“Ciò
di cui sono convinto è che i parlamenti debbano riprendere in mano le redini
del mondo e costringere la finanza a fare un bel passo indietro”. Ivan Grossi, una vita dedicata alla
scienza, alla tecnologia ed al progresso, ci racconta cinquant’anni di storia
italiana.
Era il 2004, il mio giornale mi aveva
inviata a Cortino, un comune abruzzese in provincia di Teramo di 609 abitanti,
per seguire il progetto “Ecotourism: places ad traditions”, che aveva
come obiettivo la diffusione e la valorizzazione del turismo ecologico e vedeva
coinvolti 12 partners provenienti da Italia, Spagna, Germania, Croazia, Grecia,
Cipro, Portogallo e Lituania. Un progetto molto interessante. Io seguivo
solamente la parte italiana. In quella occasione il gruppo formato da diversi
professionisti, giornalisti, ambientalisti, scienziati, letterati, artisti e
agricoltori condivise tre giornate memorabili all’insegna delle tradizioni e
del buon cibo, ma soprattutto di lunghe passeggiate “raccontate” da
gente del luogo in cui tutto veniva vissuto con semplicità e profondo
interesse. Mi ritrovai quasi tutto il tempo a dialogare con un uomo
incredibilmente gentile, sensibile, carismatico ed affascinante di cui
inizialmente ignoravo completamente il ruolo: era il direttore del progetto,
Ivan Grossi.
Laureato in fisica, consulente senior
nel settore dell’innovazione tecnologica per diverse importanti società a
livello internazionale, docente di comunicazione pubblica ed istituzionale,
consulente del ministero degli affari esteri ambasciate d’Italia a Beirut e a Tirana, formatore di personale, coach,
direttore generale presso la pubblica amministrazione, programmatore-analista e
coordinatore, studioso presso l’università di Glasgow, Delaware (Usa), Belfast,
autore di numerose pubblicazioni in diverse lingue e paesi, dal 2011 presidente
dell’Associazione Amici dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana di
Assisi.
Amante del jazz e della poesia del Novecento
italiano, della poesia arabo-musulmana, interessato alla saggistica, alla
fantascienza, alla letteratura di viaggio, ai film d’autore, all’arte
contemporanea e d’avanguardia.
Le sue parole, nel corso degli anni,
hanno sempre avuto un valore alto, durante conversazioni e scambi a distanza,
mentre uno camminava in montagna e l’altro in riva al mare.
In questo momento particolarmente
delicato abbiamo apprezzato molto i suoi interventi e lo ringraziamo per
l’intervista concessa che proponiamo, con grande piacere, ai nostri lettori.
Nella nostra introduzione abbiamo
tentato di sintetizzare un curriculum imponente. La sua esperienza in ambiti
così tanto diversificati la rende un referente importante per fare il punto
della situazione in questo momento storico arduo. Anni di difficoltà che ci
impongono riflessioni profonde. Qual è il suo pensiero in proposito?
“Concordo con il caratterizzare questi
anni come anni difficili, anni in cui – grazie anche allo sviluppo tecnologico
– i luoghi decisionali si sono lentamente ma inesorabilmente spostati da quelli
“democratici” – i parlamenti, i consigli regionali e comunali – ai consigli di
amministrazione di aziende private che ora non si riuniscono nemmeno più sul
territorio su cui ricadranno le loro decisioni. Non è inverosimile immaginarsi
un amministratore delegato a Chicago che decide delle sorti di centinaia o
addirittura migliaia di lavoratori di una fabbrica, in provincia di Modena, che
opera nel settore elettromedicale. Quanto appena citato mi fa ricordare che
nella seconda metà dell’Ottocento uno scrittore portoghese, Eça de Queiroz, in
una sua opera intitolata O Mandarim (Il Mandarino) si immaginava come avrebbe
potuto comportarsi un portoghese se avesse avuto la possibilità, schiacciando
un pulsante, di uccidere un mandarino cinese in cambio di un tangibile
vantaggio in Portogallo: quella finzione letteraria è diventata oggi realtà e
l’amministratore delegato di Chicago è il portoghese dell’opera di Eça de Queiroz, i lavoratori della
fabbrica modenese sono i mandarini di oggi: sacrificabili per un vantaggio a
Chicago. Tutto questo credo stia a testimoniare che le difficoltà attuali
vengono da lontano e sono tutte figlie del modello economico di sviluppo che,
soprattutto in Occidente, è stato adottato, modello che è responsabile anche
dei cambiamenti climatici, come ha ricordato in una recentissima conferenza
Emilio Padoa-Schioppa, dell’Università di Milano-Bicocca.
Non ho ricette, soprattutto perché
sono fermamente convinto del primato della politica sulla finanza e la
tecnologia ed anche perché non sono un decisore politico. Ciò di cui sono
convinto però è che i parlamenti debbano riprendere in mano le redini del mondo
e costringere la finanza a fare un bel passo indietro. Per chiudere questa
breve riflessione, credo che se dovessi, fra i tantissimi problemi che abbiano
di fronte, individuarne uno ed uno solo non avrei dubbi: l’immigrazione, non
certo per alzare muri o affondare barconi bensì per cercare, a livello globale,
una soluzione che permetta ad ogni uomo e ad ogni donna di avere una vita
dignitosa per sé e per i propri figli. Leggiamo di sofferenze indicibili cui
sono sottoposti i migranti davanti alle quali l’unica cosa che mi viene in
mente è il grido di Primo Levi: Se questo è un uomo!”
Oltre cinquant’anni di attività
professionale in ambiti differenti con uno sguardo scientifico. Com’è cambiato
il mondo in questo lungo lasso di tempo?
“L’unica cosa certa è che il mondo è cambiato molto non solo nelle cose ma soprattutto sono cambiate le persone, le scale di valori riconosciute e utilizzate. Posso tentare di sintetizzare cosa è cambiato nel mio mondo, nella sfera delle mie relazioni sociali, nei luoghi di lavoro che mi hanno ospitato: è pertanto una visione molto parziale di un cambiamento più ampio e più profondo che ha coinvolto l’intero mondo. Non avendo paura di tradire il fatto che ho la barba bianca, sono passato dall’uso a scuola della “cannetta” con il pennino (e i diversi tipi di pennino per i diversi tipi di tratto), che si intingeva nel calamaio alloggiato nel banco (che il personale della scuola riempiva ogni mattina) all’uso della Apple Pencil sul mio iPad mentre sto condividendo ciò che scrivo con un collega in quel momento molto lontano da me. La tecnologia mi ha salvato – almeno per ora – la vita aiutandomi a curare una malattia per la quale trent’anni fa la prognosi sarebbe stata assolutamente infausta.
