valore che a nulla servono e che soprattutto non esistono. Il valore di una persona appartiene a qualcosa di molto più profondo ed intimo che non sia semplicemente la differenza di sesso. Su questo dobbiamo soffermarci e non parlare di difesa, attacco, sono termini in qualche modo aggressivi che non fanno che alterare ancora di più un equilibrio che dovrebbe esserci e che è andato perso con il tempo. E nemmeno parlare di ruoli secondo me ha una qualche utilità”. 

Instagram @KarlaKol:_fit

Robin by Donatella Lavizzari

La mia è una storia magica e ve la voglio raccontare.
Durante una passeggiata nel centro di Roma, la mia mamma incinta e la sua amica umana, incontrarono Olympia Pratesi, figlia di Fulco (fondatore e Presidente Onorario del WWF Italia).
Era talmente bella che lei se ne era innamorata al primo sguardo.
In famiglia avevano sempre avuto barboncini e la mamma le ricordava tanto l’adorata Sheila, che purtroppo, dopo una lunga vita felice, era volata in cielo tra le altre stelle.
Iniziarono a parlare e quando Olympia si presentò, dicendo il proprio cognome, l’altra signora trasalì perché era stata un’allieva di suo padre Fulco, durante il corso di restauro dei monumenti, alla Facoltà di Architettura.
Si creò un legame tra di loro e al giorno dell’ottantesimo compleanno di FulcoOlympia si presentò a casa con uno scatolone come regalo di compleanno.
Fulco pensò che fosse il solito regalo tecnologico digitale, ma quando lo aprì, uscì il mio bel musetto color albicocca.

Robin da cucciolo
courtesy@Fulco Pratesi

Lui e la moglie Fabrizia impazzirono dalla gioia e cominciarono a pensare come chiamarmi.
Poiché in giardino c’era un loro nipotino che stava giocando con arco e frecce, chiesero a lui di scegliere un nome. E lui disse, con fare deciso: ‘Robin Hood!
Oltretutto Robin in inglese significa pettirosso… non potevano trovare nome migliore per un rossiccio come me!
Credo proprio di essere stato inviato dal Cielo per donare gioia a tutti loro.

Ho sentito Fulco che confessava alla nostra amica Donatella che da subito ero compenetrato nella sua vita ed ero persino in sintonia con il suo carattere, a volte impulsivo.
Io sono sempre stato gentile, disponibile e, a sua detta, anche intelligente, ma soprattutto un cane ‘comodo’, perché sono piccolo e peso solo 4 kg.
Insomma sono indispensabile, un amico prezioso. Così come lo sono state Suna e Sheila prima di me.
Suna era un po’ più piccola e candida come la neve. Ecco perché l’avevano chiamata come il bianco uccello marino. Sheila invece aveva il mio stesso colore ed era adorabile!

Pensate che Fulco mi ha raccontato che la portava anche al cinema!
Una volta andarono a vedere ‘Mia moglie è una strega’ e poiché si annoiava un po’ (le piacevano solo i film gialli), si mise a gironzolare per la sala, tra le poltrone, e a un certo punto, quando apparì sullo schermo un gatto, lei si mise ad abbaiare a più non posso tra lo stupore generale e le risate della gente!
Che pazzerella che deve essere stata….ma sicuramente dolce e amorevole come me.
Citando Fulco, i gatti sono atavicamente degli animali da inseguire abbaiando. Magari però ritenendo prudente desistere dal chiassoso inseguimento quando uno di essi si ferma e ci guarda in maniera interrogativa.

Fulco ha sempre avuto un collegamento speciale con tutti noi animali, un amore immenso, uno scambio di emozioni che sono davvero impagabili.
Non potrei desiderare di meglio.
Donatella dice sempre che lui è in simbiosi, in sintonia con il pianeta Terra, e che ne è Ambasciatore per eccellenza. Come non volergli bene?

Lui si arrabbia sempre molto quando noi barboncini siamo chiamati cani ‘radical chic’ e quindi, per la sua grande ironia, lui stesso si è definito tale. Ha persino scritto un articolo sul Corriere della Sera, dove spiega l’importanza e l’imbarazzante intelligenza di noi barboncini.
Lui dice che siamo diversi dalle altre razze canine perché siamo simili al lupo. Noi abbiamo una conformazione cranica sferica e non piatta nella parte superiore….quindi mooooolto più cervello!

Al contrario dei lupi, io preferisco dormire in una meravigliosa cuccia imbottita che sta ai piedi del letto di Fulco e ogni mattina, verso le 7, mi avvicino e gli lecco la mano per svegliarlo.
Lui si alza e, dopo i tipici riti degli umani, raccoglie il Corriere della Sera e la Repubblica che gli sono stati consegnati e si avvia verso il soggiorno, dove si accomoda su una grande poltrona.
Io lo seguo e mi piazzo lì davanti, guardandolo fisso negli occhi fino a quando mi fa cenno di salire accanto a lui. E così me ne sto al calduccio, mentre legge i quotidiani (credo proprio che il film ‘Una poltrona per due’, si sia ispirato a noi).

Robin by Donatella Lavizzari

Poi mi viene voglia di farmi un giretto per la casa, ma poco dopo ritorno e riconquisto la posizione per farmi un bel pisolino, fino a quando la mia amica Giusy mi porta a passeggio. Con lei mi diverto sempre e faccio delle pazze corse nel parco. Sono talmente veloce che sembro un missile!
Anche con Fulco inscenavo sempre frenetici caroselli sul prato e lo sfidavo a un gioco di riporti con i rami secchi, interrompendolo solo per brucare fili d’erba a scopo digestivo o per stendermi pancia a terra con la lingua di fuori.

Al rientro, mi dirigo verso la cucina, dove mi attendono delle squisite ali di pollo lessate mischiate con il riso soffiato: una vera bontà!
Prima di iniziare a papparmi questa delizia, vado in perlustrazione attorno al tavolo perché da lì scende sempre qualcosa di buono.
Aspetto con pazienza che mi allunghino pezzettini di formaggio o bocconcini di carne.
Ora sì che si ragiona! Si deve sempre iniziare il pranzo con un antipasto sfizioso… stimola l’appetito!
E poi, vogliamo discuterne? Vi sembra che mangiare dentro una ciotola sia appropriato e dignitoso per un cane del mio stile? Insomma! Aggiungete un posto a tavola! Ehm… sì, lo confesso, sono un po’ snob.

