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‘Sospeso’ Category

Una lunga coda d’estate e la voglia di piccole avventure nel nostro bel territorio laziale: non occorre andare lontano per provare l’eccitazione della scoperta. Mi imbatto per caso in una testa di tufo, isolata nel bosco, posizionata ai piedi di una pianta dai tanti tronchi. Mi domando quale persona particolare, quale creatura di questi luoghi, possa essersi dedicata ad adornare così, una già bellissima e ricca zona fluviale. Già, perché mi trovo a passeggiare in una landa nuova, lungo il ben conosciuto fiume Treja, visitato e goduto da molti romani e non; mi riferisco in questo caso, al tratto in direzione delle sue fonti, ovvero le Cascate di Montegelato, meta di turisti come di fotografi e produzioni cinematografiche varie.
L’esplorazione di questo preciso punto, proprio sotto un enorme costone tufaceo, è invece per me, un’avventura tutta nuova. Siamo nella valle sottostante Civita Castellana: possiamo vedere i resti di un ponte crollato nel 1920 a causa di una devastante piena, nei pressi di un bacino artificiale che forniva l’acqua necessaria per azionare la mola di un mulino. Tre secoli fa proprio qui esisteva una diga, ora soprannominata “Legata”. Ormai il fiume si è riappropriato del suo territorio che ora mostra barlumi del passato mescolati ad elementi artistici del presente. Sì, perché dagli anni ‘80 in poi, lo scultore locale Gildo Cecchini, ha reso questo luogo un suggestivo quanto originale museo all’aperto. Incontro per caso quest’artista, selvatico quanto me, proprio sulle sponde del fiume che ospita le sue opere.

Mi racconta che sia d’inverno che d’estate, si reca sul luogo per sistemare gli argini, tenere pulito dalle erbacce, fare la manutenzione dei vari percorsi, piccoli ponti di legno compresi, che collegano e creano un itinerario da cui poter ammirare le sue creazioni. Gildo, oltre che offrirmi di posare per una sua scultura, mi racconta che questo è un luogo da tanti anni diventato punto di ritrovo e di refrigerio per le persone di Civita Castellana e non solo. Mi racconta che da bambini tanti anni fa, sotto una specifica parete tufacea poco lontana, il fondale argilloso era una grande attrattiva e tutti si ritrovavano a spalmarsi il corpo con la creta. Gildo è cresciuto: in pensione dopo una vita trascorsa nel suo negozio di parrucchiere, rende speciale un luogo ameno e fantastico, prestando la sua arte anche per opere su commissione. Questa la sua pagina Facebook. Quanto a me, prima o poi, mi ritroverò certamente a fare da modella per Gildo Cecchini, le cui mani trasformano il tufo in magia!

“La libertà non è star sopra un albero, Non è neanche il volo di un moscone”, cantava Gaber anni fa e proprio come concludeva lui nel ritornello, “Libertà è partecipazione”.
Dal canto mio, aggiungerei condivisione, com’è nello stile della nostra testata.

Condividere uno spazio e partecipare alla sua costruzione, contribuendo, con un proprio elemento che si incastra con gli altri come una tessera del puzzle, ad una elaborazione di un pensiero o di una azione più grande, più complesso.
Questo numero lo abbiamo dedicato alla Libertà, in tutte le sue forme, in tutte le sue espressioni.
Abbiamo dato -ovviamente- libertà a tutti i nostri redattori di interpretare il tema a proprio piacimento e sono emersi interessanti spunti di riflessione.
Abbiamo dato ampio spazio alle interviste alla politica che è vicina a momenti di confronto elettorale per suppletive parlamentari e per le amministrative, in particolare nella Capitale. La Politica – quella con la “P” – del resto è proprio una delle massime espressioni della libertà e della partecipazione. O almeno dovrebbe esserlo.
Libertà di Movimento (come racconta Loretta) o Libertà di Espressione (come descrive Martina) o Libertà Personale (come puntualizza Elena) o Libertà dalle credenze (come suggerisce Giorgia) o Libertà di Raccontare e Immaginare (come riporta Walter) o Libertà di Vivere la propria vita (come scrive Giorgio).
Tante libertà, tante forme di inclusione e di cooperazione, di convivenza civile.

Rientriamo dal periodo estivo, nel quale mi auguro tutti noi siamo riusciti ad avere un momento per “ricaricare le batterie” dallo stress quotidiano, e possiamo leggere i nostri pensieri, con questo numero intenso.

“Bisognerebbe fare teatro nelle scuole, perché l’esercizio di mettersi nei panni degli altri ci può far diventare una società migliore” Elio Germano.

Settembre, Teatro Aurelio, stesso giorno e stesso orario, si riparte con le attività del laboratorio teatrale.
Il gruppo non è esattamente lo stesso, qualcuno ha scelto un percorso diverso, un paio non riescono a venire, ci sono dei nuovi ingressi, fatto sta che partiamo tutti entusiasti, felici di ritrovarci qui e speranzosi che questo anno sia meno complicato del precedente.

L’anno scorso, causa pandemia, gli appuntamenti settimanali sono stati problematici, mascherina tutto il tempo, distanziamento, sanificazione, coprifuoco, ma, malgrado le difficoltà, Manuele è riuscito a non farci saltare una sola lezione, ricorrendo anche alle lezioni su piattaforma web durante i brevi periodi “arancioni”.
E’ stato un grande aiuto in un momento così particolare e vuoto.

Già il Gruppo, “fare gruppo” è una delle cose più importanti di questa attività e soprattutto è uno degli scopi, fare teatro fa bene all’anima anche per questo, aiuta ed insegna a relazionarsi.
Per me è una terapia, un banco di prova che mi ha confermato che è tutto bello fin che le cose vanno bene ma è nelle difficoltà che si vede davvero se un gruppo è affiatato e per far questo dobbiamo fare i conti anche con quelle parti di noi stessi che non ci piacciono affatto e che tutti abbiamo, come ad esempio la competizione, l’invidia e la frustrazione, che di fatto sono sentimenti come altri e che, una volta riconosciuti, si possono gestire.

(Immagine dell’Autrice)

Con il gruppo dell’anno scorso abbiamo portato in scena uno spettacolo che, per come si è svolto, ci ha fatto capire che eravamo un “bel gruppo”, unito e in sintonia, ognuno di noi con particolarità differenti che, “amalgamate” come si deve da uno “Chef” di tutto rispetto, ci hanno permesso di essere soddisfatti del risultato ottenuto.
Perché, diciamolo, la sintonia è fondamentale quando si sale sul palco, le battute escono fluide, basta uno sguardo per capirsi e soprattutto si riesce ad affrontare un errore, una battuta sbagliata, un vuoto di memoria, un contrattempo, in un modo talmente naturale da non farlo percepire al pubblico.

E’ il quarto anno che faccio laboratorio
teatrale, una passione che nutrivo da anni ma che non avevo mai avuto il
coraggio di affrontare, poi finalmente mi sono decisa a mettermi in gioco.

Manuele ci conduce al saggio di fine anno
attraverso degli esercizi preparatori davvero interessanti, ci fa lavorare con
il corpo e la mimica, con la memoria e le emozioni, con la voce e la dizione,
ci prepara a “buttarci”, vincendo timidezza e imbarazzo, ci fa leggere testi
teatrali classici e contemporanei, ci fa cultura.