Questi pochi esempi spero diano la dimensione di quanto la tecnologia, che ha tradotto in beni e servizi le conquiste scientifiche, sia progredita in un lasso di tempo assolutamente breve, soprattutto se comparata con quanto avvenuto nei secoli passati. Come mi chiede la gentile intervistatrice, per questo benessere abbiamo dovuto pagare un prezzo: la qualità dei rapporti umani e la progressiva perdita delle “radici” culturali. Non sono un laudator temporis acti. il lavoro che ho svolto è sempre stato all’insegna dell’innovazione, tuttavia si è voluto a tutti i costi – nella maggior parte delle situazioni – tagliare i ponti con le tradizioni, con gli stili di vita che caratterizzavano territori, comunità, gruppi sociali per tendere ad una omologazione almeno su scala continentale se non addirittura su scala planetaria. È in atto, ma non da ora, un processo di omologazione che se da un lato mi fa sentire a casa in qualunque città perché ritrovo gli stessi negozi, gli stessi cibi, gli stessi spettacoli dall’altro sento tutto questo estraneo perché costruito negli uffici marketing e non grazie al lento evolversi di un processo locale. Forse è chiaro ormai ai più che, come dice Stigliz, la globalizzazione così come è stata realizzata abbia favorito solo un ristrettissimo gruppo sociale e finanziario ed abbia penalizzato tutto il resto del mondo. Come risultato tangibile della trasformazione (in senso negativo) dei rapporti umani abbiamo di fronte ai nostri occhi il modo in cui viene gestito il problema delle migrazioni di massa (come vede – gentile intervistatrice – è un tema che ricordo spesso): fin dal momento in cui queste persone disperate lasciano la loro terra per puntare verso l’opulento Occidente, reso opulento da secoli di prelievo di risorse da quelle terre da cui provengono i migranti, inizia per loro un viaggio che non ho riserve a definire simile ai viaggi in treno per Treblinka. Confido nelle giovani generazioni per marcare un significativo cambio di rotta nel segno della solidarietà: da questo punto di vista, la mia generazione, quella del Sessantotto, ha mancato clamorosamente l’obiettivo”.
Cos’è la paura?
“La paura è una compagna di viaggio necessaria. La paura di non essere all’altezza del compito assegnato è la molla che mi spinge ad impegnarmi, a non sopravvalutarmi. Ho pagato a caro prezzo il non aver avuto paura nell’affrontare certe situazioni. Anche mentre rispondo a queste domande, postemi da una gentilissima ed apprezzata giornalista, la paura è seduta qui vicino a me e mi ricorda che ciò che sto per dire non sia scontato ma interessante, che l’ovvio è sempre pronto ad entrare in scena. E certe indecisioni nell’eloquio (che purtroppo il testo non potrà riportare) sono il tangibile segno della sua presenza. A volte mi assalgono paure irrazionali che coinvolgono persone a me molto molto care: fortunatamente sono molto sporadiche ed ho imparato a gestirle. Non ho paura di morire e di questo devo ringraziare la mia professoressa di lettere del liceo Giacomo Leopardi: “è funesto a chi nasce il dì natale” possiamo leggere nella splendida poesia dedicata al pastore dell’Asia. È il prezzo che dobbiamo pagare per vivere e sarei disposto a pagarlo cento volte in cambio di cento altre vite!”
Il tema di questo numero di
Condivisione Democratica è l’apparenza. Quanto conta ciò che non si vede?
“L’apparire ha molte valenze, sia
positive che negative: anche il non apparire ha questa doppia valenza che
dipende da come e perché la si usa.
L’abito non fa il monaco, si è sempre
detto, ma in tanti contesti – più attenti alla forma che alla sostanza,
probabilmente perché non in grado di valutarne il merito – vestirsi in un certo
modo, utilizzare un certo tipo di linguaggio fa la differenza. Come ho
affermato in altre occasioni, se in forza di una crescita culturale a tutto
tondo, il tendere ad un certo modello, ad un certo stile di vita, anche se si
deve fare ancora della strada, ti suggerisce di cominciare a comportati “come
se fossi già al traguardo”, quell’apparenza rappresenta la palestra in cui
esercitarsi per impratichirsi di un ruolo cui si aspira. Se invece l’apparenza
è solo una maschera per coprire vizi e animo cattivo allora il compito degli altri è togliere
quel mantello. Specularmente, a volte un aspetto “dimesso”, al limite da
sembrare ciò che non si è, può servire a mettere a suo agio l’interlocutore o
valutarne le capacità a rapportarsi con persone meno attrezzate. Ho utilizzato
quest’ultima tecnica più volte quando volevo capire quanto fosse preparato il
mio interlocutore su un determinato argomento (di cui ritenevo di avere buone
conoscenze). Mi fingevo un principiante, di poche letture su quel tema: dalla
chiarezza con cui mi illustrava un certo tema potevo comprendere quanto chiara
fosse per lui ciò che mi stava esponendo. E’ una tecnica che ritengo molto
utile per farsi un’idea – in un tempo ragionevolmente breve – del livello di
preparazione di una persona. Peraltro Churchill diceva che riesci a dire una
cosa in modo chiaro solo se la conosci molto bene”.
La scienza e la tecnologia hanno fatto
passi da gigante. Qual è il prezzo che abbiamo dovuto pagare?
“La mia è una risposta “di parte” avendo avuto una formazione molto legata alle discipline scientifiche per antonomasia: la fisica e la matematica sono per me le categorie con cui non solo comprendere la scienza ma il modo principale con cui leggere il mio quotidiano. Il Determinismo è un faro! È ciò che mi ha permesso di tenere ferma la barra nella bufera della pandemia dove si elevavano a leggi universali ciò che si era appreso su Facebook confondendo discipline deterministiche con quelle probabilistiche, facendo equivalere opinioni personali ad evidenze scientifiche.
Una necessaria premessa, propedeutica
all’analisi del prezzo che il consorzio umano ha dovuto pagare. Il progresso
scientifico, da cui deriva quello tecnologico, ci ha permesso di mettere in
soffitta l’ “ipse dixit” (chiunque si voglia individuare con ipse), ovvero la
categoria che ha permesso di condannare Galileo Galilei; inoltre ci ha costretto a non credere a ciò che ci viene
detto ma a rispettare solo “le evidenze scientifiche”, il metodo galileiano in
ultima analisi, consapevoli tuttavia che ogni passo in avanti nella conoscenza
non sarà mai un passo definitivo e che potrà essere smentito, corretto o inglobato da un futuro
passo in avanti. Si pensi alla legge della gravitazione universale di Newton e
la relatività generale di Einstein, dove la seconda ha inglobato la prima.