Ma non sono certo l’unico eh! Pensate che una volta, durante un’escursione nel Parco del Circeo, abbiamo incontrato Gruyère, un cinghiale molto socievole e educato. Si è avvicinato per salutarci e Fulco gli ha offerto del formaggio. Lui si è ritratto inorridito! ‘Ma stiamo scherzando? Io mangio solo quello svizzero!
E noi siamo scoppiati in una fragorosa risata!

courtesy@Fulco Pratesi

E’ proprio vero, Fulco parla con tutti gli animali. Ovunque vada, riesce sempre a incontrare pennuti, pelosi vari, tipetti di ogni razza e colore, che gli diventano subito amici.
Girovagando nell’Oasi WWF del Lago di Burano, nella Maremma grossetana, avvistammo un gruccione, un bellissimo uccello dal becco lungo e nerastro, leggermente ricurvo verso il basso, e dalla livrea variopinta. Un’esplosione di colori che usciva a mo’ di pennellate dal ‘fondo’ castano del dorso e dall’azzurro del ventre, con sfumature di giallo, verde, nero e arancione.
Vedendoci arrivare, iniziò a volare in tondo sulla testa di Fulco.
Poco dopo si posò lì vicino e si fece accarezzare la testa come se fosse un cucciolo domestico. Un gesto davvero inusuale per uno che adora gli spazi aperti e vive in zone ricche di vegetazione spontanea e cespugliosa, presso i corsi fluviali, i litorali e i boschi con radure.
Ma ho imparato che tutto diventa possibile con Fulco!

courtesy@Fulco Pratesi

courtesy@Fulco Pratesi

Lui è come San Francesco, comunica con tutti noi. E’ il mio supereroe.
Ogni giorno, sul terrazzo dove ci sono le mangiatoie, arrivano tantissimi uccellini che gli raccontano dei loro viaggi e delle loro avventure.
E lui annota tutto e li ritrae con pennelli e acquarelli. Dovreste vedere quanto è bravo! Ha un talento incredibile!
Li ama come se fossero suoi simili, come dei figli!

Il menu principale del ristorante ‘Terrazza Pratesi’ è costituito da semi di girasole, pezzi di grasso, mele spaccate in due e soprattutto briciole di torte e di biscotti che fanno la felicità di pettirossi e cinciallegre, passeri e cinciarelle, capinere e occhiocotti.
In questo luogo c’è realmente quella biodiversità tanto amata e raccontata da Francesco Petretti nei suoi libri e nei suoi documentari naturalistici.
A proposito! Anche lui è stato allievo di Fulco!

Una volta atterrò persino un uccellino che gli portò una foglia di salvia molto profumata. Credo avesse voluto fargli un omaggio per la sua bontà e gentilezza.
Anche le farfalle lo amano! Si posano sulle sue dita, come se fossero incantate da un richiamo irresistibile.

D’estate, nella casa di campagna, venivano a trovarlo persino alcuni ratti. Uno, in particolare, lo faceva abitualmente e ogni volta si mangiava tutte le pesche che riusciva ad acchiappare, guardando con quegli occhietti furbi sia lui sia Fabrizia.

courtesy@Fulco Pratesi

Amo stare in sua compagnia! A volte schiaccio un pisolino accanto a lui e sogno.
Sogno di guidare un’auto sportiva rossa fiammeggiante e di attraversare campi e prati, villaggi e fattorie sperdute.
Ehi! Attente!’, dico rivolgendomi ad alcune signore mucche che stavano per attraversare la strada. E loro prendono a scappare di qua e di là, mentre oche e anatre starnazzano indignate sbattendo le ali e una gallinella, per lo spavento, deposita un uovo, fuggendo di corsa!

A gran velocità raggiungo le montagne. La strada sale ripida con molte curve, fino a raggiungere un ponticello di legno che sta sopra un tortuoso ruscelletto.
Mi arrampico fino alla cima e volo giù dall’altra parte, raggiungendo la pianura che si estende fino all’orizzonte.
Ed ecco, che all’improvviso, qualcosa si muove laggiù! Vedo una linea scura… sono cavalli selvaggi con le loro ondeggianti criniere al vento.
Sento già lo scalpitio dei loro zoccoli sul terreno e i loro nitriti.
Vorrei tanto cavalcarne uno, come nel far west!

Uno di loro si avvicina, si chiama Morello. I suoi occhi e il suo pelo corvino risplendono alla luce del sole.
Io gli offro una zolletta di zucchero (per favore non chiedetemi che cosa ci fa una zolletta di zucchero su un’auto sportiva guidata da un barboncino!), ma lui preferisce di gran lunga la gomma da masticare che ha adocchiato sul cruscotto e, in un baleno, la prende e la mette in bocca, roteando sorpreso gli occhi perché non aveva mai mangiato qualcosa di simile e così strano!

Mentre è tutto preso a capire come mai i suoi denti non s’incrociano più nel modo giusto, gli metto il lazo al collo e con un salto mi lancio coraggiosamente sul suo dorso.
Lui si solleva scalpitando, affonda la testa tra le zampe anteriori, rinculando di scatto e facendo di tutto per disarcionarmi!
Sebbene mi stia aggrappando a lui con tutta la mia forza, scivolo goffamente sotto la sua pancia, riuscendo a malapena a risalire in groppa, attaccandomi alla criniera.
Con un forte schiocco si rompe la bolla fatta con il chewing gum e puffete mi risveglio un po’ stralunato. E Fulco è lì che mi accarezza sorridendo e mi dice: ‘Robin che avventura hai sognato? Hai surfato sull’oceano insieme ai delfini come la volta scorsa o sei andato con un razzo sulla luna?!’.

Io spalanco gli occhi e ricambio il sorriso, strofinandomi addosso a lui, e poi li richiudo e volo sui mari con il mio rapido vascello pirata.
Ad un tratto, una voce dolce rompe il silenzio: ‘Fulco! Robin!’.
E’ Fabrizia che ci chiama.
E’ ora di scendere in cambusa a preparare la cena.