L’improvvisazione è l’attività che preferisco in assoluto, stimola la fantasia e la creatività, insegna ad immedesimarsi negli altri attraverso ruoli che abitualmente non ci appartengono, mette in relazione e a volte lo fa in maniera così forte da arrivare anche a commuoversi, stimola la sensibilità e l’empatia.
E’ bello, è bello sì quando saliamo sul palco, “bene, ora salite, spalle alla platea e iniziate” ci dice Manuele, dandoci qualche indicazione tecnica o un obiettivo da raggiungere.
E’ quello per me il momento magico: il primo che ha l’ispirazione si gira e da l’attacco agli altri, e gli altri lo seguono, integrano la scena, a volte la ribaltano.
In quei momenti io mi sento libera, libera di muovermi, di esprimermi, di fantasticare.
Libertà di Espressione.

Manuele ci dà benvenuto, ci fa sedere in semicerchio e iniziamo presentandoci ai nuovi arrivati. Già i nuovi arrivati, sempre bello iniziare ad interagire con gente nuova ma la sicurezza che mi dà vedere Valeria, Germana, Diana, Sergio, Claudia e Linda non ha eguali.

Oggi sono esattamente tre mesi da quando
abbiamo messo in scena Surrealiti e
io, guardando il palco, ripenso con nostalgia a quei momenti.

LO SPETTACOLO
“Sono sicuro che a Martina piaceranno i testi” disse Manuele a febbraio quando ci presentò la sua idea per il saggio di fine anno, in effetti proporre degli sketch tratti da Monty Python’s Flying Circus è stato davvero divertente, e per me un onore, visto che ho sempre trovato questo gruppo comico inglese unico nel suo genere, apripista di una comicità singolare e geniale.

IL BACKSTAGE
Ricordo l’emozione, il 13 giugno era una giornata calda, ci ritrovammo fuori dal teatro già a metà pomeriggio, tutti tamponati per poter finalmente salire sul palco senza mascherina, cosa non da poco visto che sarebbe stata la prima volta in un anno di lavoro.
Entrammo, appoggiammo le nostre cose e Manuele ci fece prima di tutto ripetere qualche scena, poi ci parlò, motivandoci e tranquillizzandoci, e infine ci fece fare un’oretta di esercizi di rilassamento, un vero toccasana per il corpo e la mente.
La preparazione e l’attesa furono momenti davvero singolari, con agitazione, giocosità, nervosismo, ansia da prestazione e paura, sì, io sentivo molto forte la paura, paura di sbagliare, paura di dimenticare le battute, paura degli imprevisti.

IL SIPARIO
Agitazione, cuore a mille, emozione forte, mi muovo non riesco a stare ferma, sento il brusio dalla sala, siamo pronti, il sipario ci divide dagli “spettatori mascherati” ma siamo pronti, consapevoli che l’apertura dello spettacolo ha sempre qualcosa in più, è il biglietto di presentazione dello spettacolo, Manuele ci disse “dovete partire subito a mille, dovete essere “esagerati” in tutto, osate, osate e osate!” e questa cosa mi agitava molto, esagerare partendo “freddi” non è cosa da poco.
Guardo Beatrice, che attende come me, così come Diana, Sergio e Linda, e le dico “sto male, ho lo stomaco chiuso”, lei con un sorriso, che io ritengo assolutamente inadeguato per questo dramma di situazione, mi dice “calma, respira, andrà tutto bene”.
Si apre il palco, ci siamo, non c’è più tempo, vai con la prima battuta di tutto lo spettacolo. Responsabilità.
Colloquio di lavoro è il primo sketch, ironia e sarcasmo con un pizzico di cinismo e abbondante no-sense.
Il primo sketch è andato, uscendo dal palco ho pensato alle persone che avevo invitato, amici, colleghe, vicine di casa, e…oddio ci sono anche Giorgio e Gerry di Condivisione Democratica, oddio che figura, Giorgio è un amico ma Gerry non l’ho mai conosciuto di persona, che dirà, che penserà quando mi vedrà con tutti i fiocchetti in testa, perché sì nello sketch successivo è così che mi presento. E infatti, non ho neanche il tempo di rilassarmi che già mi devo preparare, appunto con i fiocchetti in testa, per entrare nello sketch successivo Clinica della Discussione con Valeria, Beatrice, Diana, Linda e Claudia.
Sentiamo gli applausi ma siamo tutti talmente presi dai cambi scena e dai preparativi che non abbiamo tempo di realizzare bene quello che sta succedendo.
Seguiranno quindi Alpinista, Dejavu, La Donna che finisce le frasi degli altri (con Matilda), Cucciolotto, L’Inquisizione Spagnola (con Matilda, Claudia, Germana e Sergio), Dejavu 2, Negozio di Animali, L’Audizione e Ristorante (con Germana, Valeria, Beatrice, Sergio e Diana).

(Immagine dell’Autrice)

Abbiamo portato in scena un’ora di evasione per un pubblico che, come tutti noi, arrivava da un anno di patimento, ci siamo divertiti noi e loro, e la scelta del soggetto Manuele l’ha calibrata proprio per questo “purtroppo avremo un pubblico dimezzato e provato, quindi proponiamo qualcosa che diverta, che faccia sorridere ma che sia di qualità e soprattutto ragazzi divertitevi!”, e così è stato.

Il teatro è libertà, è cultura, è
autoanalisi, è crescita, è creatività.

Un percorso teatrale dovrebbe essere inserito, a parer mio, come materia di studio fin dalle scuole materne proprio per insegnare, come dice Elio Germano, ai bambini a mettersi nei panni degli altri e diventare degli adulti migliori di quello che siamo noi.

Un grazie speciale a Manuele Guarnacci e ai miei compagni di
avventura, Beatrice, Claudia, Diana, Germana, Linda, Matilda, Sergio e Valeria

Mi è capitato di piangere sentendo un testo reggae il cui titolo era “Freedom”.

Ho pianto al pensiero della privazione della libertà e dei diritti, tutt’ora così presente e prepotente nel mondo. Ma poi la disperazione riguardo questa realtà, è stata soppiantata da una lucida considerazione, peraltro abbastanza ovvia, scaturita dal vedere mio figlio così prigioniero delle sue ombre mentali, sebbene io l’abbia cresciuto in totale libertà.

Sì, il fatto ovvio è che, anche se non ci fossero regimi e privazioni del movimento, rimarrebbe ugualmente la nostra mente in prigionia, anche se il corpo fosse lasciato totalmente libero.
Per cui è dal liberare la nostra mente che dobbiamo cominciare e forse le prigioni esterne si sgretoleranno.

Allo stesso tempo è un dovere difendere con le unghie la libertà e i diritti acquisiti, così come è urgente impegnarsi nel trovare soluzioni affinché in altre parti del mondo, siano fermati coloro che calpestano la libertà e la dignità umana.

(Immagine dell’Autrice)

Mi è anche capitato di piangere di gioia nel sentirmi libera, danzando, camminando nel mare trasparente, muovendomi nel vento senza schemi né motivo.

La libertà si trova nel silenzio e nella spontaneità, nell’ascolto e nel suono del fluire delle cose nella loro semplicità.
Questo ha poco a che fare con le limitazioni imposte dalla società e dalla legge, oppure con le formalità e le regole.

Un tempo mi sentivo libera nel non seguire le regole.
Oggi contemplo il mio stato interiore in ogni situazione e ne alimento
semplicemente e amorevolmente l’innata e antica libertà.