Sgombrato la strada dal macigno dell’ipse dixit e con in mano la bussola del
metodo galileiano, si è potuto riprendere un cammino per tanti secoli ridotto
ad una strettoia. Abbiamo dovuto accantonare tante illusioni, tante superstizioni,
tante false verità che l’umanità si era costruita nel tempo: ora la Terra non è
più al centro dell’universo, il grembo di una Donna non è più un semplice
contenitore ma un co-attore nella creazione di una nuova vita, l’Uomo non è
stato creato in un paradiso terrestre ma è il frutto di un’evoluzione che
peraltro non lo aveva previsto, per citare il noto saggio di Telmo Pievani.
Certo abbiamo dovuto ammettere che il miraggio fosse solo un fenomeno ottico
che la fisica spiega perfettamente; abbiamo dovuto accettare che i vaccini
abbiano più efficacia del decotto della nonna, anche se non sempre sortiscono
l’effetto desiderato (la medicina è una disciplina probabilistica non
deterministica!) e consolarci con il
fatto che quelli salvati sono molti, molti di più di quelli cui il vaccino ha
nuociuto. Per farmi capire: se lascio cadere un sasso, qualunque sia la sua
forma o il suo peso, esso cadrà sempre a terra e con la stessa
accelerazione grazie alla forza di gravità, quando invece somministro un
farmaco, anche se è passato al vaglio di tutti i protocolli di sperimentazione
fin qui noti, avrò un’alta probabilità che sortisca l’effetto desiderato (la
guarigione di una certa patologia) non la certezza.
In ultima analisi, il prezzo che
abbiamo dovuto pagare alla scienza è la perdita di una lettura semplificata (a
volte addirittura semplicistica) del mondo che tuttavia ci viene restituito
sotto la forma di una aumentata capacità di saper leggere la Natura.
Diverso discorso è per le tecnologie.
Il benessere di cui soprattutto il mondo occidentale gode è merito delle
innovazioni tecnologiche: la plastica ad esempio ha permesso di realizzare
oggetti utili a costi molto bassi: dalla semplice terrina per l’insalata al
bypass cardiaco, passando per i paraurti di un’auto, per la tastiera del
computer. Tutto molto bello, comodo, a basso costo se …. in mezzo all’oceano
Pacifico (Great Pacific Garbage Patch) non si fosse formata un’isola di rifiuti
di plastica ampia come la Spagna (alcuni dicono come gli Stati Uniti). Ci si
chiede: la compromissione della vita degli oceani vale la comodità di una
terrina per l’insalata? Credo che i lettori di questa interessante rivista
digitale (Condivisione Democratica) siano anche frequentatori dei social media:
io li uso molto sia per informarmi sia per tenere i contatti sia ancora per
divertimento. È davvero bello poter interagire con immediatezza anche con chi
sta dall’altra parte del mondo, è molto utile avere informazioni di prima mano,
è molto comodo potersi fare aiutare nella ricerca di un ristorante o di un
prodotto ed un istante dopo prenotare (avendo anche uno sconto) o ordinarlo ed
il giorno dopo averlo a casa. Come avrà facilmente compreso vivo appieno il mio
tempo (in altri contesti si sarebbe usata la locuzione “è uomo del suo tempo”).
Tutte queste comodità hanno però un costo molto alto per ciascuno di noi che
navighiamo grazie ad un browser (uso prevalentemente Safari), utilizziamo un
motore di ricerca (uso Google, peraltro ho tenuto tanti seminari sui motori di
ricerca), teniamo i contatti con i social (uso molto Facebook e Instagram,
abbastanza Twitter e Telegram e ormai l’indispensabile WhatsApp) però pagando
il prezzo che tutto ciò che caratterizza la mia presenza sulla rete è diventato
di proprietà dei grandi player della rete (Google, Facebook, ecc.) che
utilizzano i miei dati per fare business. I miei interessi, i mei gusti
interessano chi produce beni o servizi in grado di incontrali o soddisfarli; le
mie convinzioni politiche interessano le organizzazioni politiche ma anche la
polizia (per non parlare dei servizi di intelligence); i miei orientamenti
sessuali o religiosi possono interessare un datore di lavoro o un gruppo
sociale. La mia immagine può essere utilizzata, insieme a migliaia e migliaia
di altre, per costruire un archivio con cui istruire un algoritmo di
riconoscimento facciale; oppure la mia immagine essere scelta da un altro
algoritmo fra i probabili responsabili di un certo fatto criminoso perché l’identikit
fornito all’algoritmo lo rimanda alla mia immagine; oppure le ormai ubique
telecamere davanti cui transito spostandomi semplicemente da un punto all’altro
della città permettono ai gestori di quelle telecamere di ricostruire i miei
spostamenti, in modo analogo a ciò che può fare il gestore della SIM del nostro
smartphone che sa in ogni istante dove siamo ed a che velocità ci spostiamo. In
sintesi, paghiamo tutto ciò in termini di compressione delle libertà individuali. Il mio
maestro mi ammoniva sempre: comincia a preoccuparti seriamente quando ti
renderai conto che non potrai più metterti le dita nel naso senza che nessuna
ti veda. Siamo giunti purtroppo a questo punto.
D’altra parte chi sarebbe disposto a
ritornare al solo telefono a gettoni, allo scambio epistolare per dare ed avere
notizia? L’importante è non lasciare tutte queste informazioni nelle mani dei
consigli di amministrazione di imprese private senza aver varato norme
stringenti che ne regolino l’acquisizione e la conservazione. Ritorno al
problema del ruolo centrale dei parlamenti che dovrebbero urgentemente normare
questo settore, con norme sia a livello nazionale sia sovranazionale. Come ben
sappiamo in Internet non esiste la dimensione spaziale – ogni web è lì a
portata di un click – e questo costringe ad avere una normativa sovranazionale
oltre ad una nazionale. Come si può ben comprendere stiamo pagando un prezzo
molto salato per potere fruire dei servizi di una società digitale.
Se il mondo digitale è così “costoso”,
altri settori tecnologici sono meno voraci. Penso ad esempio all’aumentata
sicurezza nei trasporti (le auto sono sempre più sicure), alle macchine
salvavita (come quelle per la dialisi o i pacemaker) che sono sempre più
affidabili ed efficienti, alle protesi sono sempre più sofisticate per citar
solo alcune applicazioni della tecnologia delle quali non potremmo fare a meno.
Credo che si possa convenire che se arriveremo in breve tempo ad una normativa
sulla gestione delle informazioni personali il bilancio dell’uso delle
tecnologie possa essere certamente positivo senza alcuna riserva. D’altra parte
chi sarebbe disposto a tornare al calesse, alla candela, al decotto di lino?”.