Il Professor Zamboni ha appena dato alle stampe il suo ultimo libro “Nascoste nella Tela” (Mondadori Editori) nel quale unisce la sua passione per l’arte e il suo proverbiale occhio clinico, sempre mitizzato dai suoi numerosi pazienti. Il suo piacere per la scoperta, per l’indagine scientifica viene versato in questa novità in libreria svelando ai lettori i misteri nascosti nei dipinti di famosi pittori. Ne risulta un testo avvincente rivolto a qualunque fascia di lettori per la immediatezza del linguaggio usato. 

Per me re-incontrare Zamboni è, prima di tutto, un piacere per la sua simpatica schiettezza, tipicamente ferrarese, che rivedo identica. Una immediatezza che è anche in questa opera, non rivolta ai medici ma a tutte le persone attratte dall’arte, e ne diventa un valore aggiunto. 

Il nostro primo incontro risale a diversi anni fa. Fu dopo una presentazione di un suo studio, davvero stupefacente, condotto nello spazio. 

Ora mi fa davvero piacere condividere con i lettori la sua visione della ricerca medica e della comunità scientifica. 

Immagine dall’Ospite

Paolo Zamboni è un chirurgo e ricercatore italiano laureatosi presso l’Università degli Studi di Ferrara dove oggi è professore ordinario di Chirurgia Vascolare. È stato cofondatore e presidente della International Society for Neurovascular Diseases (ISNVD), società scientifica internazionale volta allo studio delle malattie neurovascolari. 

Professore, lei è stato insignito anche del titolo di Commendatore al Merito della Repubblica Italiana in riconoscimento del suo operato in campo medico-scientifico per i suoi studi sull’emodinamica venosa e in particolare per quella cerebrale. Uno studio complesso il suo che ha portato alla definizione della insufficienza venosa cronica cerebrospinale (CCSVI) che continua a essere sotto l’attenzione della comunità scientifica. 

La definizione del difettoso funzionamento delle vene giugulari, inizialmente da noi descritto nei malati di sclerosi multipla, è stata molto contestata dalla comunità neurologica. In realtà la controversia scientifica non era tanto sulla scoperta vascolare in sé, ma era dovuta alla applicazione di terapie chirurgiche endovascolari su questi pazienti. Nel tempo molti altri ricercatori si sono occupati di CCSVI, trovando impensate correlazioni delle giugulari difettose con cefalea, sindrome di Meniere, Alzheimer, Parkinson ed altre malattie neurologiche, di fatto aprendo una porta fino a quel momento mai varcata dalla comunità scientifica. Una nuova possibilità per contribuire alla conoscenza migliore di malattie in parte ancora misteriose. 

Nell’evento del quale parlavo nell’introduzione, presentò uno studio per degli esperimenti che furono eseguiti da Samantha Cristoforetti sulla base internazionale orbitante. Fu un’avventura davvero incredibile, può raccontarla ai nostri lettori? 

Il progetto Drain Brain fu una fantastica esplorazione scientifica che ci permise di comprendere il contributo della forza di gravità in particolare sulla circolazione cerebrale. La fortuna di poter disporre della collaborazione in orbita di uno scienziato aggiunto come la nostra Samantha Cristoforetti è stato determinante per il successo della missione. Gli esperimenti erano molto complessi dovendo io coordinare da Terra, in una base predisposta dall’Agenzia Spaziale Italiana, tre laboratori dislocati fra Danimarca e Stati Uniti oltre al modulo orbitante nel quale Samantha doveva eseguire gli esperimenti di fisiologia umana su se stessa. Indimenticabile, credetemi. 

Quell’esperienza divenne poi la base di una pubblicazione scientifica, ma del resto di studi scientifici ne ha pubblicati diversi: la ricerca è quella strada che può trasformare una ipotesi e far nascere una terapia. Quante pubblicazioni ha effettuato finora? 

Moltissime. Ma vede le pubblicazioni sono, nella mia testa, un modo di consegnare ad altri scienziati, specialmente ai giovani ricercatori, dati e documenti validati che divengono un patrimonio scientifico per procedere in avanti e migliorare le condizioni di vita dell’Umanità. I nuovi strumenti diagnostici che abbiamo usato nello spazio ad esempio li abbiamo ora adattati e li stiamo usando sulle persone malate. 

Copertina del libro (Mondadori)

Il nuovo libro nasce quando si è reso conto che la sua passione per l’arte non le impediva di avere comunque l’occhio clinico: riconosceva nelle opere pittoriche, malattie e morbi che ora sono conosciuti. Come le è nata l’idea di farlo diventare un libro? 

Il libro di fatto raccoglie tanti anni di osservazioni. Opere pittoriche viste da milioni di occhi in cui si celano segni di malattie dei soggetti ritratti, malattie dello stesso pittore, o addirittura cervelli nascosti in affreschi delle chiese. Non avevo mai avuto il tempo di scriverlo. E’ nato perché gli ho dedicato i lunghi week-end del lock-down. 

L’ osservazione medica ai nostri giorni è sostituita dall’indagini strumentali. Quanto è utile nella diagnosi precoce per le malattie anche una lettura attenta dei segni?

Come nel mio libro la diagnosi medica è un processo indiziario, dove fondamentale è l’osservazione medica ed il colloquio medico. Pensate che molto spesso la risposta di una diagnosi precoce è nel racconto del paziente, nelle sue parole e nelle sue abitudini. Un qualcosa che oggi si tende a trascurare trincerandosi dietro alle tecnologie. Un grandissimo errore e regresso.

Abbiamo parlato di occhio clinico, anche nella lettura delle opere d’arte. Il ricorso al Dottor Google può ritardare la possibilità di una diagnosi corretta?

Caro Gabrielli io credo che l’occhio clinico sia una fusione e di esperienza e di talento del medico. Così come un calciatore puó essere più bravo di un altro a tirare una punizione o a colpire con il tacco o con la testa, così ci sono medici più inclini all’osservazione e a cogliere l’aspetto decisivo. Le tecnologie possono solo servire a confermare il loro sospetto ed il loro ragionamento. Google non puó lontanamente avvicinarsi. Come capirete leggendo Nascoste nella Tela gli occhi vedono solo quello che conoscono.

Questo libro poi – tra le righe – ci racconta quanto le malattie facciano parte della vita, quanto l’emergenza sanitaria per la presenza di una nuova malattia non sia un evento poi così raro, anche se certo una pandemia è un evento meno frequente. Lei ha studiato anche la situazione generata dal Covid 19, giusto? 