Soldato Giulio Moscardi – Adria 25.04.1897 / Adria 14.01.1923
Cappellano militare Don Giulio Facibeni – Galeata 29.07.1884 / Firenze 02.06.1958

E’ buio, fumo una sigaretta appoggiata alla staccionata, pancia piena di una squisita carne con patate cotta nella Peka e cervello inebriato da un ottimo prosecco, guardo il paesaggio attorno a me, illuminato dalla luna, e ascolto il silenzio assordante, rotto solo da qualche rumore della natura e dal brusio che arriva da dentro, risate, chiacchiere e racconti.

La temperatura è piacevole, un po’ di fresco ci voleva, e io sono persa nei miei pensieri, penso alla commemorazione di domani ma soprattutto mi sembra di sentire Loro, i lamenti di quei ragazzini, perché questo erano, caduti a migliaia proprio in queste zone, in queste montagne, lontani da casa e non per loro scelta; ho il magone in gola, il vino non aiuta in questi casi, mi fisso a pensare a quanti saranno morti proprio nel punto dove mi trovo io, e mi scende una lacrima al pensiero che magari qualcuno di Loro non è morto subito, magari è stato lì agonizzante per ore, o forse giorni, e penso alla “fortuna” che hanno avuto quelli che si sono spenti subito.

Mi trovo sul Monte Grappa, alle pendici del Monte Pertica, e il paesaggio è bellissimo, colline dolci e verdi, con quei curiosi avvallamenti che non sono altro che il segno di bombardamenti continui; sono ancora ferma al pensiero di Loro e questa sensazione molto forte di cosa i loro occhi avranno visto prima di chiudersi definitivamente, non certo quello che vedo io ora ma solo distruzione, fumo e corpi martoriati.

E penso a Lui, mio fratello, che si è prodigato, con scrupolose ricerche storiche, per dare onore alla memoria di un fratello di nostro nonno paterno, suo omonimo, morto per le conseguenze delle ferite di guerra (http://www.condivisionedemocratica.com/2020/01/08/giulio-un-ragazzo-nella-grande-guerra/)

E’ un anno che Giulio aspetta questo momento, la commemorazione è stata rinviata causa pandemia, e ha organizzato tutto alla perfezione, collaborando con Davide Pegoraro, storico ed esperto della storia della Prima Guerra Mondiale sul fronte europeo, e Delfio Favrin, che gestisce con la compagna una struttura ricettiva sul Grappa.

(Immagine da Giulio Moscardi)

Ci alziamo presto, è il 26 giugno e il sole splende, facciamo colazione e io mi fumo la prima sigaretta appoggiata sempre nello stesso punto della sera prima, la vista adesso è diversa, c’è il sole, si sentono rumori e i profumi della natura sono vivi, eppure io sento ancora questo velo di angoscia, continuo a pensare a Loro, quella percezione di averli attorno e quella suggestione di sentirli grati per questa giornata di memoria.

Alle 9 iniziano ad arrivare gli invitati, amici, conoscenti, le Istituzioni, quindi il sindaco di Adria, Omar Barbierato, con una piccola rappresentanza al seguito, e il sindaco di Valbrenta Luca Ferrazzoli, poi vedo arrivare Patrizio Colombo, un giovane ragazzo partito prestissimo da Firenze in rappresentanza dei suoi genitori, Francesca Elia e Mauro Colombo, rispettivamente regista e produttore del film documentario sulla vita di Don Giulio Facibeni,

Inizio a salutare persone che vedo pochissimo, mi perdo in chiacchiere, quando ad un certo punto mi giro e sono colpita da un’immagine particolare: l’arrivo di quattro uomini – tre carabinieri e un ufficiale del Primo Nucleo Uniforme Storiche Arma dei Carabinieri – che vedo salire dal prato, sono in fila indiana e tengono la lucerna sottobraccio. Loro, il silenzio e il paesaggio. Sembra la scena di un film, sembra un istante di cento anni fa.

E’ tutto pronto, i fiori di campo vengono messi in un vaso e posizionati alla base delle due steli – pensate e disegnate da mia cognata Eva -, coperte con una bandiera italiana del 1918, un reperto storico di grande valore (la bandiera è rimasta a Trieste fino al 1954; dopo la fine della seconda Guerra Mondiale, quindi dopo la caduta del Re, dalla bandiera era stato tolto lo stemma sabaudo, stemma però riattaccato appunto nel ’54 dai triestini quando si voleva annettere Trieste alla Jugoslavia).

Inizia la cerimonia.

(Immagine @martmosc)

Il picchetto d’onore, composto dai militari in divisa d’epoca, si posiziona ai lati delle lapidi, e lì rimarrà fino alla fine della cerimonia. Si procede con la scopertura, viene deposta una corona di alloro in memoria del soldato Giulio Moscardi ed iniziano gli interventi.

Le parole che vengono spese sono tante, è tutto molto commovente e io, allergica ad ogni tipo di retorica, ascolto con attenzione e trovo che nessuna parola detta sia fuori luogo e fuori contesto.

Si ricordano date, luoghi, battaglie della Prima Guerra Mondiale ma lo scopo di tutto questo è onorare le migliaia di ragazzi che sono morti in questi luoghi, indipendentemente da quale provenienza avessero, che fossero italiani, piuttosto che austriaci, oggi il ricordo è per tutti, per Loro morti in questa terra e per tutti caduti nelle guerre.

Gli interventi sono
tanti, parlano i sindaci, parla Patrizio, il giovane fiorentino, è tutto molto
emozionante, siamo tutti attenti, adulti, giovani e bambini.

L’emozione forte, e incontrollabile, mi arriva però ascoltando due interventi in particolare.

“….queste sono due sono figure maestose – dice Davide Pegoraro, iniziando il suo intervento – e queste figure non sono figure sconosciute, sono i nostri bisnonni, i nostri nonni, e sono anche i nonni e bisnonni degli altri, quindi estenderei questa parola meravigliosa che avete usato “noi” a Loro, è più esteso no?! Loro, Loro è qualcosa che non tiene conto di me, tiene conto solo degli altri, e forse quando si fa Memoria Storica è opportuno che non ci sia neanche il “noi” ma che ci sia il Loro, primo perché io non c’ero durante la guerra, posso solo riportarvi quello che ho letto e studiato, ma soprattutto perché la guerra è forse in assoluto l’elemento dove c’è solamente l’Io. Le guerre non finiranno mai, mi tocca dirlo, ma piccoli episodi, come quello di oggi, aiuteranno quanto meno ad avere comprensione e con la consapevolezza si vince, anche se si perde; qui abbiamo due Soldati che l’hanno vinta la guerra, uno come cappellano militare e l’altro come combattente effettivo, ma sono convinto che se chiedessimo a Loro non ci direbbero questo, ci direbbero che la guerra l’hanno persa tutti, indistintamente. E’ giusto che vi faccia una descrizione di cosa qui è accaduto, voi vi trovate sul Col della Martina….”.

(Immagine @martmosc)

Queste parole mi hanno davvero colpita, le ho trovate appropriate, profonde, mai fuori luogo e fuori tempo, lontane da ogni orientamento politico e anche religioso, severe ma umane.
Con queste parole il silenzio si fa totale, mi guardo attorno, le tante persone presenti sono concentrate e io ho la sensazione che trattengano il respiro, o forse sono solo io a trattenerlo, i bambini guardano e ascoltano, gli adolescenti sono concentrati, i soldati immobili e imperturbabili. Sento il bisogno di respirare davvero, mi allontano un secondo e mi guardo attorno, tutto questo verde e questa aria pulita in effetti aiuta.