Nel 1970 si laureava in fisica presso
l’Università di Bologna con una tesi sperimentale svolta presso l’Istituto
Nazionale di fisica nucleare.
Cosa significava essere uno scienziato allora quando tutto sembrava ancora
da scoprire ed il futuro appariva come qualcosa da costruire per un mondo
migliore e possibile?
“Sono approdato all’università solo pochi anni prima che scoppiasse il Sessantotto e la facoltà che frequentavo fu uno dei centri di quel movimento mosso dall’utopia di rivoluzionare il mondo. Allora ci si credeva, si leggeva la scienza prevalentemente in chiave sociale e di classe. Come lei certamente saprà il filosofo di riferimento era Herbert Marcuse e L’uomo ad una dimensione il verbo a cui attingere, la scienza doveva essere strappata dalle mani “del capitale e dei padroni” ed essere messa a disposizione delle masse proletarie e degli operai.
Parole d’ordine che allora avvolgevano e convincevano ma che oggi, a più di 50 anni di distanza, stento francamente a comprenderne la reale valenza e soprattutto il vero obiettivo. Di allora ricordo la passione per i passi da gigante compiuti dalla fisica nei 50 anni precedenti: dalla relatività alla meccanica quantistica, dalla fisica nucleare all’uomo sulla Luna. Erano la conferma che la fisica ed anche la matematica permettevano di leggere correttamente il mondo e che tutto ciò avrebbe reso il mondo migliore. Non avevo fatto i conti, non avevamo fatto i conti, allora con gli altri attori sociali, oltre gli scienziati. Infatti ero ancora all’università quando scoppiò la bomba alla filiale della banca nazionale dell’agricoltura in piazza fontana a Milano; già lavoravo al Centro interuniversitario CINECA quando cominciarono ad apparire le prime stelle a cinque punte inscritte in un cerchio (il simbolo delle Brigate Rosse), quando fu rapito Aldo Moro e quando scoppiò la bomba alla stazione di Bologna. In un simile contesto sociale le utopie o anche semplicemente le aspirazioni personali e collettive passano in secondo piano perché è in pericolo il bene primo: la democrazia. Ho dovuto attendere gli anni Ottanta per riprendere a “sognare” un mondo migliore grazie alla scienza e alla tecnologia e ciò è successo quando fui chiamato ad unirmi al gruppo di lavoro che avrebbe dovuto assistere il ministro (meglio la ministra) della pubblica istruzione di allora a redigere e tradurre in pratica le linee guida del Piano nazionale informatica per le scuole medie superiori. Gli anni del progetto furono l’occasione per adottare soluzioni innovative, per formare una classe di docenti più preparata (ebbi la responsabilità di organizzare la formazione complessivamente circa 6.000 docenti). Furono anni in cui sperammo che una scuola più in linea con i tempi potesse garantire agli studenti di allora un futuro meno difficile: non potevamo immaginare che dieci anni dopo sarebbero arrivati ministri della pubblica istruzione che invece di aiutare la scuola pubblica a migliorarsi ancora avrebbero adottato provvedimenti che la avrebbero fortemente penalizzata a vantaggio della scuola privata. Per fortuna quegli anni Novanta videro l’uscita di Internet dai laboratori di ricerca (al Centro presso cui ero cominciammo ad utilizzare Internet nel 1986) e raggiungere il grande pubblico. Fu quella l’occasione per far conoscere questa tecnologia ai decisori nazionali e locali e dar vita alle prime reti civiche. Fui coinvolto fin dal suo concepimento alla progettazione e alla realizzazione della rete civica Iperbole (vinse il premio europeo della Bangemann Challenge) e l’utopia (in parte realizzata) di portare il Cittadino all’interno delle istituzioni e in grado di interagire con esse in tempo reale. Erano le basi per quella democrazia diretta che tanto mi interessa e che sarebbe stata di stimolo per quella rappresentativa. Il modello Iperbole (acronimo di Internet per Bologna e l’Emilia-Romagna) lo esportai in tante altre città dell’Emilia-Romagna e in altre regioni italiane. La tecnologia più recente veniva portata nelle case dei Cittadini e avrebbe dato loro la possibilità di far sentire la propria voce. Forse una delle utopie sessantottine concretizzata?”.
I temi legati all’ecologia sono stati
sempre a lei molto cari. Gli esiti però non sembrano essere stati quelli che
tutti si auguravano, cosa è andato storto? C’è ancora la speranza di poter fare
qualcosa di buono, giusto, sano e corretto?
“Il tema mi è sinceramente caro anche
se, come lei ben sa, non sono un esperto. Le opinioni che mi sono fatto sono il
frutto di letture (buone) e di ottime conferenze come quella di sabato scorso
di Bruno Carli, accademico dei Lincei, cui ho assistito. Lei mi chiede cosa sia
andato storto: la risposta non può che essere al plurale, vale a dire che il
comportamento di ognuno di noi ha contribuito a far ammalare il nostro pianeta.
Certo con responsabilità affatto diverse fra un presidente del Consiglio e chi
scrive, ad esempio, ma con la consapevolezza che è sul modello di sviluppo che
occorre intervenire in primis. Scrive infatti il prof. Carli in un articolo del
2020:
<<Come risultato della crescita della popolazione e dell’aumento dei
consumi, la domanda di energia e risorse è cresciuta talmente che tutte le
evidenze scientifiche mostrano che ci stiamo scontrando con i limiti
fondamentali del pianeta.>>, ed ancora sempre Carli in un saggio del
2017 edito da il Mulino: <<La scienza ci dice che è in corso un
cambiamento climatico, che questo è causato dall’uomo, che in futuro alcune
risorse e alcune regioni del pianeta potrebbero non essere più utilizzabili nei
modi in cui siamo abituati e che per arrestare questo processo occorrono
interventi drastici […]. Se e come agire sulla base di queste conoscenze è ora
una scelta politica che riguarda la strategia con cui vogliamo gestire il
futuro nostro e del pianeta>>. Da ciò che ho letto ed ascoltato
non esiste una soluzione: occorre trovare il concerto fra le diverse soluzioni
ognuna delle quali ne ottimizza l’applicazione, tenendo conto anche di fattori
specifici. L’unica cosa certa è che occorre fare presto, molto presto e bisogna
farlo tutti assieme: non è sufficiente – anche se utile – che solo una parte di
noi diventi virtuosa, occorre che lo si diventi tutti. L’anidride carbonica
emessa in aria in Italia contribuisce al problema del riscaldamento e non solo
dell’Italia ma dell’intero globo. Occorre puntare, sottolineava Bruno Carli,
sulle energie rinnovabili, sull’efficientamento energetico, sul passaggio
all’elettrico abbandonando l’uso dei combustibili fossili”.