Ho fatto orgogliosamente parte del gruppo dei 13 ricercatori italiani che per la prima volta in studi autoptici ho dimostrato il meccanismo delle rarissime complicanze da vaccinazione anti Covid. Quel contributo ha trasformato una drammatica reazione sconosciuta in una condizione ora riconoscibile e trattabile. 

A tutti questi studi, lei affianca anche l’attività accademica di preparazione delle nuove leve in medicina. La Pandemia ci ha mostrato in modo chiaro anche quanto sia fragile la salute e precario il nostro sistema immunitario davanti ad un agente sconosciuto. Cosa si può fare per aiutare il Sistema Sanitario Nazionale a suo avviso? 

Dobbiamo ritornare a pensare che Sanità ed Educazione devono essere le due pietre angolari che lo Stato deve assicurare ai cittadini. Il numero chiuso imposto sulle Lauree in medicina e sulle specializzazioni, ha fatto si che in questo momento di emergenza non abbiamo abbastanza medici sul campo. Non dobbiamo più erodere il miglior servizio sanitario nazionale del mondo.

Questo numero è dedicato al riconoscimento dell’altro, all’apertura verso le altre persone senza nessuna forma di pregiudizio, per questo mi fa particolarmente piacere ospitare il Dott. Sergio Valeri che proprio in questo periodo alla sua professione chirurgica ha affiancato un percorso di sensibilizzazione verso la cura e verso i pazienti, fondando una associazione che verrà presentata a breve e che ha come motto, bellissimo: “Rari, ma non soli”.
Lo incontro nel suo studio ed è sempre un piacere parlare con lui , perché lui, lo scopriremo nell’intervista, è davvero sempre in movimento, con la sua professionalità e il suo travolgente senso dell’ironia.
Ma prima di raccontare quello che ci siamo detti nel pomeriggio passato assieme, un passo indietro per raccontare chi è il nostro ospite: il Dott. Sergio Valeri si occupa principalmente di Chirurgia Oncologica ed in particolare di Chirurgia dei Sarcomi. 

Si laurea nel 1995 e si specializza in Chirurgia Pediatrica (2002) e in Chirurgia Generale (2015) e nel frattempo ottiene un Master di II livello in Chirurgia Pancreatica Avanzata (2014) ed uno in Chirurgia dei Sarcomi dei Tessuti Molli (2017), lavorando comunque come Dirigente Medico presso il Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma (dal 2008). Dal 2019 è Referente della Chirurgia dei Sarcomi presso il Policlinico Universitario Campus Bio-Medico. 

Dottore, un Curriculum davvero di tutto rispetto il suo. Immagino che nel frattempo, mentre conseguiva le varie specializzazioni, lei operasse, continuasse la sua instancabile attività in sala operatoria. Quante operazioni esegue? 

Caro Ing. Gabrielli grazie per l’opportunità offerta.

Immagine dell’Ospite

Lei ha detto il vero; durante il conseguimento delle varie specializzazioni e master, la mia attività operatorio continuava. La mia settimana lavorativa è composta di tre sedute di sala operatoria (8-20) in cui mediamente eseguo 5-6 interventi a seduta. Parliamo quindi di circa 18 interventi a settimana. “Fortunatamente” non si tratta sempre di patologia chirurgica complessa. A questo tipo di intervento infatti, vengono intervallati interventi di piccola e media chirurgia, durante i quali ho la possibilità di insegnare e far crescere i giovani chirurghi che lavorano con me. Non ci dobbiamo infatti dimenticare che lavoro in una struttura universitaria, la fucina quindi dei medici di domani.

A questo unisce le sue attività di divulgazione dentro e fuori le aule universitarie per la preparazione delle “prossime leve”. E’ così importante avere una equipe specializzata nella cura?

Come in parte anticipato nella domanda precedente, ho la fortuna e la responsabilità di un gruppo di lavoro, costituito da giovani medici in formazione a da neo-specialisti. Il gruppo e la realizzazione dello stesso, sono fondamentali. Da soli non si va molto lontano. Ed è per questo che dedico diverso del mio tempo lavorativo alla sua formazione. 

Immagine dell’Ospite

Solo in questo modo posso avere la certezza che il modus operandi sia sempre lo stesso. 

Ricordo nell’equipe, coordinata dalla Prof.ssa Rossana Alloni, il Dott. Luca Improta, la Dott.ssa Chiara Pagnoni, la Dott.ssa Michela Angelucci, la Dott.ssa Claudia Tempesta e la Dott.ssa Sonia Sabbatini.

Ma il mio obiettivo però non è solo “formare” o far crescere. 

Come dico sempre ai colleghi che lavorano con me, loro devono superare il “maestro”.

Quindi in sintesi direi che per affrontare i Sarcomi sia necessaria la preparazione di una equipe specialistica, ma anche la conoscenza da parte dei medici di base, per avere una tempestiva diagnosi di primo livello.

La ringrazio di questa domanda, che va a centrare due degli aspetti salienti della patologia di cui mi occupo. 

Immagine dell’Ospite

Il primo è la conoscenza, da parte dei Medici di Base, dell’esistenza dei Sarcomi. Solo in questo modo possono indirizzare il paziente in un centro di riferimento e quindi iniziare il corretto iter terapeutico. Da qui l’esigenza di un evento “formativo”, che ho organizzato ad Ottobre, e rivolto ai Medici di Medicina Generale. L’obiettivo era appunto renderli edotti sulla patologia e sui primi passi da compiere nei confronti di un paziente affetto da sarcoma.

Il secondo è l’importanza del centro sanitario di riferimento volto ad una patologia neoplastica, quale appunto i sarcomi, rara. 

I sarcomi degli adulti rappresentano circa l’1% di tutte le malattie neoplastiche. Per raro però non si fa riferimento alla scarsità di mezzi terapeutici, ma appunto ad un semplice dato epidemiologico. Si apprende quindi come sia indispensabile l’esistenza di un centro sanitario di riferimento, che contempli la presenza di tutte le figure sanitarie coinvolte nella cura dei sarcomi (oncologo, chirurgo, radioterapista, radiologo, anatomo-patologo, psicologo) e che sia collegato a tutti gli altri centri distribuiti sul territorio nazionale. Infatti solo dal confronto clinico tra i vari centri è possibile condividere esperienze, tecnica e evidenze scientifiche, principio cardine alla base della cura di qualsiasi patologia.