E’ il momento dell’intervento di Giulio, è il suo momento, il momento del suo lavoro, dopo tanta attesa, inizia a leggere “Ero bambino quando, nella grande casa dei miei nonni, spesso mi piaceva entrare in una piccola saletta. Ricordo la poca luce, l’odore di naftalina e il profondo silenzio. Lì mi fermavo a guardare una gigantesca fotografia in bianco e nero, alta come un uomo, incorniciata e appesa al muro; e vecchia, tanto vecchia, quasi antica. Era di un ragazzo, in una posa elegante, leggermente girato di fianco, lo sguardo serio. Aveva una mano all’interno di una tasca dei larghi pantaloni e l’altra dietro la schiena. Indossava un maglione con il collo alto, una giacca militare con due decorazioni nere sui baveri…”.

(Immagine da Giulio Moscardi)

Continua a leggere, lo osservo, mi viene in mente quando eravamo piccoli, la sua passione per i soldatini e i film di guerra, e di quando giocavamo insieme nel giardino della casa dove siamo cresciuti.

Lo vedo sicuro nella lettura, nessun imbarazzo, in fondo sta raccontando una storia, i fatti, i luoghi, le date, sta andando davvero molto bene, in fondo è un professionista, sa gestire le situazioni. Il racconto adesso si fa più intimo, si inizia a parlare delle ferite di guerra, del calvario e del dolore fisico e psicologico, delle accuse di ammutinamento prima e di insubordinazione dopo, dei periodi trascorsi in prigione e di una Patria che prima l’ha “spremuto” e poi abbandonato.

Si immedesima, si immedesima così tanto che l’emozione prende il sopravvento, la sua commozione parla di tutto, di empatia, di fatica per il lavoro fatto, di attesa per questo momento, e poi chissà di quanto altro…
Tutti ci rendiamo conto in quel momento preciso che ha bisogno di essere accompagnato nel suo viaggio, almeno per un pezzetto. Qualcuno prova a farsi avanti ma io mi faccio largo tra tutti, mi avvicino a lui che mi consegna il foglio e continuo a leggere.

Il testo è molto doloroso e io faccio spazio alla rabbia per evitare che la commozione si riproponga, come ha già fatto più volte nelle ultime ore. Giulio, con rispetto, mi si avvicina silenziosamente e capisco che è il momento di lasciargli continuare la lettura.

Per me è stato un momento importante, improvvisamente è sparito il contesto in cui eravamo e per qualche minuto sono rimasta ferma all’affetto che provo per lui, noi così diversi ma uniti in quella che è stata la nostra storia e, purtroppo, anche la nostra guerra.
E un pensiero l’ho rivolto anche ai nostri genitori che, seppur avendoci tenuti in una guerra (e non per Nostra scelta), ci hanno trasmesso dei valori importanti e soprattutto ci hanno fatto il (sano) lavaggio del cervello con frasi del tipo “aiutatevi sempre e state uniti”.

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Signore, Tu che stronchi le guerre, accogli la nostra preghiera per la pace. Accogli il nostro pianto mai spento, per tutte le vittime che ogni guerra e violenza miete….”., recita Don Giuseppe, parroco di Seren del Grappa, leggendo la Preghiera al Col della Martina, siamo tutti raccolti, che si ascolti o meno le parole, il momento è davvero toccante per tutti, credenti e non.

La cerimonia si chiude con la consegna da parte di Davide Pegoraro della “Croce dei Popoli” alle persone che si sono spese per questa ricerca storica, accompagnata da una pergamena che spiega le motivazioni di tale onorificenza.

La fine della Commemorazione mi sembra un risveglio, come mi fossi ridestata da un momento mistico, bella e dolorosa sensazione.

Per quanto mistico sia il momento poi sappiamo come va a finire, per fortuna, al termine di ogni tipo di cerimonia, ebbene sì: “Magna e bevi”.
Tutti in compagnia abbiamo terminato la mattinata con un rinfresco a base di prodotti tipici in un posto davvero suggestivo e, non contenti, non sazi e “non sufficientemente idratati” (come solo noi veneti sappiamo essere) abbiamo infine pranzato al rifugio “Valtosella”, gestito da Davide e la moglie Elena, ottima cuoca.

(Immagine @martmosc)

La giornata si è chiusa, per noi pochi rimasti, con una visita in una delle grotte, poste sotto Col Della Martina, dove erano situati i ricoveri e i posti di comando dei reparti austro ungarici. La grotta si pensa sia quella a cui si fa riferimento nella motivazione della medaglia d’argento del soldato Giulio “scorta per primo l’esistenza di una grotta…”. Delfio è stata la prima persona che Giulio ha incontrato due anni fa ed è lui che l’ha condotto in quella grotta, grotta che poi loro due, insieme a Davide, hanno ripulito con un lavoro attento e preciso.
Arriviamo e la Madonnina, posta nell’apposito incavo, viene illuminata da un raggio di sole che si fa spazio tra i rami e le foglie, l’immagine parla da sola….Loro….

eh, siamo tutti e due emotivi, io poi senza ritegno” dico a Davide che mi si avvicina appena terminata la cerimonia e mi trova con gli occhiali da sole appannati, “non ti preoccupare, dì a tutti che hai una pesante allergia”, lo guardo e rispondo “no! dico che ho pianto, perché nascondere?” e il suo sorriso complice mi rasserena.

Oggi vi parlo di un incontro avvenuto sul lambire di un bosco, ai piedi del monte Soratte. Questo monte che si erge come un’isola non lontano dalla capitale, è carico di storie e leggende, citate da Dante, Orazio, Plinio e molti altri. Virgilio nell’Eneide riferisce un’invocazione di Arunte al dio Apollo “custode del santo Soratte” e parla della pratica cultuale del camminare sui carboni ardenti durante i riti a lui dedicati (sacrifici animali ed umani compresi). Secondo altre antiche leggende gli “Hirpi Sorani”, i sacerdoti che in un tempio sul Soratte veneravano Apollo in forma di lupo, potevano trasformarsi essi stessi in lupi. Durante le cerimonie in suo onore, lo stesso Apollo prendeva le sembianze di grande lupo bianco. E ora vengo al presente, argomento “lupi” compreso.

(Foto dell’autrice)

Posso testimoniare per esperienza diretta che la magia avvolge davvero la verde e sacra montagna, motivo per cui spesso mi sono aggirata tra i sentieri che conducono ai vari eremi, mi sono persa nel bosco dopo essermi affacciata sulle pericolose bocche dei famosi “meri” (considerati in antichità le porte per gli inferi); non ho resistito al fascino della grotta di Santa Romana, scelta come location per un progetto fotografico di cui offro con piacere un anteprima a Condivisione Democratica 

(Foto di Claudio Donati)