Non sempre la scienza è stata legata a
progetti autonomi ed indipendenti, spesso si è arresa al servizio di interessi
economici molto importanti che in qualche modo l’hanno indirizzata verso
obiettivi pilotati e commissionati. Chi può e deve difendere la scienza da
percorsi fuorvianti e dannosi?
“Certamente l’episodio più importante
di indirizzamento della scienza verso obiettivi discutibili è individuabile nel
progetto Manhattan, vale a dire la realizzazione della prima bomba atomica e la
conseguente distruzione di Hiroshima e Nagasaki, che ha visto la partecipazione
dei più preparati fisici e matematici allora esistenti. Per inciso ricordo che
un ruolo fondamentale in quel progetto fu ricoperto da Enrico Fermi cui è
dedicato l’istituto di fisica dell’Università dell’Illinois e un grande
laboratorio di ricerca, il FermiLab, entrambi negli USA. Da quell’esperienza,
certamente fondamentale dal punto di vista scientifico, Fermi trasse un
insegnamento che fu poi recepito nello statuto del Centro Europeo di Ricerche
Nucleari (CERN) di Ginevra: un centro di ricerca accademico non può essere
utilizzato per ricerche coperte da segreto militare. Fu questo il testamento
che Fermi, morì infatti pochi mesi dopo, consegnò ad Edoardo Amaldi, incaricato
di redigere lo statuto del costituendo CERN. Alla sua domanda rispondo quindi:
gli scienziati e solo loro devono decidere verso dove orientare la loro
ricerca, almeno per quella parte della ricerca che viene detta di base, vale a
dire che studia le parti fondanti dell’universo in cui viviamo. Questa ricerca
deve essere finanziata senza condizionamenti se non quelli insiti nei metodi
stessi che la comunità scientifica si dà, vale a dire che i risultati devono
essere riconosciuti tali anche dagli altri scienziati. Se poi un governo o una
società privata vogliono che si esplorino ad esempio le potenzialità e i campi
di impiego di un nuovo materiale, che si cerchino farmaci per curare una certa
malattia ecco tutto questo attiene alla trasformazione dei risultati
scientifici in applicazioni tecniche ed industriali. Resta evidentemente il
grande problema degli aspetti etici: se lo studio dell’atomo non ne pone, ne
pone tantissimi lo studio e la manipolazione delle cellule. Non mi trova
d’accordo che in alcuni settori di ricerca un comitato (ad esempio quello
bioetico), formato anche da rappresentanti di confessioni religiose, o ad esse
riferentisi, possano mettere il veto su una proposta di ricerca. Come vede,
gentile sig.ra La Vecchia, pur essendo credente sono molto laico, una laicità
corroborata anche da importanti letture come il saggio di Peter Harrison “The Territories of science and
religion”.
E’ giusto credere in una scienza ed in
un progresso tecnologico ad ogni costo?
“L’unica cosa che deve essere fatta ad ogni costo è ciò che può impedire qualcosa di irreparabile. La scienza e la tecnologia sono entità, mi passi questo termine, che per loro natura non possono essere cristallizzate. Si possono rallentare ma mai fermare o far regredire per la semplice ragione che la scienza nasce ed abita la mente dell’uomo. Pensi che Newton formulò la teoria corpuscolare della luce mentre era confinato in campagna a causa di una epidemia e aveva con sé solo carta e penna. Il raggio di luce che, entrando da un foro della finestra, disegna sulla parte opposta un “arcobaleno” lo spinge a indagare sulla natura della luce. Quali gli strumenti a disposizione? Una giornata di sole, un forellino in una finestra socchiusa, una stanza in penombra e la straordinaria mente di uno dei più grandi scienziati di sempre. Questo improbabile mix è il responsabile di uno dei più importanti risultati della fisica contemporanea; coinvolto nel calcolo delle traiettorie delle mitragliatrici della contraerea, a John von Neumann, forte anche di esempi precedenti (ad esempio Babbage, Zuse), fa sul foglio di un bloc-notes uno schizzo che alla stazione di Filadelfia (siamo all’indomani dello scoppio della seconda guerra mondiale) mostra al direttore dei laboratori di calcolo di Aberdeen dell’esercito americano. Quello schizzo è lo schema funzionale di tutti i computer che dal 1943 in poi sono stati utilizzati, anche quello che il lettore sta utilizzando nel momento in cui legge questo articolo. Come vede la scienza non è imbrigliatile. Ci possono essere momenti in cui ingenti fondi vuoi pubblici vuoi privati possono essere resi disponibili per un certo settore di ricerca. Di norma questi settori coincidono con la presa di coscienza dell’esistenza di un importante problema (la necessità di abbandonare i combustibili fossili, ad esempio): la spinta ad impegnarsi “ad ogni costo” su questi temi ha alle spalle una motivazione condivisibile e spesso urgente. Quello che occorre assolutamente evitare è che il dirottamento di cospicue risorse finanziarie su questi temi urgenti impediscano agli altri settori di continuare il loro lavoro. Purtroppo non sempre c’è la sensibilità, da parte dei decisori politici, ad operare per non penalizzare nessuno”.
Nel 1997 è ideatore del progetto TECA
della Pro Civitate Christiana di Assisi per l’informatizzazione del museo e la
digitalizzazione dei beni culturali ivi contenuti. Ci parli di questa
importante iniziativa. Come nasce l’idea?
“Nel lontano 1997, in aprile, alcuni professionisti di Faenza (che erano in contatto con la Pro Civitate Christiana, detta anche Cittadella di Assisi) vennero al Cineca per propormi di progettare la digitalizzazione del museo della Cittadella. Dagli inizi degli anni ’90 al Cineca mi occupavo anche di Digital Cultural Heritage e pertanto l’invito fu prontamente accettato. In quel periodo, ero impegnato in un importante progetto (detto NUME), in collaborazione con l’Università di Bologna, che aveva l’obiettivo di ricreare in 3D la Bologna medievale con la possibilità di vederne le trasformazioni nel tempo. Quel progetto mi permise di familiarizzare con le tecnologie più all’avanguardia (il progetto fu presentato ad un convegno negli USA) rivolte all’acquisizione e all’elaborazione di immagini in ambito culturale.