Immagine dell’Ospite

Con questa doppia visione, il Campus Bio-medico è diventato un Centro di riferimento a livello Europeo sul trattamento dei Sarcomi

E’ stato quello, mi riferisco all’inserimento del Campus Bio-Medico nella rete sanitaria internazionale Euracan sul trattamento dei sarcomi, un risultato ottenuto dopo 18 mesi di duro lavoro volti al miglioramento del servizio sanitario erogato ai pazienti con sarcoma, al perfezionamento del PDTA sui sarcomi (percorso diagnostico-terapeutico assistenziale) e successivamente al superamento di tutti i parametri clinici e scientifici posti quale conditio sine qua non per far parte della rete Euracan.

Quanto ha influito la pandemia su questo processo di identificazione tempestiva? L’emergenza Covid ha un po’ monopolizzato gli ospedali: pensa che ne risentiremo a livello di prevenzione?

L’emergenza Covid ha indubbiamente messo a dura prova il Sistema Sanitario Nazionale. Uno dei tanti aspetti emersi durante la pandemia è stato quello, purtroppo, di rallentare un percorso schedulato di follow up di un paziente con patologia neoplastica. A mio avviso però l’esistenza dei centri di riferimento, quale in nostro, ha permesso, con enormi sacrifici, di poter “onorare” la campagna di follow up dei pazienti oncologici.

Questo momento storico ci ha mostrato cosa significa “la salute pubblica”: il Lockdown è stato un modo per proteggerci anche a discapito dell’economia. Ma proteggere la salute è anche un modo per rendere solida la nostra struttura sociale. La tempestiva permette di avere un alto livello di qualità della vita?

Immagine dell’Ospite

Domanda questa complessa, che non può certo essere evasa con una breve risposta.

La protezione e la salvaguardia della salute pubblica sono elementi imprescindibili alla base di un alto livello di qualità della vita. Ma la protezione della salute pubblica passa per diversi aspetti che vanno sempre garantiti. Mi riferisco alla possibilità di accedere alla cure per tutte le classi sociali, a prescindere dalla “posizione” economica o alla regione di appartenenza. E nello stesso tempo le cure sanitarie DEVONO essere all’altezza dei più alti standard professionali e scientifici. Come ottenere tutto questo? Con investimenti mirati, con una pianificazione “sanitaria” del territorio e con il RISPETTO della meritocrazia

Parliamo di malattie molto impattanti a livello sanitario, per costi elevati, ma anche personale, psichico, familiare.

La diagnosi di malattia oncologica spariglia tutti gli equilibri. 

E mi riferisco non solo a quelli economico-sanitari, ma soprattutto a quelli personali del paziente. Di salute non solo fisica, ma anche psicologica. E al peso che si riversa sulla famiglia. Peso che molto spesso non è possibile “condividere” con la società, in quanto mancante della giusta organizzazione. 

Il fenomeno della cosiddetta “emigrazione sanitaria” ne è un esempio.

Cosa può fare a mio avviso un medico? 

Essere un professionista serio, preparato e coscienzioso. 

Immagine dell’Ospite

Da qui nasce l’idea dell’Associazione dei Pazienti e dei familiari dei pazienti affetti da Sarcoma.

L’idea dell’Associazione Pazienti sarcomi dei Tessuti Molli nasce dallo stimolo di “dare” qualcosa in più ai pazienti affetti da questa patologia, e ai loro familiari. 

E’ infatti una Associazione di pazienti, rivolta ai pazienti. Il presidente sarà una paziente da me curata. 

L’Associazione si chiamerà SARKNOS. E all’interno del Consiglio Direttivo ci saranno altri pazienti.

Ho sempre pensato che il sentirsi parte di un gruppo, in cui il denominatore comune è la malattia, possa essere di aiuto per tutti i singoli componenti. 

Il mio sogno è che si possa raggiungere una tale alchimia all’interno dell’associazione tale che un singolo paziente che sta attraversando una fase negativa del suo percorso sanitario, possa trovare giovamento e aiuto anche soltanto confrontandosi con un altro paziente, che magari quella fase l’ha già vissuta.

Ci tengo a precisare inoltre che l’aiuto dell’Associazione non sarà “solo” per i pazienti. 

Penso infatti che anche i medici avranno la fortuna di migliorarsi grazie al confronto diretto con i pazienti.

L’associazione verrà presentata a breve con un evento.

L’evento a cui lei fa riferimento e che si terrà con l’inizio dell’anno nuovo, ha diverse finalità. La prima è quella di far incontrare e riunire tutti i pazienti affetti da sarcoma e da me operati presso il Campus Bio-Medico. L’evento infatti è “ritagliato” solo per loro. Al suo interno ci saranno momenti divulgativi, non scientifici, sulla malattia intervallati da momenti di assoluto svago grazie alla presenza di attori comici e cantanti.

Altro motivo è, come detto, la presentazione dell’Associazione con le sue finalità. Mi auguro quindi che ci possa essere la più ampia accoglienza da parte dei pazienti.

Ultima finalità, ma per me molto importante, è il desiderio di poter rivedere tutti i pazienti da me curati. Le confesso che sono un sentimentale e con tutti i miei pazienti sono riuscito ad instaurare un rapporto particolare, intenso, diretto. Il poterli rincontrare sarà per me motivo di gioia.

So che lei ha avuto un tentennamento nella scelta di medicina all’inizio del suo percorso universitario. Ora, da Ingegnere a Medico, ma perché ha scelto la Medicina?

Le confesso che non era un sogno che nutrivo da bambino.

La scelta di fare Medicina la si deve a mia madre. 

All’età di 18 anni, finito il Liceo, dovevo scegliere in quale facoltà iscrivermi. La mia scelta cadde su Veterinaria (ho sempre amato gli animali). A quel tempo la facoltà “migliore” era a Perugia, a circa 180 Km da Roma. Mia madre, donna apprensiva, si oppose alla scelta e opto per Medicina e Chirurgia.

Ora, a distanza di più di 30 anni, ringrazio quel suo materno ”ostruzionismo”.

Per maggiori informazioni si possono consultare i siti internet dedicati al Dott. Sergio Valeri e ai Sarcomi.