Proprio alla fine di una di queste mie avventure ecco che mi capita di scambiare due parole con una persona che, nonostante un look che avrebbe sviato chiunque (senza nulla togliere a quello tipico dei pastori), risulta essere per l’appunto, a guardia di un gregge poco distante. Il bel giovane si premura di avvertirmi che, nel caso io mi aggiri spesso nei boschi da sola, dovrei come minimo portarmi dietro un bastone. Lo avevo già sentito dire, ma Mario, oltre confermarmi la presenza di lupi, mi specifica che: sono tre esemplari, è raro attacchino l’uomo, è frequente che si divorino le pecore; in più mi spiega che, nello sfortunato caso venissi attaccata, la manovra da compiere è quella di avvolgere e proteggere la propria gola con il braccio. Non volevo scrivere cose tragiche, d’altronde questa è la natura e va amata così. Insomma, nel procedere di questa conoscenza, mi colpisce l’appagamento e la fierezza con cui Mario mi parla del suo lavoro: “Faccio il pastore da sempre e non mi sono mai stufato, né di svegliarmi all’alba per la mungitura, né di stare le ore qui, nella solitudine, in mezzo ad un prato, a seguire il gregge. Avrei potuto fare altro; mio padre, sebbene l’azienda agricola sia di famiglia e ci lavori da sempre, è archeologo, si interessa di tante cose a livello storico e culturale. Mia sorella è nel teatro. Mia madre maestra. Io sono un pastore e non vorrei fare null’altro. Mario, col suo viso da attore e la sua cultura, ha scelto a 28 anni, il contatto con la natura, il silenzio, la contemplazione. E comunque, nel 2021, sembra sia di tendenza: recentemente ho letto di alcune ragazze-pastore e, lo confesso, quando avevo 15 anni, in una mia fase di ritiro spirituale, avevo pensato anche io che quello fosse il lavoro per me. Poi sopraggiunsero altri stimoli ma, posso davvero capire Mario, il bel pastore del Soratte

Quel giorno, durante la mia quotidiana passeggiata in spiaggia, non potevo credere ai miei occhi. C’era uno strano fenomeno meteorologico di venti e correnti che, sotto i miei occhi ammaliati, creavano un fenomeno apparentemente contrario alle leggi naturali: il corso del fiume Mignone, con la sua meravigliosa e trasformista foce, quel giorno non solo aveva mutato il suo modo di congiungersi al mare, ma addirittura scorreva al contrario!

https://youtu.be/x4tZm5P9SP8

La corrente proveniente dal mare era più forte della corrente naturale di un fiume che sfocia. Queste onde che risalivano l’ampio letto del fiume per diverse centinaia di metri andavano in su, con nonchalance, creando il paradosso di un fiume il cui corso invece di scendere, al mare risale alla montagna. Quel giorno feci questa considerazione: a questo mondo, ed è la bellezza della vita, non si può dare nulla per scontato, neppure le leggi fisiche; un aspetto, tra l’altro, messo in luce dagli scienziati stessi a seguito di recenti scoperte rivoluzionarie. E’ tutto un tale immenso, insolubile mistero. Un nostro atteggiamento di apertura a tutto ciò che può essere, non dando mai nulla per scontato, è forse ciò che ci richiede l’esistenza di fronte a tutto questo.

Certo, quando parliamo invece di flussi e riflussi di altra natura, corsi e ricorsi storici, il momento in cui torna all’orizzonte una nefasta quanto diabolica nuvola nera quale è stato il nazismo e il razzismo in genere, ecco che qui ci è richiesta tutt’altro che un’apertura. Delle barriere, delle dighe inattaccabili vanno mantenute erette contro un riflusso che definirei un ignobile rigurgito di piccolezza umana. C’è anche da dire che questi ritorni di fenomeni che si credeva fossero ormai definitivamente messi alle spalle, probabilmente non avranno mai, mai più, la forza di diffondersi come è stato. Ma questo dipende da noi esseri umani “sani”. Gli altri sono catturati da una malattia, una sorta di peste dello spirito che, sarà inevitabile, li trascinerà nell’ entropia e nella distruzione. L’umanità è ad un bivio e coloro che hanno deciso di rimanere nell’oscurità, anziché evolversi e ascendere nella nuova dimensione che aspetta il pianeta e i suoi figli “risvegliati”, seguiranno il loro corso e questa svolta la prenderanno magari fra millenni: siamo anime che fluttuano nel tempo e fuori dal tempo, anime riversate in un flusso che non ha fine.

Tornando al mio fiume è stato un fenomeno assolutamente isolato ma e proprio così: esiste il corso naturale delle cose, un’armonia soave a cui se abbiamo fede ci possiamo abbandonare, ma è bene essere sempre aperti  alla meravigliosa realtà che nulla sia scontato.

Quando manca l’acqua si smette di annaffiare per prima cosa le piante ornamentali, i fiori, ed ogni espressione della natura dedicata al piacere del nostro sguardo e olfatto. Si convogliano le risorse verso le piantagioni, verso ciò che si trasforma in solido nutrimento. Un po’ come si fa per le risorse e i fondi destinati alla cultura e allo spettacolo, che vengono drasticamente tagliati in tempi magri. Come poter contestare una tale pratica? Tale reazione è piuttosto comprensibile. Anzi, io aggiungerei che sarebbe consono multare e negare la possibilità agli abbienti, di usare acqua anche solo per il proprio pratino inglese, fino a che l’ultimo bambino ed essere su questa terra non abbia garantito il necessario e quotidiano quantitativo di acqua da bere. Ma se andassimo ad investigare e risalissimo alle origini del danno, forse sfuggiremmo all’ inevitabile trappola: quella di farci orientare nelle nostre scelte da un’influenza dominatrice, quella che rende un posto ricco e pieno di risorse come il pianeta terra, luogo di miseria e competizione.

Mi spiego meglio: perché c’è siccità? A parte tutti i fattori climatici relativi ai danni prodotti dall’uomo e non, di certo c’è un grande spreco per la mancanza di manutenzione delle condotte idriche, così come una carente organizzazione delle risorse. Motivo per cui non mi dovrei io, trovare nel dilemma di lasciar seccare un’azalea in favore di un cavolo. Allo stesso modo ritenere che il nutrimento culturale sia superfluo e secondario rispetto alla “pagnotta”, è apparentemente accettabile ma in realtà da ripudiare totalmente. Perché è da ripudiare il solo fatto di dover fare una scelta. E anche qui, come con l’acqua e tutte le risorse terrestri, qual’ è il punto? A causa degli sprechi, della disparità, dell’avidità, della mancanza di lungimiranza, ci troviamo ad essere affamati, culturalmente e nel vero senso del termine, nella necessità di dover operare la famosa scelta.  E allora voglio inondare idealmente coloro che decidono delle nostre sorti, di quanta più saggezza e fratellanza possibile, in un tripudio di fontane paradisiache, affinché sgorghi la consapevolezza nei loro cuori.

Volevano cambiare le loro vite. Invece hanno fatto la Storia”, così vengono presentate le tre protagoniste de “Il diritto di contare”, donne che sono riuscite a farsi valere e a rendersi visibili alla NASA( National Aeronautics and Space Administration), in un’epoca dove l’essere donna e avere un diverso colore della pelle rappresentava un grosso ostacolo. 

Ottobre, decimo mese dell’anno, simbolo forse per eccellenza dell’autunno e dei suoi colori, da qualche anno è stato dedicato alla salute delle donne e in mezzo ai colori vivaci dell’autunno si è aggiunto il rosa, colore che generalmente rappresenta il genere femminile e per l’occasione avevo piacere a dedicare questa pagina a tutte le donne ma in particolare a quelle che lavorano in ambito scientifico.

La comunità scientifica  mi è sempre apparsa senza nessun tipo di pregiudizio, quello che conta sono le capacità e l’impegno che ognuno mette nel proprio lavoro. Sono cresciuta in un’epoca dove Rita Levi Di Montalcini riceve il Nobel per la Medicina, dove la fisica Fabiola Gianotti è alla guida del CERN ( Conseil européen pour la recherche nucléaire) per ben due volte, dove Samantha Cristoforetti diventa la prima astronauta italiana, Margherita Hack è un’astrofisica con rinomanza internazionale e l’elenco è lunghissimo. Sono stata  fortunata, altre donne si sono battute affinché tutto questo potesse essere possibile. 