Dopo una serie di sopralluoghi in
Assisi, scrissi un progetto, dedicato all’informatizzazione del museo (che
battezzai TECA – Testimonianze Ecumeniche alla Cittadella di Assisi) che
presentai al MiBAC e che fu finanziato per intero: 1500 milioni di lire. Il
progetto TECA fu realizzato fra il 2001 e il 2003 ed io ne fui il project
manager. Il progetto TECA ebbe un’immediata ricaduta anche sulla biblioteca del
Sacro Convento di Assisi, in cui sono conservati tra l’altro i manoscritti di
san Francesco, perché appena si seppe che stavo lavorando per la Cittadella fui
contattato per scrivere un progetto per digitalizzare gli antichi manoscritti
conservati in quella biblioteca. Fu una vera emozione poter prendere in mano
(dopo aver indossato un paio di guanti) i manoscritti del Poverello di Assisi.
Tornando
al progetto TECA, i suoi frutti possono essere così sintetizzarli:
- Digitalizzazione di 2681 opere della
Galleria, pari al 65,9% delle opere conservate, e rendere accessibili i
corrispondenti oggetti digitali via Internet; - Protezione gli oggetti digitali con la
tecnologia del watermarking (filigrana digitale); - Creazione del catalogo on-line (OPAC)
di 1535 opere, pari al 37,7% dell’intera collezione della Galleria, e renderlo
accessibile via internet; - Creazione del catalogo on-line (OPAC)
di 35.002 volumi (pari al 50% del patrimonio conservato) e renderlo accessibile
via internet; - Digitalizzazione dell’intero fondo
antico delle Cinquecentine, 17 volumi per complessive 8098 pagine, proteggerle
con la tecnica del watermarking e renderle accessibili integralmente via internet;
due di esse sono state trasposte anche in formato full-text; - Creazione del catalogo on-line (OPAC)
delle opere della Fonoteca registrate su supporto vinilico e renderlo
accessibile via Internet. Sono state catalogate 6207 opere per complessivi 8150
supporti; - Conversione analogico-digitale dei
dischi di maggior interesse e/o in precario stato di conservazione pari a circa
140 ore di ascolto; - Restauro digitale dei brani musicali
compromessi da supporti in precario stato di conservazione; - Creazione del portale attraverso cui
accedere agli archivi, effettuare delle visite virtuali, avere informazioni
sulle mostre, i seminari e le altre iniziative culturali, acquistare poster,
riproduzioni, aderire all’Associazione “Amici dell’Osservatorio – ONLUS” [ora
“Amici dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana Organizzazione di
Volontariato (ODV)”]
Tutto questo 20 anni fa”.
Perché l’interesse per Assisi?
“Ero stato in Cittadella per un
convegno nel dicembre del 1971 ma lo consideravo un episodio che non avrebbe
avuto un seguito. Furono le tante visite propedeutiche alla scrittura del
progetto TECA a farmi prima conoscere quella realtà e poi legarmi con un affetto
straordinario ai volontari laici che la gestiscono. Furono le persone con cui
interagii, purtroppo molte di loro non ci sono più, che con la loro cultura,
umanità e gentilezza mi accolsero subito come uno di loro. La “magia” che
ancora pervade la Cittadella è quella di far sentire a proprio agio chiunque:
dal credente all’ateo, dal conservatore al progressista, dall’uomo della strada
al docente universitario. Nel corso degli anni (fu fondata nel 1939) tutti i
grandi della cultura, delle arti figurative, del cinema e del teatro, della
musica e della politica italiana si sono fermati in Cittadella lasciando
preziose testimonianze in convegni e congressi, oltre a scritti e interviste.
Si sono fermati in Cittadella ad esempio Rossellini, Vlad, Pasolini, Luzi, De
Chirico, Moro ed anche papa Giovanni XXIII, amico fraterno del fondatore della
Pro Civitate don Giovanni Rossi. Ho quindi iniziato ad affezionarmi a questa
abbazia laica attraverso le opere d’arte conservate nella Galleria d’arte
contemporanea (curata con abnegazione da Anna Nabot), che ospita capolavori del
secondo Novecento italiano, con qualche eccezione come l’americano William
Congdon, che per tanti anni frequentò la Cittadella, dopo essersi trasferito da
Venezia ad Assisi. Un museo che sorprenderà per la ricchezza e singolarità
delle opere ospitate, un numero importante delle quali appartiene alla
collezione di Gesù lavoratore, opere in cui viene reso omaggio ai lavoratori,
dal muratore al carpentiere, al fabbro attraverso la figura del Cristo”.
Qual è attualmente la situazione
dell’associazione e quali sono i progetti e le iniziative future?
“Come tutte le associazioni di
volontariato che non hanno alle spalle uno o più sponsor, l’associazione Amici
dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana – Organizzazione di
Volontariato (ODV) che presiedo dal 2011, la cui missione è assistere e
promuovere il museo della Cittadella, ha sempre più idee di quante ne possa
realizzare. Se da un lato i soci sono distribuiti un po’ in tutta Italia –
negli scorsi anni ne abbiamo avuti anche dall’estero – permettendoci di avere
un qualche riscontro anche in luoghi lontani da Assisi, dall’altro l’attività
ricade prevalentemente sul presidente e sui consiglieri, non potendo contare su
adeguate forze ubicate in Assisi. Oltre alla carenza cronica di persone
fattivamente coinvolgibili, l’associazione vive una perenne situazione di
inadeguatezza del budget a disposizione. Nonostante queste condizioni, non
certamente ottimali, con tenacia e perseveranza cerchiamo di onorare gli
impegni che lo statuto ci impone e quindi, grazie anche alla “quiete” del
lockdown abbiamo messo a punto alcune idee progettuali per i prossimi anni.
Partendo dalla considerazione che
dalla realizzazione del progetto TECA ad oggi la tecnologia del web aveva fatto
passi enormi, soprattutto in termini di accesso alle informazioni, alla loro
condivisione e alla loro ricerca e che il look del sito web scaturito dal
progetto (www.procivitate.assisi.museum) mostrava i segni del tempo, come una
rosa recisa, abbiamo deciso di metterci mano. Delle scelte tecnologiche di
allora tuttavia si sono rivelate time independent gli standard adottati per
digitalizzare le immagini, la fase del progetto più onerosa sia in termini di
tempo sia di risorse umane e finanziarie.
La fase uno del progetto JANUS
Con queste premesse, risulta
abbastanza naturale pensare di cambiare la “cornice” ad una “tela” di pregio e
con queste finalità è stato concepito il progetto JANUS. Il nome tradisce
apertamente gli obiettivi: ci saranno due interfacce web, una per accedere alle
informazioni del museo, l’altra per accedere al web dell’associazione: entrambe
accederanno, tramite una opportuna interfaccia, a tutte le informazioni digitali
esistenti (opere d’arte, stampe antiche, musica, libri, cinquecentine) come
fossero in un unico archivio che sarà trasportato sul Cloud in modo da
garantirne la funzionalità h24 ed avere una velocità di accesso molto maggiore
da qualunque parte del mondo l’utilizzatore si colleghi. L’interfaccia web sarà
multilingue: italiano e inglese per ora.