Le statistiche ufficiali dipingono una realtà assai preoccupante. D’altronde, è in atto un cambiamento culturale lento ma, a quanto pare, inesorabile. Prova di ciò sono le diverse iniziative intraprese negli ultimi anni per contrastare il fenomeno: dalla scuola al quadro normativo di riferimento e perfino alla raccolta unificata dei dati mirata all’attuazione di politiche informate. Ne abbiamo parlato con la dott.ssa María Soledad Balsas, ricercatrice al Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas (CONICET).

La violenza sulle donne è purtroppo un fenomeno molto diffuso a livello mondiale che però può assumere diverse caratteristiche a seconda dei contesti socioculturali. Qual è la situazione in Argentina?

Il tema della violenza sulle donne in Argentina ha acquisito molta visibilità sociale, soprattutto negli ultimi anni. Le donne possono essere vittime di diversi tipi di violenze: sia fisica che psicologica, a scopo sessuale oppure economica e patrimoniale e addirittura quella simbolica. Nel 2020, l’ammontare delle vittime dirette di femminicidi, l’espressione più estrema di ogni forma di violenza contro le donne, sono state complessivamente 250, ovvero 1,09 persone ogni 100.000 femmine. Nelle statistiche vengono considerate donne, travestite e transessuali. Si tratta per lo più di persone tra i 35 e i 44 anni d’età che sono state uccise spesso dai propri partner oppure dagli ex partner. Nel 86,05 per cento dei casi erano persone che avevano bambini e/o adolescenti a carico. 

Immagine dal Web

Tra il 2013 e il 2018, sono state identificate 242.872 donne sopra i 14 anni che si sono rivolte ai servizi sociali, alla polizia, alla giustizia, e al pronto soccorso in qualità di vittime di violenza di genere. Nel 86 per cento dei casi vengono identificate appunto come vittime di violenza psicologica, intesa come il danno emotivo oppure il venir meno dell’autostima per via di minacce, umiliazioni di ogni tipo e perfino l’isolamento. Particolarmente rilevante risulta la situazione delle donne al di sopra dei 50 anni, che nel 48,2 per cento dichiarano subire violenza da parte dei propri figli. Nel 97,6 per cento dei casi segnalati la violenza contro le donne accade in ambito domestico. 

Cosa è stato fatto per ribaltare queste cifre drammatiche?

-immagine dal Web

Per contrastare questi dati, sono state intraprese diverse iniziative che puntano a garantire la parità di genere in diversi ambiti. A livello istituzionale, negli ultimi 15 anni sono state approvate diverse leggi con evidente prospettiva di genere, l’ultima di cui è stata quella sull’aborto, passata a dicembre scorso. Un’altra legge (27.452/2018), d’importanza strategica secondo me visto l’ammontare di vittime a carico di minorenni, stabilisce un compenso economico pari a una pensione minima per i figli e le figlie delle vittime di femminicidio. Si conosce come “legge Brisa”. Brisa Barrionuevo aveva 3 anni quando sua madre, Daiana Barrionuevo, è stata ammazzata da suo padre e buttata al fiume, delitto per cui è stato condannato all’ergastolo. Sua zia si è fatta carico di Brisa e di altri due suoi fratelli. Ma avendo già tre figli non era facile per lei provvedere economicamente. Da questo caso è nata l’iniziativa legislativa.

Poi, la cosiddetta “legge Micaela” (27.499/2019), una giovane di 21 anni, attivista del movimento femminista “Ni una menos”, che è stata uccisa da un uomo condannato in precedenza per due violenze sessuali e reso libero, scatenò un intenso dibattito sociale sulle responsabilità dello stato in merito. Da questo dibattito è sorta questa iniziativa legislativa che prevede corsi di formazione obbligatori per i dipendenti pubblici appartenenti ai tre poteri dello Stato, sia per conoscere il quadro normativo di riferimento che per diffondere buone pratiche amministrative che riguardano la violenza di genere e il ruolo della donna nella società in generale. 

Un altro punto di svolta a livello istituzionale è stata l’approvazione nel 2006 della legge 26.150 che prevede nei diversi livelli del sistema educativo, dalla scuola dell’infanzia in poi, degli spazi formativi che promuovano la cura del proprio corpo, la consapevolezza sulla natura dei rapporti interpersonali, i diritti sessuali e riproduttivi, gli stereotipi di genere, ecc. Questa iniziativa rientra nell’ambito dei diritti dei bambini, le bambine e degli adolescenti. Così si punta su un cambiamento culturale a lungo termine i cui primi risultati incominciano a intravedersi tra le nuove generazioni. 

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A Suo avviso, il disagio socioeconomico può essere una chiave per interpretare questo fenomeno?

Infatti, si tratta di una realtà che tende a colpire le aree più povere ma, va anche detto, non in maniera esclusiva. L’anno scorso, ad esempio, l’opinione pubblica è rimasta sconvolta dall’uccisione di Silvia Saravia (69) in Neuss, una donna di alta società che è stata ammazzata dal marito Jorge Neuss (72), un noto imprenditore che si è suicidato poco dopo. E’ significativo notare il trattamento che questo caso ha avuto nei media argentini con relazione ad altre vittime di violenza di genere. A differenza dei connotati sessuali che presentano le uccisioni di donne di classe media e bassa, in questo caso la vittima è stata resa piuttosto invisibile, mettendo in evidenza un certo “patto di silenzio di classe”.

Come ha inciso la pandemia nella situazione che Lei descrive?

Il tasso di vittime dirette durante il confinamento è rimasto alquanto inalterato con relazione agli anni precedenti. Non vi sono ancora a disposizione dei dati per tracciare un quadro articolato. Ma possiamo avanzare qualche ipotesi. Il lockdown ha significato per molte donne, sia in Argentina che altrove, dei passi indietro nelle proprie autonomie. Rinchiuse in casa e oberate di lavoro, molte donne ci siamo ritrovate di fronte a situazioni che possono aver restituito certo senso patriarcale di controllo ai maschi che, non vedendo la loro posizione domestica di potere minacciata, avrebbero fatto meno ricorso alla violenza per assoggettare le donne. E’ ben noto, almeno in Argentina, che sono state soprattutto le donne ad assumere i compiti domestici e la cura della famiglia, ad agevolare la frequentazione scolastica dei figli in modalità DAD, oltre che compiere coi propri obblighi lavorativi. Questa situazione avrebbe indebolito la posizione oggettiva di molte donne, sia all’interno della propria famiglia che in ambito sociale. 