Prima della fine dell’Ottocento,  le uniche donne che potevano accedere agli studi erano chiuse in conventi, quindi spesso costrette a fare studi umanistici perché, per chi ha studiato le scienze, quelle che chiamano “dure” (matematica e fisica), sa che l’intuito e il talento se non è accompagnato da una buona base di preparazione non basta per progredire, ma malgrado questa triste situazione, anche in questi anni alcune donne sono riuscite a dare il loro contributo.

La situazione è iniziata a cambiare verso la prima metà del Novecento, ma nel 1961, anno di ambientazione del libro “Il diritto di contare” le cose non erano ancora rosee. Infatti ad esempio alle donne della NASA era consentito fare le così dette “calcolatrici umane”, questo implicava non aver riconosciuto nessun merito e non potevano ancora accedere a tutte le facoltà.

Fortunatamente le cose sono cambiate, oggi vedere donne che hanno una brillante carriera scientifica non ci stupisce più, ma si può fare di meglio, si potrebbe supportare e incoraggiare le ragazze a intraprendere questa carriera così come lo si fa con i ragazzi. Infatti purtroppo ancora si tende a supportare di più i ragazzi e non le ragazze che si avvicinano alla scienza.

C’è ancora molta strada da fare per rimediare ad anni di esclusione delle donne  dalla scienza, ne è testimonianza lo stesso fatto che se ne continui a parlare. 

Inoltre partendo dal presupposto che  la bellezza è soggettiva e che l’intelligenza ha il suo gran bel fascino, sfatiamo anche questo mito delle scienziate associate al “non bell’aspetto”, un esempio tra molti l’attrice Hady Lammar che è anche l’inventrice delle reti wirelless.

La scienza e la cultura in generale rendono, a mio parere, molto più affascinanti le persone, senza un buon argomento da affrontare anche il più galante appuntamento diventerebbe di una noia mortale. 

Questa è la conclusione a cui è giunta la Procura di Velletri all’esito dell’autopsia sul corpo di Willy, da cui è emerso che i colpi non sono stati inferti a caso, ma con l’intento di provocare lesioni mortali.

Pertanto, l’iniziale accusa a carico dei quattro indagati, si è tramutata da omicidio preterintenzionale in volontario, aggravato dai futili motivi: contestazione questa dalle notevoli ripercussioni in termini di gravità della pena che, in caso di condanna, verrebbe irrogata ai colpevoli.

Ma da cosa nasce la scelta del magistrato di mutare il tipo di delitto e che significa che l’omicidio che si contesta non è più preterintenzionale ma volontario?

Nella relazione medico legale il dr. Saverio Potenza parla di «colpi assestati e non casuali». Calci e pugni mirati su organi vitali: al torace, sulla pancia, sul collo. Dunque, la morte è stata un evento voluto.

L’omicidio preterintenzionale si ha, contrariamente, quando chi cagiona la morte vuole solo, ma intenzionalmente, percuotere o ledere, e da tali condotte ne è derivato, causalmente, l’evento letale.

In tal senso il codice penale parla di delitto “oltre l’intenzione”, in quanto dalla propria azione (in questo caso dalle percosse o dalle lesioni) è derivato un evento dannoso più grave di quello voluto.

Per essere ancora più chiari – inizialmente – l’Accusa contestava agli indagati di aver ucciso il povero Willy senza volerlo, ovvero che costoro volessero solo picchiarlo e percuoterlo e che la sua morte sarebbe derivata, causalmente, in conseguenza dei numerosi colpi inferti. Ma l’autopsia ha invece ribaltato i fatti, essendo emerso che il ragazzo è stato vittima di una aggressione prolungata e che i colpi sono stati inferti – anche con armi contundenti – in precise aree del corpo e dunque con l’unico intento di uccidere.

Dati scientifici che per gli investigatori sarebbero stati rafforzati anche dalle dichiarazioni rese dai vari testimoni e dai precedenti penali di alcuni degli indagati.

Dunque, se la versione dell’Accusa dovesse essere confermata e provata anche nel corso del processo, la pena che si prospetta per i responsabili potrebbe essere l’ergastolo.

Ma al di là dei tecnicismi giuridici, che sicuramente incideranno notevolmente (in termini sanzionatori) qualora gli imputati dovessero essere ritenuti colpevoli al termine del  giudizio, resta il fatto che, purtroppo, ancora una volta, la cronaca ci pone davanti a episodi di inaudita violenza, ad esplosioni di aggressività assolutamente ingiustificate e ingiustificabili da parte di giovani contro altri giovani, dove la vita sembra aver perso qualsiasi valore, dove è tutto un gioco portato all’estremo di cui non si comprendono o non si vogliono vedere le conseguenze, dove ciò che conta è solo la “caccia” al diverso, al debole, a chi non si piega alle ingiustizie, a chi lotta per la propria libertà.

E allora ben venga la pena dura, la pena esemplare che ristabilisca gli equilibri rotti dalla violenza futile e priva di logica, che restituisca alle famiglie delle vittime giustizia e non vendetta, ma senza mai dimenticare che il vero impegno sta nella prevenzione, nella cultura della legalità e del rispetto, nella comprensione e nell’accettazione, nell’accoglienza delle differenze e nell’integrazione, perché, se l’unico rimedio a cui appigliarsi è il carcere e la pena, significa che ogni tentativo precedente ha fallito. 

Significa che tutti noi abbiamo fallito perché non siamo stati capaci di comprendere, diffondere e mettere in atto quella “cultura del rispetto verso l’altro” che potrebbe impedire tanti inutili atti di violenza e trasformarci in uomini e donne più consapevoli, in genitori/insegnanti ed educatori attenti, in cittadini migliori e più responsabili.E’ importante che la pena torni ad essere un deterrente e una extrema ratio, come dicevano i primi legislatori, e che si investa in prevenzione e formazione, altrimenti le cronache continueranno a rimandarci l’infinito film di violenze gratuite, fini a se stesse, rivolte ai più fragili e , forse, evitabili.

Il 3 ottobre molte voci, insieme all’associazione Mamme per la pelle, si leveranno per chiedere la riforma della cittadinanza e lo ius soli, l’abrogazione dei decreti sicurezza, la cancellazione degli accordi con la Libia e la creazione di corridoi umanitari.

Piazza del Popolo, 15:30 Giornata nazionale in ricordo delle vittime dell’immigrazione istituita dopo il naufragio del 2013 a Lampedusa. Tantissimi i sostenitori oltre a noi mamme, i NIBI (neri Italiani, black Italians), 6000 sardine Roma, Baobab Experience, Black Lives Matter e decine ancora.