Questa riorganizzazione dell’accesso
alle informazioni digitali permetterà al visitatore virtuale di accedere a
tutte le informazioni disponibili su un certo autore o una certa opera nelle
diverse sezioni. Ad esempio, un visitatore interessato a Giorgio De Chirico (la
Galleria conserva una splendida opera del grande maestro metafisico dal titolo
Gesù Divino Lavoratore del 1951) digitando il suo nome otterrà l’immagine della
tela del 1951, le immagini dei 4 disegni conservati nel Gabinetto delle stampe,
l’elenco dei libri che sono dedicati a lui.
Le interfacce web permetteranno di
soddisfare le esigenze di visitatori affatto diversi: dal semplice “curioso”,
all’appassionato di arte, allo studioso e al ricercatore.
Il progetto JANUS esplorerà anche la possibilità
di creare delle immagini NFT (Non-Fungible Token), immagini digitali uniche e
non replicabili, per dare la possibilità al museo di crearsi una fonte di
finanziamento vendendo gli NFT delle sue opere, avendo già la base digitale per
realizzarle.
Inoltre le opere della Galleria d’arte
contemporanea, una sezione del museo, verranno corredate di un codice QR per
permettere al visitatore di avere sul proprio smartphone le informazioni utili
per comprendere l’opera di fronte alla quale si trova.
Il progetto JANUS è stato finanziato
al 60% dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Perugia: il restante 40% è
in parte coperto con i fondi dell’associazione che presiedo e per la parte
rimanente contiamo su donazioni e sponsorizzazioni che sto cercando. Iniziato
nel dicembre del 2021 avrà una durata di 12 mesi.
Abbiamo già pensato ad una fase due e
tre del progetto: il problema, come si può facilmente intuire, è rappresentato
dalle risorse finanziarie.
La fase due di JANUS prevede la digitalizzazione dell’epistolario
degli autori le cui opere sono conservate nel museo. Si tratta di circa 10.000
lettere che i diversi artisti, da De Chirico a Prosperi, da Carrà a Pirandello
e Rosai, hanno scritto a don Giovanni Rossi per spiegare, commentare le loro
opere. Molte lettere, tuttavia, vanno oltre il mero dato “contingente” e sono
vere e proprie confidenze ad un sacerdote. Si ha un quadro molto umano di
questi artisti, molti di loro pilastri dell’arte italiana del secondo
Novecento. Crediamo sia importante mettere a disposizione questo materiale
autografo a studiosi e ricercatori, senza compromettere l’integrità
dell’archivio. Il progetto potrebbe essere completato nell’arco di 18 mesi e
l’archivio generato integrato con quello creato dalla fase 1 di JANUS. Stiamo
cercando i fondi e sarò felice di illustrare i dettagli ad un eventuale
sponsor.
La fase tre di JANUS è un progetto molto ambizioso. La Pro
Civitate Christiana fondata nel 1939, come già ricordato, ha svolto un ruolo
molto importante nella cultura e nella società italiana. Si sono fermati lì
tantissimi protagonisti della cultura e della politica italiana: da Moro a
Rossellini, da papa Giovanni XXIII a Roman Vlad, da Pasolini a Luzi per citarne
solo alcuni.
E queste persone hanno lasciato
testimonianze scritte, sonore e di immagini ora conservate (su supporti
analogici) nell’archivio generale della Pro Civitate Christiana. Inoltre i
volontari ancora in vita e che hanno vissuto quelle passate stagioni e quelle
più recenti sono “memorie” viventi cui vorremmo “far raccontare la loro vita” e
rendere disponibili anche queste testimonianze ai posteri.
Purtroppo l’archivio non è mai stato
digitalizzato. Vorremmo intraprendere questa iniziativa per consegnare alla
storia tutte queste informazioni. Il progetto è ambizioso ed anche molto
costoso: ad una prima stima occorrerebbero non meno di 5 anni ad un team di
almeno 4-5 persone in modo da mettere a disposizione del progetto competenze
archivistiche, informatiche, biblioteconomiche avvalendosi anche di strutture esterne
per realizzare le (lunghissime) interviste. Sarebbe molto bello che un
importante mecenate, o un gruppo di mecenati, volesse associare il proprio nome
a questa iniziativa che verrà consegnata alla storia. Anche in questo caso sarò
lieto di poter esporre il progetto a chi potrebbe esserne interessato.
Infine alcune informazioni sull’associazione che presiedo.: Associazione Amici dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana ODV (organizzazione di volontariato) ha sede in Assisi presso la Pro Civitate Christiana (nota anche come Cittadella di Assisi) in via degli Ancajani 3 – 06081 Assisi è stata fondata nel 2000 per aiutare il museo della Pro Civitate dopo il terremoto del 1997. Ha soci sparsi in tutta Italia e si finanzia con le quote sociali, le donazioni e il 5 x mille e con questi fondi assiste il museo, purtroppo non per tutte le necessità per l’esiguità delle risorse disponibili. L’indirizzo di posta elettronica è amiciosservatorio@gmail.com e il sito web è www.amiciosservatorio.org”.
Una breve visita virtuale del museo
può essere effettuata raggiungendo questo link
L’idea di essere un uomo di scienza è
sempre stata presente nella sua vita?
“Mi è sempre sembrato naturale
occuparmi di scienza fin dai tempi del liceo quando mi resi conto che il
professore di matematica e fisica (ho frequentato il liceo scientifico Serpieri
di Rimini) era l’unico in grado di catturare il cento per cento della mia
attenzione. L’iscrizione a fisica fu una cosa quasi naturale (oggi sceglierei
matematica, ma questo è un altro discorso), così come fu casuale il mio
diventare un informatico. Lo stesso giorno in cui mi laureai andai nella sede
del Cineca a Casalecchio di Reno, alle porte di Bologna, per salutare alcuni
compagni di corso che già lavoravano là ed anche un professore di fisica, con
cui ero in contatto, che aveva iniziato a collaborare con quel centro. Entrai
come visitatore e ne uscii come dipendente. Non sono rimasto disoccupato
nemmeno dodici ore! La matematica, l’informatica e le loro applicazioni nelle
diverse discipline scientifiche prima e poi in quelle statistiche ed
umanistiche divennero il mio “pane” quotidiano. Non ho mai preso in considerazione
il cambio di campo.