Il movimento Non una di meno è arrivato perfino in Italia. Di cosa si tratta?

Il movimento femminista “Ni una menos” è nato in Argentina nel 2015 per contrastare appunto i femminicidi, fa parte di una rete internazionale che lotta e manifesta contro le disuguaglianze di genere a 360 gradi. Viene definito come un movimento storico che si inserisce nella tradizione degli Encuentros Nacionales de Mujeres (dal 1986), la Campaña Nacional por el Derecho al Aborto legal, seguro y gratuito e la lotta che tengono da più di 40 anni le Madres e Abuelas de Plaza de Mayo

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Infine, cosa rappresenta il fazzoletto verde?

Il fazzoletto verde è nato per identificare la lotta per l’aborto in Argentina e in America latina, ed è riconosciuto ormai in diversi Paesi. La scelta del fazzoletto come accessorio di moda per rendere visibile questa richiesta non è casuale: può essere ricollegata al fazzoletto bianco che dal 1977 ha contraddistinto la richiesta di memoria, di verità e di giustizia portata avanti coraggiosamente da un gruppo di donne che, in piena dettatura militare, si riuniva di fronte alla casa di governo per scambiare notizie sui propri figli-e desaparecidos

Grazie dell’attenzione.

Grazie a Lei.

LA GIUSTIZIA PREDITTIVA (PREVEDERE L’ESITO DI UN GIUDIZIO) si può, e non è frutto di magia o di astrologia.

Luigi Viola è un collega Avvocato con studio a Roma e Lecce, titolare di cattedra di Diritto Processuale Civile, che il 17.12.2015, presso la Camera dei Deputati, è stato premiato per la sua attività “per aver avviato all’attività legale centinaia di giovani “.

Proprio presso la Camera dei Deputati ha presentato il suo modello matematico di equazione dell’interpretazione perfetta della legge; perfezionato e poi confluito nel libro sulla Interpretazione della legge con modelli matematici, pubblicato nel 2017.

È possibile quindi prevedere l’esito di un giudizio e certamente non bisogna ricorrere né a maghi, né a fattucchiere o ad astrologi.

..Men che meno ad Azzeccagarbugli di manzoniana memoria, lo chiedo quindi all’ autore/inventore della formula, a grande richiesta, affinché ci spieghi il funzionamento di questa espressione originale, ambita e desiderata.

Cosa si intende per giustizia predittiva e ”interpretazione della legge con modelli matematici” ?

Per definire la giustizia predittiva si può utilizzare quanto ho scritto nella relativa voce Treccani: “deve intendersi la possibilità di prevedere l’esito di un giudizio tramite alcuni calcoli; non si tratta di predire tramite formule magiche, ma di prevedere la probabile sentenza, relativa ad uno specifico caso, attraverso l’ausilio di algoritmi”.

Non vi è la volontà di sostituire la giustizia dei tribunali con quella degli algoritmi, ma cercare di prevedere le eventuali conseguenze giuridiche di un comportamento con maggiore precisione.

Come si può fare questo?

Si può fare modellizzando l’interpretazione della legge; l’interpretazione della legge con modelli matematici è uno dei possibili strumenti per prevedere l’esito del processo. Anzi, credo sia lo strumento più corretto in quanto più allineato alla lettera della legge e più coerente con il nostro sistema di civil law.

Inoltre è il titolo di un libro che ho scritto, se posso dirlo, al quale sono molto legato, che è stato Best Seller Amazon in classifiche di internazionali di Law General e tradotto in 5 lingue (inglese, tedesco, spagnolo, francese, greco).

Come ti sei appassionato a queste materie così particolari?

Per la verità è stata una cosa naturale e credo possa succedere a qualsiasi avvocato.

Ho notato che quasi tutti i clienti che vengono in studio, dopo aver spiegato i fatti, chiedono se è possibile fare causa e che possibilità ci sono di successo.

La risposta a questo tipo di domanda non può che essere generica, per lo più legata allo studio della casistica giurisprudenziale di legittimità e di merito, addirittura dello specifico tribunale ad quem.

Eppure, volevo cercare di rispondere in modo più preciso, verrebbe quasi da dire giurimetrico, che è poi la branca del diritto che mi ha davvero illuminato.

Così ho iniziato a studiare per circa 10 anni l’andamento del sistema processuale: da come le questioni iniziano in primo grado, come si formano orientamenti e come – poi – la Cassazione privilegia un orientamento ad un altro: ho letto quasi 50000 sentenze, anche per merito dell’incarico alla direzione di Altalex Massimario, affidatami dall’amico Alessandro Buralli.

Dopo questo studio ho iniziato a confrontarmi con colleghi e professori universitari anche appartenenti a materie diverse, come matematica ed ingegneria.

Mi sono reso conto che il diritto per essere davvero certo non deve ripudiare le c.d. scienze esatte, ma deve acquisirle. In fondo anche nel diritto c’è matematica, come agevolmente desumibile da una riflessione sui termini processuali, sulla materia della divisione, delle quote condominiali e societarie, si è addirittura arrivati a quantificare il dolore umano tramite il meccanismo delle tabelle. 

Anzi mi piace ricordare, come detto spesso e scritto da un caro collega (Danzi), che l’etimologia del termine matematica deriva da  MAAT,  che nell’antico Egitto  era la dea non solo della verità,  della giustizia, della legge, ma anche dell’ordine,  della misura, dell’armonia, che sono concetti matematici;  la giustizia veniva assicurata  attraverso la misura; la dea Maat quindi coniugava i  valori etici con i principi matematici. Furono proprio le questioni giuridiche a dare impulso nell’antico Egitto allo sviluppo della matematica; le inondazioni del Nilo, infatti, causavano la cancellazione dei confini tra i fondi agricoli, per cui quando le acque si ritiravano non era più possibile individuare le singole proprietà; la geometria nasceva per risolvere questi conflitti giuridici.

Ne prevedi un’ampio sviluppo e una concreta e frequente applicazione?