Intervista ad una giovane coppia mista, con Willy sempre nel cuore.

https://youtu.be/t6Yuo3SOtrI

Caterina Adriana Cordiano è nata a Giffone, borgo montano nella provincia di Reggio Calabria. Ha conseguito gli studi regolari in parte nella sua terra d’origine, in parte in Campania dove ha vissuto ed assorbito gli umori del sessantotto e dove è ritornata, a distanza di tempo, per il lavoro d’insegnamento (Napoli). Da qui l’affezione a quella città che considera la sua seconda patria. Nei rientri in Calabria oltre che dedicarsi alla sua professione d’insegnante, si è impegnata nella vita pubblica dove ha rivestito incarichi di responsabilità e rilievo. Conclusa tale esperienza, ha indirizzato i suoi interessi verso  attività squisitamente culturali rivestendo, per circa vent’anni,  l’incarico di presidente di una fondazione culturale La sua formazione culturale passa attraverso l’esperienza storica del ’68 che la porta a  conoscere i grandi della letteratura e della filosofia europea: Marcuse, Sartre, Russell ed anche i nouveax philosophes : Bernard Henry Levy; Andrè Glucksman, Michel Foucault ( A. Piromalli di lei ha scritto che“ Nella  sua formazione culturale entrano il marxismo classico ed il pensiero laico e pacifista europeo”  – “ Maropati, storia di un feudo ed un’usurpazione”-Pellegrini, Cosenza–sec. edizione). Ha conosciuto ed avuto amici molte personalità della cultura: Fortunato Seminara, Giorgio Barberi Squarotti, Raffaele Sirri, Pasquino Crupi, L.M. Lombardi Satriani e, particolarmente, Antonio Piromalli. Ha molto viaggiato in Italia e nei paesi europei per soddisfare la sua sete di confronto con le altre culture, anche quelle extraeuropee, con soggiorni in Tunisia ed in Turchia, Istanbul in particolare. L’esperienza del viaggio, come essere altrove per ritrovare, nelle diversità, le profonde identità che accomunano l’uomo, continua a segnare il suo pensiero, orientato, convintamente ed intimamente, verso una cittadinanza che riguarda il mondo intero. Da innamorata della narrativa, della poesia e dell’arte in tutte le sue forme, ha voluto mettersi alla prova producendo degli scritti che solo ora, in una condizione di otium operoso, inizia a pubblicare. Questo suo primo romanzo, “I giorni del mare”, arriva alla pubblicazione anche grazie ai pareri critici positivi espressi da autorevoli studiosi della letteratura alla cui attenzione era stato sottoposto.  

Gentile Caterina, desideriamo innanzitutto conoscere il Suo stato d’animo davanti a questa tragedia che ha sconvolto e che sta continuando a tenere le nostre anime in sospeso. Come ha vissuto e come sta vivendo questi giorni?

I miei stati d’animo di fronte a un evento impensabile, inimmaginabile e terribile quale è stata, ed è, questa pandemia, sono stati diversi.  All’inizio, di fronte ad una malattia sconosciuta che ci era sembrata lontana ma che poi abbiamo visto diffondersi con la velocità della luce e dilagare in tutti i paesi del mondo, facendo precipitare in un’oscura spirale di morte migliaia e migliaia di vite, è stato di profondo sgomento, di vuoto, d’impotenza, di estrema fragilità. I ritmi di vita sconvolti insieme alla cancellazione della gioia della socialità, della vicinanza, degli abbracci, era disagio assoluto, terribile solitudine, estrema ansia perché insieme alle certezze svaniva la visione chiara del domani, i cui contorni diventavano sempre più indefinibili e comunque oscuri. Poi, in qualche modo, è intervenuta la fase della razionalità. Ho cominciato, come tutti, a interrogarmi e darmi risposte, quelle possibili, anche se rimaneva lo smarrimento per le indecisioni della scienza che si dibatteva anch’essa in supposizioni e congetture, su un virus che sembrava guidato da un’intelligenza selettiva e diabolica, colpendo maggiormente le persone anziane, il sesso maschile, alcune zone geografiche piuttosto che altre e persino beffarda con uomini di potere scettici e dubbiosi come nel caso del premier inglese. Infine la bellezza della creatività e la voglia di fare, nate dalla resilienza dei popoli e di ognuno di noi, si sono trasformate in momenti di grande energia che ci hanno aiutati a risorgere. Ora che l’emergenza, almeno nella sua forma di più acuta gravità, sembra essere stata superata ed è iniziata la fase della speranza, della ricostruzione e della voglia di normalità, ciò che mi auguro è che la normalità di oggi sia diversa da quella di ieri e che ognuno di noi abbia imparato qualcosa da questa terribile esperienza. Non credo davvero nell’avvento dell’uomo nuovo, ma dell’uomo migliore sì.   

“Inutile prendere la vita troppo sul serio tanto non ne esce vivo nessuno!”

Ammettiamolo, sono tempi duri per tutti, ma per alcune categorie sono durissimi! Se il lavoro nello spettacolo si poteva già definire il mestiere precario per antonomasia, al momento sembra addirittura segnato da un destino di, se non proprio estinzione, sicuramente di “sospensione”. Ecco che anche io, come lavoratrice dello spettacolo, voglio allora appigliarmi ad una visione che sia alternativa al serpeggiante pessimismo, rivolgendomi ad un attore comico di cui ho sempre apprezzato la weltanschauung, la concezione del mondo: Sergio Viglianese.

Un essere fiabesco, un pregiato professionista, un caro amico e collega, nonché… indiscrezione che mi permetto di fare, un grande sciupafemmine! Con me però non si è mai permesso, sono troppo alta…  Il solo pensare a lui, dopo averlo conosciuto e frequentato per lavoro ma non solo, mi mette allegria, suscita nel mio animo tenerezza ed empatia. Tanti lo ricordano soprattutto nel ruolo di Gasparetto, il meccanico in tuta rossa, sul palcoscenico di Zelig e di tanti altri programmi comici, con la sua mano alzata e il suo onorario sempre fisso su 500 euro, a prescindere dall’entità del guasto.  Ma innumerevoli sono in realtà i personaggi e relative esilaranti battute e situazioni surreali generate dalla fantasia di Sergio. Abile monologhista ed originale autore in genere, firma non solo il suo repertorio, ma collabora anche alla scrittura dei pezzi e alla creazione dei numeri di tanti colleghi attori. Effettivamente io lo conobbi proprio in occasione di uno spettacolo dove ero scritturata da un altro comico, che lo chiamò per collaborare ai testi e fare la regia dello show. Da allora, non l’ho più mollato e seguendo quest’intervista forse capirete il perché. Insomma, al contrario di alcuni comici esplosivi in scena ma tristi e deludenti nella vita, ecco, Sergio Viglianese è un genuino buontempone, un giullare d’altri tempi creato per generare ottimismo, senza per questo, però, mancare di profonda intelligenza e sensibilità. Lo adoro! Ecco a voi la prima domanda:

Dimmi Sergio, hai continuato a sorridere alla vita nonostante la calamità che ci ha investiti?

Sembrerà strano e anche un po’ cattivo, ma devo confessare che mi sono divertito molto durante il periodo della quarantena, sia perché era una cosa nuova e strana, sia perché in qualche modo a me le difficoltà divertono, mi appassionano. Ovviamente mi ritengo fortunato per essermi trovato in una condizione favorevole: nella mia casetta nella natura, tutta attrezzata con pannelli solari e quindi senza bollette da pagare e con tante cose da fare. Siccome come hobby, molto impegnativo, mi sto ristrutturando casa da solo da ben cinque anni, mi sono potuto immergere completamente in questa attività, dimenticandomi del resto del mondo. 

Ma uno spirito libero come il tuo cosa ha provato a stare in “lockdown”?

Vivendo in campagna isolato, avvertivo che qualcosa era cambiato, ma in fondo neanche tanto! Però le tre settimane di zona rossa qui a Nerola, effettivamente sono state un po’ strane… non poter uscire e avere delle restrizioni, però ha avuto anche un lato piacevole: “riconquistare” casa, essere obbligato in un certo senso dall’alto, a rallentare i ritmi e smettere di stare sempre in giro. Quindi, malgrado alcune difficoltà pratiche, ho proprio accolto con serenità questa quarantena.