Tuttavia qualcosa cominciava a
bruciare sotto la cenere: una costante necessità di leggere “cose” non
tecniche: mi appassionai alla letteratura ispano-americana e
portoghese-brasiliana di cui ho letto tantissimo, mia appassionai alla musica
sinfonica e da camera (che nel 2005 abbandonai per abbracciare il Jazz),
all’arte senza aggettivi.
Quando agli inizi degli anni ’90 mi fu
proposto di occuparmi di tecnologie digitali per i beni culturali queste due
passioni, quella professionale e quella privata, avevano trovato una casa
comune.
La scienza e soprattutto il metodo
scientifico fanno così parte del mio modo di pensare che ho elaborato – per
alleggerire quest’intervista, della quale la ringrazio infinitamente – una
teoria matematica dei vizi.
Questa teoria afferma che il numero di
vizi di ognuno di noi è una costante (detta K) e che i vizi si dividano in
confessabili (Vc) e inconfessabili (Vi). In formula:
Vc + Vi = K
Vale a dire che più si sembra
perfetti, più vizi inconfessabili si hanno.
È la santificazione dei mascalzoni!”
Eppure il suo animo è fortemente
“inquinato” da note artistiche, creative, poetiche e letterate, questo ha
rappresentato un “disturbo” o una distrazione nella sua vita professionale?
“Lo dicevo anche poco fa: l’amore per
l’arte nelle sue moltiplici forme è stato prima un fiume carsico che ha trovato
nel settore del digital cultural heritage il suo punto di emersione. Devo anche
ammettere che l’informatica e solo lei (e non le altre discipline) mi ha come
prosciugato perché è un campo in cui solo molto poco di quello che si è fatto
ed imparato permane nel tempo. Mi spiego meglio: ciò che ho studiato di
matematica all’università è ancora tutto completamente attuale e utilizzabile,
ciò che ho imparato di fisica è al 99% utilizzabile. Ciò che ho imparato (e
conoscevo molto bene) di informatica negli anni Settanta e Ottanta è
utilizzabile solo al 20%, nella migliore delle ipotesi. Quindi le scorribande
nel settore umanistico sono state una necessità che fortunatamente sono
riuscito a rendere compatibile con l’attività professionale”.
Che cosa vuole fare il dott. Grossi da
grande?
“Vorrei scrivere un libro. Ho provato
alcune volte ad iniziare un’impresa di questo genere ma “il da fare quotidiano”
ha sempre avuto la meglio”.
La prima cosa che le viene in mente da
dire ad un giovane oggi.
“Leggi molto, leggi tutto ciò che ti
passa sottomano. Studia, studia, studia e se hai la fortuna di amare il
pensiero astratto studia matematica: è la più straordinaria costruzione
astratta mai creata dalla mente umana”.
I suoi impegni professionali l’hanno
vista da sempre impegnato in giro per il mondo. Come si concilia questo con una
famiglia?
“È stato un problema che non sono
stato capace di risolvere. Gli impegni professionali mi costringevano molto
spesso a spostarmi in Italia e all’estero e devo confessare che amavo quei
viaggi perché mi permettevano di incontrare persone, imparare cose nuove,
visitare luoghi mai visti e non facilmente accessibili come quando, ad esempio,
sedevo nel comitato creato dalla Commissione Europea per l’introduzione
dell’Information Technology o in quello per la collaborazione fra università e
imprese che si riuniva di volta in volta in un paese diverso. Essendo un
comitato europeo riconosciuto venivamo ospitati nei palazzi delle istituzioni
del paese ospitante: edifici per lo più storici che non avrei mai avuto la
possibilità di visitare.
Ho soggiornato per periodi abbastanza
lunghi negli USA (in quelle occasioni portai con me la famiglia), la norma però
era viaggiare solo o con colleghi. Fu durante questi lunghi viaggi che, per
ottimizzare il contenuto della valigia, iniziai a portarmi dietro dei libri di
poesie: un solo libro di poesie può farti compagnia per settimane perché le
poesie si leggono e rileggono più volte anche durante la stessa giornata. Non
lo si fa – almeno a breve – con un libro di narrativa. L’ottimizzazione del
peso della valigia mi ha permesso di addentrarmi nello splendido universo della
poesia.
Non ricordo se nel 1986 o 1987
trascorsi in trasferta più della metà delle giornate lavorative di quell’anno.
Rientrando a casa una sera mia moglie mi chiese di mostrale i documenti prima
di togliere il chiavistello. Come vede il problema c’è stato.
Ora che non sono più in attività ho
una regola aurea: prima gli affetti e poi il resto e finora sono riuscito a
mantenere, nella stragrande maggioranza delle volte, questo impegno”.
Il covid ci ha tolto momenti
importanti e ci ha costretti ad un blocco forzato, ad una paralisi fisica ed
emotiva. In molti parlano di perdita importante, ma ci sono state anche
ricchezze altrettanto importanti. Fermarsi non sempre è un male. Qual è il suo
bilancio?
“Confesso che ho vissuto con una certa leggerezza i mesi del lockdown stretto del 2020. Lo stare in casa mi ha permesso di leggere ed ascoltare tanto Jazz. Con le video conferenze ho recuperato incontri sempre invocati al telefono ma mai realizzati. Avevamo (ed abbiamo) il vantaggio di abitare nello stesso edificio di un grande supermercato per cui non ci è mancato mai nulla né siamo stati costretti a lunghe file potendo decidere quando scendere. Avendo fatto la scelta di essere molto prudenti, vuoi per le norme imposte, vuoi per i consigli di amici medici, abbiamo ridotto al minimo i contatti: la famiglia di mio figlio maggiore (il minore vive all’estero). Solo sporadicamente la famiglia di mio fratello e quella degli amici più cari: peraltro abitando tutti questi fuori provincia abbiamo dovuto attendere le necessarie autorizzazioni.
Mi è mancato l’andare al cinema almeno
due volte la settimana: dal marzo 2020 ad oggi sono stato al cinema una sola
volta nel novembre scorso; mi sono mancati i viaggi; mi è mancata Assisi.
Ho cercato di supplire a questa sosta
forzata organizzando delle conferenze in modalità streaming, di fare riunioni
in videoconferenza.
Ho sempre indossato la mascherina
anche se ora mi accorgo di essere un po’ insofferente. La sosta forzata cui siamo stati costretti, più che i regimi di
semilibertà che mi hanno creato più problemi che vantaggi, mi ha permesso di
essere padrone assoluto del mio tempo. La giornata era scandita dalle cose che
volevo e mi piaceva fare. Avevo tirato fuori dal fondo di un cassetto un
comodissimo abito da casa con cui sono entrato rapidamente in simbiosi. Un
periodo che mi ha regalato tranquillità e tanto tempo per me. Un paio di mesi
l’anno di lockdown li accetterei molto volentieri”.