Direi di sì; la giustizia predittiva, seppur con un modello parzialmente diverso, da quello da me sostenuto, è di fatto una realtà. Ne sono prova i progetti di giustizia predittiva delle Corti di Appello di Brescia, Venezia e Bari (che ha sviluppato dello ottime schede per la prevedibilità); nell’automating society 2020, che riguarda 16 Paesi, è stato dedicato ampio spazio all’Italia, con particolare attenzione ai progetti di “Predictive policing” e “Predictive justice“: si è detto che l’Italia è avanti rispetto ad altri Paesi.

L’esigenza di prevedibilità delle decisioni giudiziarie è stata auspicata anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella laddove ha detto che nostri cittadini hanno diritto a poter contare sulla certezza del diritto e sulla prevedibilità della sua applicazione rispetto ai loro comportamenti (in occasione della Cerimonia commemorativa del 18.6.2020, dedicata ai Magistrati uccisi nell’esercizio del loro lavoro).

Il problema oggi non è nell’an, ovvero se la giustizia predittiva esisterà o meno, ma è nel quomodo: dobbiamo decidere quale modello di giustizia predittiva privilegiare, quale è più efficace, quale è più rispettoso del contraddittorio e difesa delle parti nel processo. Non si deve in alcun modo correre il rischio di creare una giurisprudenza appiattita che pretermetta la specificità delle singole argomentazioni prospettate dagli avvocati.

Qualcuno parla addirittura di giudice robot: personalmente sono contrario perché mi sembra contro il principio di giudice naturale precostituito per legge ex art. 25 Cost., giusto processo ex art. 111 Cost., natura umana del giudice per come desumibile dall’art. 51 c.p.c.

Anzi sono più per la giurimetria che per l’informatica: la prima assicura una trasparenza matematica dove è possibile verificare, passo dopo passo, il ragionamento svolto dalle premesse fino alla conclusione, diversamente dalla seconda che rischia di essere più “opaca”. Tutto deve essere trasparente: è stato ricordato anche dal Consiglio di Stato (881/2020).

“Donna creatrice”: Valeria Acciaro e la rappresentazione di una donna delicata, tenera e sensuale.

La Bellezza della Donna è stata nei secoli raffigurata in ogni modo e con ogni mezzo, dai più grandi agli artisti minori, tutti si sono occupati di “raccontare” la figura femminile come madre, donna, amica, sorella, ognuno a modo suo cercando di trovare quel punto di originalità e di grandezza che potesse raccontarne una storia diversa ed immortale. Fu Artemisia Gentileschi che aprì la strada alla nuova ideologia che non solo gli uomini potevano ricoprire il ruolo di artisti. E così le donne che hanno “raccontato” la Donna sono state tantissime e straordinarie nel loro raffigurare la complessità e la molteplicità di quest’essere al tempo stesso così delicato e così coraggioso. Valeria Acciaro, artista, professoressa, storica dell’arte, curatrice di eventi culturali, ha dialogato con noi per i lettori di Condivisione Democratica sull’arte e sul delicato momento storico che stiamo vivendo. Donna elegante, raffinata, di particolare garbo e riserbo, ha raccontato la “sua” donna, raffigurata nelle sue opere presenti in numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero,  alcune delle quali hanno ottenuto importanti riconoscimenti. La figura della donna attraverso il superamento di dimensioni definite, alla ricerca di quella profondità propria del corpo di una Donna. Ed al di là del soggetto raffigurato, in ogni caso, un concetto di arte come potenza e compiutezza, oltre quell’orizzonte che troppo spesso ormai rappresenta più una barriera che un’apertura verso il mondo.

E sappiamo bene, ogni volta che si cerca di andare oltre, di superare il confine, di oltrepassare il limite, si può parlare solo di coraggio e di forza. Rompere gli schemi non è necessariamente sinonimo di rottura, spesso ha il senso di un valore aggiunto alla tradizione cui viene data una connotazione di vita e di libertà. E non è cosa da poco. Una vera e propria rivoluzione combattuta con intelligenza e determinazione. 

La prima domanda che mi viene da porle è certamente quanto ne ha risentito il mondo dell’arte in questo drammatico momento storico a livello mondiale?

La situazione sconvolgente da Covid-19, con le conseguenti restrizioni per il contenimento della pericolosa pandemia, ha notevolmente colpito l’arte, registrando circa l’80% di perdite degli incassi. La chiusura forzata di musei, di gallerie oppure di luoghi destinati alla fruizione artistica ha comportato anche una modalità forse nuova di accostarsi alle opere d’arte, attraverso le tecnologie.

Aspettando la riapertura dei luoghi espositivi, cito uno scritto di Jacob Burckhardt “Noi frequentiamo le gallerie non per amore dei pittori, ma per amore di noi stessi”. 

Professoressa, storica dell’arte, curatrice, artista, quale tra le tante anime predomina in Valeria Acciaro?

Senza ombra di perplessità la “Donna Creatrice”. 

Cos’è l’essenziale per un’artista?

L’immaginazione, l’intenzionalità e la libertà.

Vitaldo Conte scrive di lei “L’artista, lavorando sulla cancellazione della distanza tra l’arte e l’esistenza, opera sull’ipotesi della “guarigione” propria e altrui”. In che modo attraverso le sue opere cerca di “guarire” sé stessa e gli altri e da quali mali?

Sono presente in vari testi di Vitaldo Conte, con il quale mi lega un’amicizia quasi trentennale. Figura poliedrica, talentuosa, di grande valore culturale e professionale, nonché tra i più significativi critici nel panorama artistico.  

Le mie opere d’arte testimoniano momenti di vita, attraverso una ricerca cromatica legata alla Donna, alla sua bellezza, alla sua delicatezza e alla sua tenerezza. Una ricerca in cui traspare la femminilità e la sensualità, attraverso il superamento di dimensioni definite, dove si infrange un confine e si va a mano a mano tracciando una superficie pittorica che presenta una profondità, così come il corpo di una donna. È la profondità che guarisce, attraverso il comprendere con il cuore e con amore, annullando la finzione. 

Come non ricordare Le Rime del Cavalcanti “Veder mi par da le sue labbra uscire – una sì bella donna, che la mente – comprender non la può, che ‘nmantenente – ne nasce un’altra di bellezza nuova – da la qual par ch’una stella si muova e dica: – la salute tua è apparita”.