Veniamo alla categoria dei lavoratori dello spettacolo, quella che ha in un certo senso l’orizzonte più incerto in assoluto, hai qualche suggerimento per i tuoi colleghi?

Lo spettacolo dal vivo prevede tanta gente riunita, altrimenti che gusto c’è?  Le risate sono contagiose ma lo è anche il coronavirus! Quindi giustamente, dobbiamo accettare che… non possiamo proprio. Il consiglio che posso dare è quello di trovare alternative, come sto facendo anch’io: adesso con tutte queste tv digitali la gente vedrà di più la televisione o i social, orientarsi quindi verso il girare piccole cose, degli spot da proporre magari a degli sponsor. Insomma, bisogna sapersi riciclare con creatività, l’ironia è sempre molto efficace nel mondo della pubblicità. E non dimentichiamoci della radio!

Prima di salutarti, ti chiedo di svelarmi il segreto della tua leggerezza d’animo…

La verità è che non lo so, col sorriso io credo di esserci nato! Ma se vogliamo provare ad analizzare cosa può portarti ad essere così è da una parte l’incoscienza, perché solo con l’incoscienza puoi essere così allegro sempre, evitando di pensare a tutto il disastro che c’è intorno a noi, perché in fondo la vita è molto bella. Ma volendo dare una risposta che possa magari essere d’aiuto a chi vede tutto nero, io consiglio di non prendersi mai troppo sul serio, mai prendere la vita con pesantezza nonostante ci siano per tutti noi obblighi e cose da cui non possiamo sfuggire. Sarà un po’ semplicistico ma in fondo è quello che funziona per me: penso solo alle cose belle, mi dedico solo alle cose belle, cerco di frequentare solo persone belle che non inquinano i miei pensieri con cose negative. Il succo del discorso secondo me è che conviene godersi il bello che disperarsi per il brutto. Concludo con una battuta che faccio anche nei miei spettacoli: inutile prendere la vita troppo sul serio tanto non ne esce vivo nessuno!

Al lancio di Condivisione Democratica avevo annunciato che il mio spazio “DireAgire” sarebbe stato un contenitore vario ed eclettico, imperniato comunque sul Dire, il coraggio e la forza di comunicare senza filtri, cercando possibilmente però di dare seguito alle parole anche con l’azione. In questa fase di obbligata permanenza in luoghi chiusi, ecco che voglio passare in concreto all’azione condividendo con i volenterosi ma soprattutto le volenterose, alcune mini lezioni di ripasso preparate per le mie allieve di Danza orientale.

Il mio stile, quando ha possibilità di esprimersi completamente, racchiude in realtà una grande influenza della Jazz Dance, ecco perché l’ho chiamato “Belly Jazz Dance”. Per l’occasione specifica del momento però, giusto per indicare semplici movimenti ed un’ infarinatura della Belly Dance, ecco che, armata solo di cellulare e treppiedi improvvisati, mi sono autoprodotta queste piccole pillole di danza casalinga, approfittando della mia invidiabile posizione abitativa, il mare. Per chi arriverà alla fine di questo mini corso, un premio: nell’ultima clip, quella di una semplice danza col velo, arriva sul finire la parte che preferisco, dove l’attrice comica che è in me, vi strapperà forse anche un sorriso, ma…solo dopo che avrete sudato almeno un po’!

Buona visione ma soprattutto, buona azione!

https://www.youtube.com/watch?v=rOMSHD7BZlk&feature=youtu.be

https://www.youtube.com/watch?v=MI_MoBrbxYM&feature=youtu.be

https://www.youtube.com/watch?v=30guu3ddOrI&feature=youtu.be

https://www.youtube.com/watch?v=NolrZPcSYiA&feature=youtu.be

https://youtu.be/z09rI5f2JPk

A causa dell’emergenza “Coronavirus”
sono state adottate misure di distanziamento sociale che hanno costretto
un’intera popolazione ad adeguarsi a nuove modalità di vita.

Anche nel settore della ricerca
scientifica
vi è stata una rimodulazione di tutte le attività, spostando e
concentrando il “focus” sui fattori che maggiormente hanno e avranno una ricaduta
sulle “persone”, non solo in questo momento ma anche nei periodi
successivi in cui, lentamente, verranno rimesse in moto tutte quelle attività
quotidiane che siamo stati costretti a rivedere per far fronte all’emergenza.

Dalla collaborazione tra il Laboratorio di Psicologia Sperimentale Applicata, il Laboratorio di Ergonomia Cognitiva e il Laboratorio di Psicofisiologia del Sonno del Dipartimento di Psicologia, Sapienza Università di Roma è nata la ricerca Epsilon-COVID-19, i cui responsabili sono  il Prof. Luigi De Gennaro,  il Prof. Fabio Ferlazzo e la Prof.ssa Anna Maria Giannini, Coordinatori di tre Laboratori rilevanti afferenti ad un Dipartimento di Eccellenza per la ricerca.

Lo scopo della ricerca è quello
di monitorare l’impatto psicologico delle condizioni di isolamento e
confinamento presenti in Italia come conseguenza dei provvedimenti di
contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2. Si tratta di uno studio
focalizzato su aspetti cognitivi (tra i quali, ad esempio, i processi
decisionali, le performance, i processi attentivi), affettivi (quali, ad
esempio, il tono dell’umore, l’irritabilità, le emozioni provate, le strategie
di fronteggiamento di eventi stressanti), e psicofisiologici, come la qualità
del sonno, che prevede un monitoraggio con cadenza settimanale.

La partecipazione alla ricerca è
resa possibile dalla fruibilità dei contenuti attraverso la maggior parte dei
dispositivi in commercio quali Smartphone, Tablet, Computer
portatili o desktop.

Perché è importante partecipare
alla ricerca?

Tutti stiamo vivendo in prima
persona questa emergenza, sia coloro che si muovono in prima linea, che siano
medici, infermieri, operatori sanitari, forze dell’ordine, autotrasportatori,
volontari, commesse e commessi dei supermercati e tutti coloro che in qualche
modo si stanno adoperando, ma anche e soprattutto tutti coloro ai quali è stato
chiesto di restare a casa per contenere la diffusione della pandemia.

Il richiamo è certamente al “senso
di comunità”
, anche rispetto al preziosissimo contributo che è
possibile fornire attraverso la partecipazione alla ricerca scientifica. Senza
lo sviluppo scientifico non c’è progresso, ed è proprio attraverso
l’approfondimento e la conoscenza che è possibile l’avanzamento della
comprensione delle dinamiche individuali e della società.

Quel che emergerà da questo studio
sarà certamente utile a comprendere il vissuto più profondo della popolazione
durante il periodo di isolamento per poi poter far fronte ai bisogni e alle eventuali
richieste di aiuto che perverranno. L’auspicio è che si possano adottare le
necessarie strategie per far fronte a quelle che potrebbero essere nuove
emergenze legate al post-isolamento/distanziamento sociale e/o al burnout di
coloro che sono stati in prima linea, per fronteggiare le difficoltà e valorizzare
le risorse che ogni individuo porta dentro di sé.

Perché i dati forniti siano attendibili è necessario che la partecipazione venga estesa al maggior numero possibile di persone. Pertanto, vi chiediamo di partecipare e diffondere questa preziosissima ricerca attraverso il link che segue!

Epsilon-COVID-19